Scatterlings of Africa

Il nostro 'grande viaggio' numero nove, il secondo con Federica e Davide. Una fantastica galoppata tra le imperdibili mete del Sudafrica
Scritto da: jackg2
scatterlings of africa
Partenza il: 20/08/2011
Ritorno il: 07/09/2011
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
Cape Town, la città più bella del mondo. Le Winelands: vini pregiati in Africa. Una strada, un giardino, ai bordi di due oceani – la Garden Route. Squali e balene. St Lucia – il parco è tutto attorno a te. Il fantastico regno di Swaziland. Kruger: il modo migliore di stanare i Big Five, in un parco grande quanto una nazione.

20/8

Asakusa! Il nostro grido di battaglia risuona ancora nelle orecchie mentre ci apprestiamo ad iniziare il secondo ‘grande’ viaggio insieme, la Fede e Davide, Domy ed io (Jack). Era il messaggio benaugurale che sottolineava le nostre avventure giapponesi, due anni fa. Ci riproviamo quest’anno in Sudafrica, con l’auspicio di vivere insieme un’altra bella esperienza. Partenza da casa nostra con l’auto di Davide, gloriosa Toyota Avensis station, in pieno agosto, incuranti dell’inverno australe. Ore 11 e 30 – lasciamo casa. Alle 15 e 45 partiamo da Venezia, per la prima volta con Emirates – cosa diavolo si mettono in testa quelle ragazze? – con Airbus – modello? Ogni volta cambia il tipo o il sottotipo… A3 qualche cosa. Ma tutti mezzi moderni, abbastanza comodi (sempre di voli in economy si tratta). Guardiamo con invidia i posti della business e superbusiness, e ci accomodiamo dove ci tocca (zona F – sfigati, sempre gli ultimi a salire a bordo). Si mangia benino. Ovviamente non per Domy, che perde appetito solo al pensiero di salire su un aereo. Il mio curry lamb è potabile, e lo sarà anche al ritorno. I pranzi ‘lattosio free’, precedentemente prenotati per la Fede, vengono consegnati sempre puntualmente… a me! Gli schermi funzionano bene, si possono vedere molti film, giocare, guardare i tanti display delle telecamere esterne, ed avere le informazioni sul volo. Perfino la temperatura è moderata e non rischiamo l’ibernazione. A Dubay, sosta obbligatoria. Il transfer dall’aereo al terminal è interminabile, dandoci un’idea delle dimensioni dell’aeroporto. Percorriamo i lunghi corridoi per il reimbarco, già assonnati, tra popoli di ogni razza, e donne sotto ogni sorta di velo. Ripartenza prevista alle 3 e 50.

21/8

Il viaggio ci sfinisce. 10 ore non sono uno scherzo, dopo quanto già accumulato. Arriviamo alle 11 e 20 a Cape Town. Alle 12 e 20 in Hotel – Gaden Court Eastern Boulevard. Ci riposiamo giusto un’ora, comprensiva di doccia, e ci dirigiamo subito verso il V&A Waterfront, il bel centro commerciale moderno costruito nei pressi del porto, meta preferita per acquisti e cene. Piove e fa freddo. Facciamo i biglietti per Robben Island per l’indomani, dopo uno spuntino al Mug & Bean locale. Per la cena, (o la merenda: sono le 6 e 30 pm), invece, scegliamo, tra i tanti, il Cape Town Fish Market. Il primo di una serie di successi gastronomici della nostra vacanza. Stiamo sul pesce (ovviamente). I bagni bisogna cercarseli – quelli pubblici – all’esterno del locale. Si devono percorrere cunicoli che mettono ansia, ma alla fine risulteranno sempre puliti e innocui. Stremati dalle oltre 24 ore di viaggio, torniamo verso la nostra minivan, minicompatta, Nissan Livina, parcheggiata a un km di distanza. Attiriamo le attenzioni di un personaggio locale, vistosamente alterato dall’alcol, che ci accompagna, decantandoci la bellezza di Cape Town, la più bella città del mondo a sentire lui (e Flora, mia cognata, che ci va ogni anno) – I travell’dd wo’dd becous’ I’m a seeeea man and havn’tt seen a betta one – Sea men, da questo momento saranno tutti i personaggi strani che incontreremo in questo colorato girovagare per l’Africa. Ed “I’m a seeea man, tarattattata’, sulle note di Soul Man di Sam & Dave (1967 – ripresa poi da James Brown, ma soprattutto dai Blues Brothers in un memorabile Saturday Night Live del 1978) diventa il tormentone del viaggio. Per fortuna un poliziotto viene in nostro soccorso e da lontano apostrofa il nostro, che cerca da noi un appoggio, per evitare la lavata di capo. Non trovandolo, si allontana, seguito dal minaccioso tutore della legge – non prima che questi sia da noi ringraziato – sea man sembrava innocuo, ma quien sabe? Siamo strangers in (cape) town. Alle 20 (!!! questi sono i nostri orari qui in SA) raggiungiamo l’Hotel, e ci addormentiamo di conseguenza.

22/8 Siamo in vacanza!

La visita alla Table Mountain è soggetta alle condizioni meteo che finora si sono rivelate peggiori di quanto previsto. Questa è la ragione per cui abbiamo ritenuto di ripiegare su Robben Island. Non abbiamo troppo tempo sull’orario schedulato, per cui ci diamo appuntamento alle 7 e 30 per la colazione. La quale si manifesta subito ottima ed abbondante, facendo salire le quotazioni del Garde Court, dove dormiremo per altre tre notti. Ci aggiriamo, prima timidi, poi sempre più spavaldi, tra tavolate di yogurt, frutta e marmellate (per adesso trascuriamo colazioni più ardite – stilo anglosassone, per intenderci). Fede si getta sulle crepe e sul succo d’acero, mentre Davide sembra tentato sia per il dolce che per il salato. Io e Domy tentiamo di ricreare la nostra colazione standard domestica. Sperimentiamo alle macchinette, mix di caffè sempre più improbabili. Tempo nuvoloso. Ma un pallido sole fa capolino all’orizzonte. E’ più tardi del previsto: ci fiondiamo al Waterfront, parcheggiando, stavolta, proprio sotto la Clock Tower. Arriviamo giusto in tempo per la partenza del nostro ferry e del relativo tour. Il mare è grosso. Niente di impressionante per il nostro bel catamarano, ma quanto basta per consigliarci di stare seduti sotto coperta. Per fortuna la tratta è di solo una ventina di minuti. I nostri stomaci ringraziano. Lungo il percorso gli audiovisivi ci anticipano la storia di Robben Island, della sua lunga vocazione di reclusione, a partire dai personaggi scomodi per la potenza commerciale olandese, fino alla storia recente, che ha scosso il mondo, di Mandela e degli altri reclusi politici che lottarono contro l’apartheid. Sbarcati, veniamo caricati su pullman che, un gruppo alla volta, ci portano a fare il giro dell’isola. Una guida ci racconta dei fatti storici salienti, alternando citazioni sulla presenza dell’ex capo di stato nella prigione (18 dei suoi 27 anni di reclusione), alle altre vicende di rilievo, che parlano di prigionia, naufragi e internamento di lebbrosi. Il ragazzo – di colore – riesce a trasmetterci la sua passione per le vicende che hanno modificato la storia del suo paese. Nel frattempo il sole si fa largo tra le nubi. La visita prosegue nella prigione: come sottolinea il nostro accompagnatore – siamo liberi di entrarvi. Di qua ci prende in consegna un nuovo accompagnatore – ex detenuto del campo. Ci racconta le privazioni e le ingiustizie a cui furono sottoposti questi uomini, reclusi per motivi politici. Seppure – sottolinea – se è questo che mi state chiedendo, nessuno venne torturato a morte. Anche all’interno discriminazioni tra bianchi, altre razze e neri (denominati bantù), per esempio sul tipo e sulla quantità del cibo pro capite.Torniamo ad affrontare il mare, per raggiungere il Waterfront. Pranzo al Mug & Bean. Poi, proseguiamo con il giro del centro consigliato dalla Lonely Planet di Federica e Davide. Passiamo dal Castello di Buona Speranza, al Municipio Nuovo a quello vecchio, ai Gardens ed i palazzi storici – compreso il Parlamento – che vi si affacciano. La città è piacevole, ma non ci impressiona in maniera particolare. Tempo sempre incerto. In una zona ricca di ristoranti tipici, in Long Street, recuperiamo il Mama Africa, consigliato sia da Flora che dalla nostra guida cartacea. La scelta si rivela azzeccata. Il posto e bello, offre buona musica ed ottimo cibo tipico. Esordiamo però con un drink che crea l’atmosfera: piña colada, tequila dropping, sowetan toilet (Davide sostiene che gli è piaciuto): nomi di questo tipo. Soprattutto un’ottima grigliata a base di coccodrillo, struzzo e varie specialità di antilope. Ritorniamo a casa, piacevolmente soddisfatti.

