Due ghepardi a caccia nel bush… di 2° parte

MPUMALANGA - KRUGER NATIONAL PARK Il volo scorre veloce, cullati da queste fantasie decisamente migliori delle immagini proposte sullo schermo davanti a noi, dove stralunati perso-naggi sono impegnati a mettere in scena candid camera davvero assurde, e, dopo poco più di un’ora, eccoci di nuovo avvolti dalla frenesia dell’aeroporto di...
Scritto da: Sara Bruno 3
due ghepardi a caccia nel bush... di 2° parte
Partenza il: 27/01/2003
Ritorno il: 10/02/2003
Viaggiatori: in gruppo
MPUMALANGA – KRUGER NATIONAL PARK Il volo scorre veloce, cullati da queste fantasie decisamente migliori delle immagini proposte sullo schermo davanti a noi, dove stralunati perso-naggi sono impegnati a mettere in scena candid camera davvero assurde, e, dopo poco più di un’ora, eccoci di nuovo avvolti dalla frenesia dell’aeroporto di Johannesburg, che sette giorni fa ci ha accolti in Sudafrica. Oggi lo lasciamo in tutta fretta: fuori ci attendono Carla e Bongani, la guida e l’autista insieme ai quali andremo alla scoperta dello Mpumalanga, “il luogo del sole nascente”, e del Gauteng, “il luogo dell’oro”. Davvero molto promettenti questi nomi… Pochi minuti sono sufficienti per abbandonare Johannesburg ed i suoi gialli cumuli di scarti di miniera che sembrano sbucare da ogni dove, ma non ba-stano di certo per lasciarsi alle spalle prima l’high veld, l’altopiano che circonda la città, dove a giocare la parte del leone sono i campi di granturco e di sorgo e le alte ciminiere delle centrali elettriche, dalla cui cima si levano in cielo instancabili nuvole di fumo, e poi il low veld, l’immensa pianura che ha fatto meritare allo Mpumalanga la definizione di “cestino di frutta del Sudafrica”, ma che noi ricorderemo soprattutto per quella distesa di girasoli che il vento si divertiva a cullare, solleticando i larghi petali che avevano rubato al sole un po’ della sua luminosità: impieghiamo infatti più di tre ore per rag-giungere Lydenburg, “la città della sofferenza”, fon-data dai Voortrekkers nel 1849, tredici anni dopo l’inizio del loro Great Trek.

Il nome ci crea una certa inquietudine e quindi decidiamo di passare oltre, inerpicandoci per la strada che conduce al Long Tom Pass, cosa che non fa che aumentare il nostro disappunto: questo “Tom il Lungo” a cui è intitolato il passo, infatti, altro non era che il can-none usato dai boeri durante la guerra contro gli inglesi, scoppiata, naturalmente, per avere il controllo di quel prezioso metallo lucci-cante che in Europa adornava le mani, le orecchie ed il collo delle dame più raffinate e che in questa zona, l’antico Transvaal, la “terra promessa” dei Boeri, sembrava permeare ogni roccia. Verso la metà del secolo scorso, trovare l’oro divenne quindi il chiodo fisso di migliaia di persone giunte fin qui da ogni angolo del mondo, i loro sogni popolati da montagne di pepite grosse come uova. Tra queste persone c’era un uomo. Come tutti gli altri, anche lui si spinse oltre il fiume Vaal convinto che la fortuna, per una volta, sarebbe stata sua alleata. Per molti anni vagò lungo il letto di fiumi e torrenti, la piccozza ed il setaccio tra le mani e gli occhi smaniosi di scoprire un piccolo lucci-chio che avrebbe potuto forse cambiargli la vita; mille volte affogò i suoi dispiaceri in quel whisky che dell’oro non aveva soltanto il co-lore, ma anche il prezzo; col tempo, imparò addirittura a sedare l’invidia, la rabbia e le delusioni ed a capire che rompersi una mano in una rissa non avrebbe fatto altro che allontanare da lui quelle tanto bramate pagliuzze, l’unica ragione per la quale valeva la pena al-zarsi dal letto la mattina. Una sola compagna non lo abbandonò mai, dimostrandosi più fedele delle donne e dei liquori: la speranza. Era accanto a lui quando si recava al fiume e quando ritornava verso la sua tenda la sera, senza niente tra le mani, se non gli ormai malridotti setaccio e piccozza, quando al mattino si svegliava con un cerchio alla testa ed una bottiglia vuota ai piedi del letto e quando la notte i suoi so-gni avevano smesso di essere popolati di montagne scintillanti e si erano trasformati in spaventosi incubi in cui regna-vano cumuli di terra e pie-tre senza alcun valore. Si appoggiava alla sua spalla, le labbra vicino all’orecchio, e gli sussurrava parole così dolci che era impossibile non crederle. Diceva sempre: “La tua occasione un giorno arriverà”.

E quel giorno arrivò per davvero, anche se fu necessario che il sole tramontasse infinite volte e che numerose estati lasciassero il posto ad al-trettanti inverni. L’anno era il 1873. Era iniziato come tutti gli altri e sembrava destinato a chiudersi nello stesso modo, fino a quando un mattino la sua fedele speranza non decise di posare sul setaccio una piccola pepita. Incredulo, l’uomo la strinse tra le mani callose e, mentre i suoi occhi non riuscivano a staccarsene ed i suoi polpastrelli ne saggiavano ogni più pic-cola asperità, si sentì come se il suo pellegrinaggio, alla ricerca di quel luccicante dio tanto venerato, fosse dunque finito. Non ebbe alcun dubbio su come chiamare quel luogo: il “riposo del pellegrino” sarebbe stato il nome più adatto.

Fu così che nacque Pilgrim’s Rest, il paese in cui scendiamo per sgranchirci le gambe dopo esserci lasciati alle spalle le immense foreste di pini ed euca-lipti che, da Lydenburg in poi, sono state le nostre uniche compagne di viaggio. Dapprima ci fu solo la tenda di quell’uomo, poi arrivarono altri cercatori ed infine i ricchi Randlord, i Signori del Rand, pronti ad investire in pale, picconi, dinamite e, naturalmente, in economica manodopera nera i capitali attinti dai diamanti scoperti qualche anno prima a Kimberley, su un terreno apparte-nente ad un certo Signor De Beers… Pilgrim’s Rest cominciò quindi ad ingrandirsi e, ben presto, siccome molti erano attratti dall’oro ma non dalla prospettiva di passare tutta la giornata in una cava ad armeggiare con mazze ed esplosivi, sorsero negozi e botteghe sui cui scaffali, accanto alla carne secca ed al caffè, erano ammassati sigari di qualità scadente, ruote per i carri o stivali di pelle di bufalo, e bar tra le cui pareti, oltre a spesse nuvole di fumo, si poteva trovare il conforto di una bottiglia di brandy, di un mazzo di carte o di una donnina alquanto estro-versa. E poi arri-varono la chiesa, l’ufficio postale, la tipografia ed ancora empori e locande… fino a quando, nel 1972, l’oro si esaurì: anche la più piccola pagliuzza era stata in-fatti portata alla luce e la terra era diventata irrimediabil-mente sterile. Il destino del paese sembrava dunque segnato: abbandonato dalle grandi compagnie minerarie, i suoi prossimi abitanti sarebbero stati la pol-vere e l’incuria, che, insieme all’erba ed ai rampicanti, avrebbero aggredito, nel giro di pochi mesi, i bei porticati in legno, i tetti in lamiera, le campane della chiesa ed il piccolo cimitero.

Ma, di fronte a questa prospettiva, il governo decise di intervenire, acquistando la città e trasformandola in un museo a cielo aperto, così, oggi, cammi-nando tra le sue vie e cercando di non fare troppo caso alle strade asfaltate ed alle bancarelle allestite sul loro ciglio, si può ancora re-spirare l’atmosfera di quei tempi. Ecco che allora il gestore dell’albergo accanto alla posta diventa il burbero barista pronto a sedare le risse e a centellinare il whisky, mentre la receptio-nist si trasforma nella cameriera dai biondi capelli cotonati e dalla scollatura generosa. Il signore che cammina dall’altra parte della strada, con quei suoi lunghi baffi schiariti dal sole e quel suo passo così deciso, potrebbe in-terpretare senza pro-blemi il ruolo del cercatore se indossasse un grosso cappellac-cio, una camicia sgualcita ed un paio di pantaloni rattoppati sopra a degli stivali coperti di terra e se avesse un piccone nuovo di zecca appoggiato sulle spalle muscolose e lo sguardo torvo tipico di chi ha ap-pena sco-perto che, nella concessione accanto alla sua, è stato trovato un ricco filone d’oro.

