Brasile, Bolivia, Argentina

Ritorno in Sud America
Scritto da: Fabio Cerretani
brasile, bolivia, argentina
Partenza il: 06/08/2011
Ritorno il: 30/08/2011
Viaggiatori: 3
Spesa: 4000 €
Il viaggio si è svolto in Brasile, Argentina e Bolivia. L’itinerario è stato il seguente:

6 agosto: Volo British Airways (originariamente Iberia) da Roma (ore 8.15), arrivo a Rio de Janeiro (20,55) via Londra; acquistato a novembre 2010 sul sito della compagnia spagnola a € 3.000 circa per tre persone. Per pochi giorni, ma credo addirittura poche ore, ci è sfuggita l’offerta della British a € 2.550.

7, 8 e 9 agosto: Rio de Janeiro; tre giorni in visita alla città, e quattro notti all’Astoria Copacabana Palace, acquistato prepagato su Octopustravel nell’imminenza della partenza: a pochi isolati dalla spiaggia di Copacabana, buon rapporto qualità-prezzo, in una città dove il costo degli alberghi è a livelli italiani.

10 agosto: Volo Tam (€ 413 per tre persone) Rio de Janeiro – Foz do Iguassù; pomeriggio trascorso tra albergo e città a gustarci quello che, in confronto all’umidità di Rio, sembra fresco.

11 agosto: visita lato brasiliano delle cascate. Nel pomeriggio trasferimento a Puerto Iguassù in Argentina (“pacchetto” spostamenti acquistato, a un prezzo decisamente sostenibile, presso il nostro albergo – Charm Suites – a Foz).

12 agosto: visita al lato argentino delle cascate. Facciamo base all’Hotel Los Helechos, che come struttura non sarebbe male. Peccato solo che la camera che ci hanno assegnato sia molto, molto scarsa, e dalla pulizia piuttosto dubbia (anche rapportandola al contesto).

13 agosto: Volo Argentinas Aerolineas delle 8,40 da Puerto Iguassù a Salta (€ 458 x i tre passeggeri). Il volo avrebbe dovuto essere rapido e diretto, ma viene poi trasformato in un doppio volo con scalo e cambio d’aereo a Buenos Aires: aggiungendoci ritardi e contrattempi che sembrano inevitabili quando c’è di mezzo l’Aerolineas, ci porta via tutto il giorno. A Salta, presa in consegna della prima autovettura, una VW Gol che è solo una lontanissima parente della quasi omonima europea, e che risulterà anzianotta (68.000 chilometri intensamente “vissuti”), piuttosto scomoda e puzzolente di benzina. Ma i prezzi per il noleggio auto sono decisamente alti, la scelta limitata, per cui non possiamo fare altrimenti. Pernottamento all’Hotel “Boutique” (secondo l’audace definizione acriticamente avallata, se non coniata, da Booking.com) Casa La Teresita: da evitare!

14, 15 e 16 agosto: itinerario nella Quebrada de Humahuaca, con pernottamenti a Humahuaca (Hostal la Sonada, senza fronzoli, pulito) e a Purmamarca (Hotel Marques de Tojo (http://www.marquesdetojo.com.ar), di categoria superiore: ogni tanto ce ne concediamo uno, e forse avremmo dovuto farlo più spesso…). L’altitudine comincia a farsi sentire. La sera del sedici rientriamo a Salta e riconsegniamo l’auto, senza troppi rimpianti.

17 agosto: trasferimento da Salta a Tupiza, in Bolivia, con autobus di linea (Balut, http://www.balutsrl.com.ar/, € 110,00 “los tres” circa, acquistato on line con qualche difficoltà, anche se i biglietti devono essere poi materialmente ritirati presso la stazione di partenza, e questo sia all’andata che al ritorno) e taxi fornito dall’agenzia che ci ha venduto il “pacchetto” per i giorni successivi. Il servizio offerto dalla Balut è buono, per nulla stancante; forse avremmo potuto utilizzare questo mezzo anche per altri spostamenti (tipo Salta – Buenos Aires).

