Australia east coast
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ROTTA SU SYDNEY
Adriatica è arrivata a Sydney dalla Nuova Zelanda, salpando da Aukland, in aprile, cioè in autunno. È stata una traversata durissima (io per fortuna ero tornato in Italia a montare le puntate, per cui me la sono risparmiata) e gli skipper Gigi e Irene hanno, a un certo punto, dovuto mettere la barca alla cappa (cioè gliel’hanno data su e si sono rintanati sottocoperta) perché l’Oceano Pacifico era davvero arrabbiato. Ci siamo ritrovati. appunto. A Sydney, dove sono tornato a bordo. La città mi è subito apparsa la sorellona maggiore di Aukland e la pronipote di Genova: un posto in cui davvero il mare è centrale. Tutto fa perno attorno alla baia. La gente si sposta in barca e tutti vivono la natura e l’acqua in particolare. Ho girato un po’, mi sono perso nei tanti parchi, nelle strade tutte nuove, nelle piazzette moderne sotto la rotaia del treno sopraelevato. Se a Roma non puoi perderti il Colosseo, qui non puoi ignorare l’Opera House, accanto al Sydney Harbour Bridge: con le sue “vele”, sul mare, è il simbolo della città. A me ha ricordato dei cappelli di monaci tibetani o, meglio, di suore felliniane. Non dimostra i suoi quasi 40 anni, sembra fatta ieri. Dentro l’edificio è tanto bello quanto strano, con i grandi salvagenti fonoassorbenti appesi al soffitto (che hanno aggiunto dopo, visto che all’inizio l’acustica faceva un po’ schifo). Ma oltre alla visita turistica, in una città come Sydney, c’è di più.
TUTTI FELICI E CONTENTI
Quando ci sono andato, all’Opera House stava facendo le prove l’allora direttore artistico del teatro, l’italiano Gianluigi Gelmetti, uno dei nostri grandi direttori d’orchestra, che dirigeva contemporaneamente l’Opera di Roma. Era entusiasta di Sydney e degli australiani: “Qui c’è uno spirito diverso, qui ho trovato un’orchestra di alto livello, formata soprattutto da gente entusiasta e disponibile all’innovazione. Se proponessi di suonare a testa in giù, lo farebbero con curiosità ed entusiasmo: amo l’Australia, è un luogo speciale. Del resto sono solo una ventina di milioni di abitanti in un territorio enorme, con una natura stupenda, sono ricchi, sono giovani…”. “Se chiedi a un abitante di Sydney se è felice, certamente ti risponderà di sì”, mi ha detto Luigi, italiano, che si è trasferito qui a far l’architetto, che aggiunge: “Qui sono positivi. E, del resto, la vita qui è più facile. Per esempio: una bella casa, nuova, in centro, di tre o quattro vani, è capace di costare 250 mila euro, cioè molto meno che da noi”. Quello della felicità e della Terra delle Grandi Opportunità era un tema che mi appassionava molto e, infatti, ci sarei tornato sopra. Ma andiamo con ordine…
LA CITTÀ DI PRISCILLA
Salgo su un pullman che mi promette un tour alternativo. La signorina che ci accompagna è molto affascinante, ma quando comincia a parlare ha qualche cosa di strano. Sono capitato sul Drag Queen Bus e la mia guida si chiama Claire de Lune. Introduce il viaggio con tutta una serie di avvisi riguardo ai salvagenti e alle uscite di sicurezza, come se fosse una hostess di un aereo, ma poi dice che dobbiamo indossare un casco. E il casco, in realtà, è una parrucca bionda. La prima tappa del tour si sofferma davanti all’Opera House, ma la spiegazione racconta tutt’altro: il numero di gravi incidenti sul lavoro che ha provocato la sua costruzione e la gran quantità di denaro che è costata, tanto che per pagarla hanno dovuto inventarsi una lotteria straordinaria. Dopo una sosta davanti a una famosa palestra gay, si passa davanti all’Art Gallery, la Galleria d’arte moderna, dove Claire ci fa notare la rozzezza degli australiani: sul frontone hanno scritto a lettere cubitali Michael Angelo, anziché Michelangelo. Poi, dopo aver cantato tutti assieme il ritornello di Priscilla, la regina del deserto (la canzone del famosissimo film musicale che ha vinto l’Oscar per i costumi nel 1995), il bus si ferma e tutti scendiamo: si va in un locale. Qui ci dovrebbe essere lo spettacolino finale. Come spesso succede il pubblico è coinvolto, in particolare viene tirato in ballo uno del pubblico… cioè io. Claire mi infila in un camerino, mi trucca e mi veste da drag queen. Scopro che somiglio molto a mia nonna (se avesse fatto la prostituta). E mi tocca cantare in play back sul palco una canzone di Mina…