E anche noi, mentre ci perdiamo all’interno dei negozietti o ci lasciamo ubriacare dal forte odore di alcool che pervade la distilleria o scrutiamo le foto ingiallite e gli attrezzi ormai presi d’assalto dalla ruggine che campeggiano sulle pareti del museo, ci sentiamo un po’ rudi cercatori, av-venenti cameriere o – perché no? – esperti tecnici minerari, immersi in quel clima polveroso di un secolo fa. Ma queste nostre fantasticherie sono destinate ad infrangersi non appena torniamo verso il pulmino: saranno infatti le sue ruote ed il suo mo-tore ben oliato, e non dei cavalli con la sella ormai consunta o un carro trainato da robusti buoi, a portarci al nostro albergo che si affaccia sul fiume Sabie. Tornare al presente, comunque, si rivela tutt’altro che difficile: questo hotel è infatti semplicemente fantastico ed il suo giardino, ricco di piante dai nomi alquanto esotici, ci affascina. Qui, infatti si può godere dell’ombra offerta da un grande albero di marula carico di dolci frutti o dell’esplosione di colori di un albero tulipano dagli al-legri fiori arancioni; si può camminare tra le orecchie di elefante, gli alberi della febbre ed i flanboyen; ci si può perdere tra alte palme ed intricati cespu-gli; ci si può lasciare accarezzare dalla morbida erba del prato ed ipnotizzare dal violento amaranto di un ibiscus appena sbocciato. Questa specie di “giardino botanico” ci avvolge con i suoi mille colori e le sue forme più disparate mentre ci dirigiamo sulle rive del Sabie, nelle cui ac-que stanno poltrendo due ippopotami: sono stati proprio questi animali, aiutati dai famelici coccodrilli, ad ispirare que-sto nome che, in lingua locale, si-gni-fica “terrore”. Nessun’altra parola, infatti, sarebbe risultata più appropriata per descrivere la sensa-zione che si prova quando si è di fronte al ruggito del “leone delle acque”, capace di mettere in mostra due minacciosi canini lunghi fino a 50 cm, o quando le orecchie captano lo strisciare furtivo di un ret-tile che ha adocchiato la sua preda ed è deciso a trascinarla in quelle profondità melmose che ha eletto a sua dimora. I due ippopotami immersi a pochi metri dalle canne e dai bambù accanto ai quali ci siamo appostati, comunque, non sembrano preoc-cupati dalla nostra presenza e per questa sera decidono di tenere al loro posto i denti spietati e di mostrarci solo quattro piccole orec-chie rosee e due paia di occhietti por-cini che ogni tanto fanno capolino dall’acqua e ci scrutano indifferenti. Quando il sole scende dietro le colline in lontananza, ritorniamo nelle nostre camere, ma, prima della cena, ci concediamo ancora un favoloso bagno in piscina sotto una volta stellata davvero impressionante. Dietro le foglie di un marula, la luna ci sorride complice: sembra aver capito che questa notte dovrà dar fondo a tutte le sue risorse per catturare i nostri sguardi totalmente ammaliati dai mille sfavilli sparsi attorno a lei… La mattina seguente, gli ippopotami continuano a negarsi agli scatti delle nostre macchine fotografiche: nonostante sia ancora presto, infatti, il sole è già pronto a scagliare i suoi caldi raggi e, per difendere la loro pelle delicata, questi animali così grossi e pericolosi non possono far altro che gettarsi nell’abbraccio protettivo dell’acqua. Alcune oche egiziane che sgambettano tra l’erba a pochi passi dalla riva sembrano deriderli con il loro verso star-nazzante, ma il suono cavernoso che si leva dal fiume le zittisce in un attimo e le induce ad allontanarsi in tutta fretta con il loro passo sgraziato e don-dolante. Anche noi, dopo aver abbandonato ogni speranza di vedere un tozzo corpo lucido issarsi tra le canne dell’isoletta a pochi metri dalla sponda, ci allon-taniamo: ci tocca raggiungere Carla e Bongani, pronti a portarci alla scoperta del Blyde River Canyon, il terzo canyon al mondo in ordine di grandezza. Salutiamo quindi le orecchie di elefante, i flanboyen e gli alberi tulipano e ci avviamo lungo una strada totalmente accerchiata da piantagioni di ba-nane e papaie e dagli immancabili pini ed eucalipti, alcuni talmente alti che sembrano in grado, con le loro fronde, di fare il solletico alle nuvole, altri grandi appena quanto noi ed altri ancora tristemente accasciati al suolo, il loro legno resinoso pronto per essere ri-dotto in tanti ceppi. Una volta entrati nella riserva del canyon, che si estende per 26.000 ettari, ci soffermiamo per qualche minuto di fronte al Pinnacolo, un’alta formazione rocciosa che svetta al centro della scarpata e che sembra molto impegnata a lottare contro gli invadenti alberi che hanno deciso di occupare i suoi ripidi fianchi e la sua cima orgogliosa, e poi ci dirigiamo verso la God’s Window, accompagnati dalla convinzione che un nome così altisonante non può che essere foriero di un grande spettacolo. Sfortunatamente, però, dovremo ricrederci: negli ultimi anni, infatti, la “finestra” sembra essere stata un po’ dimenticata da quel “Dio” a cui è dedi-cata, che l’ha lasciata in balia di una rigogliosa foresta capace di nascondere il precipizio profondo ben 1.000 metri che anni fa si è presen-tato agli occhi di colui che ha deciso di battezzarla in questo modo e così, oggi, noi non possiamo far altro che lasciare il no-stro sguardo spa-ziare su alberi, alberi ed an-cora al-beri… Ma le nostre espressioni deluse ed i nostri commenti non proprio entusiasmanti sono destinati ad abbandonarci nel giro di pochi minuti, quando ci ren-diamo conto che in questa prima parte il canyon era solo impegnato nelle prove: il vero spettacolo, infatti, comincia qual-che chilometro più a nord, nel momento in cui fanno il loro ingresso in scena le Bourke’s Luck Potholes. Per ammirare la loro splendida interpretazione, basta fermarsi alla confluenza dei fiumi Blyde e Treur, impeccabili registi: sono infatti stati i loro mulinelli, nel corso dei secoli, a scavare nella roccia queste strane buche cilindriche che oggi il sole, brillante scenografo, rende ancora più attraenti, regalando alle rocce una luce particolarmente intensa ed all’acqua che le circonda una mi-riade di balenanti scintillii. Il produttore esecutivo, Mister Blyde River, ha davvero curato ogni minimo dettaglio ed anche le comparse, come quel piccolo filo d’erba mosso dal vento o quelle nuvole immobili che sonnecchiano all’orizzonte o i pesci che guizzano a pochi centimetri dall’acqua che scorre sotto di noi, svolgono il loro ruolo così bene da sembrare dei teatranti consumati.

Ma questo non è altro che il primo atto: altri attori, infatti, sono pronti dietro le quinte e si mostrano a noi dopo qualche chilometro an-cora. Si tratta dell’invincibile Capo Marepe, abile secoli fa nello sconfiggere gli Swazi durante la Moholoholo, la “grande grande battaglia”, ed oggi perfetto nell’interpretazione di Marepeskop, l’alta ed austera collina che domina la valle, e delle sue tre fedeli mogli, Maseroto, Ma-gabole e Magaladikwue, ben immedesimate nella parte di tre vanitose Rondavels che neanche per un attimo rinunciano a specchiarsi nel fiume Blyde che scorre ai loro piedi, così preoccupate che il loro trucco, la folta vegetazione che le ricopre, possa non essere all’altezza.

Poco prima di chiudere il sipario, il gran finale spetta alla Blydepoort Dam, che impersona il Tabanen, “l’ombra che mi segue” in lingua shan-gana, dove il Blyde River dimentica per un attimo i sassi e le cascatelle che l’hanno accompagnato fin qui e si allarga in una grande bacino arti-ficiale color zaffiro: così termina l’ennesima replica dello show che tutti i giorni viene allestito dalla compagnia “Blyde River Canyon”.

