Mai così vicini al cielo

Viaggio in Tibet, passando dal Nepal
Scritto da: Mara Speedy
mai così vicini al cielo
Partenza il: 25/10/2014
Ritorno il: 09/11/2014
Viaggiatori: 16
Spesa: 3000 €
Il Dalai Lama un giorno disse: “Almeno una volta all’anno vai in un posto, dove non sei mai stato prima” e come meglio onorarlo, se non andando proprio nella sua terra?

25.10

Lascio l’auto al parcheggio CeriaMalpensa (40 euro, www.ceriamalpensa.it) e raggiungo 14 dei miei sconosciuti compagni di viaggio all’aeroporto di Milano Malpensa; partiamo alle ore 21.00 con Air India diretti a Delhi, dove arriveremo alle 10.15, dopo uno scalo a Roma e recupero dell’ultima partecipante (il costo andata e ritorno del volo è di circa 1200 euro, il nostro essendo un pacchetto comprensivo di hotel, trasferimenti, entrate e guide è costato circa 2770 euro).

26.10

Partiamo da Delhi alle 13.10, diretti a Kathmandu, dove atterriamo intorno alle 14.55 sempre con Air India. La sosta a Kathmandu (1355 m slm) ci servirà per acclimatarci all’altitudine e soprattutto per ottenere il visto per il Tibet, infatti, per poter visitare questa zona della Cina è necessario il Tibet Entry Permit (o TTB permit, costo 50 USD) per la zona di Lhasa, a cui si aggiungono altri permessi (Alien Travel Permit), se si è interessati ad altre zone, come ad esempio quella del campo base dell’Everest. Per i viaggiatori indipendenti è difficile ottenere il visto, ma per gruppi organizzati come il nostro, in genere è più semplice, anche se il governo cinese a volte chiude l’accesso al Tibet agli stranieri.

Con un pulmino raggiungiamo l’Hotel Earth House, spartano, in una strada piena di negozi e traffico, dove abbiamo il primo assaggio dei colori e degli odori del Nepal. I cavi della luce creano una ragnatela sopra le nostre teste, ma c’è appena stata una festa in città e le bandierine colorate e le collane di fiori di tagete adornano l’intera via. Dedichiamo il resto della giornata allo shopping: qui ogni tipo di attrezzatura per l’alta montagna è veramente conveniente e il mercato è distribuito lungo le strade (Thamel). Terminiamo la serata allo Yak Restaurant, dove proviamo diversi piatti, tra cui la tipica zuppa di lenticchie, i momo, una sorta di raviolone ripieno di carne o verdura o formaggio, accompagnati da riso e chapati, il pane azzimo che può essere servito semplice o con aglio e formaggio, il tutto bagnato da birra Everest. Buonissimi anche i chow mein, che sono noodles fritti con verdure. Lo yogurt viene servito invece come dessert ed è assolutamente da provare (costo della cena circa 3 euro).

Durante il black out che ci sorprende una volta rientrati in hotel, ne approfittiamo per provare un delizioso the di ginseng. Rimanendo in tema elettrico, abbiamo usato le nostre spine senza adattatori, l’importante è che non ci sia il polo centrale, quello della terra.

27.10

La nostra visita inizia di buon mattino dallo stupa di Bodnath, il più grande di tutta l’Asia, a cui si può accedere al costo di 250 RS (1 euro=108,78 RS). E’ di buon auspicio fare un giro, rigorosamente in senso orario, intorno alla cupola. Lo stupa é un reliquario e ogni sua parte ha una valenza simbolica, come i grandi occhi del Buddha che fissano i turisti appena arrivati. Faccio girare le prime ruote delle preghiere e sento nell’aria l’odore delle candele di burro di yak (o meglio di die, che è la femmina dello yak), che diventerà molto famigliare in Tibet, così come le vesti color bordeaux dei monaci, che qui possono professare liberamente il buddhismo di tipo tibetano. Ovunque le bandierine colorate su cui ci sono scritte le preghiere (rlung-ta) che il vento porterà a destinazione, non per niente vengono chiamati cavalli del vento. In Nepal i colori delle bandierine hanno significati diversi rispetto al Tibet: il giallo è il vestito del Buddha, l’azzurro il cielo, il bianco l’acqua, il verde la terra e il rosso il sole, invece in Tibet, il giallo è sempre il vestito del Buddha e l’azzurro il cielo, ma il bianco sono le nuvole, il verde l’acqua e il rosso il fuoco.

Mi ha colpito vedere come questa religione sia così antica, ma anche così moderna non solo nei contenuti, ma anche nei mezzi: accanto ai credenti che leggono i libri di preghiera tradizionali, rettangolari a “schede”, ci sono credenti che leggono le preghiere sui propri tablet!

All’uscita sentiamo le urla divertite di alcuni bambini e veniamo rapiti dall’ingegnosità di un’altissima altalena, fatta intrecciando canne di bambù.