LA SYDNEY DI ROSOLINO
A proposito di trasgressioni: il mattino dopo ho appuntamento al villaggio olimpico con Massimiliano Rosolino, il grande campione di nuoto che vive un po’ qui e un po’ in Italia, perché suo padre è napoletano e sua madre australiana. Come prima cosa vorrebbe farmi vedere le targhe dorate che testimoniano le sue tre medaglie olimpiche vinte qui nel Duemila. Ma non si può: la guardia non può autorizzarci a entrare. Chiediamo al suo superiore che, a sua volta, ci manda da altri due “manager”, ma nessuno può prendersi la “responsabilità”. Alla fine prevale l’istinto mediterraneo e decidiamo di scavalcare le transenne. Ma naturalmente ci beccano subito. Per un attimo temiamo il peggio, forse ci consegnano alla polizia. Alla fine, in via del tutto eccezionale, dopo un paio d’ore di tira e molla, ci permettono di andare a fare una ripresina, sotto la grande fontana. Io sono basito. Siamo al villaggio olimpico e Rosolino è una star internazionale, che in fondo chiedeva una cosa banalissima: in Italia l’avrebbero portato in braccio, qui la buro-gerachia è stata davvero incredibile. Massimiliano da una parte è furente, dall’altra mi racconta le contraddizioni locali. Lui è anche entusiasta dell’Australia: qui ha potuto allenarsi benissimo, qui lo sport è davvero praticato da tutti e sostenuto in ogni modo. Qui lui, nei periodo di allenamento, riesce a fare 300 vasche al giorno, cioè circa 15 chilometri, perché qui lo sport è davvero considerato un lavoro, pur restando una passione e un “diletto”. Poi, però, c’è questa mentalità rigidina che la sua parte napoletana non riesce ancora a digerire. Finiamo in piscina, a nuotare: Rosolino e… Rosolone. Massimiliano dice che il mio stile libero è passabile, la rana quasi accettabile, ma quando mi vede nuotare a delfino rischia di annegare dal ridere…
LA SYDNEY DEI MODENESI
Un giorno abbiamo invitato in barca, a pranzo, due famiglie di “emigrati”, che rappresentano la Comunità Emiliano-romagnola in Australia. L’accordo è che noi facciamo il brodo e loro portano i tortellini. Il risultato è un pasto sontuoso, che soprattutto Gigi e Irene (i due skipper che mancano dall’Italia da svariati mesi) apprezzano fino alla commozione. I Corradini sono arrivati qui da Sassuolo, più di 30 anni fa. Umberto racconta di quando finalmente è riuscito a farsi raggiungere dalla moglie Ileana e dai loro quattro figli: una scena uguale identica a quella di Alberto Sordi in Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata di Luigi Zampa del ‘71. Lei è arrivata in un luogo sperdutissimo, non riusciva a trovare il marito e avrebbe voluto tornare subito in Italia. Giuseppe Fin, invece, racconta di quando, appena arrivato, ha litigato con un tipo, che parlava un inglese che lui non capiva. Tra l’altro gli ha detto “Blady Dago!!”, un insulto che si dava ai nuovi arrivati. Mentre si accapigliavano, però, a uno dei due è sfuggita una parola di italiano, allora si sono riconosciuti e abbracciati: il suo antagonista era un siciliano. Entrambi non parlavano e non capivano l’inglese. Ora sia i Fin che i Corradini sono perfettamente integrati, e hanno fatto fortuna – come si dice – ma i primi anni sono stati durissimi: gli australiani anglosassoni fino a qualche decennio fa hanno discusso a lungo se gli italiani (soprattutto quelli del Sud) potevano essere considerato “bianchi” o “negri”. E a proposito di tortellini: uno degli strumenti attraverso i quali la comunità italiana si è accreditata e ha conquistato il rispetto che gode ora è stata la cucina: la nostra grande tradizione gastronomica ha conquistato tutti e ha fatto capire il nostro grande livello di “civiltà”.