La nostra mattinata, invece, prosegue con una breve sosta alle Berlin Falls e con un lauto pranzo nei pressi di Sabie, durante il quale, allietati dalle note di “Tanti auguri a te” cantata in lingua locale e dal vino della distilleria di Pilgrim’s Rest, festeggiamo il compleanno del nostro Giu-liano. Ma la giornata deve ancora regalarci la sua parte migliore (senza offesa per Giuliano…): è infatti giunto il tanto atteso momento del no-stro primo safari al Kruger Park e noi non stiamo più nella pelle! In pochi minuti, durante i quali Carla cerca invano di tenere a freno il nostro entusiasmo spiegandoci le regole del parco, raggiungiamo la porta di in-gresso di Hazyview, dove ci accoglie il grosso busto di un serissimo Paul Kruger. È stato proprio questo rude agricoltore, presidente per ben quattro volte della Repubblica Boera del Transvaal, a fondare in questa zona, nel lontano 1898, una piccola riserva privata, la Sabie Game Re-serve, che, col passare degli anni, ha visto cambiare, oltre al suo nome, anche le sue dimensioni: oggi, infatti, il Kruger è uno dei parchi nazio-nali più grandi al mondo, visto che si estende su una superficie di quasi due milioni di ettari (avete pre-sente lo Stato di Israele? Il Kruger lo su-pera, anche se solo di una bazze-cola!). I nostri rangers, Keith e Jeremy, ci stanno aspettando accanto alle loro lucide jeep che ben presto si copriranno di polvere. Mentre ci presen-tiamo, non possiamo fare a meno di notare quanto doni a Keith quella tenuta da safari!!! Tra i due, Jeremy deve essere senza dubbio quello che viene descritto come “il simpatico”… ed in effetti lo è. Avrò modo di scoprirlo in questi due giorni… anche perché io non sarò tra quelli che si accomoderanno sulla jeep di Keith! Il primo avvistamento, comunque, avviene ancor prima di partire, senza l’aiuto dei nostri due rangers, e in un luogo, a dire la verità, un po’ in-solito… è infatti dalla finestra del bagno che noi donne scorgiamo una famigliola di facoceri composta da due adulti e due piccoli! Con i loro corpi tozzi che ballon-zolano a destra e a sinistra e le piccole code ritte verso l’alto come antenne, stanno correndo tra i ce-spugli, forse spaven-tati da qualcosa, e, mentre li osserviamo ed ascoltiamo i loro grugniti sommessi, non possiamo fare a meno di ac-corgerci che l’adrenalina ha già cominciato a solleticare ogni cellula del nostro corpo e che la voglia di scoprire anche l’angolo più se-greto del bushveld, la prateria cespugliosa che ci circonda, ci ha ormai contagiate in modo irrimediabile. Ed allora, così velocemente come i nostri facoceri si eclissano tra gli alberi, noi, con gli occhi intenzionati a scorgere ogni minimo movi-mento nella bo-scaglia e le dita ansiose di muoversi su zoom e binocoli, prendiamo posto sulla jeep di Jeremy e, già dopo poche centi-naia di metri, ci imbattiamo in un branco di waterbuck, le antilopi d’acqua, intente a brucare sul ciglio della strada. Allarmato dal nostro arrivo, il maschio, così maestoso con quelle lun-ghe corna leggermente ricurve verso l’esterno e la folta pelliccia elegantemente bordata di peli bianchi avvolta attorno al collo, ci scruta per qualche secondo attraverso grandi occhi color nocciola, ma poi, nel momento in cui capisce che gli scatti dell’otturatore delle nostre macchine fotografiche non costituiscono un pericolo, riprende indifferente a strappare gli alti fili d’erba che gli accarezzano le zampe, imitato dal suo harem di femmine. Mentre noi ne ammiriamo la bellezza e l’eleganza, Jeremy ci spiega che è molto facile trovare questi animali qui, a due passi dal Sabie, poiché la loro caratteristica principale, non a caso ripresa anche dal nome, è che, per difendersi dai predatori, che comunque sono poco attratti dalla loro carne dura e dall’odore non proprio invitante, non esitano a buttarsi nell’acqua, dove, con la pelle protetta da una par-ticolare sostanza sottocu-tanea, possono resi-stere anche alcune ore… sempre che nelle vicinanze non si stia aggirando un coccodrillo particolarmente affamato! Dopo un ultimo sguardo a quegli occhi così dolci, riprendiamo la nostra strada, sulla quale ben presto vediamo sollevarsi una fitta nu-vola di pol-vere: con la nostra jeep abbiamo infatti creato un po’ di scompiglio nel branco di impala che la stava attraversando e che ora si è sparso su en-trambi i lati, i loro sguardi preoccupati tutti rivolti verso di noi. Si tratta di una famiglia di una ventina di esemplari: al-cuni, più timidi, si dile-guano tra gli alberi con grandi balzi quando le loro piccole orecchie a punta captano i nostri bisbiglii, mentre altri, più avvezzi a questo tipo di incontri, si sparpagliano tutt’intorno a noi, chi per brucare, chi per coricarsi all’ombra di un albero. Tra questi c’è anche un grande maschio, si-curamente il capo, che, con le sue belle corna a forma di lira ed il suo portamento orgoglioso, cerca di rassicurare alcune femmine che si sono strette attorno a lui, con i piccoli dall’andatura ancora esitante al riparo tra le loro agili zampe. Osservandoli, non possiamo fare a meno di notare che il loro manto, così lucido e privo di alcun difetto, sembra disegnato dalla matita di un rigoroso stilista amante dell’equilibrio e dell’armonia: il fulvo brillante che avvolge il dorso, infatti, si interrompe improvvisamente con una pre-cisa linea retta sui fianchi, per lasciare spazio ad un beige appena accennato che si allunga fino ai robusti zoccoli, sfumando in un candido bianco sulla pancia, sul petto e sul mento, mentre due strisce nere dalla simmetria quasi perfetta incorniciano la piccola e soffice coda.

L’unica stranezza che l’artista si è concesso nella creazione di questo abito è costituita da un paio di ciuffi confezionati con scuri peli ri-belli e po-sti all’altezza delle caviglie posteriori, a protezione di due preziose ghiandole in grado di sprigionare un particolare odore che permette agli esemplari dello stesso branco di rimanere uniti e che, durante la caccia, disorienta anche il più determinato dei predatori. Questo “aroma ingannatore”, la velocità e la capacità di compiere balzi prodigiosi, lunghi anche fino a 10 metri, sono le uniche armi che i 120.000 im-pala sparsi all’interno del Kruger Park possono utilizzare per sperare di vincere un duello contro i loro nemici mortali, sem-pre in ag-guato. La loro carne così tenera, infatti, è molto apprezzata sia dai ghepardi e dai licaoni, che amano cacciare alla luce del sole, sia dai leopardi e dai leoni, che preferiscono invece sfruttare la loro straordinaria vista notturna, e quindi questi poveri animali, definiti scherzosamente dai ran-gers i “McDonald’s del bush” perché rap-presentano uno spuntino veloce e facilmente reperibile, si trovano con-dannati, fin dalla nascita, a non abbassare mai, neanche per un attimo, la guar-dia. Nel corso degli anni, però, gli impala hanno capito che gli strani esseri motorizzati che scorrazzano per il parco, abbigliati nei modi più insoliti, non co-stituiscono un peri-colo, così la nostra bella famigliola continua a staccare delicatamente le foglie di un arbusto a pochi metri da noi, senza più de-gnarci di uno sguardo. Jeremy decide quindi di ripartire, lasciandoli consumare il loro pranzo in tutta tranquil-lità, ma, dopo aver schivato un bushbuck che ir-rompe improvvisamente sulla strada per attraversala alla massima velocità consentita dalle sue gambe, si ferma nuova-mente: i suoi occhi hanno avvi-stato qualcosa.

È una femmina di kudu, anch’essa impegnata a banchettare con i teneri germogli di un albero, per niente disturbata dal vorace uccellino dalla te-sta rossa appollaiato sul suo dorso che, in cambio di questa comoda sistemazione, è disposto, in un solo giorno, a divorare più di trecento fastidiose zecche anni-date tra i corti peli. Ci guardiamo intorno, nella speranza di vedere spuntare le corna a spirale del ma-schio, che abbiamo notato su molti cataloghi di viaggio e che starebbero sicuramente bene immortalate sulla lucida carta delle nostre fotografie, ma tutto quello che riusciamo a scorgere sono solo due buceri terrestri, degli uccellacci quasi grotteschi, simili a dei grossi tacchini, con le piume nere un po’ ar-ruffate e la testa rossa completa-mente spe-lacchiata. Stanno frugando tra l’erba, forse alla ricerca di una tartaruga, il loro cibo preferito, da ca-povolgere e poi uccidere con il potente becco, un prolungamento della spina dorsale. Gli spazi sconfinati del cielo, infatti, non sono l’ambiente ideale di questi uccelli che, siccome sono capaci di volare solo per brevi tratti, preferi-scono passare la maggior parte del loro tempo a terra, con le pic-cole ali grigie grate di non doversi far carico di un peso così notevole e le folte ciglia pronte a sbattere in continuazione per proteggere i perfidi occhi neri dalla sabbia sollevata dal loro continuo razzolare. Mentre li scrutiamo con i nostri binocoli, il loro aspetto sinistro ci inquieta un po’… ed anche quello che ci racconta Jeremy ci fa un certo effetto: i buceri terrestri, infatti, cominciano a dar segno della propria malvagità sin dal primo giorno di vita, quando il primo nato butta giù dal nido collocato su un ramo l’altro uovo deposto dalla mamma, rimanendo così l’unico a godere delle sue cure.

Vedendo il disgusto fare capolino sui nostri volti nel momento in cui sentiamo queste parole, Jeremy decide di rimettersi in marcia, alla ricerca di un al-tro animale un po’ più simpatico. È così che ci imbattiamo in un maschio di gnu, l’animale detto anche “il collage del bush”, poiché nel crearlo Madre Natura sem-bra essersi divertita a riunire, un po’ a casaccio, i caratteri del bue, dell’antilope e del ca-vallo, ottenendo come risul-tato uno strano erbivoro dotato di quattro zampe sottilissime, un muso un po’ troppo allungato ed una sgra-ziata gobba che una lunga zazzera ribelle non riesce del tutto a ca-muffare. In-curante degli indiscreti zoom puntati nella sua direzione, sta mangiucchiando svogliatamente qualche filo d’erba, mentre, a pochi passi da lui, due ma-schi di impala, indispettiti dal fatto che un animale così poco elegante abbia catalizzato tutti i no-stri sguardi, cercano di rubargli la scena mo-strandoci le loro giovani corna ancora innocenti. Decidiamo di premiare gli sforzi di questi due no-velli narcisi, assicurandoci un primo piano che, nel no-stro album fotografico, non sarà sicuramente seguito dall’immagine di quello spaurito duiker che si è nascosto tra gli alberi non appena ha sentito la jeep avvi-ci-narsi, ma da una bella zoomata sull’abito da galeotto di una famiglia di zebre, ferme sul bordo della strada per permettere al piccolo, nato da poche settimane, di riposarsi su un morbido cuscino d’erba. Un brusco scarto del papà, forse insofferente alla nostra presenza, però, lo sveglia all’improvviso, spaventandolo, e l’unico rimedio per rassicurarlo sembra essere il caldo e dolce latte materno poppato con avidità fino a quando lo sto-maco non si sente sazio e le gambe, ormai non più tremanti, non si rivelano pronte a galoppare lontano da noi, tra i due diffidenti genitori. Con gli occhi ancora affascinati da questa immagine così tenera, ripartiamo, abbandonando la zona boscosa per inoltrarci in una regione più secca, dove gli alberi appaiono più rari e certamente sopraffatti da piccoli cespugli e sporadiche macchie di erba assetata che cer-cano di donare un po’ di colore al bruno della terra. È qui che il caldo, fino a questo momento scongiurato dall’ombra, si rivela a noi con tutta la sua violenza: quando la jeep è in movi-mento sembra infatti che un enorme phon, pronto a sparare una fortissima aria arroven-tata, sia azionato contro di noi alla massima velocità, mentre, quando ci fermiamo, le potenti braccia di tutti i quarantaquattro gradi che oggi assediano il parco ci avvinghiano implacabili, senza accordarci neanche un attimo di respiro.