Riprendiamo il pulmino per andare al tempio di Pashupatinah (entrata 1000 RS); Il tempio risale al VI secolo dC e ha la forma di pagoda. I non hindu non possono entrare nel tempio principale, ma i tetti d’oro e parte dell’interno sono visibili sbirciando dal retro. Questo luogo tanto sacro viene ricordato soprattutto per le cerimonie funebri che si svolgono in riva al fiume Bagmati, dove i cadaveri vengono cremati su pire (ghat); l’amaro compito è affidato al figlio maggiore del defunto, solo dopo un rito che prevede la rasatura del capo di tutti i figli maschi e una doccia purificatrice. Le donne invece sono semplici spettatrici e se ne stanno sedute in una saletta adiacente. Se muore invece la madre, del rituale viene incaricato il figlio minore. Al termine del rito, alcuni uomini setacciano i resti immersi nell’acqua, probabilmente in cerca di un dente d’oro o qualcosa di prezioso… purtroppo la miseria spinge anche a questo.

Gli asceti sadhu, santoni votati alla vita consacrata, con i volti pitturati di forti tinte e abiti che a volte rappresentano animali, come le scimmie, si offrono per le foto, ma solo in cambio di denaro. Non lontana dal fiume, la casa di riposo per gli anziani di Briddhashram: diamo un’occhiata, ma sembra di invadere la loro privacy con la nostra curiosità.

Proseguiamo con la visita allo stupa di Swayambhunath (200 RS), detto anche tempio delle scimmie, a 11 km da Kathmandu; moltissimi sono gli esemplari che si possono ammirare salendo i 365 scalini che portano a questo luogo che è patrimonio dell’Unesco. Già dalla base della collina si vedono i grandi occhi disegnati sulla cupola dorata, che per i credenti buddhisti rappresentano il momento in cui l’uomo si sveglia alla saggezza e alla compassione; il resto della struttura è costruito come un grande mandala alto 36 m. Le candele di burro, le bandierine colorate, le ruote delle preghiere che vengono girate ripetendo a fil di voce il mantra “om mani padme hum” (saluto il gioiello nel fiore di loto) sono una presenza costante, che ci accompagnerà per tutto il viaggio. La vista si estende per tutta la valle di Kathmandu.

Kathmandu è una città di sicuro fascino, ricostruita dopo il terremoto del 1934 e nel momento in cui vi scrivo, appena devastata da un altro fortissimo sisma (aprile 2015). Per entrare a Durbar Square, il centro della città vecchia, è necessario avere un biglietto, valido solo per il giorno di emissione (750 RS). Percorriamo Freak Street, la via dove gli hippy trovavano alloggio a buon prezzo, ma che oggi conserva poco dell’atmosfera degli anni ’70. Sulla via verso Durbar Sq. incontriamo diversi palazzi e templi: l’enigmatico tempio di Indrapur, il tempio hindu di Taleju alto 35 m divisi in 12 livelli, il Gaddhi Baithak, un palazzo bianco neoclassico che contrasta con il resto dell’architettura nepalese. Sul lato opposto l’Università di sanscritto con le sue tante finestre di legno. Visitiamo l’Hanuman Dhoka, Il vecchio palazzo reale, con la sua pagoda rotonda e le finestre riccamente intagliate. Nel mentre, ci facciamo tentare da alcuni venditori di street food ed è tutto ottimo!

Alle 15 in punto, andiamo al Kumari Bahal, un cortile in mattoni rossi, dove assistiamo a pagamento all’apparizione di pochi secondi della Kumari, una bambina proveniente da una casta facoltosa, che fino alla pubertà viene ritenuta una dea in terra; al giungere del menarca torna ad essere una persona normale e dato che si crede porti sfortuna sposarla, torna a vivere sola nella famiglia di origine. Come dea non può uscire dalla sua gabbia dorata, se non in occasione di alcune cerimonie religiose.

Quando arriva la sera, gli hindu sono pieni di tika sulla fronte, una polvere colorata con cui si segnano ogni volta che passano davanti ad un tempio, così come i loro capelli sono pieni di petali di tagete, che allo stesso modo segnano il passaggio dai templi.

Torniamo in hotel per rinfrescarci e torniamo per cena allo Yak Restaurant.

28.10

Partiamo alle 12.20 con Air China diretti a Lhasa (aeroporto Gonggar a 90 km dalla capitale nepalese), dove arriveremo alle 15.55. Due consigli: scegliete i posti a sinistra sull’aereo, così da riuscire a vedere Mr. Everest nel pieno del suo splendore e nascondete bene le guide turistiche, in quanto è vietato introdurre foto del Dalai Lama e pubblicazioni che ne diano notizie; il divieto è talmente rigido che non viene neanche nominato, se non definendolo furtivamente Sua Santità.

Le pratiche di entrata in Tibet sono abbastanza veloci, anche se molto scrupolose: meglio mettersi in fila nello stesso ordine con cui sono stati dati i visti, in modo da non destabilizzare gli addetti ai controlli. Perdiamo molto tempo a cambiare la valuta e, con la scusa di due incidenti mortali a pulmini che trasportavano turisti, ci viene imposto un poliziotto a bordo, che ci accompagnerà in tutti gli spostamenti fuori dalle città principali. Per i visti tra Nepal e Tibet abbiamo portato 4 foto tessera e pagato 110 USD.