23/8

Stavolta piove proprio! Confermiamo la sveglia alle 7 e 30, per pianificare la giornata, in virtù delle condizioni del tempo. Dopo la confortante ricca colazione, decidiamo di dedicarci al tour del Capo di Buona Speranza, rimandando la Table, ancora a tempi migliori. La pioggia imperverserà per tutta la giornata, a volte inavvertibile, a goccioline, altre volte più intensa, obbligandoci a coprire capi e macchine fotografiche. La Livina grigio topo ci porta in direzione Sud, verso Simon’s Town. La strada si svolge tra l’Atlantico e False Bay, lungo la penisola. Ammiriamo le belle, lunghe spiagge bianche, mare spumoso dalle varie tonalità di blu, cielo drammaticamente coperto, che aggiunge fascino al panorama. I cartelli lungo la costa avvisano: attenzione alla presenza degli squali bianchi – non sottovalutate il pericolo. Uomo avvisato… A Simon è presente la famosa colonia di pinguini africani, che hanno deciso di stabilirsi a Boulder’s beach, nonostante la presenza umana. Col tempo, per non far svanire questo miracolo naturalistico, gli uomini hanno creato delle passerelle di legno che limitano l’impatto delle visite, con questi fantastici uccelli marini. Che fotografiamo in ogni modo possibile. Tra i massi (boulders) e il bush quasi subtropicale, il paesaggio rimanda alle suggestioni di La Digue (Seychelles). Davide si sbizzarrisce con la sua nuova telecamera dell’improbabile, mentre io e Fede siamo costretti a buffe contorsioni, per i primi piani alle bestiole. Attenzione: le assi sono scivolose – infatti – a turno – scivoliamo. Siamo imbacuccati da giacche e impermeabili, ma perseveriamo. Arriviamo all’ingresso della Riserva Naturale del Capo di Buona Speranza.Qui ci inventiamo buffe scuse, con gli addetti al passaggio, per ovviare al fatto che ci siamo dimenticati di prendere con noi le Wild Card, che includono l’ingresso a parecchi Parchi Nazionali. I ragazzi sono gentili e comprensivi, ma, comunque, ci fanno passare indenni, solo dopo gli accurati controlli incrociati con passaporti, carte di credito e data base registrazioni. Al Visitor Center ci muniamo di cartine dei sentieri. Con queste alla mano, ne percorriamo uno in lungo e in largo, alla ricerca della mitica segnalazione che indica il raggiungimento dello storico passaggio tra gli oceani. Abbiamo fatto la figura dei pivelli: non siamo al Capo di Buona Speranza, ma più in basso, all’estremità della penisola, nota come Cape Point, con i suoi due storici fari. Mettiamo in archivio questa comunque dovuta visita. Paesaggi (e relative foto) mozzafiato, con la pioggia che ci dà un po’ di tregua. Ma, ovviamente, vogliamo immortalarci nel mitico punto, all’ombra del quale le navi che volevano raggiungere l’Oriente dovevano passare, sperando nella clemenza di Nettuno, sempre impegnato ad agitare le acque dei due oceani a confronto. E’ la certificazione del raggiungimento della meta del nostro viaggio australe. Come è ovvio, foto di rito, con cartello in vista. La giornata finalmente si è aperta e il sole arricchisce un panorama, già fantastico. Tra gli scogli, funi di alghe, gommose, incredibilmente grosse e lunghe, si sono spiaggiate. Completiamo la visita con la scalata al sentiero che porta al lookout sul capo (e proseguirebbe, di nuovo, per Cape Point). Qui veniamo accolti da una moltitudine inquietante di marmotte africane. Ormai non sono più in molti ad ignorare che non si tratta di roditori, ma del parente più prossimo (esistente) dell’elefante, brucatore e più vicino alle antilopi, di quanto lo possa essere di toponi e castori. Possiede, come l’elefante, due piccole zanne, che sono incisivi (non canini) modificati. Stessa gestazione lunga, stessa presenza del latte tra le zampe anteriori (e non posteriori, come nella maggior parte dei mammiferi). E l’irace o, dal nome latino procavia, qui chiamata dassie (no, cari amici Sudafricani, non è neanche un tasso) dai locali. Quando non ne possiamo più di questa ormai ingombrante presenza, proseguiamo per le ultime foto della giornata, che ormai volge al tramonto (uau: che tramonto!). Al ritorno verso il Visitor Center, veniamo, per la prima volta in contatto con i babbuini. Sono molto più grossi e spavaldi di quelli scurissimi che avevamo conosciuto in Namibia. Da per tutto sono presenti avvisi che sensibilizzano al rispetto della normativa di non nutrire soprattutto questi animali, che rischiano di sviluppare un atteggiamento aggressivo e di dover essere abbattuti. La stazza non è indifferente.Non vengono disturbati troppo dalle auto, che li devono scansare. Ci dirigiamo al Waterfront, nostro conforto serale. Contiamo di provare un altro dei ristoranti consigliatoci da Flora – il Primi Piatti. Il tempo sembra volgere al bello, è ci fa ben sperare per l’indomani. Il porticciolo è uno spettacolo, alla luce degli ultimi sprazzi di sole che illuminano le nuvole residue. Sotto la guida del nostro maitre, il caucasico Sean, come tutti i camerieri di qui, di una cordialità, attenzione e scrupolosità sorprendenti, mangiamo ancora ottimamente (a parte il mio tonno, che risente di un condimento, per me troppo invasivo). La vacanza va avanti bene. Ci aspettiamo i fuochi d’artificio, che verranno. La stellata finale è l’ultimo segnale positivo prima della buona notte.

24/8

Adesso è tempo. Bisogna scalare la Table Mountain. Il sole sembra farsi largo tra le poche nuvole. Ma, il tempo di fare colazione, e il monte ci si presenta di nuovo ingombro. Decidiamo di ripiegare sul nostro altro obiettivo della giornata: il Kirstenbosch, il parco botanico di Cape Town, sperando che nel frattempo la cima si liberi. Lo affrontiamo dalla parte coltivata, mentre la giornata si apre con convinzione. Il parco è uno spettacolo di piante e fiori che spesso e volentieri ci costringono a transigere all’obiettivo di seguire un percorso stabilito. Le strelizie sono irresistibili, con i loro arancioni sfacciati che si stagliano sulle foglie sfumate di porpora, puntando la loro testa coronata, per mettere in mostra il loro pennacchio, che contrasta con la corolla violetta formata da tre petali (in questo caso, dicono, chiamati tepali). Passando boschi di ficus e riconoscibili alberelli di olivo selvatico, arriviamo alla sezione dedicata alle protee, che, una dopo l’altra, ci lasciano senza fiato e con il dito sempre sull’otturatore. Poi collinette con erba ben rasata, e anatre e oche che vi girano attorno, concimandole adeguatamente. Davide però scalpita. Nonostante la bellezza del luogo, sente il richiamo della montagna che si erge a meno di mezzo chilometro da noi. Quindi, appena si ritiene che la nostra visita al giardino, possa essere durata sufficientemente, si piega con decisione verso il Nursery Ravine, il fuoripista verso la Table Mountain, che la Lonely cita come impegnativo. E’ una bella salita, molto bene attrezzata con scalini, quando è il caso, che porta fino a 750 metri. Raggiungiamo la cima, in maglietta, sudati, ma dobbiamo velocemente ricoprirci per non rischiare un malanno. Io e Davide decidiamo di proseguire, e di percorrere gli ultimi dieci minuti di ascesa che ci portano al Castle Rock. Lo scaliamo con un ultimo gesto atletico, e ci godiamo la vista, documentando adeguatamente su pellicola. Ritorniamo a terra, ovvero rientriamo alle pendici del Kirsten, sempre più zuppi, visto che anche la discesa non è uno scherzo. Dobbiamo spogliarci di diversi strati e mettere il tutto ad asciugare, sugli zaini. Un occhio all’ora e ci accorgiamo che il tempo rimanente non è molto, per l’ascesa alla Table, dalla porta d’ingresso. Ci sforziamo di saltare le tentazioni, facendo uno strappo solo per la Mandela’s Gold, la splendida strelizia gialla, ribattezzata in onore del leader carismatico, e selezionata con un lavoro durato una ventina di anni. Mangiamo un dolce al volo ancora all’interno del parco (ma Davide è il primo a cimentarsi con il bobotie, un pasticcio locale fatto con carne, latte, pane e uova, unendo anche ingredienti dolci, come frutta e zucchero – con scarso successo, a suo giudizio). Eseguita la formalità del pranzo – in ritardo – ci dirigiamo, con una ventina di minuti di corsa in macchina, verso l’altro versante del monte. Imperdibile la rinnovata funicolare, con cabina girevole, dove però siamo stipati come sardine. Nonostante ciò ci godiamo il panorama. Le condizioni climatiche ormai sono favorevolissime. Dalla tavolata, in alto, la vista sulla città, sul mare e sulle montagne intorno è sublime. Su una delle terrazze di osservazione, una troupe Bollywoodiana, sta girando un ciak, con una coppia di bei ragazzi indiani come protagonisti, che ballano al tempo di una musica che diventa un altro tormentone della vacanza – money money money moooney, sembrano dire le parole del refrain, ammesso che si tratti di inglese. Lo rivedremo mai in qualche film o spot pubblicitario? Per ora le ricerche in rete non hanno dato frutto. Facciamo il giro della parte alta della tavola, perdendo lo sguardo anche nella direzione di dove eravamo solo poche ore fa, soli soletti – mentre qua c’è un bel po’ di gente che approfitta del sole. Approfitta appena in tempo. Le nuvole velocemente decidono di tornare ad occupare la cima. Ridiscendendo in città, ci fermiamo a prenotare al Miller’s Thumb, consiglio della Mondadori e di Tripadvisor. Il locale è carino. Lo lasciamo solo per fare, velocemente, gli ultimissimi acquisti al V&A Waterfront. Si mangerà a base di pesce e sarà ancora una buona scelta, nella nostra ultima uscita di Cape Town. Rientriamo con la preoccupazione delle valigie da preparare: domani lasciamo la città più bella del mondo.

