Guerrieri, santi, pecore e zafferano
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Il sedano d’acqua
Il Tirino è appunto azzurro-trasparente per la sua acqua, ma è soprattutto verde, sulle sponde e anche sotto l’acqua. C’è ovunque una rigogliosa vegetazione sommersa ed emersa: lungo la riva, salici bianchi, pioppi neri, canne di palude ecc… Grazie alle acque limpide e cristalline, che lasciano penetrare i raggi del sole per diversi metri sotto il pelo dell’acqua, sul letto del fiume ci sono tappeti di sedano d’acqua che realizza la fotosintesi clorofilliana anche se immerso. In passato, questa pianta veniva utilizzata sia come alimento per l’uomo che come foraggio per il bestiame. La bassa temperatura del fiume e la gran quantità di ossigeno sono un habitat perfetto per la trota e il gambero di fiume (c’e n’è una varietà autoctona del Tirino, prezioso bio indicatore ecologico). Per fortuna ci sono i vincoli del Parco Nazionale del Gran Sasso, che preservano questa zona naturalistica davvero sorprendente. Pare che sulle sponde ci siano ancora un sacco di animali selvatici: la folaga, il tuffetto d’acqua, il moriglione, lo svasso, il fischione e le garzaie assieme agli aironi cenerini. Ma io non li ho visti: troppo impegnato a non rovesciare la canoa con una pagaiata sbagliata… Ma viceversa, una cosa l’ho vista bene: giusto vicino al corso del Tirino mi sono imbattuto nella Chiesa di San Pietro ad Oratorium. Risale circa al 7-800 d.C. e l’hanno costruita i Longobardi, poi è stata rifatta e restaurata nel 1100, e da allora è stata un’importante abbazia, vista la sua posizione strategica lungo la valle. Il Tirino comunque deve avere un suo caratterino, se è vero che dell’abbazia non è rimasto niente, distrutta dalle sue piene…
Il Sator
La chiesa è deliziosa, con le sue linee romaniche essenziali, perfettamente inserita nella natura. Ma la sua particolarità sta soprattutto in una sorta di lapide, fissata (capovolta) sulla facciata, a fianco del portale, con incise cinque parole: ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR. Queste parole possono essere lette indistintamente da sinistra a destra e viceversa, ma anche dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, una sorta di Teletris… Se anagrammate, formano la parola PATER NOSTER, ma è solo un depistaggio. Questo “segno”, chiamato appunto Sator, è stato spesso scoperto incastonato nella pietra, sul fianco di chiese e templi antichi e antichissimi, sparsi lungo tutta l’Europa. Se lo si osserva, la parola TENET compone una croce al centro ed è l’unica che non varia in qualsiasi verso la si legga. La parola SATOR in latino significa “creatore” o “seminatore” o “contadino”, AREPO è l’unica parola non latina, non si trova in alcuna lingua antica, ma qualcuno ha voluto farla risalire al termine celtico àrepos, che vuol dire “carro” o “aratro”. TENET in latino significa “contiene” o “governa”. OPERA in latino significa creare, “ogni opera della creazione”. ROTAS in latino significa “ruota” (o movimento terreno, agire umano).
IL MISTERO DEGLI ANTICHI COSTRUTTORI
Quindi, ecco i possibili significati: “il Creatore delle terre tiene, cioè governa, le ruote celesti”. Oppure, “il seminatore sul suo carro fa funzionare le ruote e crea, produce opere” (fornendo un senso più legato all’agricoltura). Comunque sia, vuol dire “fatto a regola d’arte”. È stato trovato un Sator persino nei resti di Pompei, anche se la maggior parte degli edifici in cui è contenuto un Sator risale all’epoca medievale. Lo si trova in costruzioni sacre che hanno qualcosa a che fare con l’ordine dei Templari. C’è soprattutto una lettura alchemica del Sator, che parte da considerazioni di carattere geometrico, non dimenticando che per i costruttori e sapienti edificatori di templi e costruzioni sacre, la geometria aveva un’accezione religiosa. Probabilmente il Sator è una sorta di “regolo” geometrico-architettonico che ha permesso di costruire le facciate delle chiese in modo da ottenere sempre forme diverse, ma in proporzione armonica tra loro e con l’uomo. Quindi, anche se il Sator rimane a tutt’oggi un oggetto misterioso, può essere considerato uno strumento operativo (e quindi concreto) utilizzato dagli antichi costruttori per dare alle loro opere proporzioni “auree” di geometria sacra, espressione dell’armonia universale. Ma da dove viene? Fa riferimento a una setta, o corporazione di “iniziati”? È un vero, affascinante mistero, nascosto nella semplicità di una chiesetta lungo le rive di un piccolo fiume ameno…
SANTI E GUERRIERI