LUNGO LA COSTA
Adriatica riprende il viaggio, usciamo dalla Baia di Sydney all’alba. La città dal mare è bellissima. Facciamo rotta verso nord, verso Brisbane. Siamo ai primi di maggio: autunno australe, fa freddino. Risaliamo il Golfo di Sydney e ci dirigiamo verso la Grande barriera corallina, la più lunga del mondo. Facciamo una tappa a Coffs Harbour. Sul molo incontriamo dei pescatori: faccia dura di gente che lavora. Ma Adriatica li incuriosisce e facciamo amicizia. Chiacchieriamo, ci mostrano la foto di un pesce di 300 kg, che hanno catturato qualche giorno prima. Ci raccontano che pescano tutti i giorni, srotolando reti enormi, fino a 50 km di cavo. Sono di origine scozzese, abituati al cattivo tempo, che qui è un problema vero: sul molo ci sono le croci alla memoria di quelli che non sono tornati. Qui lasciamo per un po’ la barca, aspettiamo Beatrice e suo marito e andiamo in macchina verso l’interno, verso il New South Wales, verso un luogo chiamato The Promised Land (la Terra Promessa) lungo la costa est dell’Australia. La natura sembra tosta ma molto “addomesticata”, il panorama è curatissimo e, appunto, molto anglosassone: casine e prati all’inglese, coi pensionati che giocano a bocce vestiti di bianco. Si va verso Byron Bay. I contrasti non mancano, a tutti i livelli. Per esempio: da una parte incontriamo deliziose auto d’epoca, ma ogni tanto, viceversa, ci imbattiamo in camion intercontinentali grandi come petroliere che, però, danno la precedenza ai pedoni. In alcuni paesini sembra Europa, anzi Italia: abbiamo bevuto persino un cappuccino buono…
SERGIO ON THE ROAD
A Byron Bay incontriamo Sergio, un vero “alternativo”, che sta qui da 16 anni. Che ci fai in Australia? “Ci vivo, vivo bene. Qui ti puoi reinventare ogni giorno. Sai fare un gelato? Sei un gelataio. Sai fare le scarpe? Fai il calzolaio. Nessuno ti chiede niente del tuo passato. Qui tutto è possibile: trovare terra, animali, piante. Qui non hai il fardello di una tradizione che ti impone le sue regole. Non ci sono pregiudizi e preconcetti. C’è rispetto per la natura. Qui c’è un vero multiculturalismo. Qui ce n’è per tutti. Il bello è quello che c’è, ma soprattutto quello che non c’è e non c’è mai stato: non c’è stata la guerra, la mafia”. Quanto serve qui per campare? “Il governo dà ai disoccupati 400 euro al mese, che rappresentano appunto il minimo per vivere”. Lungo la strada vediamo banchetti, pieni di frutta e verdura. Sergio (che ci precede sulla sua moto) si ferma: è il sistema degli Honesty Box. In pratica, prendiamo della verdura e della frutta, e lasciamo i soldi che riteniamo corrispondenti al giusto prezzo. Ci spiega Sergio: “Questa è una società di frontiera in cui la gente deve essere onesta per forza. Fidarsi è essenziale”. Ma dove stiamo andando? A un certo punto non facciamo che incontrare pulmini-camperizzati wolkswagen d’annata, tipici degli anni 60-70. Stiamo andando a Nimbin, un paesino che fino a un certo punto era famoso solto per la sua produzione di formaggi. Poi nel 1973 l’Associazione studenti universitari ha scelto questa amena località sconosciuta per organizzare il primo Aquarius Festival, che sarebbe diventato la festa fricchettona per eccellenza. Da allora Nimbin è diventato un posto famoso nel mondo, dove si sono riuniti musicisti, scrittori e intellettuali “alternativi”. L’agricoltura è diventata rigorosamente bio, il prezzo dei terreni e delle case è cresciuto, ma in cambio qui – a differenza che in tutto il resto del Nuovo Galles del Sud – è tollerato l’uso di cannabis.
CANAPA… AUSTRALIANA
Superata una fila lunghissima di pulmini tutti uguali, arriviamo al centro della festa. L’atmosfera è decisamente neo-Woodstock. Ci sono un sacco di gruppi di teatro di strada. La parola d’ordine sembra essere “revival”: sembra, cioè, di essere davvero tornati dentro gli anni 70. In un certo senso si può definire la Sagra della Canapa e della marijuana: come la Sagra della castagna o della polenta da noi, solo che il prodotto è diverso e lo stile anche. La musica è freak-oriented: bonghi, sonorità orientali, hip hop e musica etnica locale, prodotta col didgeridoo (il tubo di legno aborigeno che si suona, emettendo una pernacchia circolare, ottenuta inspirando e contemporaneamente espirando l’aria in un ciclo continuo). Ci sono tende apache e bancarelle degli elfi. Si vedono per strada aborigeni autoctoni mischiati assieme, per esempio, ad appartenenti a una setta mormone o a gruppi simili agli amish. Incontriamo anche una famiglia composta da tre generazioni di fricchettoni: la nonna è una reduce di Woodstock e ci tiene a dirlo. Ci sono anche gare sportive. Le “discipline” sono lancio del narghilè, campionato mondiale di rollaggio della canna con 24 cartine ecc. Io mi cimento nel lancio del narghilè ma non ottengo un buon piazzamento. Ma qual è il significato di tutto questo? Incontriamo il guru della manifestazione: George. È un signore ultrasessantenne, vestito con una tutina di canapa verde tutta intera, che lo fa assomigliare a Kermit, la rana dei Muppet. Mi dice che questa è prima di tutto una festa della Libertà, dedicata alla depenalizzazione della canapa. Premesso che lui è contro il consumo delle droghe e che anche la marijuana va consumata con molta moderazione, loro si battono perché torni in grande stile la coltivazione di questa fibra vegetale dalla quale si potrebbero ricavare ancora mille cose: dai tessuti (dice che Gesù si vestiva di canapa, perché la canapa è la fibra più antica) fino a materiali per l’edilizia. Lui, comunque, ribadisce che qui nessuno vuole istigare al consumo di canapa indiana. E in effetti – strano a dirsi – non si sente nell’aria quasi nessun profumo di spinello…
Patrizio