La Tanzania in trattore
Ci si arriva dall’Italia con KLM, anche se bisogna risalire fino ad Amsterdam. Oppure con Ethiopian Airlines, facendo una sosta (pittoresca e multirazziale, vista la quantità di gente diversa da tutta l’Africa che popola l’aeroporto) ad Addis Abeba. Forse la rotta più semplice è con Turkish Airlines, con scalo a Istanbul. E si arriva a Dar Es Salaam, di fatto ancora la capitale della Tanzania, anche se ufficialmente sarebbe Dodoma.
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Tutti quanti la chiamano Tanzània con l’accento sulla a, mentre si pronuncia Tanzanìa con l’accento sulla i. E pochi si ricordano che sta sotto all’Uganda e al Kenia e sopra al Mozambico, circondata a Est dall’Oceano Indiano e a Ovest confinante con Burundi, Rwanda, Congo, Zambia e Malawi. Tutto diventa più facile se si nomina Zanzibar o, magari, Mafia: sono isole molto più conosciute e soprattutto rinomate mete turistiche che, in realtà, fanno parte appunto della Tanzania solo dal 1964, dopo che si sono unite al resto del Paese (c’era una volta il Tanganika, più Zanzibar, uguale Tanzania). La Great Rift Valley, considerata una sorta di paradiso terrestre, coi suoi laghi (Vittoria, Tanganika, Malawi), e di fatto culla dell’umanità (qui hanno trovato l’Homo Habilis), è in Tanzania. Ed è tanzaniano anche il famoso Cratere del Morogoro, gioiello naturale di biodiversità, per non parlare di alcuni dei parchi naturali più belli e famosi dell’Africa, come il Serengeti, il Selous o il Ruaha. Vi racconterò il mio viaggio, che però ha toccato ben poche mete turistiche: in realtà mi sono addentrato nel cuore della Tanzania perché avevo uno scopo e dei compagni di viaggio molto precisi. Il motivo era scoprire il paesaggio e l’economia della Tanzania agricola, i compagni di viaggio sono stati i volontari della ONG CEFA (Comitato Europeo Formazione Agricola) di Bologna. E il mio tour in loro compagnia è iniziato con un trattore, donato a un villaggio che lo usa collettivamente per lavorare la terra di tutti e trasportare derrate alimentari e merce varia.
UN CAPPUCCINO AL VOLO
In Tanzania ho visto una natura meravigliosa, dei villaggi poveri ma dignitosi, una terra che disegna paesaggi diversissimi (dalla savana alle foreste) e tutti affascinanti, che mi è piaciuta moltissimo. A parte forse Dar Es Salaam, che ha tutte le caratteristiche (e i difetti) delle metropoli del terzo mondo: il traffico mostruoso, l’inquinamento, il proliferare di baracche e baracchine che riempiono tutti gli interstizi fra un palazzone di cemento e l’altro. A Dar ci accoglie Dario e dormo nell’ostello del CEFA e – anche se siamo nella stagione secca e non ci dovrebbe essere pericolo di malaria – mi cospargo di antizanzare. E comunque si riparte presto: direzione Sud-Ovest, verso la zona di Iringa, la terra tra i due fiumi, il Ruaha e il Rufiji (che danno appunto il nome ad altrettanti parchi naturali stupendi), verso l’interno della Tanzania. In macchina sono otto ore di strada, asfaltata ma popolata da processioni di camion puzzolenti e da molte corriere, e contornata perennemente da chioschi improvvisati che vendono carbonella o pomodori e frutta impilati perfettamente in piramidi colorate. Oppure da Dar a Iringa si può andare con un piccolo aereo monoelica a dieci posti, con probabile scalo intermedio in qualche aeroportino con pista di terra battuta: io ho fatto entrambi i viaggi ed entrambi valevano la pena… Da notare che nel piccolo aeroporto di Dar, da cui partono gli aereoplanini (da non confondere con quello da cui decollano e arrivano gli aeroplanoni intercontinentali), c’è un bar dove fanno un cappuccino squisito, degno di un bar di Bologna o di Roma.