18, 19, 20 e 21 agosto: Tour lagune e salares (Salar di Uyuni, Laguna Colorata, Laguda Hedionda and so on). Ci siamo affidati alla Llipi Tour di Tupiza (), contattata via internet grazie alla collaborazione del traductor de Google (anche se poi in realtà la ragazza di William Philips parla inglese meglio di me…). Costo per tour riservato, con Toyota Land Cruiser messa non troppo male, autista e cochinera: € 800 circa – comprensivo di due notti a Tupiza e trasferimenti da e per Villazon, frontiera Argentina/Bolivia – da pagare cash in dollari al momento dell’arrivo a Tupiza. Da sottolineare che, in luogo dei terrificanti ostelli dell’altopiano boliviano, in due notti su tre noi abbiamo alloggiato negli Hotel Tayka (http://www.taykahoteles.com/es/index.php), e questo ha fatto decisamente aumentare i costi. Ci sarebbe stata anche la terza notte, ma per un inconveniente dovuto alle abbondanti nevicate dei giorni precedenti, è stato impossibile raggiungerlo, e abbiamo dovuto ripiegare sull’Hostal Quetena, dall’impronta piuttosto “basic”: mai denaro fu utilizzato più saggiamente di quello spesso per gli Hotel Tayka (anche se però nemmeno qui dovete aspettarvi standards elevati, ma solo una sicura sopravvivenza e, se siete fortunati, termosifoni accesi).

22 agosto: trasferimento Tupiza – Villazon in taxi (circa un’ora e mezza) e La Quiaca – Salta, ancora con Balut.

23 agosto: giornata di riposo a Salta, e ci voleva proprio. Nel tardo pomeriggio ritiriamo la nostra seconda VW Gol, meno vissuta delle precedente ma ugualmente poco entusiasmante. Pernottamenti all’Hotel San Francisco.

24 e 25 agosto: andata e ritorno a Cafayate, lungo la Quebrada de Las Conchas. A Cafayate alloggiamo all’Hotel Los Sauces (www.hotellossaucessa.com) e al ritorno a Salta, dopo aver riconsegnato al noleggiatore l’onesta Gol, ci concediamo le quattro stelle dell’Hotel Virrey (), tra l’altro di proprietà del figlio di emigranti friulani.

26 agosto: volo LAN (i più esosi: € 530,00 per tre persone!) per Buenos Aires, dove atterriamo alle 14,00 circa. L’albergo prenotato su Booking.com per tre notti sarebbe un altro “boutique”, il Don Telmo, collocato nel quartiere di San Telmo. Il quartiere in effetti è forse il più tipico di B.A. (anche quanto a sicurezza, non è peggio dei caruggi di Genova), solo che l’albergo è un’autentica fregatura: anche sorvolando sulle impressioni suscitate dall’aspetto dell’insieme sul piano estetico ed emotivo – il tassista non si capacitava che tre “ricchi” europei volessero andare a dormire proprio lì…- c’è da dire che non c’era nemmeno una doccia funzionante, e che al piano inferiore una band ha suonato rock duro almeno fino alle tre di notte!

27 e 28 agosto: visita di Buenos Aires, o di quello che si fa in tempo a vederne. Per soli dieci euro in più a notte, ci assicuriamo una suite al Gran Hotel Argentino (Avenida 9 de Julio, controviale Pistarini, quasi di fronte all’obelisco) per i rimanenti due pernottamenti, e non ci sentiamo minimamente in colpa per aver tradito la “tipicità” del Don Telmo a vantaggio di questo hotel smaccatamente commerciale: a fine viaggio ci voleva proprio! Morale: d’ora in avanti ci fideremo di meno delle descrizioni di booking.com.

29 agosto: Volo Iberia per Madrid e Roma alle 14,00. Non fidatevi del servizio navetta dell’hotel, la puntualità da quelle parti è ancora un concetto astratto perfino per noi italiani. Meglio fermare un taxi per strada.

Località principali

Rio de Janeiro: Lascio ad altri il compito di parlarne approfonditamente; nell’economia del nostro viaggio, Rio è stata solo una tappa aggiunta per fare contento nostro figlio. E pure, in un certo senso, per completare – anche se raramente le città extraeuropee ci entusiasmano – la rassegna delle città “scenografiche”, nel senso di megalopoli sorte in contesti naturali spettacolari e/o particolari (come Città del Capo, San Francisco, la stessa Miami e soprattutto quella che, per noi, rimane la più bella: Sydney).

Il termometro non ha mai superato i 25° (era inverno), ma l’umidità era elevata e la cappa di smog spesso impenetrabile, e mi immagino come possa essere il clima in estate. Dall’alto del Corcovado siamo riusciti solo a intravedere il famoso panorama.

Bella città, indubbiamente, specie le spiagge dove, a causa dei ritmi imposti dal jet-lag, andavamo nelle prime ore del mattino, quando non c’era nessuno. Per la stessa ragione non possiamo dire nulla di decisivo sulla sicurezza: noi alle otto di sera eravamo stanchi e insonnoliti, e al più tardi alle nove di sera eravamo già in albergo.