Ma un lato positivo in tutto questo c’è: senza piante a darci fastidio, è molto più semplice avvistare gli animali… peccato che non ce ne siano! Per un bel po’ di tempo, infatti, gli unici movimenti che scorgiamo sono i balzi leggiadri di qualche impala e l’andatura dondolante di alcune fa-raone dalla testa blu, le cui magre zampe sembrano far fatica a sostenere dei corpi così ben pasciuti, sicuramente molto ap-prezzati da gatti sel-vatici, caracal e linci. Ma ad un tratto, in quella che a noi appare come la grande ombra di un’acacia ad ombrello, Jeremy riesce a scorgere il corpo accovac-ciato di una iena macchiata. Binocoli in azione, poiché alcune decine di metri ci separano da quella sagoma scura, notiamo il suo muso canino sollevarsi all’improvviso dalle zampe su cui era appoggiato e volgersi verso un cespuglio lì accanto. Anche noi dirigiamo i nostri sguardi in quella direzione ed intravediamo due pic-cole corna che spuntano tra i rami. Qualche secondo dopo, il giovane impala a cui appartengono sbuca allo scoperto, accompagnato dalla sua bella: entrambi sembrano un po’ intimoriti da quel brutto essere incontrato lungo la loro strada, anche perché le iene, nonostante la fama di divoratrici di ca-rogne, sono abili cacciatrici. Ma quella che li sta svo-gliatamente fronteggiando in questo momento non sembra così decisa ad entrare in azione: forse è troppo accaldata o forse ha capito che avrebbe scarse possibilità, anche perché la coppia, già allertata, non impiegherebbe molto a distanziarla con un paio di lunghi salti. E così i due si allontanano, sempre guardinghi, mentre lei prosegue il suo sonnellino: probabilmente andrà in caccia questa sera, quando un po’ di frescura calerà sul parco, e sarà allora che nell’aria risuoneranno le sue raccapriccianti risate. Imitando gli impala, ce ne andiamo anche noi, con la speranza che il piccolo steenbok che si sta incautamente avviando verso quella solitaria acacia la cui ombra è già occupata, non scateni nella iena, con quel florido ancheggiare di quarti posteriori, una fame improv-visa. Qualche centinaio di metri dopo, è ancora un’acacia ad attirare la nostra attenzione: tra il cupo verde delle sue foglie, infatti, scorgiamo un’insolita mac-chia di colore. Guardando meglio, scopriamo le piume azzurre, blu e turchese di un’allegra ghiandaia europea, forse af-fetta da mal d’Africa, tranquilla-mente appollaiata tra le lunghe spine acuminate che ricoprono l’albero. Rimane in posa solo per pochi secondi e poi, con un frullio d’ali quasi impercet-tibile, si alza in volo per andarsi a posare su un cespuglio un po’ più distante dalla strada. Anche questa sistema-zione, però, non si rivela adatta: un grosso maschio di kudu, prima nascosto da alcuni grossi massi lì vi-cino, infatti, irrompe improvvisamente sulla scena, costringendola a scappare un’altra volta. È davvero un bell’esemplare, con quelle imponenti corna a cavatappi ed il mantello lucido percorso, sul dorso, da bianche strisce verticali, ma la nostra presenza sembra preoc-cuparlo e, dopo pochi secondi dalla sua apparizione, eccolo di nuovo scomparso dietro a quei bianchi macigni da cui era spuntato. Anche se il tempo sembra essere volato, ormai sono più di tre ore che gironzoliamo per il parco e, secondo Jeremy, è giunto il momento di sgranchirsi un po’ le gambe. Noi siamo un po’ titubanti ma ci fidiamo di lui e, dopo pochi minuti, eccoci scendere dalla jeep nei pressi dello Stevenson Hamilton Memorial Tablet, una bassa collina rocciosa circondata da numerosi alberi che speriamo vivamente non stiano dando allog-gio a qualche leopardo desi-deroso di uno spuntino… Qui, su una grossa pietra sbiadita dal sole, una lapide ricorda il primo ranger del Kruger che si è meritato il soprannome di Skukuza, ovvero “Colui che non lascia niente di intentato” per la sua strenua lotta contro il bracconaggio, ancora oggi una delle piaghe che afflig-gono il parco.

Rimaniamo solo pochi attimi ad onorare il vecchio Stevenson… pochi attimi che però sono sufficienti a farci conoscere, e subito odiare, la fasti-diosa can-tilena di un uccello appostato sui rami appena sotto di noi. Quando chiediamo informazioni, Jeremy prima sorride e poi ci spiega che si tratta di un lourie, una specie di pappagallino il cui verso ossessivo, simile ad un continuo “Go away! Go away!” sembra un ammonimento per chiunque osi avvici-narglisi. Come dar torto a quei rangers che lo hanno insignito della poco dignitosa carica di “rompiscatole del bush”? Una volta scesi dalla collina, ci rendiamo conto che sono quasi le 6.00 di sera e che il nostro primo safari sta per giungere al termine: osser-viamo an-cora per qualche minuto tre ippopotami annoiati che cercano un po’ di frescura nel Sabie e poi ci dirigiamo verso l’uscita. Ma a poche centinaia di metri dai cancelli, si presenta ai nostri occhi uno spettacolo quasi commovente, il momento culminante di que-sta gior-nata dav-vero ricca di incontri: è una giraffa. Sarà alta cinque metri, o forse qualcosa di più. Sta cercando di bere accanto ad una piccola pozza d’acqua. Ed è meravigliosa… Guardandola, il primo pensiero che si affaccia alla mente è che in lei c’è tutta l’Africa, con la sua fantasia e la sua magia, la sua dolcezza e la sua cru-deltà.

La fantasia è in quel collo lunghissimo, sostenuto solo da sette infaticabili vertebre, in quelle inutili protuberanze ossee ricoperte di pelle e pelo che spuntano curiose tra le orecchie e in quell’eccentrico vestito ottenuto cucendo, con del grossolano filo beige, una miriade di pezze marroni dalle forme e dimensioni più disparate… La magia è nel suo cuore, un grosso tamburo lungo 60 cm e pesante 11 kg capace, con i suoi battiti ritmati, di pompare il sangue verso l’alto per oltre due metri e di accordare una geniale orchestra di valvole e vasi sanguigni sparpagliati su cinque metri di altezza, tutti pronti a farsi un baffo della pres-sione… La dolcezza non può essere che nei suoi grandi occhi, la cui particolare luce è in grado di svelare tutte quelle sensazioni e quelle emo-zioni a cui la gi-raffa non riesce a dar voce. È infatti nel suo mutismo che appare la folle crudeltà dell’Africa, così cinica da riuscire a con-dannare questi animali ad un’esistenza avvolta da un velo di silenzio che niente, né la tristezza o l’allegria, né il dolore o la passione, riesce a squarciare. Nessun suono, quindi, uscirà mai da quella gola slanciata a pochi passi da noi. Nessun ansito rivelerà la paura di essere attaccata da un leone. Nessun gemito tradirà lo sforzo immane che le gambe anteriori devono compiere per assumere una posizione quasi impensabile.

E nessun sospiro confesserà il piacere provato cogliendo il profumo ed il gusto di quell’acqua finalmente raggiunta.

Sentendoci solidali con lei, anche noi diventiamo improvvisamente muti e ci guardiamo intorno allarmati, sperando che nessun pericolo si na-sconda tra gli alberi. Il rumore degli zoccoli che sbattono sul terreno, allontanandosi sempre più l’uno dall’altro, sembra durare un tempo infinito e, mentre osser-viamo il muso scendere lentamente da cinque a zero metri e l’avida bocca avvicinarsi all’acqua, non pos-siamo fare a meno di provare un po’ di pena per questo animale, così indifeso in questo momento. Solo qualche minuto dopo, quando vediamo le sue esili gambe simili a dei trampoli allontanarsi lentamente dalla pozza e dirigersi verso gli al-beri, la no-stra apprensione si dissolve, lasciando il posto ad una strana sensazione di felicità.