Non è un caso se il progetto di Paolo, dei naturalisti-canoisti e degli altri enti locali di promozione turistica si chiama Santi e Guerrieri. Qui siamo nel territorio di Capestrano, cittadina resa famosa dalla scoperta del Guerriero di Capestrano, celebre statua databile al VI secolo a.C. ed esposta a Chieti, nel Museo archeologico nazionale d’Abruzzo. Se ne può ammirare una copia qui a Capestrano, nel Castello Piccolomini. Risale appunto al VI secolo a.C., ma è stato scoperto da un contadino nel 1930. Il guerriero di Capestrano è… strano: ve lo ricordate? È grande, alto circa due metri, con un gran cappellone (pare sia un elmo da parata) e una forma del corpo un po’ rotondeggiante, vagamente femminea. Visitando la valle, che scorre tra massicci di origine calcarea (a Nord le alture di Rocca Calascio e Castel del Monte, a Ovest la Serra di Navelli, fino a scendere giù, nei pressi di Bussi sul Tirino, con Monte Cornacchia e Monte Scuncole, seguendo la dorsale del Gran Sasso) c’è comunque grande abbondanza di borghi e castelli da visitare. Oltre al Castello Piccolomini di Capestrano, c’è il Castello dei Duchi di Cantelmo di Bussi sul Tirino, la zona archeologica di Capestrano (dov’è stato appunto rinvenuto il “Guerriero di Capestrano”) e poi la Chiesa di Santa Maria di Cartignano. Come ben potete immaginare, la mia attenzione si è poi rivolta al territorio agricolo. La valle è piena di colture e produzioni enogastronomiche, perché il Tirino sarà anche bello, ma è soprattutto utile: lungo il suo corso è pieno di orti, storicamente chiamati “padure” e “cannavine”, con i loro particolari sistemi di irrigazione attraverso i canali che prendono l’acqua proprio dal Tirino. Oltretutto, il fiume dona alla valle un microclima mediterraneo che nell’area di Ofena, definita “Forno d’Abruzzo”, perché è “caldino”, favorisce la coltivazione della vite, da cui il famosissimo Montepulciano d’Abruzzo.
PASSATO E FUTURO
E il nome di questo vino ci ricorda, appunto, che siamo in Abruzzo, dove regna la pastorizia. E anche in questo senso la Valle del Tirino è importante. Questa zona è sempre stata abitata, perché è benedetta da un clima buono (hanno trovato delle ossa umane che risalgono all’età della Pietra Antica, cioè 80.000 anni fa!), ma è stato l’imperatore Claudio a “lanciare” per primo la valle, facendo costruire la strada consolare che serviva da collegamento tra Roma e l’Adriatico e che segue il tracciato del fiume. Ma perché proprio qui? Perché già coincideva con alcuni dei diversi tratturi della transumanza, che prevedeva lo spostamento dei greggi di pecore dagli altipiani del Gran Sasso, scendendo nella valle del Tirino fino alle valli calde della Puglia. Ed ecco che, naturalmente, lungo le sponde del fiume si è sviluppato tutto, cioè la maggior parte delle attività economiche e commerciali: l’artigianato di cesti e nasse da pesca, la ceramiche, le produzioni agricole nelle “padure” e nelle “cannavine”, l’allevamento di bestiame, la pesca di trote e gamberi. Ed era famoso il Mercato del Tirino, che avveniva sulle sponde del fiume dove confluivano tutte le merci e le produzioni e dove sostavano per alcuni giorni i pastori transumanti, che barattavano i prodotti dei loro greggi di pecore, prima di proseguire verso la Puglia. Nostalgie storiche? No! Indicazioni per il futuro: adesso il Tirino – che è davvero un posto unico nel suo genere – può tornare a sviluppare le nuove tendenze di un’economia eco-compatibile, dal turismo all’agricoltura, passando per la riscoperta dei tratturi come itinerari di trekking e di natura.
IL CASTELLO DI LADYHAWKE
La zona si presta a tanti itinerari, che sono ricchissimi di castelli, abbazie e di storia. Ma c’è un’altra “cartolina” che non si può non nominare lungo questi percorsi: proseguendo da Capestrano verso Nord, verso Santo Stefano di Sessanio, si incontra, abbarbicata sul versante della montagna, Rocca Calascio. Il suo castello è stato dichiarato dal National Geographic come uno dei 15 più belli al mondo. Siamo a 1.450 metri di altitudine, è il castello il più alto d’Abruzzo, visibile da lontano. Il nome, in dialetto “calàsce”, dipende dalla sua posizione, significa “cala” (fianco scosceso del monte). Rocca Calascio è stata resa popolarissima dal cinema, perché qui hanno girato vari film, da Ladyhawke (1985), con Michelle Pfeiffer, a Il viaggio della sposa (1997) di Sergio Rubini, con Giovanna Mezzogiorno, e poi Il nome della rosa (1986), con Sean Connery. Se poi uno volesse proseguire sul sentiero che porta a Santo Stefano di Sessanio, trova la Chiesa di Santa Maria della Pietà, un tempietto eretto nel 1596 nel luogo in cui pare che siano stati decimati dei briganti. Otto chilometri a Sud-Ovest di Capestrano, invece, c’è Navelli. O meglio ancora, la Piana di Navelli. Questa, soprattutto, è stata la terra delle pecore, della lana ma anche dello zafferano.