Siamo finalmente in Tibet! Saliamo sul pulmino e conosciamo la nostra guida Tashi, che ci regala la tradizionale sciarpa bianca (kata) in segno di benvenuto e buon auspicio. Siamo diretti a Tsetang a 183 km da Lhasa, ma sulla strada ci fermiamo a goderci un meraviglioso tramonto in riva a un fiume, una miriade di bandierine con le preghiere svolazza nel vento. I tibetani credono che i loro cari estinti debbano essere mangiati dai corvi o dagli avvoltoi o dai pesci… forse per questo non mangiano pesce!

Dopo circa 4 ore di viaggio arriviamo a Tsetang (3580 m slm), una città moderna, culla della civiltà tibetana. Per errore in hotel non risulta la nostra prenotazione, ma il problema viene risolto velocemente: attraversiamo e andiamo allo Tsedang Hotel, una meraviglia, ben al di sopra dello standard che ci siamo riproposti. La guida ci consiglia di cenare al ristorante Tashi, proviamo un po’ di tutto, tra cui la tsampa (farina d’orzo arrostita) annaffiando il tutto con la birra Lhasa (costo cena 45 yuan, 1 euro=6,744 yuan).

29.10

Lasciamo la città al mattino seguente per andare a visitare il monastero di Mindroling, per arrivarci attraversiamo lande desolate, dove l’unica forma di vita sono pochi alberi e molti yak. All’entrata al monastero iniziamo a sentire quella musica cupa e ripetitiva che diventerà il sottofondo rilassante della nostra vacanza. Appena oltre la porta, costituita da tende molto spesse, dei monaci stanno suonando strumenti mai visti prima: un tamburo sostenuto da un paletto, una sorta di grande campana, etc. Le pareti sono state ricoperte da strisce di stoffa colorata, che sembrano delle lunghe cravatte. L’odore delle candele di burro di yak colpisce subito i nostri sensi, ma diventerà presto una costante, così come l’odore d’incenso, bruciato in grossi forni sui piazzali antistanti ai monasteri.

Ci imbattiamo anche nel nostro primo bagno tibetano: una fessura nel terreno, sporco e maleodorante; da cui preferiremo tenerci lontani, fermandoci nella natura.

Riprendiamo il pulmino, la strada percorsa è costeggiata da dune; una sorta di rete ricopre ogni collina in modo da fermare la dispersione della sabbia.

La seconda tappa della giornata è il monastero di Samye (3556 m slm), che avremmo dovuto raggiungere attraversando il fiume Tsang Po (il Brahmaputra indiano), ma per un disguido non troviamo le barche tipiche ad aspettarci: non so se era solo una mia sensazione, ma avevo l’impressione che se i cinesi non volevano che gli stranieri facessero qualcosa, le guide erano costrette a inventarsi qualsiasi cosa. Torniamo quindi verso la città e raggiungiamo il monastero via terra (circa 30 km). E’ stata una perdita di tempo, ma è anche vero che abbiamo fatto alcune tappe panoramiche molto belle.

Samye è in assoluto il monastero che mi è piaciuto di più, forse per la sua imponenza e perché tutto mi sembrava così nuovo e tanto diverso dall’occidente. Samye è il primo tempio buddhista del Tibet, costruito nel VII sec. da Padsambava, come se fosse un enorme mandala rappresentante l’universo buddhista, con le sue mura circolari, il tempio centrale, 4 chorten (stupa), 4 ingressi etc.; sul piazzale due grossi forni per l’incenso e una costruzione dove durante le feste viene issato e srotolato un enorme thangka (un telo sacro raffigurante immagini sacre). La giornata è assolata e questo ci permette di goderci appieno la spettacolarità della posizione, tra le montagne. L’entrata costa 40 yuan e la possibilità di fare foto 150 yuan. Le statue di Buddha sono adorne di turchesi, coralli, ambra e del denaro che i pellegrini lasciano come offerta (girano con mazzette di banconote da un jiao, che è 1/10 di yuan). I fedeli portano con sé anche un termos con burro fuso per rabboccare le candele votive: l’odore rancido del burro non impregna solo i luoghi, ma anche le persone e i loro abiti. Notiamo che i bambini piccoli portano delle tutine con aperture strategiche sul sederino, in modo da non doversi spogliare completamente nel momento del bisogno! Probabilmente qui può fare veramente freddo, ma noi abbiamo avuto sole quasi sempre, tanto da usare anche le maniche corte di giorno.

Riprendiamo il pulmino e notiamo che questa zona è ricca di laghetti e fiumiciattoli. I cinesi stanno cercando di “civilizzare” la zona con gallerie per le auto, facendo arrivare la ferrovia e piantando nuovi alberi, per lo più pioppi.

Raggiungiamo Lhasa (3650 m slm) in una valle verdeggiante ottima per la coltivazione di orzo e patate. La notte la passeremo al Mandala Hotel. 10 minuti a piedi e siamo in centro, ceniamo al Lhasa Kitchen, dove continuerà la nostra scoperta dei piatti locali a base di yak, momo, riso e verdure, ogni volta cucinati in maniera differente, ma sempre squisita.

30.10

Prima tappa della giornata il Monastero di Drepung, a circa 8 km dalla capitale, che raggiungiamo grazie ad una scalinata costeggiata da una miriade di ruote delle preghiere (kenkira). Sulle montagne sono disegnate immagini sacre e da questa altezza si gode un magnifico panorama della città di Lhasa. Il monastero ospitava circa 8000 monaci, ma oggi ne sono rimasti solo 500. Fu per secoli la prima università monastica del paese, infatti, al suo interno ci sono moltissimi antichi libri di preghiere. Le finestre sono contornate di nero e adornate con stoffe che svolazzando tengono lontani gli spiriti maligni.