Forse questo era il modo migliore per concludere la nostra prima giornata di safari… Appena usciti dal parco, scorgiamo ancora la forma di un elefante ben mimetizzato tra i grossi massi che costellano il Sabie, ma parec-chi metri ci divi-dono da lui e la luce che sta già cominciando a calare non ci aiuta di certo a distinguere le sue zanne o la sua ruvida pellaccia grigia, così non ci rimane che prendere in parola il nostro ranger, pronto a prometterci per domani molti incontri con questi giganti, ed avviarci verso il Kru-ger Game Lodge, dove passeremo le nostre due prossime notti. Qui, dopo un rigenerante bagno in piscina, l’ideale per spazzare via tutto il caldo accumulato durante la giornata, raggiungiamo il boma, il re-cinto chiuso all’interno del quale ceneremo con spiedini di coccodrillo, salsicce di kudu e facocero alla griglia. Nel mezzo, un grande fuoco sta già crepitando e le fiamme, così simili a sinuose ballerine che danzano accompagnate dal ritmo scoppiettante di un complesso di grossi ceppi arroventati, alzano le lunghe braccia verso il cielo, come per ghermire le tante stelle che ci spiano da dietro le fronde degli alberi e che, di fronte alla loro luminosità, sembrano quasi impallidire. Ma, ben presto, quando il silenzio calerà sul boma e le danzatrici che ora si muovo infervorate saranno preda della stanchezza, si pren-deranno la loro rivincita: solo loro, infatti, avranno l’onore di illuminare il Sabie, che scorre accanto a noi; solo loro indicheranno la strada a quell’immenso elefante che, al tramonto, si muoveva lento tra le sue acque; solo loro terranno compagnia a Morfeo, dalle cui accoglienti braccia ci lasciamo avvolgere subito dopo la cena, stanchi per tutte le emozioni che abbiamo vissuto oggi ma allo stesso tempo ansiosi che arrivino pre-sto le 5.00, ora in cui un altro eccitante safari avrà inizio… E, quando le 5.00 finalmente arrivano, sono ancora le stelle ad illuminare il cielo e ad osservarci mentre cerchiamo di difendere i biscotti del nostro spuntino dagli attacchi di alcune simpatiche scimmiette che hanno fatto dei rami degli alberi attorno al lodge la loro casa. Qualche mi-nuto dopo, però, quando varchiamo i cancelli del parco, dei loro brillii non c’è più traccia: i teneri colori che stanno risve-gliando l’orizzonte hanno già provveduto ad offu-scarli.

Per un attimo dimentichiamo gli animali e solleviamo i nostri occhi verso quelle inoffensive nuvole screziate di rosa e di oro che, so-spinte dal vento, sembrano sfruttare questi ultimi istanti di penombra per giocare a rincorrersi. Tra poco, infatti, dovranno abbandonare il loro abito colo-rato ed indos-sarne uno bianco, immacolato, la divisa ideale per accogliere il loro re sole che, dietro gli alberi lontani, sta già cominciano la sua ascesa giornaliera e che, in un attimo, con i suoi raggi sguainati come invincibili spade, farà abdicare altri tre re.

Tre re che si sono uniti ieri sera, accomunati dalla fame e dalla necessità di cacciare, e che, quando la notte ha ammantato il parco, hanno ma-nifestato tutta la loro forza, con agghiaccianti ruggiti ed agguati mortali.

Tre re che torneranno ad imporre la loro legge quando il buio, loro alleato, ingoierà un’altra volta quella fastidiosa palla infuocata.

Tre re incoronati da una splendida criniera fulva che stanno sfilando altezzosi davanti a noi, rimasti totalmente senza parole al cospetto della loro mae-stosità.

Tre splendidi leoni presto inghiottiti dall’erba alta: un lampo, una visione fugace, quasi onirica, ma capace di provocarci un brivido e di regalarci un’emozione indimenticabile… Chiudiamo gli occhi per un attimo ed ecco che sono già scomparsi. Gli steli complici li hanno avvolti in un morbido abbraccio, come per proteg-gerli dai nostri sguardi, e solo il leggero ondeggiare delle loro verdi cime ci as-sicura che non si è trattato di un sogno, ma del mi-glior avvio che potevamo augu-rarci per la nostra giornata “in cammino”. E così, mentre i nostri tre re si muovono alla ricerca di un luogo in cui riprendersi dalle fatiche della notte, noi imbocchiamo la strada che conduce al Sabie, con la speranza di incappare in qualche ani-male assetato. Fiancheggiamo le sue rive, colonizzate da sico-mori, acacie ed alberi delle salsicce carichi di frutti allungati, e, ben presto, dall’acqua vediamo emergere gli oc-chietti, le orecchie e la massa scura del dorso di alcuni ippopotami. Per un attimo, sembra quasi che vogliano uscire dal fiume e mostrarci il loro grasso corpo percorso dal fluido rossastro che li protegge dalle scottature, ma poi un grido risuona inaspettato nell’aria silenziosa spaventandoli ed inducendoli a ributtarsi, con le piccole narici chiuse come valvole, tra i flutti da cui erano affiorati.

È il verso imperioso di un’aquila pescatrice che si sta preparando a scagliarsi sull’acqua, attratta dal guizzo di un’ignara preda. Prima che i ce-spugli, l’erba alta e le imponenti chiome degli alberi celino il suo tuffo, riusciamo a scorgere le ali color ruggine che si piegano ele-gantemente all’indietro, gli artigli affilati, bramosi di afferrare un viscido pesce, e le bianche piume della testa, che incorniciano alla perfezione il micidiale rostro pronto a colpire e quei freddi occhi dalla vista proverbiale. Ma lo stesso destino accomuna l’aquila ed i cespugli e l’erba alta che hanno nascosto il suo tuffo: ben presto, infatti, anche a loro tocca scom-parire, sommersi da una marea brunastra che si riversa sulla strada fuggendo dal fiume. Si tratta di un branco di impala che, in-tenti a bere, de-vono essere stati spaventati da quell’inattesa apparizione alata. Improvvisamente, irrompono sulla strada, circondando la jeep, e l’unico ma-schio, anch’esso alquanto tur-bato, non rie-sce ad imporre la calma sulle sue femmine, alcune delle quali, molto magre, portano ancora i segni delle sofferenze patite durante la gravi-danza, quando i piccoli che ora sgambettano inquieti accanto alle loro zampe occupavano il 15% del loro peso, rendendole molto vulnerabili agli attac-chi di quei nemici che, se avessero fiutato la presenza del branco, non avrebbero lasciato loro scampo. Questa situazione di continua tensione le ha tormen-tate per sei lunghi mesi e, se fos-sero mancati il cibo e l’acqua, si sarebbe protratta ancora di più: le femmine di impala, infatti, sono in grado di prolun-gare la loro gesta-zione anche di alcune settimane se le piogge sono scarse e non c’è abbastanza erba.

A poco a poco, brucando qualche foglia, il branco si calma e, rassicurato dal maschio, ritrova il coraggio necessario per avvicinarsi al fiume: l’aquila ormai sarà lon-tana, occupata a gustarsi il suo pesce oppure ancora in caccia perché prima i suoi artigli non hanno affer-rato altro che acqua. Noi, intanto, continuiamo a costeggiare il Sabie, ma, qualche minuto dopo, una piccola tartaruga leopardo che sta attraversando con gran flemma la strada, ben protetta dalla sua corazza maculata, ci co-stringe ad interrompere la nostra corsa. Questa, insieme al tessi-tore bufalo, allo scarabeo rinoce-ronte, al to-poragno elefante e al formicaleone, appartiene a quel gruppo che viene scherzosamente so-prannominato “small five”, cinque piccoli insetti, rettili od uccelli di cui Jeremy ci avverte non esiterà a mettersi in caccia se gli faremo fretta nella ricerca dei più am-biti “big five”, ossia il leone, il leo-pardo, l’elefante, il rinoceronte ed il bufalo… gli animali più pericolosi da cacciare… il sogno di tutti i safaristi… Allarmati da questa minaccia, gli promettiamo che non interferiremo in alcun modo con il suo, speriamo infallibile, fiuto e così, già dopo poche centinaia di metri, il nostro ranger ci dà prova della sua abilità… o forse della sua fortuna? Un grosso leopardo, infastidito dal rumore della jeep, abbandona il giaciglio di erba sul quale stava riposando accanto alla strada per raggiun-gere alcune rocce più distanti. Si muove in fretta e quindi non riusciamo del tutto a scorgere le sue lunghe vibrisse da gattone o la forma “a im-pronta di leone” delle macchie nere che ricoprono fittamente la sua pelliccia giallastra, ma la grazia della sua corsa non passa di certo inosser-vata. È un incedere felpato, si-lenzioso, pressoché inavvertibile e per questo incute timore, ansia ed un grandissimo rispetto. Lo sanno bene gli impala che lo osservano impauriti non molto distanti dalle pietre che ha scelto come nascondiglio. Per qual-che minuto, scalpitano nervosa-mente, indecisi se fuggire o fidarsi della sua appa-rente calma, e poi si tranquillizzano. Se-condo molti zoologi, infatti, le prede intuiscono quando il cacciatore è deciso a sferrare un attacco ed evidente-mente in questo momento quello stanco leopardo di cui noi vediamo solo più una zampa penzolare mollemente da un macigno arrotondato non ne ha la più pallida inten-zione. Ma i “McDonald’s del bush” non possono comunque stare tranquilli. Subito dopo essere ripartiti, infatti, una lunga striscia distesa sulla strada ci obbliga un’altra volta a fermarci: è un pitone di roccia, il terzo serpente al mondo in ordine di grandezza, dopo l’anaconda ed il pitone reticolato. Si tratta di un esemplare nato solo da pochi mesi, ma sicuramente molto ghiotto di piccoli impala. Spaventato dal ru-more della jeep dei nostri compagni di viaggio, che arrivano all’improvviso alle nostre spalle e ci informano, un po’ delusi, che Keith sta facendo apprezzare loro quasi esclusivamente il lato ornitologico del safari (!), si attorciglia rapido su se stesso, assumendo la stessa posizione di cui si serve quando attacca, e sparisce tra i cespugli, continuando a far saettare nell’aria la sua lingua biforcuta.

