Laos
A volte con un sorriso che nasconde un grazie e a volte con tutta la voglia di scappare senza neanche salutare per la troppa puzza annusata in un’intera notte.
E partire.
Partire senza la pretesa di compiere chissà quale avventura.
Partire per partire.
Per ascoltarsi respirare dentro ad immagini che a guardarle in un quattro terzi non è uguale.
Partire ed esser certi di venire cullati da qualche treno sporco o da un pullman con mille fronzoli.
Così da Bangkok a Luang Prabang e ritorno. Semplicemente in gita su di una linea quasi retta che va da qui a lì.
Thailandia e Laos.
Da sola, certo, ma solo per sentirne meglio l’odore. Senza appuntamenti o capi gruppo, senza nulla di organizzato, sola a dare spintoni alla gente che si ammassa agli sportelli di questa o quella stazione, senza nessuno che ti aspetta in nessun posto.
La fatica più grande non è adattarsi a fare la pipì su di una strada assieme a donne che non hanno vergogna di quel gesto, bensì spiegare ai propri compagni d’autunno il perché di quella voglia di Oriente, di diverso, di colorato, di sporco e di apparentemente difficile.
La gente non ci pensa, ma scegliere se mettersi ai piedi i sandali di Prada o gli stivaletti di Cavalli, per brillare di sé all’aperitivo sulla Croisette, è ben più complicato che dover viaggiare in economy dentro ad un treno in compagnia di un signore con le cicatrici sulla faccia che ti racconta, in un iglese senza erre e mai finito, che a Milano lui, una volta, c’è stato.
Attraversando il nulla dipinto di verde, non si può non riflettere sulla bizzarria di questo popolo così carica di ironia.
Il creatore da quelle parti ha fatto un bel casino con la clorofilla, ha mescolato alberi giganteschi, ricci, bassi, lisci, grassi, magri, belli e brutti in un’esplosione caotica di stili diversi. Come si fa a crescere con tutto questo e restarne indifferenti? Non si può, infatti. Solo dopo aver visto quelle montagne ho capito come si poteva concepire un pullman rosso con i sedili lilla e le tendine arricciate arancioni, con le pensiline piene di gatti di plastica che, a pile, fanno andare il braccio su e giù in un continuo gesto di buona sorte.
Arrivare a Luang Prabang può essere scioccante se ci si entusiasma troppo per quello che si vede prima. L’Unesco ha detto che questa è una delle città più belle al mondo. Vero.
Il problema è che lo ha detto a tutti.Un tutti troppo grosso, volati fin lì a zero fatica.
Anche se a ben guardare non son poi diversa da questa banda di “raccatta souvenirs”.
Però io mi porto a casa il colore della faccia della vecchina che vorrebbe vendermi un ratto alla griglia e mi porto le mani delle ragazze che tra un gniiiiii e uno gnuuuu di quella meravigliosa lingua fatta di suono, spellano i pipistrelli per farne una zuppa e poi i sorrisi a labbra piene di queste dolcissime femmine che miagolando si accattivano le simpatie degli uomini.
Porto a casa le risate spontanee di una gente che saluta come se fossi io una ragione di festa.
E poi il cibo buono e l’eccessiva secrezione salivare ottenuta dopo un bicchiere di vino di riso. La puzza della muffa e l’asciugamano che non si asciuga mai.
Il sapone che metto sui capelli perché il mio gel fissante occidentale non regge a questa umidità che mi gonfia anche i pensieri.
E mi porto l’amico del negozio di fotografia che mi ha offerto una bottiglia di birlao facendomi ubriacare come un alpino a Vientiane.
Mi porto il Mekong che, denso come la cioccolata, trasporta la terra da una parte all’altra in un ininterrotto e frenetico lavorare. E gli uccellini che vengono catturati al mattino per essere poi venduti la sera, davanti a una pagoda, nella speranza di alleggerire il carico karmico di qualcuno.
Ecco quello che mi porto. Semplici souvenirs da vagabonda.