Cascate di Iguazù: Di solito si dice che il lato brasiliano sia migliore per la “veduta d’insieme”, mentre quello argentino ti porta quasi “dentro” le cascate… In un certo senso è vero. Però come dimenticare il gran finale sul lato brasiliano, dove si finisce a camminare esattamente tra il primo e il secondo salto? Meglio non fare classifiche, dunque, anche perché non è certo un problema visitarli entrambi in un paio di giorni, come abbiamo fatto noi.

Qualche pseudo-purista del viaggio d’avventura lamenta di essersi trovato preso, a Iguazù, in una sorta di ingranaggio quasi hollywoodiano (?), fatto di negozi di souvenir e trenini che ti portano nei punti più remoti e spettacolari (immagino si riferisse alla Garganta del Diablo, sponda argentina). Sarà che ormai sono vecchio e sedentario, ma per me non è stato affatto così: le cascate sono uno degli spettacoli naturali più belli che abbia visto (e ormai ne ho visti abbastanza…), e se non ci fossero passerelle e trenini, semplicemente la maggior parte di noi non potrebbe vederle affatto. Basta avere presente la conformazione delle cascate. Del resto l’impatto dell’apparato “hollywoodiano” non è superiore a quello di un qualsiasi parco nordamericano o australiano: a Bryce Canyon, a Jasper o a Uluru vi ha forse disturbato la presenza – del resto ben dissimulata – di negozi di souvenir e ristoranti? A me non molto. Sta al vero amante della natura riuscire a concentrarsi sullo spettacolo del paesaggio anziché sull’indotto commerciale e sui mezzi di trasporto ECOCOMPATIBILI utilizzati per fargli raggiungere gli angoli più lontani! E in ogni caso, personalmente non ho disdegnato di pranzare al ristorante del lato argentino e – orrore! – perfino di acquistare una maglietta-ricordo nel negozio di souvenir di quello brasiliano!

Salta: Ci siamo arrivati una volta (da Puerto Iguassù, ovvero da scenari tropicali), e tornati tre (dopo la Quebrada de Humahuaca, la Bolivia e la Quebrada di Cafayate). E’ stata la nostra base operativa per le spedizioni nei dintorni (“dintorni” inteso in senso lato, perché la Bolivia non è che fosse poi così vicina). Ci ha un po’ scoraggiati all’inizio, arrivando dall’aeroporto l’abbiamo trovata polverosa e disadorna. Ma poi l’abbiamo sempre più sentita come una sorta di casa nostra, al momento di farvi ritorno. In effetti non è una città spettacolare, però è piacevole, vivace, un misto di andino e argentino, e a poco a poco ti ci abitui al punto che alla fine quasi ti dispiace lasciarla. Nonostante sia grande come Firenze o Bologna (almeno come numero di abitanti), le sue dimensioni non disturbano, anche perché la parte che può interessare il turista è tutta racchiusa in quelle sei o sette vie che si intersecano a perpendicolo nel centro, dove trovi tutto quello che ti serve (Urquiza, Buenos Aires, Caseros, Belgrano…): supermercati, ristoranti abbordabilissimi, negozi di artigianato, venditori di spremute (dopo la Bolivia eravamo completamente disidratati…) e una libreria, una sola, poco fornita e gestita da una coppia di anziani bisbetici e permalosi.

Insomma: andarci appositamente no, ma nell’economia di un itinerario come il nostro, si è rivelata provvidenziale.

Quebrada de Humahuaca: Per la verità l’intenzione era quella di compiere un circuito ad anello, ovvero proseguire dopo Humahuaca, arrivare a Abra Pampa e poi deviare a sinistra, entrando nella mitica Ruta 40 per arrivare a Purmamarca dall’alto, invece che tornando indietro da Humahuaca lungo la stessa Ruta 9. Percorrere, insomma, il tratto di Puna in alta quota che la guida Routard definisce imperdibile. O, al limite, spingerci fino a Iruya. A farci cambiare idea sono state le raccomandazioni disinteressate degli argentini del posto, e la constatazione di quello che le cartine stradali autoctone intendono per “ruta consolidata” (ovvero non asfaltata, ma insomma, un buono sterrato). Per affrontare la strada per Iruya con qualche probabilità di successo almeno nello sforzo di restare tranquilli, ci sarebbe voluto un fuoristrada. Lo stesso dicasi per il tratto della Ruta 40.

