Trieste, bora in poppa

"Ti fa tenere stretto il cappello", come scrisse stendhal, gonfia le vele della barcolana, porta in giro l'odore del caffè più rinomato. amato e temuto, questo vento potente scompiglia passato, presente e futuro della città. e sospinge l'economia
Weekend & Viaggi, 25 Feb 2010
trieste, bora in poppa
Ascolta i podcast
 
Uncerto Henry Beyle, francese, nell’inverno 1831 soggiornò a Trieste e in una lettera parlò di due tipi di vento: quello che ti fa “tenere stretto il cappello” e quello che ti fa temere “di romperti un braccio”. Lui era noto come Stendhal e, come chiunque si sia trovato a vivere nella città giuliana, dovette fare i conti con il vento. Particolarmente con la “specialità della casa”: la bora, il vento freddo e secco proveniente da Est-Nord Est, che “suffia” da ottobre a marzo inoltrato. E con le sue varianti, come il borin, che rinfresca le primavere e le estati, e la bora nera, che porta pioggia e neve. Tale abbondanza non è stata sufficiente per affibbiarle il nickname di windy city, soffiatole da Chicago. In compenso ai suoi venti Trieste tributa una quantità tale di omaggi che la capitale dell’Illinois neanche si sogna. Al numero civico 3 di Piazza Unità, il salotto aperto verso il mare di Trieste, c’è una scultura di Marcello Mascherini dedicato alla bora. Non poteva mancare una via con questo nome. È nei pressi del popolare quartiere di San Giacomo, quello dove la bora soffia più forte. Le pareti esterne delle case che fiancheggiano le piccole stradine che si inerpicano sulla collina di San Giusto offrono dei passamano agli audaci che tentano l’ascesa nelle giornate ventose. Un interessante escamotage urbanistico è quello delle fodre, letteralmente “fodere” del cappotto. Trattasi di vie che, quando il vento di est nord est soffia forte, fungono da riparo per i viandanti. Proprio come se fossero le fodere di un cappotto. Negli ultimi anni lo sviluppo urbanistico ne ha ridotto il numero, mentre la “modernità” sta generando l’estinzione delle jazere, caratteristici cubi di vetro che sporgevano dalle finestre delle vecchie case (il vento gelido le trasformava in ghiacciaie a costo zero). In via Mulino a Vento non c’è più alcun mulino, in compenso è sempre in cartellone il concerto di drizze contro gli alberi delle centinaia di barche a vela attraccate ai pontili del chilometrico porto di Trieste. Il suo momento d’oro è riconducibile al 1719, anno in cui l’imperatrice Maria Teresa d’Austria istituì il Porto Franco. Fu l’inizio delle fortune di una marea di mercanti, che aprirono bottega nella città più meridionale dell’Europa del nord. Tedeschi, boemi, svizzeri, slavi, greci, ebrei… Una promiscuità etnica che ha regalato a Trieste monumentali luoghi di culto: San Spiridione, sul Canal Grande, per i serbo-ortodossi; Sant’Antonio Taumaturgo, che domina lo stesso Canal Grande, per i cattolici e San Nicolò, sulle Rive, per i greco-ortodossi. Più una sinagoga che è tra le più grandi d’Europa. La storia di Trieste sa di salsedine e di cantieri navali. Carpentieri e maestri d’ascia, velisti e armatori: sono stati loro la linfa che per anni ha alimentato sogni e commerci e ha favorito la nascita di una importante industria navalmeccanica. Qui, ai primi dell’Ottocento, Josef Ressel inventò l’elica. Qui, negli anni trenta, si costruirono mitici transatlantici come il Rex e l’Andrea Doria. Qui nel 1836 si sviluppò il Lloyd Adriatico, una fra le più antiche compagnie di navigazione, fautore dei primi collegamenti nel Mediterraneo. Per respirare quei fasti basta passeggiare tra i magazzini del vecchio Porto Franco. Oltre 600mila metri quadrati di immensi capannoni, binari, moli, gru… una città nella città, sulla cui riconversione si gioca molto del futuro di Trieste. Lasciandosi alle spalle questi capolavori di architettura industriale, e continuando a costeggiare il mare, è tassativo percorrere le cosiddette Rive, una sorta di linea d’incontro tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa. Superata la stazione ferroviaria si raggiunge celermente la foce del Canal Grande, ennesimo cadeau alla città da parte di Maria Teresa. Superato il Teatro Verdi, la cui architettura ricorda quella della Scala di Milano, una striscia di cemento si protende nel mare. È il Molo Audace. Nei giorni di calma è un placido luogo di passeggiate, riflessioni e chiacchierate. Ma quando la bora soffia gagliarda è una sfida arrivare sino in fondo e raggiungere la bitta dei venti. Superata Piazza Unità si apre il Borgo Giuseppino, l’espansione urbanistica voluta dal figlio di Maria Teresa e proseguita nei primi anni del ‘900. Qui l’architettura neoclassica e il liberty si incontrano con gli edifici degli anni Trenta. È il caso del Terminal passeggeri, progettato da Umberto Nordio nel 1930, oggi riconvertito in Centro Congressi. Più avanti si incontra La Sacchetta, uno specchio d’acqua dominato dalla Lanterna, il faro che sino al 1969 ha guidato i naviganti nel golfo di Trieste. Ai suoi piedi gli omonimi bagni, gli unici in Europa dotati di due spiagge: una per le donne e l’altra per gli uomini. La Sacchetta è uno dei luoghi più caratteristici della città, con i suoi splendidi palazzi ottocenteschi affacciati sul mare e i mille alberi delle barche ormeggiate nelle sedi di storiche società veliche, come lo Yacht Club Adriaco, la Società della Vela, la Canottieri Trieste… Nelle numerose darsene cittadine oggi sono ormeggiate più di seimila imbarcazioni. Un dato che in parte spiega l’impressionante numero di campioni di vela originari della città giuliana: Furlan, Rode, Nordio, Paulin, e oggi Pelaschier, Pitacco, Bertagli… è nelle acque triestine che si celebra la regata più frequentata d’Italia, la Barcolana (quest’anno l’appuntamento è dal 3 all’11 ottobre, info www.barcolana.it). Ma Trieste vanta anche altre coppe, fra cui la Bernetti, la nations Cup, il match race più importante d’Italia, e la Sciarelli Cup, cui possono partecipare solo barche disegnate da Carlo Sciarrelli, leggendario progettista di sensuali barche a vela. Un ex ferroviere autodidatta che è stato capace di costruire la barca “definitiva”. Noi possiamo accontentarci del traghetto che porta a Muggia, enclave veneziana e ultima cittadina prima del confine sloveno. Ci si imbarca al Molo Pescheria e arrivati nel porticciolo di Muggia si può salire sulla terrazza della palazzina del delegato di spiaggia della capitaneria di porto. Qui una cooperativa di pescatori, che pratica anche escursioni ittoturistiche, gestisce un ristorante che cucina il bottino caduto nelle loro reti. Salendo sul traghetto per tornare in città basta allontanarsi un po’ dalla riva per avere l’impressione che mare e montagne si tocchino come le quinte di un teatro. Uno spettacolo che ha pochi eguali. D’altronde Trieste è l’unica città dove le Dolomiti innevate sono lo sfondo alla partenza dei traghetti per Turchia e Grecia.