Proseguiamo verso il Monastero di Nechung, che ospitava l’oracolo di Stato del Tibet, costantemente consultato dal Dalai Lama, prima che entrambi fossero costretti a scappare in esilio in India nel 1959, in seguito alla rivoluzione culturale cinese. In quest’occasione il monastero venne quasi completamente distrutto, ma oggi è stato in gran parte ricostruito.

Rientrando a Lhasa ci rendiamo conto che la zona cinese della città è destinata a crescere e fagocitare le altre zone, quella più propriamente tibetana intorno al Barkhor e quella mussulmana intorno alla moschea. Supervisionato da militari, superiamo il metal detector posto all’entrata della città vecchia (Barkhor), introdotto dopo la rivolta di alcuni monaci, brutalmente repressa nel 2008, e ci mettiamo in fila per la visita al Jokhang, meta di pellegrinaggi tanto quanto La Mecca per i mussulmani o la Basilica di San Pietro per i cristiani. Il circuito del Barkhor è percorso da pellegrini che arrivano da tutti gli angoli del Tibet, con la pelle bruciata dal sole e dal vento: pregano piegandosi ritmicamente, si inginocchiano, poggiano le mani a terra facendole scorrere in avanti sul pavimento, protette da delle pattine, le congiungono in preghiera, si rialzano e ripetono il movimento sempre recitando le preghiere, percorrendo in questo modo anche centinaia di kilometri. Purtroppo questa sacralità è rovinata da alcuni bambini che sfruttano lo stupore dei turisti per questa ritualità e chiedono denaro in cambio di fotografie e video (anche 70Y).

Ci stiamo abituando all’atmosfera presente nei templi, agli odori, ai colori e ai suoni, ma questo è sicuramente un luogo singolare, che fu edificato nel VII secolo per ospitare la statua del Jowo Sakyanubi, portata in Tibet dalla principessa cinese Wen Cheng, una delle mogli del re Songtsen Gampo. Visitiamo al suo interno numerose cappelle e raggiungiamo, tramite ripide scalette, le terrazze, da cui possiamo ammirare i tetti dorati e in lontananza la maestosità del Potala. Da qui abbiamo anche una completa visuale sulla piazza antistante al Jokhang, una piazza d’armi come è solito nelle città cinesi, tristemente piena di bandiere rosse con le quattro stelle.

Una volta usciti dal tempio, percorriamo in senso orario il circuito intorno al tempio che è costeggiato da una miriade di negozietti e decidiamo di fermarci in un bar con terrazza dove proviamo il pö cha, il the con burro di yak, che risulta molto nutriente e salato.

Torniamo per cena al Lhasa Kitchen e facendo una piccola passeggiata, andiamo ad ammirare il Potala by night. Sulla strada diversi negozi cinesi vendono bacche di goji, che qui costano pochissimo, e una specie di cagnotto secco, ma di origine vegetale, che dicono essere anticancerogeno.

Torniamo a dormire al Mandala Hotel.

31.10

Partiamo di buonora per la visita del monastero di Ganden, che si trova a circa 40 km da Lhasa, in montagna in una posizione veramente suggestiva. Lungo la strada incrociamo dei check-point che misurano i tempi di percorrenza, arrivare troppo presto al controllo successivo significa prendere una multa salata. Dopo aver percorso innumerevoli tornanti, arriviamo a 4250 m. La città monacale è stata completamente distrutta durante la rivoluzione culturale e ora é in via di ricostruzione. Il rosso e il bianco dell’intonaco la fanno da padrone. Per caso entriamo in un edificio, dove stampano i libri di preghiera. Un ragazzo stendendosi, come per la preghiera, fa scorrere ripetitivamente un rullo d’inchiostro sulla carta con una velocità impressionante: rimaniamo tutti ipnotizzati a guardare questa sorta di rituale.

Lasciamo troppo presto il monastero per tornare verso Lhasa dove a soli 5 km, sorge il monastero Gelug-pa di Sera, fondato nel 1419. Visitiamo il collegio di Sera-me con le sue numerose cappelle, di Sera-Ngagpa con i suoi squisiti intagli e soprattutto il collegio di Sera-Je, il collegio più grande con la sua enorme statua alta 6 m del Buddha: un monaco segna di nero sul naso chi viene benedetto, soprattutto i bambini. Accanto al collegio più grande, c’è il cortile dei famosi dibattiti sulle teorie buddhiste, che vengono sottolineati con chiassosi battiti di mani (ogni giorno dalle 15 alle 17). Un tempo qui studiavano migliaia di monaci, oggi è abitato da circa 200 monaci giovanissimi e forse per questo non disdegnano accessori ultramoderni, come cellulari e macchine fotografiche, molto lontani dall’immagine di povertà e semplicità che ci siamo fatti in occidente.

Torniamo a Lhasa e alcuni di noi, ne approfittano per fare la kora del Potala, in mezzo a pochi turisti stranieri e tanti pellegrini… alcuni piccoli pellegrini la fanno in triciclo! Torniamo a casa in risciò.