NEL MERCATO DELLA “FORTEZZA”
Iringa è una città, come Dar, ma molto più piccola, quindi piacevole. Sta a 1.500 metri sul livello del mare, ha un buon clima e sta sul Little Ruaha River, che tra l’altro dà il nome a un parco naturale bellissimo. Il nome significa più o meno “fortezza”, e qui ci sono state un sacco di battaglie fra la popolazione locale (gli Hehe, guidati dal Capo Mkwawa) e i tedeschi, e poi fra tedeschi e inglesi. Io ho bazzicato il Mercato, che è anche il centro della città, molto accogliente, animatissimo, ricco di verdure (pomodori, piselli, fagioli) e poi riso e pesce seccato (molto puzzolente, ma di un odore buono). Il mercato stesso è uno dei risultati a cui ha contribuito il CEFA, nel senso che fino a qualche tempo fa i contadini non riuscivano nemmeno a farci arrivare i propri prodotti. Perlopiù (l’ho visto coi miei occhi, durante il viaggio) portavano la loro roba, man mano che maturava, lungo la strada, e vendevano ai camionisti di passaggio, a prezzi stracciati. Ora ci sono le minime infrastrutture (magazzini, trasporti, cooperative di contadini) per accedere almeno al mercato. Dove non mancano i costruttori di sandali di gomma ricavati da copertoni usati e i venditori di stoffe che servono per fare i vestiti delle donne, che hanno colori speciali. Nella main street c’è anche un bar che sfoggia animali colorati, fatti di cemento. E all’angolo c’è un signore che vende bottigliette usate e tutte diverse, piene di liquidi marroni: è un guaritore, che ha una medicina per ogni malattia, dal diabete all’impotenza. Mangiamo bananine fritte, che cerchiamo di digerire con birra Kilimanjaro o Safari, mischiata a limonata gasatissima. Arriva un furgoncino che scarica mozzarelle, provoloni e scamorze. È uno dei “miracoli” del CEFA…
LA LATTERIA DI NJOMBE
In Tanzania fino a qualche tempo fa la gente beveva solo latte in polvere della Nestlè. Avevano le mucche, che però facevano poco latte, che comunque non si conservava. I volontari del CEFA hanno cercato di ibridare le piccole vacche locali con la gobba – in pratica degli zebù – con le nostre frisone. Ne è uscita una tipologia di vacca da latte molto frugale, che resiste all’ambiente ma produce anche latte, almeno dieci litri al giorno. Dopodiché (in collaborazione con le coop lattiero-casearie emiliane, in particolare la Granarolo) il CEFA ha impiantato un piccolo caseificio e una latteria, mandando alcuni casari emiliani a insegnare come si fa. Risultato: a Njombe (un paese a un centinaio di chilometri più a Sud) producono formaggi che gli allevatori – organizzati ovviamente in cooperativa – vendono ad alberghi e resort (ai tanzaniani il formaggio non piace) e distribuiscono a tutti latte da bere e yogurt. Hanno quindi un reddito che li tiene sulla terra e si è avverata la profezia di Julius Nyerere: “Un bicchiere di latte al giorno per ogni bambino”. John Kamonga è il capo di questa cooperativa, che oggi è in mani totalmente tanzaniane, ed è molto fiero di questo risultato. A Iringa ho conosciuto tanti italiani: Augusto che è fisioterapista e che qui dirige un centro medico, sua moglie Laura che insegna in un laboratorio artigianale, Alberto che ha organizzato qui mense e varie strutture e Concetta, che ha trasformato un vecchio convento in un meraviglioso Resort con tanto di ristorante italino, detto “Mama Iringa”, dove la pizza e le lasagne sono vere, fatte a regola d’arte (anche grazie alla mozzarella di John Kamonga e della sua coop).
QUEL CHILOMETRO D’ASFALTO A KILOLO
Le strade asfaltate in Tanzania finiscono presto, lasciando il posto a quelle di terra battuta, che a loro volta diventano poi piste che definire strade… è una battuta tutta da ridere. Ma quando arrivo a Kilolo trovo un intero chilometro di asfalto: inizia dal nulla e finisce nel nulla, ma è il segno che Kilolo è un paese importante. C’è anche un ristorantino (si mangia riso, spezzatino molto coriaceo, fagioli e Coca Cola e – volendo – una polentina gommosa fatta di farina di mais, però bianca). Si dorme in casa di Giovanni, l’agronomo del CEFA, siciliano. Infatti, una volta abbandonata Iringa, non ci sono in alcun modo strutture ricettive, al massimo foresterie allestite per ospitare i volontari. Ma a Kilolo c’è un grosso magazzino in costruzione, con le pareti in mattoni, la struttura dal tetto in legno e la copertura in lamiera. È diviso in due: da una parte una macchina per decorticare e poi macinare il mais dai chicchi bianchi, dall’altra un magazzino con sacchi di concimi. Una specie di Consorzio Agrario. Una novità assoluta e importante: in questo modo il mais, quando è maturo, si può raccogliere, conservare, lavorare e quindi vendere controllando la filiera del prodotto, e quindi spuntando un minimo di profitto. E poi, acquistando collettivamente i prodotti chimici per rendere più feconda la terra (che è rossa, bellissima da vedere ma troppo ricca di ferro e troppo acida), i contadini risparmiano. Nel magazzino si fanno anche corsi di agronomia. Ma quale modello agricolo propongono i volontari italiani ai contadini locali? Convenzionale? Biologico (cioè senza chimica)? A lotta integrata (cioè con poca chimica)? Giovanni dice che innanzitutto si cerca di rispondere alle loro esigenze, lui non è qui per imporre modelli. Naturalmente, con gradualità, si cerca di proporre una agricoltura naturale. Ma il primo obiettivo è migliorare, collettivizzare, razionalizzare al fine di creare reddito, di supportare la piccola agricoltura familiare.