Per nostra fortuna, Jeremy, a differenza di Keith, non è attratto solo dai volatili e così, qualche minuto dopo, riesce ad avvistare quattro antilopi rupestri mimetizzate in modo quasi perfetto con i massi ricoperti di polvere rossastra sui quali si stanno muovendo. Mentre le osserviamo sal-tellare sulle rocce più impervie con i loro zoccoli simili a delle ventose, Carla ci spiega che equilibrio ed agilità non sono le uniche armi di difesa che questi animali possono adottare contro i leopardi, i loro più grandi predatori. Anche il pelo, molto corto, si ri-vela infatti un valido alleato: essendo vuoto all’interno, per permet-tere alle antilopi di sopportare il caldo sprigionato dalle pietre e dai sassi tra cui vivono, si stacca facil-mente dal corpo… e, per questo motivo, a volte ca-pita che i leopardi più abili, o forse più affamati, capaci di seguirle nei loro balzi acrobatici, concludano la caccia stringendo tra i denti soltanto un poco appetitoso pugno di peli! Le quattro femmine che stiamo scrutando forse non si sono accorte di noi e si allontanano lentamente, piegandosi ogni tanto a strap-pare i pochi steli d’erba eroicamente cresciuti tra quelle rocce arroventate: assorbendo l’umidità in essi contenuta, potranno resistere anche parecchi giorni senz’acqua ed evitare così di scendere verso il fiume e di abbandonare quell’ambiente roccioso in cui possono sfo-derare tutto il loro repertorio di salti.

Quando anche l’ultima è scomparsa, Jeremy si rimette in marcia, continuando a seguire il corso del Sabie. Ad un tratto, alcune automo-bili ferme su un ponte attirano la nostra attenzione. Convinti che ci sia qualcosa di interessante, decidiamo di seguirle, ma gli unici ani-mali che incon-triamo sono alcuni babbuini che guardano con occhi un po’ troppo curiosi la nostra jeep ed un airone Golia che sta scan-dagliando con il suo lungo becco l’acqua mel-mosa rimasta imprigionata tra alcuni grossi massi vicini alla riva, alla ricerca di qualche ap-petitosa ranocchia. Sorridiamo dello sguardo stizzito con cui si al-lontana dopo alcune beccate andate a vuoto e poi ci allontaniamo an-che noi per dirigerci verso Lower Sabie, dove gli altri nostri compagni di viaggio ci raggiungono per la colazione. Il confronto degli avvi-stamenti di queste prime tre ore di safari è inevi-tabile e così, mentre noi descriviamo il nostro breve incontro con il leo-pardo, loro ci rac-contano di un enorme ippopotamo che, intento ad attra-versare in tutta tranquillità la strada che stavano percorrendo, ha rotto la mo-notonia di ali e becchi in cui sembrava fossero rimasti intrappolati. Con la speranza che una scena simile si presenti anche davanti ai nostri occhi, li salutiamo e ci rimettiamo in cammino. In effetti, i primi animali che incontriamo dopo la sosta sono proprio degli ippopotami, ma non sembrano molto propensi ad abbandonare l’acqua della pozza in cui stanno sguaz-zando per lasciarsi travolgere dalla calda aria che sta cominciando ad aggirarsi per il parco. Poco importa: sulla riva opposta a quella su sui ci troviamo noi, infatti, molti altri animali si mostrano in tutto il loro splendore. Alcuni impala stanno bru-cando la tenera erbetta che è cresciuta alimentata dall’acqua, mentre un facocero scorrazza tra gli alberi poco distanti ed un airone ci-nerino si muove senza una direzione precisa sui suoi lunghi trampoli. Anche loro, però, come gli ippopotami, vengono ben presto igno-rati dai nostri sguardi. All’ombra delle acacie cresciute a pochi metri dalla pozza, infatti, un’enorme massa grigia si sta muovendo in modo non molto aggraziato: appartiene ad un rinoce-ronte bianco che, dopo un rigenerante bagno di fango, sta cercando di sbarazzarsi dei molti parassiti che lo tormentano sfregandosi contro un malcapitato tronco. È incredibilmente grosso: il corpo, tozzo e massiccio, sembra poggiare su quattro corte ma solide colonne ed anche il corno, che in questo momento sta fendendo pericolosamente l’aria, sembra essere lì per dimostrare tutta la potenza del suo proprietario. Proprio que-sta protuberanza che spunta orgogliosa sopra la bocca, però, è la responsabile dello sterminio a cui sono stati sottoposti i rinoceronti nell’ultimo secolo. Secondo la medicina cinese, infatti, non c’è nulla di più afrodisiaco della polvere ricavata da un semplice ammasso di peli strettamente saldati tra di loro che, come molti studi hanno dimostrato, contiene soprattutto cheratina.

E per questo motivo, oltre che per il piacere che alcuni stupidi sanguinari provano nel veder svettare sopra il caminetto un lugubre tro-feo di caccia, mentre io mi chiedo perché i cinesi non abbiano ancora capito che c’è un metodo molto più comodo per migliorare le pro-prie prestazioni sessuali, ov-vero triturarsi le proprie unghie, e perché i cacciatori non si siano ancora resi conto che un bel quadro sa-rebbe sicuramente più di buon gusto, il brac-conaggio continua ad essere uno dei mali che flagellano l’Africa, costretta negli ultimi trent’anni a vedere i rinoceronti che gironzolavano per le sue sa-vane diminuire da 20.000 a 3.500 esemplari… un male di fronte al quale nemmeno il Kruger Park riesce ad essere indenne. Jeremy sembra molto contento di questo incontro e ci consiglia di non fare il minimo rumore: l’udito del rinoceronte, infatti, è molto sviluppato e proba-bilmente le nostre parole, anche se appena sussurrate, lo metterebbero in guardia e lo spingerebbero ad allontanarsi. E così è nel silenzio più assoluto che ci godiamo questo luogo magico, in cui la natura non merita di essere disturbata dalle nostre voci. Nel silenzio più assoluto ammiriamo i mille colori attorno a noi, che spaziano dal verde brillante dell’erba al bruno della terra fino all’azzurro del cielo che ogni minuto sembra impreziosirsi di una nuova tonalità. E nel silenzio più assoluto ci facciamo avvolgere dalla pace che qui regna sovrana.