Questo, almeno, per un europeo che per il resto dell’anno siede dietro una scrivania.

A Humahuaca – ma anche a Tilcara e Purmamarca – l’altitudine comincia a far sentire i suoi effetti, e l’Argentina non è quella del tango, dei gauchos e della pampa. La maggior parte delle vie cittadine non è lastricata, e al piede ben calzato del turista europeo un po’ ripugna affondare le Asiago e le Tecnica da escursione in quel soffice e ovattante strato di polvere. A consolarlo è la considerazione che, se piovesse, il fango sarebbe anche peggio.

Quebrada de Las Conchas (Cafayate): Anche qui l’intenzione era quella di completare un circuito ad anello, ovvero all’andata passare per Cachi e la Quebrada de Las Flechas, arrivando a Cafayate, e percorrere la Quebrada de Las Conchas il giorno seguente al ritorno. Le ragioni della rinuncia sono state in questo caso non solo le condizioni della strada, ma anche la lunghezza del percorso Parque los Cardones – Cachi – Angostura, che avrebbe richiesto due giorni (e secondo me anche un 4 x 4).

Forse a causa del persistente velo di caligine, forse perché venuta dopo gli spettacolari scenari boliviani, questa si è rivelata comunque la parte meno entusiasmante del viaggio. E’ vero, i panorami ricordano gli scenari già conosciuti nei parchi dello Utah. Però ce ne corre…

Lagune e salares in Bolivia: qui bisogna intendesi: il circuito Lagune e salares è DURO. Molto duro. Anche se fatto come l’abbiamo fatto noi, con gli Hotel Tayka per due notti su tre, e con un Land Cruiser con autista a nostra disposizione. Sono un 55enne indubbiamente poco allenato, per di più nato, cresciuto e attualmente residente al livello del mare o quasi, ma in ottime condizioni di salute; con me c’erano mia moglie di quarantanove anni (piemontese, nata e cresciuta quasi in montagna) e mio figlio di 13 anni, nuotatore agonista di buon livello e quindi in perfetta forma fisica: eppure, a chi più a chi meno, l’altitudine ci ha fatto stare male tutti. Ed è naturale: si arrivano a superare i 5.200 metri, è come osservare la cima del Monte Bianco dall’alto. La nausea mi ha impedito per quasi una settimana di mangiare, e ho dovuto limitarmi a bere minestre e spremute, e a inghiottire a forza qualche pezzo di pomodoro e qualche forchettata di riso bollito. Evito di parlare dei problemi intestinali causati da un simile regime alimentare. Del resto era già accaduto venticinque anni fa in Perù, e allora ero stato anche peggio.

I posti che si visitano, poi, sono tra i più inospitali della terra: nella zona delle lagune tira continuamente un vento ghiaccio, e grandi passeggiate non è che se ne possano fare, anche per via del respiro che viene meno (sembra di non riuscire a riempirsi i polmoni, e questo accadeva anche all’atleta di famiglia). Non c’è traccia di strade, a volte nemmeno di piste, meno che mai di indicazioni sulla direzione da seguire. L’unica volta che l’oscurità ci ha sorpresi per strada, perfino il nostro autista (che quel percorso lo fa una volta a settimana!) ha faticato a orientarsi. Mi sembra di avere letto su un resoconto pubblicato su Turisti per caso che c’è chi questo itinerario, o qualcosa di molto simile, lo ha compiuto in autonomia, marito e moglie, noleggiando un fuoristrada sul posto: be’, se così fosse, si sarebbero comportati semplicemente da irresponsabili. Non riesco a definirli in altro modo.

Tuttavia… Tuttavia è proprio questa in Bolivia la parte del viaggio che, insieme a Iguassù, è rimasta più viva. Per i panorami spettacolari, indubbiamente (anche se goduti a singhiozzo, a seconda delle condizioni fisiche del momento). Per quelle passeggiate di pochi minuti sulle rive della Laguna Hedionda o della Laguna Colorada a fotografare i flamengo rosa; o per l’attesa di un’alba che non verrà – non luminosa come avremmo voluto – nel Salar di Uyuni. Ma anche, e forse soprattutto, proprio per i disagi subiti e SUPERATI.

Consiglio quindi di… autoselezionarsi (come dicono quelli di Avventure nel Mondo), e se si decide per il sì, di affidarsi a una delle agenzie di Tupiza (per chi viene dall’Argentina), magari concedendosi qualche “lusso” come gli Hotel Tayka o un tour riservato, che aumenta i posti a disposizione sul fuoristrada: dove noi eravamo in tre, avrebbero dovuto starcene altrettanti, e questo non avrebbe certo aumentato il comfort.