25/8

E’ arrivato il momento dell’addio a Cape Town. Abbiamo fatto l’ultima abbondante, gradita colazione alle 8; pagato il Gaden Court (buoni voti) e caricate le valigie. Con il Garmin che abbiamo noleggiato, su mia insistenza, assieme all’auto, non è un problema uscire a colpo sicuro dalla città, ed imboccare la direzione corretta. Il programma prevede l’esplorazione delle Winelands di Stellenbosch e Franschhoek, con relativi assaggi dei vini locali. Poi Hermanus e Gansbaai, alla ricerca di balene e squali. La viticultura è presente in zona dal 1600, ma è negli ultimi decenni che i vini Sudafricani si sono imposti tra i migliori del mondo. I panorami sono molto belli e ricordano, a volte, la nostra Toscana. Le aziende hanno proprietà molto grandi e floride. Ci diamo il limite di non effettuare più di tre sessioni di assaggi.La prima cantina che ci viene incontro, ben evidente sulla strada principale, è la Spier, presente anche sulle nostre guide. Il posto è diventato centro commerciale polivalente – tiene in cattività, non si capisce bene a che titolo, anche animali selvatici, come dei bellissimi ghepardi, che paghiamo per vedere. Davide è contrariato. Il tutto gli dà un po’ il senso di baraccone da circo, e non gli si può dare completamente torto. Ci consegniamo all’assaggio. Tutti tranne Domy, che si esime volentieri, rimanendo a disposizione per la guida dell’auto. Io e Federica apprezziamo molto. Lei particolarmente i bianchi, io punto sui rossi. Tra tutti lo Shiraz (uno dei miei vini preferiti) ed il Pinotage Nero (vitigno autoctono, per quello che so, coltivato solo qui). Fede dà il massimo dei voti allo Chenin riserva (è piaciuto anche a me, quello standard). Davide è l’unico che si dà alle bollicine. Si è fatto un po’ tardi. Visitiamo la bella cittadina di Stellenbosch (la seconda più vecchia del Sudafrica) e decidiamo di puntare ad una seconda cantina per il pranzo (senza assaggi: una sessione è stata più che sufficiente, se vogliamo arrivare in piedi a destinazione). La Lanzerac ci intimidisce con il suo parco perfetto e le sale lussuose. Scappiamo prima di essere accalappiati da qualche cameriere in livrea. Ripieghiamo al pur molto bello Zorgvliet. La visita alle cantine, sembra essere sempre una cosa complicata. Ma a noi ce piace magnare e bere. Ed il ristorante – fortunatamente – è ancora aperto. La gentilezza dei camerieri, ancora maggiore che a Cape Town, ci turba. Naturalmente innaffiamo il buon pasto con l’ottimo vino locale (Chenin e Shiraz, per non sbagliare). Ho ceduto definitivamente, per oggi, la guida a Domy, come conviene. Controlli stradali ne abbiamo visto sempre e da per tutto. Sappiamo che fermano spesso e volentieri anche per aver superato di poco il limite di velocità. Quindi, meglio non rischiare. Dopo un rapido giro a Franschhoek, minuscola città di cui poco rimane da dire, se non la presenza di un vistoso monumento agli ugonotti e alla libertà religiosa, proseguiamo con decisione verso Gansbaai, saltando a piè pari la sosta ad Hermanus. Succede che il tour operator che ci doveva far assaggiare (a)gli squali per l’indomani, telefona, cancellando la crociera. Speriamo che i proprietari del B&B riescano ad organizzarci qualcosa, all’ultimo momento. All’arrivo siamo piacevolmente colpiti dall’amenità del luogo. Si tratta di una bella villetta con vetrate, in riva al mare – il Franskraal. I proprietari, Amanda ed Helmie sono gentilissimi e, invitandoci a bere, ci organizzano la gita per l’indomani, tramite la Marine Dynamics Tours. La crociera è pianificata, tempo permettendo. Ci danno poi la dritta di non tornare ad Hermanus, nel pomeriggio, per vedere le balene, che sono visibili anche dalla spiaggia di Plaat, all’interno di un parco, a pochi km di distanza da Gansbaai. Per di più ci indirizzano e prenotano un tavolo al Benguela, dal loro amico Jonathan. Apprezziamo molto sia la carne che il pesce, e le piacevoli chiacchierate con il gentilissimo proprietario. Domani sarà una giornata mooolto impegnativa. Dopo le operazioni giornaliere di rito, foto sistemazione, diario, posta, skype, stacchiamo la spina. Al fresco, imposto dalla stanza.

26/8

Il tempo è incerto. Non piove, ma il mare, fuori dalla porta muggisce, inquieto. Partiremo? L’operatore si mette in contatto con Amanda: si fa! Helmie ci guida all’imbarcadero. In una struttura ricettiva nei pressi, ci si registra, si fa colazione e si aspetta il briefing. Lo scopo è di illustrarci la presenza del grosso squalo bianco nelle acque di Gansbaai. E’ da dire che si tratta, oltre che del più grande pesce predatore esistente, di una specie in particolare rischio di estinzione. In effetti l’organizzazione che si occupa di avvicinare questi animali al grande pubblico, lo motiva con il supporto di programmi a loro salvaguardia. Nella zona i pescecani arrivano, attratti dalla presenza di grandi colonie di otarie, di cui sono ghiotti. Finite slide e filmati, con l’anatema di rito al film di Spielberg, che grave danno ha recato all’immagine di questo tenero gigante, si passa alle avvertenze. Non esporre niente (macchine fotografiche, attrezzi, arti) oltre le sbarre, e non toccare gli squali. Nessuno sembra averne l’intenzione. Prima di salire a bordo, ci imbottiscono ancora di salvagenti e mantelle termiche. Siamo in un bel numero e ci chiediamo come sarà possibile cambiarsi tutti contemporaneamente a bordo. Le difficoltà aumentano subito: appena usciti fuori dal porticciolo, le condizioni del mare si rivelano nella loro impetuosa crudezza. Non sarà una passeggiata. Ben presto Domy comunica la sua rinuncia all’entrata in acqua. La Fede la segue poco dopo. Si intuisce che un malessere latente comincia a circolare per l’imbarcazione. Si cercano i volontari per la prima gabbia. Davide si spoglia velocemente e scalpita, in muta, davanti alla scaletta.Io decido di seguirlo. Non voglio perdere l’esperienza, ma soprattutto spero che in acqua la nausea si senta di meno. Da poco dopo la partenza, i marinai hanno cominciato a riversare in mare litri di nauseabondo chumming (olio estratto dai pesci, ci spiegano). Dicono che sia l’ideale come richiamo, ma la mia idea è che buttare direttamente sangue o prede ferite, farebbe troppa impressione. Comunque ne spargono a barili. Alla fine i bestioni, che ne sentono l’odore a decine di chilometri di distanza, arrivano. Quando il primo, stanato anche dalle aste, che agitano tronchi di pescioni sul pelo dell’acqua, si mostra ai turisti, un oooh di benvenuto, lo accoglie sulla ribalta.Per un attimo ci si dimentica del mal di mare. Davide è il primo a balzare dentro la gabbia, con la sua telecamera impermeabile, dopo aver dato le raccomandazioni del caso a Federica, che riprende da fuori. Seguono altri cinque, e poi io che chiudo il gruppo. Siamo stipati, ovviamente chiusi anche dall’alto. C’è lo spazio per tenere la testa fuori dall’acqua. In teoria ci si cala sotto, in apnea, solo quando i marinai ci avvertono della presenza del bestione. Non occorre, per fortuna, tenersi agganciati alle sbarre esterne, per abbassarsi. Ci sono degli appigli che non sporgono in fuori, utilizzabili allo scopo. Invece il problema sono le onde, che ci sbattono di qua e di là. Che ti sommergono, quando vorresti riemergere per prendere fiato. Ogni tanto la belva ci compare davanti (la visibilità è intorno ai 5/10 metri) ed è veramente imponente. Assisto a tre o quatto di questi passaggi, nell’arco di una ventina di minuti. Poi sopraggiunge l’ordine di cambio. Lo accogliamo poco volentieri, perché immaginiamo cosa ci aspetti su. Infatti da questo momento sarò preda completa della nausea, ed ogni piccolo movimento mi procurerà un malessere memorabile. Domy vomita. Come molti altri. All’uscita dalla gabbia, c’è l’intervista per il film della giornata. I malcapitati riescono appena ad affermare che ‘è stato bellissimo’, prima di correre a rigettare sul retro della barca che rolla e beccheggia. Tra i pochi incolumi, Davide, si cimenta in un nuovo giro. Federica cerca di non pensare al suo malessere, e lo immortala nuovamente. La metà dei partecipanti da forfait, ma lo spettacolo deve continuare e durare quanto previsto da contratto (nonostante le preghiere mute dei sofferenti). Passiamo con occhi vitrei lo spettacolo della colonia dei leoni marini. Interesse zero, forse solo un po’ di invidia, visto che loro possono scegliere di stare sdraiati sulla terra ferma. E per favore: non chiamatele foche (seals). C’è la stessa differenza che potrebbe passare tra un cane ed un gatto – non sono nemmeno parenti. Hanno orecchie, e pinne atte a camminare, all’occorrenza. Come Dio vuole, ripercorriamo la strada in senso inverso e raggiungiamo il porto. Sono le una e trenta di venerdì 26 agosto! Al meeting point, ci riprendiamo lentamente dagli effetti della nausea (e del freddo). Di nuovo in auto, passiamo a salutare i nostri ospitanti del Franskraal, e a riprendere i nostri bagagli, lasciati in deposito. Amanda ci indica la strada per le balene. Il Plaat di De Kelders. Raggiungiamo il bel parco: spiaggia immensa; sotto: scogliere drammatiche. Il mare è sempre agitato. Qualche coda, in lontananza, saluta il nostro arrivederci a Gansbaai. Abbastanza da poter dire di averle viste, ma troppo lontane per una foto decente. Basta mare. Ripartiamo per l’interno: destinazione Swellendam, Gaikou Lodge. Dopo un paio di ore abbondanti, e qualche tentativo andato a vuoto, ci ritroviamo in una spettacolare tenuta; vasta e protetta da un alto muro. L’appartamento, difficile chiamarlo stanza, è veramente molto grande e bello. Comprende angolo cottura, tv lcd, lettore dvd, antibagno, vasca a vista, tra l’antibagno e la camera. Bella illuminazione. Perfino film interessanti (avessimo voglia di vederli). Unica avvertenza: tenere fuori di casa i babbuini. Ci trasciniamo fuori per mangiare. Dopo un po’ di indecisione, Davide ispeziona per noi la Powell House. Ottima scelta.