01.11

La nostra giornata inizia con la visita del Potala, rigorosamente prenotata in anticipo con tanto di orario da rispettare. All’entrata ci vengono requisite le bottigliette d’acqua e dobbiamo lasciare il passaporto. Una volta arrivati all’ultima terrazza, entriamo nell’edificio principale e non dobbiamo attardarci, perché abbiamo solo un’ora per la visita, pena la perdita della licenza della nostra guida. L’edificio, che fungeva da residenza invernale, la cui costruzione è iniziata VII sec d.C., è ora alto 117 m e ampio 400 m, diviso in 13 piani, che contano più di 1000 stanze. Due sono i palazzi principali: quello bianco, sede amministrativa e ex residenza del Dalai Lama, e quello rosso, destinato alle funzioni religiose e alla biblioteca. Prima della rivoluzione culturale, ospitava un monastero e gli uffici governativi, ma oggi tutta la sacralità del luogo è stata sostituita dalla sensazione di essere in un grande museo, dove si visitano diverse cappelle di cui le più importanti sono quella dei Mandala Tridimensionali, della Tomba del 13° Dalai Lama e delle tombe di altri Dalai Lama, di cui la più bella è quella del 5° Dalai Lama, che diede inizio alla costruzione del Potala. E’assolutamente vietato scattare foto all’interno, ma all’esterno non possiamo non immortalare gli operai intenti a imbiancare le mura, imbragati in maniera al quanto approssimativa e quindi rischiosa.

Continuiamo la nostra giornata di visita a Norbulingka, la residenza estiva del Dalai Lama, da dove questi scappò in India nel 1959. Non abbiamo tempo di visitare l’intero parco circostante, ma visitiamo il palazzo dello Khamsum Zilnon e facciamo la conoscenza di una famiglia in pellegrinaggio. Chiediamo di fare delle foto con loro e nel mentre altre famiglie intente a fare un pic nic in questi giardini ben curati, ci offrono dei dolci. Incredibile ma vero, troviamo qui dei piccoli pappagalli e dei bagni puliti.

Proseguiamo al Monastero di Pabonka, da cui si gode un bel panorama e dove acquisteremo dei rosari tibetani direttamente da un monaco che ce li benedirà.

Torniamo a Lhasa e visitiamo il nostro primo e unico monastero femminile, quello di Ani Tsang Kuang (entrata 40 yuan), dove vediamo donne intente a confezionare i rotolini di preghiere contenuti nelle ruote.

All’uscita dopo pochi passi ci ritroviamo nel mezzo del mercato, a parte qualche verdura sconosciuta o di dimensione diversa (un cetriolone di 15 cm di diametro!), il resto è molto simile a quello che troviamo sulle nostre tavole. La carne, il burro, i formaggi e le spezie sono esposte all’aria aperta, come tutte le altre merci non deperibili.

Ci fermiamo a guardare degli uomini che giocano a dadi in mezzo alla strada. Pochi passi più avanti e ci ritroviamo in una zona che presumiamo a maggioranza mussulmana, anche perché davanti a noi si erge un minareto con relativa moschea.

Torniamo all’hotel, per la nostra ultima notte a Lhasa.

02.11

E’ giunta l’ora di iniziare il nostro viaggio di ritorno, sulla strada detta dei tre passi. Costeggiamo la terza montagna sacra del Tibet (la prima, mai scalata in segno di rispetto, è il Kailash), dove sulla roccia, sono disegnate in bianco delle scale, come simbolo di ascesa al cielo. Ci fermiamo dopo un centinaio di km al Kamba La Pass (4794 m slm), dove vediamo un pastore tibetano, un cane con una criniera leonina. Fortunatamente il tempo ci è favorevole ancora una volta con un bel cielo azzurro. Arriviamo poi al Karo La Pass (5036 m slm) che segna anche l’ingresso all’area protetta dei laghi. Davanti a noi svetta l’Himalaya e ai nostri piedi contrasta con il turchese Yamdrok-tso (4441 m slm), un lago sacro ai tibetani, perché ritenuto residenza delle divinità irate. Il panorama toglie il fiato con i suoi colori così nitidi. Facciamo due passi in un villaggio e vediamo le formelle di sterco di yak, che una volta seccate sui muri e sui tetti servono per riscaldare e per cuocere il cibo: da vicino si vedono persino impresse le 5 dita di chi le ha lavorate. Vediamo diversi edifici con la stalla al piano terra e la casa al primo piano.

Riprendiamo il pulmino costeggiando diversi ghiacciai, tra cui il più spettacolare è lo Nozin Kang Sa, transitiamo da Xigeze, dove un cartello trilingue sottolinea che ci troviamo nella città dell’orzo. Raggiungiamo quindi l’ultimo passo, il Simi La Pass (4500 m slm) a soli 90 km da Gyantse.

Arriviamo a Gyantze (4000 m slm) che è ancora chiaro. Subito vediamo davanti a noi uno sperone roccioso con un forte, lo Dzong, che si raggiunge con un dislivello di 150 m; ai suoi piedi, diverse famiglie si concedono un pic-nic. Anche qui i cinesi hanno lasciato poco della tradizione tibetana fagocitata dalla invadente modernità cinese.