Lo zafferano
Nel 1200 l’Aquila era commercialmente collegata con le città più importanti d’Europa: Milano, Venezia, Francoforte, Marsiglia, Vienna e persino Norimberga. Tutto merito del suo zafferano, famoso per la sua altissima qualità. Il Re Roberto D’Angiò (1317) all’inizio abolì le tasse sullo zafferano per favorirne il commercio. Ma poi si è pentito e le ha alzate a dismisura, perché da questa ricchezza si poteva guadagnare molto e per fortuna con le tasse è riuscito a fare cose buone, ad esempio l’ospedale nuovo e la Basilica di San Bernardino. Quindi, si può dire che L’Aquila è stata fatta… dallo zafferano. Ma che cosa ha di speciale lo zafferano dell’Aquila, e in particolare, della Piana di Navelli? Oggi lo Zafferano dell’Aquila ha ottenuto dal 2005 la denominazione DOP e si produce da disciplinare in 13 comuni intorno all’Altopiano di Navelli. I bulbi trovano nell’altopiano un terreno carsico drenante (che non trattiene l’acqua) e un clima rigido, ma secco, ideale per la sua coltivazione, che risente molto dei ristagni d’acqua e dell’eccessiva umidità. Ma com’è arrivato qui lo zafferano? E che storia ha?
Giallo oro
È una spezia antichissima, ne parlano già gli antichi Egizi. Viene dall’Asia Minore ed era anticamente coltivato soprattutto a Creta. Per i Greci e gli Egizi era sacro, per i Romani – più pragmatici – era un cosmetico prezioso. I ricchi lo mangiavano, per il resto era usato come colorante delle stoffe. Il nome viene da Crocus, citato da Omero, Virgilio, Ovidio, Plinio: secondo la leggenda, si innamorò della ninfa Smilace, che era l’amante di Ermes che, per vendicarsi, trasformò il giovane in un bulbo. Dopo la caduta dell’Impero Romano, in Italia non lo si trova più, ma torna dalle nostre parti grazie agli arabi, dalla Spagna, chiamato appunto safran dal persiano saf, uguale luce, per il suo colore dorato. Gli abruzzesi, per rivendicare il primato, dicono che a riportarlo in Italia fu l’Abate Santucci di Navelli, un frate inquisitore che lo avrebbe riportato dalla Spagna nel 1230. Lo zafferano era considerato una spezia, che aveva il color dell’oro e… valeva oro, sonante e contante. L’Italia diventa, dopo il 1200, il principale produttore del tempo. Lo zafferano serviva a tingere le stoffe e la lana (che da questa parte era l’altro prodotto tipico), era considerato la spezia sacra fin dall’antichità, ma in quest’epoca andava di moda usare il color oro, per dipingere le immagini dei santi, quindi valeva ancora di più. Ne segue che in quel tempo si ritiene che i cibi gialli siano sani per eccellenza e che lo zafferano, se impiegato nella cucina, disinfetti le pietanze. Lo zafferano era usato anche come profumo: profumava i cuscini e i letti dei nobili e le stanze dei castelli. Poi era nata la leggenda che lo zafferano fosse anche afrodisiaco. Richelieu lo mangiava per questo e i medici lo prescrivevano agli impotenti e si dava anche alle donne, perché gli venisse voglia…
Dal Re alle cooperative
Si narra di un commerciante tedesco che aveva osato tagliare lo zafferano di Navelli con altre qualità più scadenti, e per questo il 27 luglio 1444, venne bruciato vivo con il suo prodotto adulterato. Nel 1500 ci furono varie grandi famiglie di Norimberga che vennero ad abitare da queste parti, per coltivare e commerciare lo zafferano: i Tuder, Immoff, Wachter e Munzer. La ricchezza prodotta dallo zafferano portò anche all’apertura di una grande tipografia da parte di un commerciante, per cui il Re Ferrante I d’Aragona decretò il diritto alla città dell’Aquila di aprire un’università e questo successe in concomitanza con la posa della prima pietra della Basilica di San Bernardino. Il mausoleo, invece, fu finanziato da un signore, tal Jacopo Notar Nanni di Civitaretenga, grande commerciante di zafferano e di lana, perché era anche un grande allevatore di pecore. Nella prima metà del 1800 si producevano da queste parti 45 quintali di zafferano, su una superficie di 450 ettari. Ma nel 1900 c’è stata la crisi, per lo strozzinaggio dei commercianti nei confronti degli agricoltori. Negli ultimi anni alcuni amanti del prodotto (ad esempio Silvio Sarra di Civitaretenga, amante sia della pianta dello zafferano che della sua storia) hanno spinto i produttori a riprenderne in grande stile la coltura. Hanno cominciato a fare delle cooperative e lo zafferano si sta riprendendo, e con lui l’economia della zona. Ancora una volta: dal passato una bella indicazione per il futuro.
Patrizio