27/8

Un’altra giornata impegnativa alle porte. Ancora spostamenti onerosi. Intanto facciamo conoscenza con Swellendam, di giorno. Sotto un bel sole mattutino, il paesaggio alpino nel quale è immerso il magnifico lodge, ci lascia a bocca aperta. A fronte di poche unità abitative, prati verdi e laghetti punteggiano la proprietà incantata. La colazione è altrettanto munifica. Fioccheranno voti altissimi per il Gaikou. Io e Davide decidiamo di ordinare l’English breakfast, per una volta. In paese, ci fermiamo in banca a cambiare un po’ di soldi e a scattare qualche foto alla notevole cattedrale candida della chiesa protestante riformata olandese. Siamo ben sempre nella ‘terza’ città sudafricana, in ordine di fondazione. La distanza da percorrere è molta. Ci si mette anche un’interruzione (segnalata troppo tardi) che allungherà il percorso totale di un altro paio d’ore. Così quando arriviamo alla Cango Caves è piuttosto tardi. E’ possibile comunque ancora fare un giro standard delle grotte, oppure l’Adventure tour. L’Adventure dura il doppio e prevede il passaggio attraverso posti chiamati, il camino del diavolo, la bara, il passo del leopardo, lo strizzamento dell’amore. Siamo tentati, ma… no, grazie. Domy vota contro, e gli altri non se la sentono di ribattere. In fondo siamo da poco sopravvissuti agli squali! Ci mettiamo meno dell’ora prevista a fare il tour standard. Le sale che la guida, simpatica ragazza di colore, ci fa vedere, sono spettacolari ed alcune, immense. In disposizione scenografica entusiasmante, madre natura ha posizionato una serie di composizioni calcaree, una più impressionante dell’altra. La guida ci fa ammirare le sale, giocando con diverse composizioni luminose. Dal buio assoluto, per darci l’idea di cosa devono aver trovato qui i primissimi esploratori, calatisi attraverso varchi strettissimi nel nulla; a luci che esaltano i chiaro scuri delle colonne, delle piogge di materiale, congelate per i secoli, a nicchie che rivelano particolari diversi, a seconda dei colori dei fari che le colpiscono. Con il tempo contato (le strutture qua la sera chiudono presto e puntuali) ci dirigiamo verso la fattoria di struzzi più vicina, la Cango Ostrich Farm. Si vede che i ragazzi addetti alle visite sono in fase di chiusura. Si prestano, però, ad un ultimo tour fuori orario. L’esperienza è appena simpatica. Ci vengono fornite un po’ di informazioni scientifiche sugli animali e sulla storia degli allevamenti in questa zona, nel periodo in cui le piume di questi uccelli erano presenti nei capi di moda delle donne di tutto il mondo, durante il diciannovesimo secolo. Tutto interessante, ma gli incontri con gli uccelli sono limitati a qualche scherzo, con pochi esemplari. Salta la prevista cavalcata degli struzzi, a causa del terreno umido. E scatta il secondo giudizio ‘insufficiente’, sull’esperienza in toto (il primo era stato dato agli squali). Di nuovo sulla strada, percorriamo le due ore e mezza che ci separano da Knysna. Arriviamo col buio pieno, ma grazie al GPS, troviamo il Blue Oyster al primo colpo, sulla cima di un a zona residenziale in collina, che guarda uno specchio d’acqua (lago o mare? Non abbiamo ancora deciso!). La direttrice del B&B ci indirizza al Waterfront, per trovare qualcosa da mangiare. Il centro commerciale comprende diverse strutture ancora aperte. Scegliamo il 34° South, un locale a metà strada tra l’emporio, il fast food, il sushi bar, il negozio di alimentari. Il posto è sicuramente molto colorato e il menu accattivante. I piatti però non soddisferanno le aspettative, soprattutto mie e di Domy – altra insufficienza (la prima per un pasto).

Fa freschetto: anche e soprattutto in camera. Io e Federica, mentre aspettiamo che i rispettivi consorti si doccino, abbiamo la stessa idea. Entrambi accendiamo le stufette elettriche a disposizione in camera. Salta la luce, lasciandoci tutti un po’ sconcertati (i proprietari non abitano nella struttura e sono già andati via), soprattutto chi è ancora insaponato. Crisi. Ma che viene risolta grazie ad una telefonata, in un quarto d’ora di tempo.

28/8

Al risveglio da una notte freddina, abbiamo la sorpresa di trovarci a sovrastare una bellissima baia, quasi una laguna, con tanto di isoletta centrale, abitata. L’acqua passa da una stretta apertura. In questo momento la marea è rientrante. Il panorama ci riporta alla mente quello visibile la mattina da Upper Solva, in Pembrokeshire. I gestori – c’è bisogno di dirlo – sono oltremodo gentili, e durante la colazione e alla partenza ci forniscono un po’ di suggerimenti. Tra cui quello di non mancare il panorama di The Heads, sito da cui si domina l’ingresso della baia. Sulla scogliera veniamo contattati da una famiglia ispano/sudafricana. Si vede che hanno voglia di scambiare quattro chiacchiere in lingua neolatina. In un gioco di rimandi, ci obbligano a non perdere il sito di Robberg, ovvero la penisola di Cape Seal, in direzione Tsitsikamma. Si tratta di un parco che propone panorami molto belli, e una serie di percorsi a piedi che percorrono tutto il capo. A malincuore ci accontentiamo di un’occhiata sommaria (e di una perlustrazione visiva – caso mai qualche balena volesse farsi viva..). Non abbiamo moltissimo tempo, e la nostra meta principale è proprio lo Tsitsikamma NP. Il sito non è segnalato benissimo. Manca la presenza di un vero Visitor Center. I famosi ponti sospesi da visitare sono pericolanti e perciò semichiusi. Nonostante ciò riusciamo a fare del trekking in un bel panorama tra la folta vegetazione e il mare. Dai rami che ci sovrastano, spesso scendono elastiche liane. In mezzo al bush, tra i tanti fiori, numerosi gruppi di calle giganti. Un gruppetto di ragazzi ci ferma. Scopriamo di essere stati lo scorso anno, ospiti con loro, in Namibia, al Weltevrede. Una di loro ci ha riconosciuti. Loro stanno terminando il giro, iniziato con il Kalahari, mentre noi siamo ancora nella fase montante, dell’ascesa al Kruger. Ci diamo appuntamento al prossimo viaggio. Ma senza forzare il destino: nessuno comunica la prossima propria meta. Saliamo in auto per i 200 km che mancano al prossimo B&B, il Gerald’s gift, ad Addo. Attraversiamo una strana zona, in pieno buio, fatta di periferie (le sconvolgenti townships) e di strade solitarie, in mezzo al deserto, rese ancora più impressionanti dal fatto che ormai il buio è completo. Gli ultimi 50 km sono tutti così, di strada dritta ma un po’ sobbalzante. Per fortuna l’accomodation sembra bella. La padrona è cordiale e gentile. Ci mostra le stanze, che cominciano ad assomigliare a quelle caratteristiche a cui eravamo abituati in Namibia. Belle e grandi, doccia a vista, dietro il letto (fino a che non mettono anche il water…). Un po’ troppi ragni, per il gusto di Federica. Condizionatori con pompe di calore (per fortuna). Non ci sono molte possibilità di mangiare ad Addo. Siamo fortunati se Susan sa indicarcene uno, vicino. L’Africanos. Il posto è un pub all’interno di un residence. Pochi avventori, assolutamente locali, stanno passando la domenica sera guardando insieme la tv. La cucina è un po’ scadente, nonostante la buona volontà di Michael, il nostro allegro cameriere. Quando ci porta i coltelli da carne, ci consiglia di catturarci la preda. Forse non è una cattiva idea… Torniamo al lodge, al buio completo, attenti a non disturbare Jack, il cagnolino di famiglia.

29/8

La prima parte del nostro viaggio si chiude oggi. Stasera con la partenza da Port Elizabeth per Durban, da dove esploreremo la zona orientale del Sud Africa. Ci si ritrova presto, alle 7 e 30, per ovviare alle continue rincorse degli ultimi giorni. Il giardino del lodge è bellissimo. Jack è un bell’alano blu, che è contento di fare la nostra conoscenza. Così come il piccolo George, un focato di pochi mesi, ma attivissimo. Nella bella sala con mobili in stile, ci viene fornita una superba colazione. Nel frattempo un giardiniere ci sta lavando l’auto alla perfezione (dobbiamo solo percorrere una pista da elefanti e consegnarla stasera!!!). Col vento in poppa arriviamo all’Addo National Park alle 9, giusto in tempo per il game drive del mattino, di due ore. L’Addo è un parco istituito per proteggere un gruppo di elefanti che, allontanati da ogni altro sito per l’incontrastabile avanzata di agricoltori, cacciatori, insomma dalla colonizzazione bianca, sono arrivati ad essere costretti in questa zona. Per evitare la loro definitiva sparizione, il luogo è stato dichiarato parco nazionale nel 1921, e da allora ha continuato ad espandersi, ed aumentare il numero dei suoi ospiti. Non solo elefanti. Nella jeep siamo solo noi, con la nostra guida di oggi, CK. Il quale, come è d’uso, mette le mani avanti, non promettendoci niente. Invece molto presto ci fa ammirare un terzetto di leoni (due maschi ed una femmina) che riposano vicino allo steccato elettrificato. Nel giro avvistiamo ancora red hartebeest, zebre, uno struzzo, molti facoceri, un paio di oche egiziane, tantissimi kudu. Ma mancano gli elefanti, ragione d’essere del parco e suo simbolo. Quando ormai ci stiamo rassegnando a concludere il giro senza avvistamenti, dietro una curva, una famigliola di pachidermi, due adulti ed un piccolo, ci fa gridare e mettere mano alle macchine fotografiche. Proseguiamo con l’escursione self-drive. Saremo più fortunati. Un numero imprecisato di elefanti, ancora esemplari di tutti gli animali già visti con la guida, tranne i leoni. In più uno sciacallo, un suricato, diversi aironi dalla testa nera, un cercopiteco e molte tartarughe leopardo. E tantissimi scarabei stercorari. La specie qui presente – circellium bacchus – è protetta, perché presente in pochissime aree dell’Africa. Abbiamo imparato che i maschi indicano i migliori (!!!) mucchi di escrementi alle femmine, che fanno la palla e la fanno rotolare fino al nido. A questo punto, vi deporranno le uova, e il tutto servirà da cibo per le larve. Tutto vero, ma vedere questi scarafaggi che spingono a fatica la loro palla… è un po’ la metafora della vita. Il massimo è quando ne troviamo uno che rotola in discesa, assieme alla palla, che ha preso l’abbrivio…. Chiudiamo il giro soddisfatti, anche se solo con due dei Big Five, all’attivo.