UNA DONNA FUORI DAL COMUNE
Consolata ha una cucina con pareti di terra e il tetto in paglia, dove il fuoco è sempre acceso e – per la mancanza di un qualsiasi camino – il fumo ti acceca. Poi però ha anche un’altra casetta con il muro in mattoni e il tetto in lamiera dove c’è una lampadina elettrica, un divano e una credenza e persino il pavimento. Anche la luce l’ha portata il CEFA, che nella zona ha costruito una centrale idroelettrica. Ma la luce può arrivare solo in case in mattoni e col tetto in lamiera. Consolata ci vive con un figlio, sua nuora e un bambino abbandonato che lei ha adottato. La sua è una casa di lusso. Tutto merito suo, ma anche di un altro Giovanni (di Bologna), che adesso mi accompagna in questo viaggio e che venne qui fin dagli anni ‘80 a proporre ai contadini come Consolata di allevare polli e animali da cortile. La donna oggi ha maiali, conigli, galline che alimenta con il suo mais, che conserva in un silos che si è fatta da sola, in legno e terra. Vende le uova alle donne del circondario ed è diventata decisamente importante, una sorta di capo-villaggio. È simpaticissima ed estroversa, ma non ha avuto vita facile: aveva una figlia adolescente, malata di cuore. È riuscita a portarla in Italia, per essere operata, ma poi la ragazza non ce l’ha fatta. Come è riuscita ad arrivare in Italia? Grazie a Fra Paolo, che sta a Pomerini…
MODELLO AGRICOLO
In realtà si chiamava Ng’Uruhe, ma i Tedeschi l’hanno chiamata Pomerini da Pomerania. Fra Paolo (vero nome Marino) è nato a Viadana, provincia di Mantova, poi in Sicilia ha aderito ai Frati Minori Rinnovati e quindi è arrivato 20 anni fa qui in Tanzania, con alcuni confratelli (un francese e tre tanzaniani), collaborando con una organizzazione locale. Gira scalzo, con un gran sorriso che spunta da un barbone brizzolato. Ha un centro per bambini disabili e ha promosso una scuola pubblica statale di agraria per figli di agricoltori tanzaniani, che arrivano qui da tutte le parti del Paese. Il CEFA ha collaborato costruendo delle serre. Il modello agricolo che si insegna è appunto quello dell’agricoltura collettiva, locale, di villaggio. Ma cosa ci fanno lì vicinissimi tre enormi silos tecnologici? Ironia della sorte: la Fondazione Clinton (sì, proprio Clinton) ha ottenuto dal governo centinaia di ettari di terra per impiantare una coltura intensiva industriale, che impiega molte macchine e poca gente. Esattamente il contrario del modello-CEFA (che poi è il modello Slow Food, terra Madre, Vandana Shiva, per intenderci). L’avevo detto che la Tanzania è un laboratorio sul futuro! Ma se uno vuole capire di più, se si desidera davvero vedere gli effetti dell’azione del CEFA, ci si deve spingere anche più in là…
UN ESEMPIO DI SVILUPPO
Bomalang’ombe (più semplicemente Boma) è difficile da raggiungere, ma il viaggio vale la pena: si arriva quasi a 2.000 metri, in mezzo a foreste e boschi. Fino a qualche anno fa era un villaggio di 3.000 persone, a rischio abbandono. Adesso ci abitano in 12.000, addirittura è sorta Boma2 (tipo Milano2) che per la cronaca si chiama Lyamco. Il CEFA (sempre appoggiandosi a strutture locali, Comitati di Villaggio, ONG del posto, consorzi ecc) ha portato l’acqua e la corrente elettrica (con la famosa centrale idroelettrica, quindi rinnovabile). Non lontano passa anche la rete statale elettrica (che nelle zone rurali serve solo il 7-10% della popolazione) e l’energia della centrale locale in eccesso viene venduta, quindi produce fondi per auto-mantenersi. Con l’elettricità è nata una fabbrica di conserve e di marmellate, oltre che un laboratorio che lavora le carne: in questo modo i prodotti si conservano, si vendono e rendono. Poi è nata una segheria e una falegnameria per sfruttare il legname. E a livello sociale si è riusciti a fare un centro, dove le donne hanno impiantato una sartoria, con coinvolgimento di persone finora emarginate. Ho conosciuto i ragazzi della segheria, quelli delle marmellate, Jacinta, che è la signora disabile che gestisce la sartoria, Joeli, che alleva maiali e li vende al macellaio del paese, e soprattutto il medico del paese, che mi ha detto che con il frigorifero può conservare i vaccini per i bambini. Ho conosciuto Jacopo, che si occupa della centrale, e Marina, che per il CEFA si occupa un po’ di tutto. E ho dovuto riconoscere che l’obiettivo è stato raggiunto: stop all’inurbamento, stop all’abbandono delle campagne. La Tanzania è tante altre cose, innanzitutto la savana con i suoi animali, con il suo ritmo naturale ancestrale che ci riporta all’essenza della vita. Ma, oggi, è anche questo: un modello di sviluppo emblematico e interessante, che ci riguarda tutti da molto vicino, anche se apparentemente la Tanzania è molto lontana.