Due parole sui pueblos e più in generale sui villaggi andini, che per me – e questo è un aspetto che ho messo definitivamente a fuoco nel corso di questo secondo viaggio sulle Ande – sono i luoghi abitati più tristi del mondo. Non per la povertà e spesso la miseria: ho visto altri luoghi simili, in Africa e in Asia. Ma in India, in Marocco o nello Swaziland, la gente sembra sempre occupata in qualcosa che prima o poi dovrà pur portare a un risultato. Qui, invece, nelle strade, intorno alle case e sui visi della gente, grava un’atmosfera apatica, rassegnata, che sa tanto di… definitiva irrecuperabilità della situazione. Voglio dire: l’India sta diventando una potenza economica; ci vorranno decenni, forse secoli, ma intanto la strada giusta è imboccata. Perfino per l’Africa il discorso sviluppo appare più verosimile, fosse solo per le risorse che i paesi ricchi ci stanno investendo (e sorvoliamo sul “come”).

Ma a questi luoghi e a queste persone sull’altopiano andino chi ci pensa? E, loro per primi, ci credono o sperano almeno un po’? O si accontentano di chiedere “propine”?

Buenos Aires: su Buenos Aires avevo soprattutto suggestioni letterarie: Soriano, Borges, Sabato, Cortazar, perfino Mempo Giardinelli… Infatti, quasi per confermare la giustezza di questo tipo di approccio, già arrivando in taxi dall’aeroporto cittadino, ho notato che sull’Avenida 9 de Julio – quella con l’obelisco, tanto per intenderci – spiccava una gigantografia di Ernesto Sabato, alta otto piani. Il bello è che lì per lì mi era sembrato Borges: è stato il tassista a correggermi! Tutto questo è ovviamente impensabile da noi, e non mi riferisco solo al tassista “letterato” che corregge il lettore incallito. Ma, anche e soprattutto, che uno scrittore venga celebrato in quel modo: e non solo perché da noi le gigantografie sui palazzi in ristrutturazione sono tutte appannaggio degli stilisti di moda, ma anche perché noi non ne abbiamo neanche uno di scrittore degno di una gigantografia di otto piani (chi ci vogliamo mettere, l’ultimo vincitore del Premio Strega? Umberto Eco che non ne azzecca una dai tempi de “Il nome della Rosa”? Moravia, che nessuno legge più? Dario Fo?).

Insomma, anche se indubbiamente Rio è più bella, Buenos Aires l’ho sentita più discreta, meno professionalmente vitaiola, più “mia”. E, alla lunga, non solo per via dei riferimenti letterari di cui è cosparsa. Perfino le donne, forse perché più simili alle europee, mi sono sembrate più belle. E’ che la città conserva ancora – soprattutto nel quartiere di San Telmo, ma anche altrove – quella sua atmosfera particolare, creata per e dagli abitanti e non, come talvolta capita di sospettare a Rio – a beneficio dei turisti. Non esistono, se non a La Boca, poli particolari di attrazione turistica al livello di quelli (Corcovado, Pan di Zucchero) della capitale carioca, e il visitatore è spinto a cercarsi da sé la città che più gli interessa. Noi, che in fondo avevamo solo due giorni e mezzo, siamo stati soprattutto a San Telmo (anche a causa di quella disavventura alberghiera con il quasi omonimo Don Telmo…), ma anche a Recoleta, nel nuovo “waterfront” di Puerto Madero (ecco dove sono finite le vecchie gru del porto di Genova!…), a Palermo viejo, a La Boca, finendo poi per tornare sempre – ache per questioni di alloggio – dalle parti dell’obelisco, ovvero nel “microcentro” alla nordamericana.

Girare in metropolitana è facilissimo ed economicissimo, ma – se proprio non ne potete più – anche un taxi non è che vi prosciughi le tasche. Lo stesso vale per il mangiare: la spesa media per saziarsi in tre era sui 15 – 20 euro, il più delle volte per una carne che qui ce la sogniamo. E vero che con quella materia prima magari i nostri cuochi saprebbero fare di meglio e di più vario, tuttavia già mi mancano le “milanesa” di Buenos Aires e di un po’ tutta l’Argentina (ma bisogna dire che io sono un amante della carne impanata). E con questo credo di aver bilanciato la spocchia letteraria con cui ho cominciato a parlare della Capital Federal.



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