Ci attende il volo per Durban. Mangiamo prima di rimetterci in viaggio. In poco tempo siamo all’aeroporto di PE, dove scopriamo di essere in una decina ad attendere l’ultimo volo, prima della chiusura serale. Stiamo larghi a bordo del compatto jet della SA Airlines Express. A Durban tra espletamento di operazioni di sbarco e recupero della nostra nuova auto, passa un bel po’ di tempo. Alla fine tento di capire qualcosa del cruscotto futuristico della Scenic nuovo modello consegnataci. Un bel salto dalla Livina precedente (che non ha ottenuto la sufficienza per un pelo). Con qualche piccola incertezza raggiungiamo il vicino De Charmoy Estate! Siamo un po’ provati, abbiamo cenato con snack e – chi ce l’ha fatta – con la pasta fredda dell’aereo. Entriamo in una tenuta, nuovamente tra alti muri e fili spinati. Le rane gracidano imperiosamente in giardino. Ad accompagnarci alle nostre camere è una guardia armata. Buona notte?

30/8

La colazione – in compagnia delle proprietarie, che sorvegliano lo staff, in vestaglia – ci riconcilia con il mondo ed anche con il De Charmoy. Non è colpa loro se siamo tornati in città. Siamo però ben felici di lasciarla per il wilderness. Riusciamo a percorrere i 250 km che ci separano da St Lucia, arrivando che non è ancora ora di pranzo. Non trovando i proprietari della nostra base serale, l’Afrikhaya, torniamo al fiume che abbiamo appena attraversato, verso il pontile dal quale partono le escursioni in battello. Bisogna immaginare che attorno al villaggio di Santa Lucia, ha sede una vasta zona di interesse ecologico mondiale. A St Lucia stessa, si ha l’impressione di essere dentro un parco, in cui casualmente una piccola zona sia diventata un centro abitato. Non percorriamo molti metri, quando sul fiume si cominciano a vedere ippopotami e coccodrilli. I primi nuotano a pelo d’acqua e sono sicuramente più attivi dei secondi, normalmente osservabili, quando spiaggiati sulle rive. Il battello ha un’aria da ‘pensionati’ però ci consente di avere un buon approccio con l’ecosistema che ci circonda. Vediamo parecchi uccelli, tra cui un paio di aquile. Sulla riva solo lo sguardo attento dello speaker, riesce a rilevare un lucertolone gigante, che si chiama water monitor lizard: lunghezza un metro. Poi lo rileviamo e fotografiamo anche noi. I più fortunati riescono anche a scorgere le sagome di un paio di squali – bull sharks – che non di rado risalgono il fiume, dal mare. L’incontro è tutt’altro che infrequente, anche se lascia incredula la maggioranza dei turisti, a cui sono sfuggiti. Proviamo a fare un secondo tentativo all’Afrikhaya.Questa volta Joyce e Marcel sono in casa. Joyce si occupa di mostrarci le stanze e di intrattenerci con tutto quello che dobbiamo sapere sulla città e sui parchi. Ci rendiamo conto di un paio di cose: una è che sarebbe probabilmente stato meglio dedicare più tempo a questa zona, l’altra è che i nostri ospiti ci stanno gentilmente invitando a comprare qualche tour organizzato. Decidiamo invece di muoverci autonomamente. La sera continueremo l’esplorazione della zona contigua al paese. La mattina seguente, invece, cercheremo di visitare al meglio l’iSimangaliso, prima di spostarci nuovamente. L’estuario sul fiume, la bella spiaggia, gli animali, anche pericolosi, visibili da per tutto. Tutto questo si raggiunge comodamente a piedi. Bisogna ovviamente fare un po’ d’attenzione.Joyce ci mette in guardia dagli ippopotami. Suggerisce, anche in centro, di camminare in mezzo alla strada. Inoltre, ci fa capire che non è raro imbattersi in un leopardo. Non sappiamo se crederci ma ci speriamo. Quindi continuiamo la perlustrazione fino al crepuscolo, senza esito. Chiudiamo la serata al Braza, un locale di cucina in stile sedicente portoghese, nel minuscolo centro. Cena discreta, che concludiamo, come sta cominciando a diventare un’abitudine, con l’Amarula, il liquore cremoso locale, a base del frutto africano noto per ubriacare gli animali, se in fermentazione. Si attesta sulla sufficienza anche il B&B. Alla fine riesco a vedere quello che temevo e che non avrei mai voluto trovare in una stanza – il water in camera (sono esagerato – in realtà è seminascosto dalla parete, ma insomma, anche i recensori su tripadvisor affermano: The only thing that might bother some people is that the bathroom/toilet area cannot be closed off by a door – it is separated from the bedroom by a wall). Può piacere o non piacere…

31/8

Ci alziamo prestissimo. Joyce ci ha preparato la colazione da portare via. Malignamente sostengo che così ha risparmiato sullo staff. Vogliamo passare più tempo possibile all’iSimangaliso, prima di spostarci nuovamente verso lo Swaziland, sapendo di dover certamente, ormai, tralasciare l’Umfolozi. Come dicevo siamo già praticamente nel parco. Pochi chilometri ed entriamo, direi quasi: apriamo il cancello d’entrata. La giornata si manifesta subito proficua. Alla prima fermata, un laghetto, che subito pare inerte, si rivela carico di vita. Sbuffano ippopotami, si scorgono i coccodrilli, grandi uccelli si muovono sulla riva. Col caldo cominciano ad uscire le antilopi. Ormai è caccia aperta al leopardo. Ma per adesso andrebbe bene anche uno qualsiasi dei Big Five. Su indicazione della Lonely, facciamo una sosta in riva al mare. Qui sugli scogli faremo una scoperta che ci turberà non poco. L’enorme corpo di un serpente, un pitone africano delle rocce. E’ sicuramente defunto, ma ancora integro, tra gli scogli bagnati. Ipotizziamo che sia rimasto sorpreso dalla marea, ma magari è morto di vecchiaia. Sicuramente è grosso: come minimo tre metri di lunghezza per venti centimetri di diametro massimo. Doveva essere uno spettacolo anche da vivo. Tra le pozza d’acqua, in mezzo a panorami stupendi e solitari, vediamo ancora, molte, più tranquille forme di vita, tra cui granchi di discrete dimensioni. Ritornando all’auto, incrociamo una squadra di lavoranti del parco (quasi tutte donne) armate di casco e machete, che ridono tra loro e verso di noi. Staranno andando a mangiarsi il serpente? In una piazzola attrezzata per il picnic, scopriamo che la colazione di Joyce non è poi così pessima. Almeno così la pensiamo io e Davide, che ci sbafiamo anche il panino al salame all’aglio e quello al formaggio arancione. Prima di arrivare alla nostra meta più distante, scorgiamo – per un attimo – i dorsi imponenti di quelli che sembrano proprio essere bufali. Ma in un attimo sono scomparsi nella boscaglia. E siamo arrivati a Cape Vidal. Adesso: siamo su una spiaggia bianca, larghissima, mare spumeggiante (mare sudafricano, ne hanno anche uno più calmo?), limitata da un bosco di conifere. Insomma, parecchi scommettono che il bagnoschiuma prenda il nome da qua, e che il cavallo bianco (ma nei decenni forse ce ne è stato più di uno) galoppava da queste parti. Storia o leggenda? Secondo altri lo spot è stato girato in una più prosaica spiaggia adriatica. La spiaggia è bellissima, immensa e ce la dividiamo in quattro gatti. Rubiamo anche un po’ di sole, che male non fa. Dopo aver fatto scorta di foto, stiamo per imboccare lo slargo che riporta all’area di sosta. Qui, scoop fotografico: una marea, letteralmente, di ragazzini (rigorosamente neri, tutti bellissimi) ci si riversa addosso, in divisa scolastica, urlando di felicità e liberazione, sbracciandosi e sparpagliandosi a raggiungere il mare. Ci piazziamo in mezzo e spariamo foto a raffica. Non dico altro: basta vedere le immagini. Arrivano le maestre che riescono, a fatica (sono ormai distanti centinaia di metri) a radunarli per la foto di gruppo. Ne approfittiamo e ci facciamo fotografare con loro. Per loro sarà un piacevole diversivo e ci saluteranno felici alla fine! per noi – beh, sarà difficile scordare questo momento. Al parcheggio spariamo ancora un po’ di foto agli onnipresenti cercopitechi, che saltano fra e sopra le auto. Tutti attenti a non dare loro cibo, che è vietatissimo. Per il ritorno in senso inverso, prendiamo uno sterrato di una ventina di chilometri, ancora meno frequentato e molto bello e interessante. Qui troviamo i nostri primi due rinoceronti – bianchi – e li filmiamo per una ventina di minuti. Ogni tanto si trova qualche bellissimo esemplare isolato di waterbuck. Poi un gruppo di kudo fermo a distanza molto ravvicinata… Quando non ci speravamo più anche i nostri primi ‘sicuri’ bufali africani. E tanti altri erbivori ed uccelli. Niente felini: sarà per la prossima volta. Ci attendono – speriamo – al Kruger. Torniamo indietro verso l’uscita ad andatura sostenuta, quanto lo permette il limite del parco. Pranziamo velocemente a St Lucia e poi ci incamminiamo per Pongola. Dalla mattina è passata alla guida Domy, un po’ per darmi modo di fotografare, ma anche per il mio latente mal di testa che passa solo dopo il pasto. Sgroppata di quasi 200 chilometri. A Pongola scopriamo che il B&B che doveva ospitarci ci ha dirottato verso un lodge, nelle vicinanze. La cosa ci contraria solo un po’. Il posto si rivelerà molto caratteristico – lo Shayamoya – e riceverà voti discreti per quanto riguarda l’alloggio, ed il miglior voto assoluto per la cena, che consumeremo allegramente in loco. La location ci riporta alla mente l’Ugab Terrace Lodge di Khorixas, strada sterrata e ripida che porta in cima alla collina. Forse un po’ meno ‘particolare’ nei cottage, ma non manca un bellissimo giardino di piante grasse, tra cui spiccano le onnipresenti aloe, con i loro pennacchi gialli, arancio, rossi, e un’avventurosa doccia esterna, all’aperto. Al ristorante – riteniamo di non avere molta scelta, visto il posto e l’ora – facciamo conoscenza con la direttrice Lindy e un signore molto singolare, che si presenta come consulente della struttura. Raccogliendo le ordinazioni, e poi seguendoci per tutto la fantastica cena, questi, ci racconta un po’ della sua vita, del Sudafrica e di zoologia locale. In particolare ci racconta di Nandy, un fantastico gufo reale africano che, raccolto e nutrito, da piccolo, da Lindy, è diventato la mascotte del Lodge. La mattina prestissimo, ci dice, visita i bungalow, di chi lascia luce accesa e porta aperta… Ci invita a provare a chiamarlo l’alba seguente. Dopo una rapida visita al braai, dove alcuni pescatori americani stanno ancora bevendo e chiacchierando amabilmente, ripieghiamo verso la nostra struttura di legno, chiedendoci se riusciremo mai a puntare la sveglia ancora prima del solito.