Nemmeno il canto degli uccelli tessitori si leva nell’aria. Il loro grosso nido, costruito sui rami di un albero ormai secco, sembra disabi-tato e non c’è trac-cia neppure del falco pigmeo, il rapace più piccolo al mondo, che di solito offre loro protezione dai predatori, in cam-bio di una sistema-zione in quel rifu-gio che può comprendere fino a cinquanta stanze ed arrivare ad alloggiare più di trecento uccellini. Soltanto il ruggito di un ippopotamo che si erge improvviso dall’acqua, dando vita ad infinite increspature concentriche, interrompe i nostri pen-sieri. Con ogni probabilità, è stufo della nostra presenza ed i lunghi canini di cui fa sfoggio allargando la bocca sono un chiaro segnale del suo malumore. Di fronte a questo inequivocabile avvertimento, quindi, non possiamo far altro che allontanarci dalla pozza, ma, dopo qualche mi-nuto, altre masse grigiastre che si muovono in riva al fiume ci costringono a fermarci. Questa volta, però, sopra la loro bocca non svetta alcun corno… Solo una lunga proboscide! Cinque elefanti stanno infatti giocando con l’acqua a qualche decina di metri da noi e sembrano sfruttare questi momenti di diverti-mento per insegnare al piccolo che si muove tra di loro in che modo usare quello strano aspiratore azionato da migliaia di muscoli che spunta tra le zanne. Per lui, però, non è affatto facile imitare i grandi, così abili nel creare zampilli e spruzzi che, alla luce del sole, si illuminano di infiniti riverberi: ben presto si perde d’animo e, stufo che i suoi ostinati tentativi non producano altro che timide piogge-relle, si immerge nel fiume, dove, con un gran sollevarsi di onde, lo raggiun-gono an-che gli altri. La lezione, almeno per oggi, sembra proprio terminata… La nostra tappa successiva è ancora nei pressi di una pozza d’acqua, ma anche in questo caso nessun ippopotamo tra quelli che si stanno go-dendo i leggeri massaggi delle onde decide di mostrarci il suo grasso corpo. Rimangono tutti sommersi e solo i loro occhietti spuntano di tanto in tanto per scrutare prima noi e poi quelle brutte cicogne marabù che si stanno riposando sulla riva e che, con il gozzo rosso, le bianche zampe scheletriche e la loro tetra fama di becchini, ci incutono un po’ di timore. Dirigo il mio binocolo nella dire-zione opposta a questi uccellacci e stento a credere ai miei occhi quando questi colgono, a pochi metri dagli alberi, un movimento che nessun altro dei miei compagni ha notato. È un’andatura indolente, annoiata, accompagnata da una lunga coda ripiegata tra le zampe. Ma basta un leggero battito di ciglia per cancel-larla. Decisa a capire di cosa si tratta, mi consulto con Jeremy e dopo qualche secondo, quando lui si complimenta con me per aver avvistato una leonessa intenta a cercare un po’ d’ombra per riposarsi, non posso fare a meno di ringraziare la mia buona stella… e cercare di im-primermi nella mente quei po-chi passi che ho visto qualche attimo fa perché ora di quelle grosse zampe da gatto e di quel manto fulvo non c’è più traccia: soltanto pochi indecifrabili movimenti si scorgono tra i cespugli ad indicare che la belva ha finalmente trovato la fre-scura di cui era in cerca. Niente allarmismi, dunque, per il branco di impala che sta bevendo sull’altra riva… Mentre ci rimettiamo in marcia, nel cielo in lontananza scorgiamo una nuvola di avvoltoi che sta volando in circolo: nei paraggi ci sarà sicura-mente una car-cassa. Aspetteranno che il predatore l’abbandoni, sazio, e poi, a seconda della specie, si avvicineranno ad essa: prima toccherà agli uccelli con il becco più duro, capaci di frantumare le ossa e poi, quando questi avranno placato la loro fame, po-tranno avvicinarsi quelli che si nutrono di midollo. Decidiamo all’unanimità che non è uno spettacolo a cui vogliamo assistere, ma Je-remy, forse contagiato da Keith, si sente improvvisamente attratto dai volatili e così, dopo qualche chilometro, si ferma nei pressi di uno stagno dove dovremmo avere la possibilità di avvistarne parecchi… peccato che oggi l’unico movimento visibile tra gli alberi sia quello delle foglie agitate dal vento e che i martin pescatori, le ghiandaie, le nettarine e gli uccelli tessitori abbiano abbandonato tutti i loro nidi per piroettare nell’aria! Proviamo allora a scrutare l’acqua, con la speranza che almeno un coccodrillo irritato dalle nostre voci si faccia vedere, ma nemmeno una piccola increspatura rompe la sua quiete, quindi, pochi minuti dopo il nostro arrivo, decidiamo di lasciarci alle spalle questo luogo, assecondando la nostra buona stella che sembra prefe-rire le aree più assetate, dove i sovrani indiscussi sono i pic-coli arbusti, le acacie spinose, qualche indomito ciuffo d’erba e soprattutto gli sche-letri biancastri degli alberi ormai secchi, i cui rami, pietosamente rivolti verso il cielo, sembrano ancora convinti che qualche goccia d’acqua li possa salvare. È qui che si muovono silenziose le giraffe. Ne scorgiamo davvero molte, impegnate ad assaporare le foglioline delle acacie, insensibili alle spine che, grazie al loro palato gommoso, possono ingerire senza problemi, oppure a spiarci nascoste dalle fronde o ancora a scap-pare, allarmate dal rumore della nostra jeep, cercando di tener fede al loro nome, che deriva dall’arabo “xirapha” e significa “colui che cammina veloce”. Ma è un branco di gnu a regalarci l’immagine “africana” per eccellenza. Sono tutti occupati a pascolare all’ombra di una grossa e fron-zuta aca-cia, l’unico albero cresciuto nello spazio di centinaia di metri. L’erba con cui stanno cercando di nutrirsi è ormai secca, la terra su cui scalpitano è bruna, arsa da mille soli, ed il cielo è di un azzurro limpido percorso da qualche nuvoletta. Questa è l’Africa, non c’è ombra di dubbio! E l’Africa è anche quel leone che osserva con sguardo sfrontato tutte le jeep ferme a pochi passi da lui e non accenna ad abbandonare il giaci-glio d’erba su cui si è disteso con la sua leonessa. Il suo alone di maestà e di potere è un po’ offuscato dalla lingua penzoloni e dai sospiri accal-dati che hanno preso il posto dei ruggiti selvaggi, ma quella criniera così folta, un ottimo scudo con cui proteggere la giu-gulare durante i com-battimenti contro i suoi simili, e quei canini affilati che si intravedono nella sua bocca mentre ansima, soffocato dall’afa, saranno sicuramente molto rispettati nel bushveld. An-che la femmina ha un aspetto davvero nobile: glielo conferiscono i suoi fieri occhi giallastri, sotto i quali pos-siamo chiaramente notare una spessa stri-scia bianca, utile per migliorare la vista notturna, ed il suo muso aggraziato su cui spicca un sorriso sornione incorniciato da lunghi baffi. Siamo totalmente ipnotizzati da questa immagine e finiamo col supplicare Jeremy di fermarsi ancora un po’ nel momento in cui rimette in moto, ma lui non vuole sentir ragione: deve ancora mantenere la promessa fattaci ieri sera. Secondo il nostro ranger, in-fatti, l’avvistamento capitatoci prima lungo il fiume, per il quale noi ci sentivamo già molto soddisfatti, non rappresentava affatto quello che si può definire “un vero incontro con un elefante”. Un vero incontro con un elefante è quello che ci capita qualche minuto dopo, lungo la strada che ci porta verso l’area in cui sosteremo per il pranzo. È un vecchio maschio, fermo a non più di quattro o cinque metri da noi, ed è immenso! Ci sta fissando con i suoi vacui occhi neri: pro-babil-mente non riesce a metterci a fuoco in modo perfetto, perché la sua vista è molto debole e noi siamo come pietrificati, ma non ha dubbi che siamo lì, davanti a lui: grazie al suo udito finissimo, infatti, può sentire i battiti del nostro cuore accelerare all’impazzata quando le sue grandi orecchie a forma d’Africa iniziano a sven-tolare nell’aria. Bastano pochi secondi, però, per capire che non si muo-vono con quel ritmo furioso, la-tore di una carica che può raggiungere an-che i 60 km/h, che gli uomini e gli altri animali hanno imparato a temere: il vecchio gigante sta solo cercando di scacciare quel caldo insopportabile che af-fligge ogni cellula del suo corpo. Jeremy ci fa notare che una resa dei conti con un suo simile deve avergli spezzato la zanna sinistra, di cui rimane solo un timido mon-cherino, mentre quella destra è ancora integra, pronta ad affrontare nuove battaglie. È di un bianco opaco, macchiato in alcuni punti dai succhi vegetali dei marula e dei gwarrie di cui questo colosso è ghiotto. Nonostante in questo momento stia strappando lunghi fili d’erba con la sua proboscide, infatti, preferi-sce di gran lunga rimpin-zarsi di foglie, frutti o cortecce e, per assicurarsi la sua dose giornaliera di cibo – 300 kg! – non esita ad abbattere, con la testa o con il corpo, alberi anche molto grossi. Ma questa mania di distruzione sta creando seri problemi ai circa 10.000 ele-fanti che, a causa delle frontiere innaturali con lo Zim-babwe ed il Mozambico, si sono dovuti stabilire definitivamente nel Kruger Park, scordan-dosi per sempre le migrazioni: un parco come que-sto, infatti, può resistere alle scorre-rie di “solo” 8.000 esemplari. Per questo motivo è nato un progetto che ha l’obiettivo di trasferire nei Paesi confinanti almeno 1.000 elefanti, ma gli ostacoli da superare sono molti e certa-mente non si può condannare questi animali a vivere in zone flagellate dal brac-co-naggio, dai disboscamenti abusivi o dalle mine lasciate in eredità dai conflitti scoppiati negli ultimi anni. Chissà se anche il nostro vecchio guerriero dovrà cambiar casa o se continuerà ad aggirarsi per il Kruger… Noi intanto lo salutiamo, ansiosi di raggiungere gli altri nostri amici e di raccontar loro, nei minimi dettagli, quest’ultimo, esaltante in-contro. Keith e Je-remy hanno scelto un luogo davvero fantastico per il pranzo: lo sguardo spazia su un’enorme pozza d’acqua distesa ai nostri piedi, nella quale riusciamo a scorgere, armati