La filosofia del Deserto
Ho visto le stesse dune che appunto si vedono da Timbuctù. Ma al nord, in Libia, ho visto i graffiti di un popolo antico, che rappresentava una terra che non è sempre stata un deserto, ma una savana con animali e piante. Al sud, in Mali, invece ricordo le città e le moschee di terra.
Poi ho visto un altro genere di deserto, ma pur sempre deserto: la Patagonia. Dove – almeno fino a qualche anno fa – c’era solo la strada che separava il nulla, con il filo spinato che recintava apparentemente di nuovo il nulla. Quando poi non vedi più nemmeno il filo spinato, capisci che sei arrivata in un deserto ancora più vuoto…
Poi ho visto il deserto australiano. Anche questo segnato e diviso e attraversato da una strada che divide, sulla quale ti passano davanti i canguri. Questo deserto non è sabbioso, è fatto di terra rossa. L’ho sorvolato con la mongolfiera. E ho visto che poi diventa deserto “dipinto”, con i colori che passano dal bianco al rosso e all’ocra, e sembra un quadro d’arte moderna.
In Perù, vicino a Ica, ho visto una duna talmente alta ed estesa da essere a sua volta un deserto.
Invidio la mia amica Carla Perotti, una filosofa-atleta-esploratrice che i deserti di tutto il mondo li ha attraversati e misurati a piedi.
A me i deserti piacciono… perché sono deserti: non c’è nessuno, di solito è caldo e secco. E i deserti sono lo sfondo ideale per far risaltare le cose, e la preziosità della vita.