1/9

Niente da fare. Manchiamo in qualche modo l’appuntamento con Nandy, come spiegheremo al rammaricato nostro direttore del personale (o Nando, come ormai è diventato per noi, visto che ci è sfuggito il suo vero nome). Dopo colazione, sorpresa per Federica, che si troverà il rapace appisolato sopra la doccia. Immortalata anche Nandy. Tra lungaggini e pratiche burocratiche multiple, che ci portano alla mente Benigni e Troisi alla dogana (chi siete? E quanti ne siete? …un fiorino!), entriamo nel regno di Swaziland, retto dal buon pacioccone Basmaati terzo. E’ un salto, all’indietro, nel tempo. Passiamo da uno stato ricco (con le sue contraddizioni e le sue enormi sacche di arretratezza) a uno molto povero. Case fatiscenti, molta gente che lotta – seppure molto dignitosamente – per sopravvivere. L’impressione è questa. Attraversiamo bei paesaggi montuosi, tra conifere e laghi alpini. Finalmente arriviamo alla cittadina di Manzini, in tempo per assistere al mercato artigianale settimanale. E’ un tripudio di colori e, dal punto di vista culturale, una visione molto stimolante. Mai avuto prima la sensazione così forte, di essere l’unico bianco, tra migliaia di persone di colore. Si mercanteggia su quasi qualsiasi cosa. Parecchi venditori sono qua dal Mozambico. Rubiamo foto a donne che tengono in equilibrio sulla testa l’inverosimile a dolcissimi sguardi di bimbi, assicurati alle schiene delle madri dal caratteristico scialle colorato. Approfittiamo anche dei prezzi decisamente più competitivi rispetto al Sudafrica, per acquistare qualche regalo. Parecchie foto dopo e dopo qualche altra decina di chilometri, raggiungiamo la capitale Mbabane. L’impatto non è propriamente positivo. L’alloggio che ci viene offerto, quello che avevamo prenotato, non risponde esattamente ai requisiti concordati ed è in un contesto residenziale popolare che ci lascia un po’ perplessi. Preferiamo per optare per una soluzione più turistica e ci trasferiamo al Mountain Inn. A consuntivo, l’hotel farà fatica a meritarsi la sufficienza, mentre la cena, nel ristorante annesso, sarà decisamente negativa. Ci rechiamo, nel tardo pomeriggio, verso lo Swazi Market. Il mercato sta chiudendo: tutte le baracchette (che hanno preso il posto delle vecchie capanne) stanno abbassando le proprie serrande. Quando i gestori dei negozi ci vedono arrivare, sospendono la chiusura, per darci modo di fare il giro di tutti i locali, sperando in un acquisto dell’ultima ora, che aggiusti una giornata, forse negativa. Tra donne che ci invitano a guardare tutta la mercanzia, bambini che si aggirano tra i portici, varia umanità, anche il sosia del re, impegnato in un’improbabile partita a carte, che si irrita, quando tentiamo di riprenderlo. Ce ne andiamo con l’usuale bagaglio di foto ed oggettini. Completiamo la visita culturale, raggiungendo il deludente centro di Mbabane. Un caos di traffico, e una mezza via tra un mercato metropolitano ed un brutto centro commerciale. Decidiamo di ritirarci velocemente al Mountain Inn, dove, come detto, usufruiremo di una cena da scordare. Nonostante il bel contesto (piscina in mezzo al verde, portici spagnoleggianti) le camere non ci lasceranno un gran ricordo. Appuntamento alle 7 per dirigerci velocemente verso il Kruger.

2/9

Lasciamo Mbabane e lo Swaziland senza troppi rimpianti. La colazione, tuttavia, migliorerà il giudizio globale sull’hotel e sarà un buon viatico. Riprendiamo a macinare chilometri tra strade di montagna e villaggi fatiscenti, ma anche molto più veri di tanti altri posti visti precedentemente. Dopo un curvone, un gruppetto di bambini, che si sono autoprodotti dei costumi raffazzonati, fatti di foglie, improvvisa una presunta danza zulù, ogni volta che vedono auto di turisti in transito. Non possiamo fare a meno di fermarci e dare loro tutto ciò che ci avanza di cibarie, dolci, chewing gum, monetine. Ricambiano con timidi, tristi sorrisi e nostalgiche foto. Compriamo anche qualche oggettino. Nuova pantomima alla frontiera: moduli, file sempre troppo lunghe per noi, passaggi da un ufficio all’altro e, dopo, ritorno alla più ricca realtà sudafricana. Direzione Nord, destinazione Kruger. Meta finale e must del nostro viaggio. Ognuno di noi è già stato in Africa e si attende da questa esperienza qualcosa in più, in termini di avvistamenti e varietà di paesaggi. Verso le 11 passiamo il Crocodile Bridge Gate, a sud del parco. Foto di rito all’ingresso. Gli incontri iniziano subito. Ma capiamo anche che saranno più impegnativi di quelli avuti in Namibia, all’Etosha. Là, la vegetazione molto bassa, e le poche pozze d’acqua, facilitavano e concentravano gli avvistamenti. Al Kruger è molto più frequente la boscaglia. Anche le savane non sono mai piattissime. Le piante sono alte verdi e fitte. Ma noi siamo una macchina da guerra, quattro paia di occhi esplorano palmo a palmo il territorio, avanzando lentamente. Quando non siamo noi a scoprire gli animali, stiamo attenti alle auto ferme ai bordi della strada. A volte, incrociando gli altri veicoli, soprattutto nelle strade secondarie, ci si scambia informazioni sulla fauna avvistata. In meno di 24 ore chiuderemo la nostra lista dei Big 5, ma non sarà semplice. Intanto facciamo incetta di erbivori. Ma uno di questi, a distanza, difficile da vedere, molto raro e prezioso, è un rinoceronte nero. Ce lo annuncia un signore dall’alto del suo Pajero, osservando che la bestia si sta nutrendo di foglie e non di erba, come il suo parente più grosso. Sono infatti le dimensioni la cosa che caratterizza di più questi pachidermi. Il colore è molto simile. La forma del muso, quadrata nei bianchi, triangolare, prensile nei neri, adattata all’alimentazione, è pure una discriminante. Inoltre, si dice che i piccoli del rinoceronte bianco camminino davanti alla madre. Avviene il contrario per il rinoceronte nero. Molto importante: difficile fare arrabbiare un rinoceronte bianco, come dimostrerà anche la nostra futura esperienza. Vale la pena stare più attenti con i loro cugini scuri, anche quando protetti dall’auto. Nessun rischio per noi, a questa distanza. Sempre più spesso osserviamo zebre, elefanti, giraffe ed anche qualche bufalo. Di solito a gruppetti poco numerosi. I leoni ci vengono segnalati, su un letto di un fiume in secca, attraversato da una strada sterrata. Nonostante le gli avvertimenti, dobbiamo faticare un bel po’ prima di scoprirli, ma poi non li molleremo più. Si tratta del classico gruppo di leonesse con un bel po’ di cuccioli, distesi in una zona rinfrescata dagli alberi, in una giornata in cui si superano (unica e ultima volta, durante il nostro viaggio) i 40 gradi. Osserviamo, filmiamo e ci gustiamo le cure parentali e l’indolenza di queste creature bellissime. Finestrini spalancati, sperando che a nessuna belva venga in mente di farci visita dalla parte opposta a quella verso cui guardiamo. La strada stretta viene spartita a fatica con chi arriva dopo. A malincuore riprendiamo il cammino. Le antilopi sono frequenti. Tanti impala – così tanti che presto non ci fermeremo più a fotografarli. Ma anche kudu e – spesso isolati – i waterbuck. Frequenti sono i facoceri e i babbuini. Tra gli uccelli non di rado vediamo dei rapaci, non facili da riconoscere, perché di solito a distanza, in volo, o appollaiati su alti rami. Nel nostro taccuino annoteremo anche delle fiere aquile. D’ora in poi saranno presenti anche le otarde, le tortore del capo (ma sono uguali a quelle di Ca’ Magnolia?), gli storni splendidi (di nome e di fatto), le galline di numidia (altrimenti dette faraone), i francolini. Ritroviamo un vecchio amico: l’esibizionista bucero becco giallo (nonostante i colori non corrispondano esattamente, dovrebbe essere il Disneyano Zazù, del Re Leone). Sfolgorante come un tucano o un bel pappagallo, non passa inosservato, con la sua livrea bianca e nera, ed il becco coloratissimo. Alla fine l’uccello sembra voler socializzare, si avvicina all’auto, camminando sul terreno, arriva ad allontanare altri uccelli, che stiamo fotografando. Se non è il re della savana, sembra comunque rivendicare la sua funzione di public relations bird. Per non parlare di quello che si vede all’interno dei campi attrezzati. Un festival di uccellini che meriterebbe maggiore attenzione.Tanti gialli, le livree luccicanti degli storni, i buceri di cui sopra, e in mezzo verdi, rossi, fucsia, indistinguibili per noi profani. Appena i turisti lasciano i tavolini all’aperto, dove hanno pranzato, nugoli di volatili, si gettano sugli avanzi. Domy non apprezza, e durante le soste, mangeremo sempre all’interno delle strutture, quando possibile. Ci mancano all’appello alcuni pezzi forti. Su tutti, quel leopardo che è diventato ormai l’ossessione del gruppo. Con questo miraggio, giunti al campo di Skukuza (prende il nome dal mitico guardiacaccia James Stevenson-Hamilton, il cui soprannome, appunto Skukuza, significa colui che fa piazza pulita in zulu) prenotiamo subito il nostro game-drive notturno. Davide, mai domo, sempre a caccia di immagini da inserire nel suo film da premio, approfitta dell’attimo di relax, per cercare il view point sul tramonto. Al ritorno si imbatte in una iena, incredibilmente all’interno del campo. I due si guardano entrambi stupiti, poi la cacciatrice notturna decide di filarsela, prima di dare modo al collezionista di immagini di caricare la sua macchina. Il pasto sarà giusto quello che ci serve per nutrirci, e anche dagli alloggi, bungalow tondi, più carini che efficienti, non potremo aspettarci molto d’ora in poi. Ma all’interno del Kruger, non è questa la cosa importante. Col buio, all’imbarco sui camion posteggiati, riusciamo a evitare una scolaresca locale, più propensa a fare baldoria che a cacciare animali, balzando sul terzo mezzo, quasi vuoto. La nostra guida non fa in tempo a dirci di tenerci pronti in qualsiasi momento, che, appena usciti dal cancello, una grossa iena – forse l’amica di Davide – ci passa davanti, a distanza ravvicinatissima. Ma comunque troppo veloce per darci il tempo di fare foto. Abbiamo intuito, che le iene hanno degli interessi particolari, per i dintorni dei campi. Forse i bidoni della spazzatura che, a prezzo di attacchi continui, riescono alla fine ad aprire. Siamo un po’ rammaricati, per le mancate immagini, ma, come sappiamo, al buio sarà quasi impossibile fare delle foto decenti. Iena a parte, il nostro conducente e guida naturalistica, ci promette solo impala. Da un ponte, perlustrando con le torce, individueremo qualche coccodrillo, addormentato sotto il pelo dell’acqua, e diversi ippopotami, che si apprestano ad uscire dall’acqua per la pascolata notturna. Dei felini di piccole dimensioni, chiazzati, ci passano un paio di volte davanti al camion. Si tratta in realtà di un viverride, lo zibetto, comunque di dimensioni ragguardevoli. Agli estremi opposti della scala dimensionale, vedremo grandi elefanti brucare, e piccole lepri saltare ai bordi della strada. Ancora, antilopi impaurite, scappare, o immobilizzarsi tra i cespugli. Il giro dura due ore: dei grossi predatori, finora, solo la iena. I camion si riuniscono, poco prima del ritorno: sembra che sia stato scorto il leopardo. Notizia infondata. Diamo un’occhiata alle ultime iene, prima di rientrare a Skukuza. Un po’ soddisfatti e un po’ delusi, ci dirigiamo al buio, verso i nostri alloggi.Federica scorge nell’oscurità un sorprendente galagone minore, nostro parente alla lontana, dalla pelliccia folta e dagli occhi spiritati che, impaurito, salta su un piccolo albero, da dove, però, non riesce a sfuggire al nostro fuoco di flash. La sua vendetta sarà che ne ricaveremo poco di buono, da pubblicare. Crolliamo, infine, a letto, in attesa di ritrovarci, domattina per le 6, all’apertura dei cancelli.