Decidiamo di salire allo Dzong per goderci il tramonto sulla valle. Il panorama sul monastero e lo stupa è costeggiato da tante piccole casette basse e dai canali d’irrigazione che si illuminano di una luce rosata.

Dormiremo allo Yeti Hotel, forse il più caratteristico dell’intero viaggio.

03.11

La nostra giornata inizia con la visita del monastero di Pelkor Chode e dello stupa di Kumbun. Entrambi gli edifici si trovano all’interno di mura fortificate. Il Kumbum, risalente al 1414 e simboleggiante il raggiungimento del Nirvana, ha la forma di mandala con rappresentati 4 paia di occhi; percorrendo una sorta di spirale si visitano le 108 cappelle riccamente affrescate e distribuite su 5 piani. Consiglio di portare una torcia, perché non sono molto illuminate. Il 108 è un numero sacro al Buddha, tanto che il rosario tibetano (mala) ha 108 grani.

Sulla strada verso il Monastero di Shalu, seconda tappa della giornata, vediamo delle scolaresche perfettamente in fila e dei soldati che si allenano nei campi.

Il Monastero di Shalu ha la particolarità di avere tetti di tegole smaltate di verde, secondo lo stile mongolo. Vediamo i monaci intenti a lavare le ciotoline di metallo, nelle quali offrono ogni mattina alle statue del Buddha acqua pulita, che rappresenta l’uguaglianza; inoltre vediamo il metodo di Archimede applicato per far bollire dell’acqua in alcune teiere appoggiate a dei larghi specchi.

Dormiremo a Shigatse (3900 m slm), seconda città del Tibet, al Sakya Lhundup Palace Hotel, dove lasciamo I bagagli prima della visita del monastero di Ta Shi Lum Po, proprio a ridosso della montagna. Un tempo era la sede del Panchem Lama, la seconda autorità religiosa e civile del Tibet, uno dei pochi preservati dalla Rivoluzione Culturale: vivono qui circa 1000 monaci dell’ordine Gelugpa, che portano stivali tipici simili a moon boot. Al pubblico occidentale salta all’occhio la presenza, proprio sul pavimento dell’entrata, di una svastica in pietra, che però qui simboleggia il sole e la protezione. Degno di nota il tempio del Buddha Maitreya, quello del futuro, con le gambe aperte, una gigantesca statua alta 23 m appoggiata su un fiore di loto alto 3 m. Bello anche lo stupa del IV Panchem Lama decorato con metalli e pietre preziosi. Dei curiosi cartelli raccomandano di non sputare in giro, come è abitudine fare in questo paese.

Ceniamo molto bene al Third Eye Restaurant a Shigatse, solo dopo aver fatto una passeggiata in centro e curiosato tra le bancarelle del mercato. Abbiamo poi proseguito verso la grande piazza ai piedi dello dzong, dove abbiamo visto diverse statue che rappresentano l’incontro tra oriente e occidente: un ragazzo in mountain bike incontra un pellegrino, una ragazza con telecamera incontra una mamma con bambino, etc.

04.11

Lasciamo Shigatse alla volta del monastero di Sakya (4300 m slm), arroccato su una montagna; grigio di nome e di fatto, colore inusuale in Tibet. Per raggiungerlo dobbiamo prendere una strada sterrata e “guadare” dei fiumiciattoli, che probabilmente in stagioni più umide sono veri e propri fiumi. Per renderci conto dell’imponenza del posto facciamo la kora del monastero: la guida scherzosamente, ci dice che se dovessero togliere i libri, crollerebbe tutto, perché ormai fanno da sostegno. Capiamo la battuta solo una volta entrati: una collezione di circa 12000 libri tradotti dal sanscrito al tibetano, di cui uno raggiunge la profondità di ben un metro e 80 ed è considerato una sorta di enciclopedia. Sakya, dette i natali a uno dei principali ordini moderni del buddhismo tibetano: quello dei Sakyapa (gli altri sono: Nyingmapa, Kagyupa e Gelugpa). Oggi ospita solo 200 monaci, anche se ai tempi d’oro raggiungeva i 2000 individui. Assistiamo a una funzione e lasciamo il monastero. Attraversiamo il ponte, che passa sopra il fiumiciattolo che costeggia la strada e vediamo da fuori il Buddhist College, che ripropone tutti i colori a cui ci eravamo abituati prima di arrivare a Sakya.

Superiamo lo Gyatso La pass (5220 m slm), il punto più alto della Friendship Highway, la strada che si snoda lungo 800 km molto panoramici e così chiamata perché collega la capitale tibetana al confine nepalese, con cui erano in guerra. Vediamo ancora una volta diversi yak al pascolo e alcuni tirare l’aratro, come in un’immagine del 1800.

I rigagnoli d’acqua iniziano a essere ghiacciati, le montagne sono sempre più brulle e la luce, forse per l’aria così pura, fa risaltare ogni singolo colore.

Ci fermiamo a Baber o new Tingri al Qomolangma Hotel (Qomolangma è Everest in tibetano), dove la nostra guida recupererà i nostri permessi per l’entrata nella Riserva Naturale dell’Everest: è l’ultima cittadina di una certa grandezza prima del Campo Base Everest (EBC, 5150 m slm).