3/9

Sveglia all’alba – immagino che per qualcuno questa non sarebbe vacanza. Il bungalow è confortevole quanto è possibile. Quanto basta. Decidiamo di dirigerci a ovest, dove sono stati avvistati dei ghepardi (ogni campo possiede una mappa degli avvistamenti che vengono segnalati dagli ospiti, tramite magneti). Rientreremo per la colazione.Durante la mattinata avvisteremo, in numeri sempre maggiori, quantità di erbivori, tra cui zebre, giraffe, elefanti, impala (basta!), kudu… Ma il tempo passa e cominciamo a disperare di riuscire mai a vedere la nostra prima pantera, forse il pezzo più pregiato dei cinque. Stiamo rientrando a Skukuza. Il cancello è a 700 metri. I fotografi stanno già rimettendo l’attrezzatura nelle borse. Domy urla: Eccolo! E frena di colpo. Alla nostra sinistra, a distanza ravvicinatissima un bellissimo leopardo ci guarda perplesso. Avendo abbassato subito completamente il finestrino, per un attimo mi chiedo se ci sia pericolo. Fede e Davide imprecano ed armeggiano con le macchine. Io sono più fortunato e – con la macchina ancora calda – scarico una raffica di foto alla preda. In quindici secondi, non di più, si stanno avvicinando altre auto. E’ troppo per il nostro amico (maschio), che si gira e, con elegante decisione, sparisce tra i cespugli. Non del tutto: per qualche minuto noteremo ancora le orecchie sporgere tra la vegetazione, poi più basta. Indecisi se essere contenti per l’incontro o arrabbiati per non essere riusciti ad immortalarlo a dovere, propendiamo per l’entusiasmo. Brava Domy, che si rivela ancora una volta una cacciatrice formidabile, seppure impegnata alla guida. Facciamo una colazione spartana, checkout e quindi ci rimettiamo sulla strada. Abbiamo almeno 150 km lenti da completare, fino ad Olifants, passando per Satara – dove pranzeremo. Il bottino è abbondante. Comprende: diversi leoni, seppure a distanza. Un altro leopardo, con tanto di preda (un grosso impala), sopra un albero. Entrambi distesi a riposare – uno per sempre – in attesa dell’ora di pranzo. Una mandria enorme di bufali che si spostano, davanti a noi, sulla strada, da una pozza d’acqua, a un pascolo vicino. Rimediamo anche alcuni rarissimi esemplari di Bucorvo di Leadbeater (parenti del bucero). Sono un maschio (un corvone nero) e tre femmine dalla caratteristica colorazione rossa brillante del capo. Avendo letto un manifesto degli studiosi del parco, che chiedono di aiutarli nel rilevamento di questi animali, prendiamo nota di quanto potrà essere utile agli ornitologi. A viaggio finito intratterrò una fitta corrispondenza con uno di loro, il dottor Ronaldson, che mi chiederà tutto sui nostri avvistamenti nel parco. A distanza, un paio di rinoceronti bianchi – uno sembra molto grosso. Ci appostiamo a fotografare. Man mano che passa il tempo quello grosso, brucando, si muove sempre più vicino a noi, dandoci modo di migliorare di volta in volta le nostre riprese (e quindi, di rendere inutili quelle precedenti). Finche il bestione mostra il chiaro intento di voler attraversare la strada. Cosa che noi, continuando a spostarci per fotografarlo, ostacoliamo. Con la calma dei forti, l’amico si presta ad allargare un poco il giro, e a passarci da dietro, a qualche metro di rispettosa distanza di sicurezza. Arriviamo all’Olifants giusto in tempo per il checkin. Decidiamo di prenotare, con l’occasione, il game walking, per la mattina successiva (5 e 30!!!). Il campo è situato su un altura che domina un paesaggio spettacolare sul fiume, molto più in basso. Ci appostiamo subito sul bellissimo view point e restiamo estasiati a guardare e riprendere il sole che cala, rendendo gli elfanti, lontani, solo delle piccole ombre. Cena e lodge non sono il massimo. In particolare faremo fatica a far capire al nostro cameriere che non gradiamo il braai menu, che vuole rifilarci, ma preferiamo scegliere dalla lista. Alla fine ci spiegheremo e ci lasceremo come vecchi amiconi: anzi ci daremo appuntamento per la colazione. A letto, in fretta: domani sarà il risveglio più impegnativo di tutti.

4/9

Ci si alza alle 5, indecisi su cosa occorra portarci via. Alla fine ci mancheranno proprio indumenti più caldi. Immaginavamo di camminare subito, in zona montuosa. Invece, ci aspettano 23 chilometri di jeep aperta, insieme ad altri quattro ospiti di lingua spagnola, ma ammutoliti, anche loro, dal freddo. Ci imbacucchiamo nelle coperte forniteci, assolutamente insufficienti, sperando di non dover tirare fuori un dito per alcun possibile incontro. Infatti, tranne qualche coccodrillo+ippopotami, tipici degli attraversamenti fluviali, non vedremo niente di rilevante. Al sospirato arrivo, le nostre due guide, Johnny e Dorelly, ci indottrinano per la marcia, preparando anche i loro fucili, dall’aspetto antidiluviano. Sarà sempre il bianco, Johnny a parlare – fin troppo – mentre Dorelly, silenzioso, ci guarderà le spalle. Dopo una decina di minuti di marcia, in lontananza, sulle colline, cominceremo a vedere i profili dei primi elefanti. Continueremo a vederne. Un paio anche piuttosto vicini, quando il vento ci permetterà di non essere fiutati. Vedremo anche delle iene, una ad una cinquantina di metri di distanza. Secondo Johnny ci sono anche dei rinoceronti, ma li vede solo lui. Anche Dorelly sembra perplesso. La camminata è interessante, ma non spettacolare. Alla fine torniamo, in ritardo, alla jeep. Il viaggio di ritorno sarà impreziosito da alcuni incontri. Fantastico quello con i quattro ghepardi – le snelle cheeta – che ci attraverseranno la strada, dandoci modo di fotografarli. Johnny sostiene che in zona non se ne sono più visti da anni. Siamo fortunati. Per continuare, dobbiamo aspettare che un gruppo di elefanti si decida a farci largo. Non sembrano avere nessuna fretta. Giungiamo all’Olifants che abbiamo appena il tempo di liberare le stanze, in fretta, e, dopo una buona colazione, riprendere il viaggio. Mangeremo al campo di Mopani, che scopriremo essere il più nuovo, bello e tranquillo, per giungere, al tramonto, allo Shingwedzi, per la nostra ultima notte all’interno del Kruger. Nella prima parte del giro di oggi, solo erbivori. Al Mopani faremo conoscenza col bellissimo baobab, simbolo del campo, e rivedremo alcuni curiosi esemplari di acacia xanthophloea, dal caratteristico tronco verdino, all’apparenza, privo di corteccia. Nella seconda tratta, decidiamo di deviare per uno sterrato, che si rivelerà assolutamente infruttuoso per tutta la sua trentina di chilometri lenti e sconnessi. Al contrario, tornati sulla strada principale, asfaltata, ricominceremo a vedere animali in quantità. Tanti elefanti, tanti bufali, tante zebre – a volte non sapremo più in quale direzione guardare. Un altro bellissimo incontro, sarà quello con il falco giocoliere, un’aquila dai bellissimi colori scuri (non tragga in inganno il suo nome italiano), alle prese con una preda da divorare. E poi presenteremo il grosso Kori Bustard (un’otarda gigante) ai nostri amici – noi lo conosciamo dalla Namibia. Anche questi ultimi due incontri verranno riportati agli ornitologi del parco. Oltre ai babbuini, i primati sono rappresentati da gruppetti di cercopitechi verdi, dalle faccette nere tristissime. Ma dispettosi come delle scimmie, quando incontrati al bar, dove, se possono, ti rubano la colazione. Quando si è fatto decisamente tardi e sappiamo di dover rientrare obbligatoriamente per checkin e chiusura cancelli, diverse macchine ci segnalano la presenza di leoni, su un’altra deviazione, dandoci delle coordinate molto precise. Decidiamo di correre il rischio del ritardo e, sfidando anche i limiti, voliamo verso il possibile coronamento di una giornata (ghepardi a parte) un po’ scarsa come avvistamenti. E, infatti, in una radura leggermente al riparo di un cespuglio, troviamo uno splendido maschio, a distanza di primo piano. Dopo averlo sfiancato di foto (con noi ci sono un altro paio di auto), cerchiamo di limitare i danni e ci precipitiamo al campo, con il tramonto che ci avvolge già di una calda luce arancione. Allo Shingwedzi finalmente migliorano i voti di vitto e alloggio. Belle stanze spaziose, con doccia super e cena dignitosa. Decisamente i nostri rilievi sui lodge, sono in controtendenza rispetto a quanto riportato dalle guide. Puntiamo ancora la sveglia prestissimo, per l’ultima tratta all’interno del parco, ma siamo già più rilassati.

5/9

Molta strada in programma oggi. Piu’ di 320 km dallo Shingwedzi, fino alla cittadina montana di Graskop, sul percorso che ci porterà a Johannesburg, per il rientro. Vogliamo inoltre sfruttare al massimo queste ultime ore all’interno del parco e, di passaggio, fermarci per le escursioni al Blyde River Canyon, presso cui sembrano esserci paesaggi degni di nota. Il percorso è quello diretto verso l’uscita di Phataborwa. Speriamo in un colpaccio finale. Non contano i soliti elefanti, zebre, scimmie, bufali, antilopi che vengono a farsi vedere, anche se è ancora mattino presto. Protagoniste assolute della mattinata sono le iene. Cinque, che si presenteranno in tre situazioni differenti, e ci permetteranno, forse per la prima volta, di fotografarle egregiamente. In particolare una correrà affianco alla nostra macchina per un centinaio di metri, consentendoci fantastiche riprese del suo galoppo. Un’altra, la troveremo sdraiata tra i cespugli, non riuscendo a capire a cosa sia dovuta la sua per noi inspiegabile inerzia. Facciamo una rapida colazione, appena fuori dal Kruger. Il parco rimane, come previsto, la cosa più interessante vista e vissuta. Percorriamo altri 100 chilometri abbondanti per avvicinarci alla meta. Siamo in piena montagna e la guida, nonostante per lo più si tratti di altipiani, è impegnativa. La topografia della zona non è di facilissima decifrazione, così il primo posto che raggiungiamo non è, come previsto il Blyde River Canyon vero e proprio, ma le pozze dette Bourke’s Luck Potholes. La zona è caratterizzata da gole profonde e da caratteristici catini dove l’acqua si raccoglie, prima di precipitare in cascate e cascatelle. Il tutto è molto suggestivo. Il tour successivo, che dovrebbe comprendere cascate alpine, dai nomi tipici quali Berlin, Lisbon, MacMac; e view point, dagli altisonanti appellativi come Wonder View e God’s Window, non ci colpisce particolarmente. Tuttavia notevole, a mio avviso, il breve strano tratto di foresta pluviale, vicino ai siti più elevati, ed il Pinnacle, simile ad un piccolo grattacielo naturale, che si erge da una delle gole. Rimane il rammarico di avere definitivamente saltato il Blyde, ma ce ne facciamo una ragione. Arriviamo così prima del previsto (incredibile) in quel di Graskop. La quale si rivela essere una graziosa cittadina, piena di interessanti negozi di artigianato locale, e di ristorantini famosi per il pancake. Fra tutti l’Harry’s. Noi però decidiamo di fermarci a mangiare al Silver Spoon. E’ difficile scegliere tra quel tripudio di crepe (quali in realtà sono, come preparazione) farcite di specialità salate e dolci. Per non sbagliare io e Davide bissiamo l’ordine. Menzione particolare per il pancake al cioccolato e amarula – divino. Visto che abbiamo accorciato i tempi, ci dirigiamo direttamente verso Pilgrim’s Rest, meta originariamente prevista per domani, e dalla quale non ci aspettiamo molto. Il villaggio, conservato – o restaurato – come al tempo della sua costituzione, alla seconda metà del 1800, durante una delle molte corse all’oro, è invece molto carino. Vale la pena girare tra gli edifici e i negozi. Dovunque bambini, molto felici se riescono a ottenere una caramella o una penna, al prezzo di una foto o di un balletto. La giornata sale finalmente di tono, e si riscatta definitivamente nel finale, dopo un’esplorazione al bell’hotel (il Graskop): piscina, giardino molto curato, soprattutto belle camere ariose e luminose. Il sito è anche una galleria d’arte. E, infine, con una cena degna di questo nome, alla Glass House, dopo le restrizioni del Kruger. Concluderemo brindando con la rituale Amarula. Decidiamo all’unanimità di puntare la sveglia alle 8. Domani, finalmente, si riposa.

6/9

Facciamo colazione, finalmente con calma, dopo aver preparato le valigie. Graskop ci sembra un bel posto per completare il tour ‘artigianato’, e così facciamo un altro giro, tra i negozi, molto carini e interessanti. L’idea sarebbe di fare ancora qualche tappa, scendendo a sud. Ma la prima città, nella quale ci imbattiamo, Sabie, non è nulla di che. D’altronde abbiamo quasi 400 km da percorrere, di strada ben tenuta, ma – per la prima parte – ancora in montagna. Insomma, rifacendo rapidi calcoli c’è giusto il tempo per mangiare (in un anonimo Centro Commerciale, uno Spur da dimenticare, con vista su animali selvatici addomesticati), sbrigare la consegna dell’auto e le procedure di imbarco. Facciamo il tutto con la consueta funzionalità, con l’esperienza accumulata in decine di viaggi, e ci imbarchiamo su un Airbus della Emirates, nuovissimo, schermi grandi e scelta illimitata di film di cui, usufruiremo ampiamente.7/9 La notte è così trascorsa abbastanza velocemente. Chi ha dormito, chi si è imbottito di cinema. Il cibo non era male. Lo spezzatino al curry è, al solito, buono. Ora siamo seduti davanti al nostro Gate, a Dubai, mezzo addormentati. Fra poco più di un’ora, ci aspettano le operazioni di imbarco. Contiamo di essere a Venezia in cinque ore (qualcosa di più) e poi: auto fino a Verona. Cosa dire, tirando le somme, del viaggio e del Sudafrica? Qualche pensiero sparso. Prima di tutto grazie, ai nostri compagni Federica e Davide, con Domy organizzatori integralmente del tour. E’ stata un’altra grande bella avventura. Penso che chi è arrivato fin qua ha capito che siamo stati bene e ci siamo divertiti molto. Ovvio il confronto con la Namibia, attraversata solo lo scorso anno. Diciamo che là ci sembrava più Africa. Selvaggia, solitaria, quasi sempre desertica. Qua decisamente meno, a parte i parchi. Soprattutto al sud abbiamo sempre trovato città dall’aspetto europeo e servizi molto curati. Strade da per tutto in condizioni ottime (non in Swaziland, ovvero non sempre). Si è guidato bene, ma nei parchi sarebbe stato molto meglio, a mio avviso, avere un fuoristrada, piuttosto che una berlina, non tanto per la sicurezza, quanto per l’altezza e la posizione di guida. In passato, per i viaggi itineranti spesso non abbiamo prenotato, ma in questo caso direi che se non l’avessimo fatto sarebbe stato dispersivo. Internet è presente, ma non sempre: a volte a pagamento. Il costo totale è stato inferiore ai 2.700 euro a testa, tutto compreso, tranne le spese personali. Sono stati percorsi, in auto, 4.000 km. La gente: gentilezza veramente impressionante al sud, intorno a Città del Capo e sulla Garden Route. A nord le persone sono sembrate un po’ più riservate. Il Kruger vale da solo il viaggio. Rispetto all’Etosha, non è vero, come può sembrare, che si vedano meno animali, anzi. Si vedono, come già detto, in modo diverso, e spesso con più difficoltà. Alla fine, però, paga in termini di quantità e soddisfazione. La rete stradale è decisamente più vasta e capillare. Nulla da ridire, però, al paesaggio dell’Etosha, imperdibile. E’ stato spesso il viaggio dei record e delle prime volte. Prima esperienza in gabbia contro gli squali. Primo safari a piedi. Il giardino più bello (il Kirstenbosch). Abbiamo messo il piede per la prima volta nella penisola Arabica. Abbiamo assaggiato il coccodrillo. Ci siamo fatti mangiare in testa dagli struzzi. Troppe cose per ricordarle tutte. Meglio verificare di persona: noi ve lo consigliamo!

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Scatterlings of Africa - Eyes



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