05.11

Al mattino con un freddo pungente, partiamo verso il campo base dell’Everest; la strada ad un certo punto diventa sterrata, ma i cinesi stanno già preparando il fondo per stendere l’asfalto.

Ci fermiamo al Pang-la pass (5150 slm), davanti ad un triangolo formato da due montagne, ma non è certo l’aria rarefatta a toglierci il fiato: sua maestà l’Everest (8.848 m) si presenta davanti a noi, come sospeso su una coltre di nuvole. Accanto a lui gli altri 8000: il Cho Oyo (8.201), il Lhotse (8.516), il Kangchenjunga (8.586) e il Shisha Pangma (8027 m)… e noi che ci vantiamo di avere la montagna più alta d’Europa con i suoi soli 4810 m!

Arriviamo al campo base. Poche temerarie fanno gli ultimi quattro km a piedi, ma vi assicuro che a questa altitudine è stato impegnativo, anche perché siamo state sorprese da un vento gelido, che ha reso la salita non agevole, ma di sicuro imperdibile.

Al monastero di Ringphu, dove dormiremo, il vento è a tratti talmente forte che solleva la terra dalle strade, ma questo non ci impedisce di goderci il tramonto, che rende rosato il lato nord dell’Everest. Se non fosse per il freddo, non ci stancheremmo mai di guardarlo, per questo non possiamo fare a meno di uscire e ammirarlo anche alla luce della luna e all’alba.

Avremmo voluto dormire nelle tende fatte di lana di yak, ma purtroppo da novembre ad aprile il campo tendato viene smantellato e si hanno due alternative, il monastero dove abbiamo dormito noi, senza riscaldamento, con diverse coperte a disposizione, con bagni all’aperto (con una luna piena da ululato!) e colazione frugale; oppure l’Hotel Dzom più confortevole, con una “boutique” dove si possono acquistare magliette molto turistiche che ricordano dove ci si trova e bagni all’interno della struttura.

Passiamo una bellissima serata a chiacchierare intorno alla stufa della sala comune del monastero, aggiungendo ogni tanto una formella di sterco di yak per non far perder vita al fuoco: è l’unica sera che non abbiamo connessione internet, perchè nel resto del viaggio non abbiamo avuto problemi, se non con quei siti, esempio FaceBook, che sono stati bloccati dai cinesi.

Uno dei sintomi del mal di montagna è il sonno disturbato e in effetti questa sarà l’unica notte in cui non dormirò benissimo, forse anche perché mi rimanevano poche gocce di Effortil e Aurumheel che per tutto il viaggio ho dovuto assumere, avendo io la pressione molto bassa. Molti dei miei compagni di viaggio invece avevano fatto ricorso al Diamox, un diuretico che contrasta egregiamente il mal di montagna, che il mio medico però non si era sentito di prescrivermi. Rimanendo sull’argomento medico non è obbligatoria alcuna vaccinazione.

06.11

Al mattino con il ghiaccio sui vetri ci rimettiamo in cammino. Per uscire dalla Riserva Naturale, ritorniamo sulle piste sterrate e guadiamo i piccoli torrenti che ora troviamo ghiacciati. Torniamo sulla Friendship Highway e avvistiamo diversi animaletti nel mezzo della steppa, cavallini, topi, marmottine e piccole volpi: qui per l’altitudine, gli animali tendono ad avere dimensioni ridotte.

Passiamo il Thonghla Pass (5240 m slm), dove troviamo neve e un paesaggio fantastico e ci fermiamo poi in un paesino a 3780 m slm, dove pranzeremo in un locale non turistico, con un piatto di squisiti noodles. La fermata ci permette di acquistare anche della frutta e qualche stuzzichino da sgranocchiare sul bus, dato che oggi è una tappa di trasferimento verso Zhangmu (2300 m slm) con un dislivello di 2800 m e gole da paura.

Superiamo Tingri su una strada sterrata che corre con la montagna da un lato e il dirupo senza protezione sullo Tsang Po dall’altro: i panorami, se non si soffre di vertigini, sono veramente spettacolari. Siamo poi costretti a passare dall’altro lato del fiume, su una strada alternativa, per superare una grande frana che prima della partenza ci aveva tanto preoccupato, perché non era chiaro se saremmo potuti transitare con mezzi a 4 ruote o se era necessario andare a piedi.

Oggi la vegetazione e la fauna cambieranno drasticamente dalla steppa senza alberi e con pochi animali, alla foresta ricca di felci, cascatelle e scimmie. Vediamo il nostro primo ponte tibetano, sospeso sopra un affluente dello Tsang Po.

Man mano che ci si avvicina al confine, aumentano i camion Tata che pazientemente si mettono in coda, anche per due mesi, per la dogana dove scambieranno le merci con i camion provenienti dal Nepal.

Dormiremo allo Zhang Mu Hotel, mangiando piuttosto bene al ristorante alla porta accanto. Tutti gli hotel scelti in Tibet erano comunque di un livello buono, sempre funzionali, comodi e puliti. Più modesti e meno puliti quelli in Nepal.

07.11

Siamo pronti, ma tristi di lasciare il Tibet. Percorriamo gli 8 km che ci separano dalla dogana nepalese di Kodari. Salutiamo Tashi la nostra guida e l’autista del pulmino e ci mettiamo in coda per i controlli in uscita dal territorio cinese. La dogana apre alle 8.30 orario nepalese (- 2 h 15 minuti, rispetto all’orario tibetano fissato sull’ora di Pechino).

Attraversiamo il ponte dell’amicizia, simbolo della fine delle ostilità tra Nepal e Tibet, dove una riga rossa segna il confine. Il primo tratto è costeggiato da preghiere che sembrano accompagnarci all’uscita dal Tibet. Ci infiliamo sulla destra nell’ufficio immigrazione. Il rigore e l’ordine cinese sono ormai alle spalle. Anche il bus che ci porterà a Bhaktapur è completamente diverso. I sedili piccoli e stretti e il mezzo un po’ antiquato.

Le montagne sono terrazzate per la coltivazione, qua e là qualche pianta di banane. E’ il periodo della raccolta e i campi sono pieni di fascine di spighe secche e le donne intente a sgranare i semi a terra, smuovendoli con dei rastrelli per assicurarsi che si asciughino bene tutti.

Arriviamo all’hotel Bhintuna di Bakhtapur, purtroppo costringendo alcune di quelle donne a sollevare i lenzuoli dove stavano lavorando e in assenza, passandoci sopra. La guida ci rassicura che non ci sono problemi: noi però non siamo d’accordo su questa mancanza di rispetto verso il lavoro altrui, specialmente perché siamo turisti e a pochi metri dall’hotel, ma forse per loro il senso di ospitalità va ben oltre.

Lasciamo i bagagli in hotel e andiamo subito alla scoperta di questa bellissima città, che dista pochi km da Kathmandu. Vediamo da fuori il National Art Museum ed entriamo nel cortile del palazzo Jhaurbhai Mahabihar. Le strade del commercio sono meno confuse di quelle di Kathmandu e più caratteristiche. Colori e tempietti sono una costante, così come le ghirlande di tagete a tutte le finestre. Ceniamo molto bene al Sunny Cafè, ma quello che ho più gradito è stato essere su una terrazza aperta su una delle piazze più belle della città. Beviamo della birra Kathmandu (addio alle birre Everest e Lhasa!).

08.11

In compagnia della guida che ci aveva mostrato le meraviglie di Kathmandu, visitiamo l’ancor più bella Bhaktapur. Tutta in mattoni rossi e con quell’aria medievaleggiante che si respira. Il prezzo di entrata alla zona storica è di circa 15 USD, che vengono richiesti per la tutela dei templi.

Degni di nota in Durbar Sq., il palazzo reale e Il tempio di Taumadhi Toile alto 30 m, con una lunga scalinata fiancheggiata dagli animali protettori. Nel dedalo di viuzze e innumerevoli templi, degno di nota il Rudravarna Mahavihar (entrata 50 RS) e il tempio di Mahabuddha, un edificio altissimo in una piazzetta angusta, che forse per questo non si può apprezzare appieno: sulle pareti degli edifici che lo circondano delle bellissime massime del Buddha. La città però rimane prevalentemente induista. Assistiamo anche ad una dimostrazione dei poteri curativi e sonori della campana tibetana: quelle originali sono composte da 7 metalli diversi.

Ci trasferiamo a Patan, che è divisa da Kathmandu solo dal fiume Bagmati. Anche qui il palazzo reale si affaccia nella sua Durbar sq., dove sono concentrati tutti i templi degni di nota e dove si accede pagando un biglietto di 500 RS. C’è molta confusione, da un palco arriva la voce di uno speaker, c’è un convegno che ha attirato una moltitudine. Le donne vestono il sari della festa e alcune di loro lo portano con la stessa fantasia, come se facessero parte di una congregazione o della stessa famiglia.

Volendo, anche a Patan si può vedere una kumari, ma noi preferiamo spostarci a Thimi, cittadina famosa per i vasai e non si fa fatica a crederlo: le vie sono costellate di vasi messi a essiccare e qua e là ci sono delle pire di sabbia ed erba secca, dentro cui vengono cotti i vasi. Vediamo alcuni bambini che lavati per strada in bacinelle, insieme a giovani donne intente a lavare i lunghi capelli corvini.

Torniamo a Bhaktapur e dopo una rinfrescata, andiamo a cenare al Watshala Garden: è la nostra ultima sera e quindi ci vogliamo viziare.

Torniamo in hotel e la notte sarà disturbata dal tempietto nelle vicinanze, in quanto è un’abitudine indù suonare le campane per svegliare gli dei.

09.11

E’ arrivato il momento di rientrare in Italia e questa giornata sarà interamente dedicata al trasferimento. Partiremo da Kathmandu con Air India alle 10.00 e arriveremo a Delhi alle 11.25, da dove ripartiremo alle 14.20 per arrivare a Malpensa alle 22.00 h, non prima di esserci “liberati” con un po’ di magone della nostra compagna di viaggio romana.

Un viaggio ai confini del mondo, in una terra quella nepalese povera, ma dignitosa, la cui capitale è appena stata devastata da un terribile terremoto e quella tibetana ancora legata alla tradizione e forse per questo ancora viva e combattiva nei confronti dell’ingerenza cinese.



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