di binocoli, un grosso branco di elefanti che sta giocando. Divertiti dalle evoluzioni delle loro proboscidi, quasi non notiamo l’enorme nuvola di polvere che in un attimo inghiotte gli alberi stagliati contro l’orizzonte: a sollevarla è una mandria di bufali che si sta allonta-nando dal fiume. Soltanto alcuni sono visibili, ma i nostri due rangers ci assicurano che saranno almeno cinquecento capi e, subito dopo la sosta, decidono di portarci faccia a faccia con le loro corna ricurve ed i loro neri mantelli impolverati. Mentre ci soffermiamo ad osservare un piccolo nato da un solo giorno, dalla cui pancia spunta ancora una parte del cordone ombelicale, che, con le sue zampe titubanti, fatica a seguire la mamma e le altre femmine, ansiose di portarlo via dai nostri sguardi, stentiamo a credere di es-sere di fronte a quelli che rangers e cacciatori hanno dichiarato all’unanimità gli animali più pericolosi del bush, ma tutto il nostro coraggio è destinato a vacillare pochi se-condi dopo, di fronte agli sguardi inferociti di alcuni grossi maschi che hanno circondato la jeep, e ad essere com-pletamente schiacciato, proprio come quegli zoccoli scalpitanti stanno schiacciando l’erba, quando nell’aria, già percorsa da pericolose parabole disegnate dalle corna, si levano sbuffi nervosi e quando dalle numerose bocche che hanno smesso im-provvisamente di brucare comincia a tra-boccare un’inquietante schiuma, segno inequivocabile di grande insofferenza. Dinanzi a queste credenziali è decisamente impossibile contrad-dire chi ha scelto questa definizione… E molto difficile risulta anche contraddire Keith (ora è lui il nostro ranger) che, non sentendosi affatto al sicuro, decide di allontanarsi, alla ri-cerca di ani-mali più tranquilli. È così che ci imbattiamo in due giovani elefanti fermi a pochi metri dalla strada, nel punto in cui le foglie di alcuni alberi hanno scate-nato il loro appetito: impegnati come sono a strapparle, quasi non fanno caso ai nostri occhi, pronti ad esaminare ogni ruga ed ogni grinza della loro pelle, ogni macchia di fango o terra che ha intaccato l’avorio di quelle zanne ancora corte, ma esibite con grande fie-rezza, ed ogni movimento di quelle orecchie che hanno sicuramente captato la flebile voce di Keith, ca-pace di riportarci indietro di trent’anni, al tempo in cui il sogno di ogni viaggiatore che varcava le porte del Kruger Park non era quello di avvistare i “big five”, ma i “magnificient se-ven”. Shawu, Dzombo, João, Kambaku, Mafuyane, Ndulamithi o Shingwedzi: questi erano i loro nomi. Si aggiravano per il parco esibendo eccezionali scimitarre eburnee e suscitando lo stupore dei guardaparco e dei turisti e la cupidigia dei brac-conieri, tanto che due di loro caddero sotto i colpi dei fucili. Gli altri cinque, invece, si spensero serenamente, in quelle praterie che per cent’anni erano state il loro regno. Al giorno d’oggi, qualche scettico non crede a questa storia e la liquida come una leggenda inventata dai rangers per impressionare i visitatori del parco… ma le zanne di Shawu sono esposte al campo di Letaba e le loro dimensioni sono pronte ad impressionare chiun-que nutra dei dubbi: una misura 303,5 cm, mentre l’altra arriva a ben 317,00! Forse nelle vene dei due giovani di fronte a noi scorre il sangue di uno dei magnifici sette e forse tra cent’anni saranno i loro nomi a popolare le storie raccontate dai rangers… per ora noi li lasciamo ai loro giochi, e ci allontaniamo dirigendoci verso nord. Scorgere qualche movimento nel veld, però, diventa davvero un’impresa alle due del pomeriggio, quando il termometro posizionato sulla jeep segna quarantacinque gradi, così vaghiamo per parecchio tempo senza vedere altro che alberi presi d’assalto dalle termiti, i cui rifugi hanno raggiunto di-men-sioni impensabili, spingendosi a coprire persino i rami più bassi con una compatta terra rossiccia. Al loro interno, le regine, che vivono fino a quin-dici anni ed ogni giorno depongono ventimila uova, si staranno godendo una temperatura di appena ventisette gradi, mante-nuta costante grazie al battito delle ali delle operaie a cui è stato affidato questo compito! Che invi-dia… Ma, ad un tratto, una nuvola di polvere che si solleva nell’aria a poche decine di metri da noi, accompagnata dallo scalpiccio di alcuni zoccoli, distoglie i nostri sguardi da questi mucchietti che non tarderanno a soffocare gli alberi: alcune zebre, evidentemente molto diffi-denti, si stanno allontanando di corsa, con la criniera sbarazzina agitata dal vento. Le quattro giraffe che erano con loro, invece, si di-mostrano più spavalde, o forse soltanto più curiose, e rimangono a fissarci per qualche minuto con i loro dolci occhioni. Nel gruppetto c’è anche un piccolo, alto non più di due metri, che ancora non si sente pronto per allontanarsi dalle gambe della mamma, lunghe quanto lui: la segue in ogni suo passo, cercando protezione non tanto dalle jeep, a cui ormai sarà abituato, quanto piuttosto da quei grossi gattoni che si aggirano furtivi per il parco aspettando, con infinita pazienza, il momento propizio per attaccare. Ed in effetti è proprio un grosso gattone quello che, con l’aiuto dei binocoli, intravediamo pochi chilometri dopo, ma, fortunatamente per le gi-raffe, non dà l’impressione di avere intenzioni bellicose: il suo corpo fulvo, infatti, è placidamente allungato su una roccia e solo la coda sembra in grado di muo-versi per frustare, con scarsa convinzione, quell’aria calda colpevole di avergli sottratto tutte le forze. È una giovane leonessa. Una recente corsa dietro ad un’antilope o ad una zebra deve averla sfiancata ed ora, dopo aver nascosto i suoi cuccioli al sicuro tra le pietre accanto a lei, sta cercando di riprendere le forze, ma ben presto tre piccoli batuffoli di pelo emergono dal covo segreto e si lan-ciano all’attacco del suo muso, pi-gra-mente adagiato su una zampa, e della lunga coda che continua ad accanirsi contro l’afa, ponendo così fine alla sue fusa. Sfortunatamente, la grande distanza che ci separa non ci permette di distinguere nei minimi dettagli questo gioco fatto di innocui graf-fietti e tenere lec-cate e così, dopo un ultimo sguardo a quei quattro corpi che ormai si sono fusi in uno solo, lasciamo che Keith si ri-metta in marcia e che l’invadente ca-lura ci avvolga ancora una volta tra le sue spire. Ma poco più in là ecco che il nostro ranger pigia nuovamente sul freno: quattro piccole antilopi di canna, una specie molto rara all’interno del Kruger Park, stanno infatti brucando all’ombra di un albero della febbre, la pianta dal tronco giallastro che i Voortrekkers accusarono ingiusta-mente di causare la malaria. Durante il loro Great Trek, infatti, l’acqua era un bene alquanto prezioso ed anche le insane paludi potevano di-ventare un ottimo luogo in cui fermarsi per la notte. Dopo aver sostato in queste zone acquitrinose, però, molti pionieri diventavano preda di un male sconosciuto, che si manifestava con febbri altissime, capaci di portare, nel giro di pochi giorni, alla morte. Non poteva trattarsi di una pu-nizione divina – loro erano il popolo prescelto da Dio! – e neanche gli animali sembra-vano avere una qualche responsabilità: i maggiori indiziati divennero quindi quegli strani alberi che avevano trovato nei suoli melmosi il loro habitat ideale. Perfino il loro aspetto malaticcio sembrava confermare questa tesi: erano rinsecchiti, giallognoli e da ognuno di essi un ramo morto penzolava lugubremente a terra. Fu così che nacque questo tetro nome che non venne cambiato neanche nel 1880, quando un patologo inglese, Sir Ronald Ross, dichiarò la loro innocenza, attri-buendo ogni colpa ad un particolare tipo di zanzara. Fu-rono invece dei botanici a ca-pire che quel ramo secco, sempre il più vicino al suolo, che caratte-rizzava ogni tronco e che ogni anno ca-deva per essere sostituito da quello appena sopra, era in realtà la “vittima designata” che si faceva carico di as-sorbire tutti i sali nocivi dal terreno, sacrificandosi per la sopravvivenza della pianta. Le antilopi, naturalmente, si dimostrano molto timide e, al solo vedere i nostri obiettivi puntati nella loro direzione, fuggono nella bosca-glia. Non ci rimane quindi che ripartire: la nostra prossima destinazione è il punto panoramico di Nkumbe. Lo raggiungiamo in poco tempo, anche perché il caldo continua a farla da padrone nel bushveld e quindi quasi tutti gli animali si nascondono ai nostri sguardi, prefe-rendo i luoghi più ombreggiati in cui è difficile scorgerli. Le uniche due soste lungo il tragitto sono quelle che effettuiamo per “ammirare” la zecca che ancora adesso mi sto chiedendo come Keith abbia potuto notare tra l’erba alta a lato della strada ed un gio-vane leadwood i cui rami hanno dato ospita-lità a due pappagallini verdi, impegnati a scambiarsi tenerezze dietro le foglie, e ad un bu-cero dal becco giallo, che, a differenza dei suoi coin-quilini, amanti della riservatezza, ci osserva sfrontato e sembra non avere alcun ti-more di noi e della squillante voce di Carla, intenta a spiegarci come questo uccello, che a causa del suo becco – lungo, giallo e ricurvo – si è meritato il simpatico soprannome di “banana volante”, si com-porta durante il periodo della cova, quando la sopravvivenza della sua futura famiglia dipende esclusivamente da lui: la femmina, infatti, dopo aver trovato un tronco cavo, si libera di tutte le piume per preparare un rifugio accogliente per le uova, ritrovandosi così nell’impossibilità di ab-bandonare il nido e lasciando al maschio la respon-sabilità di procurarle il cibo fino a quando i pulcini non saranno nati ed il piumaggio ricre-sciuto.

Nkumbe è un luogo davvero straordinario. È una bassa collinetta in cima alla quale si può scendere dalla jeep per godere del meraviglioso panorama disteso ai propri piedi: una vasta pia-nura co-lorata da mille tonalità di ocra e bruno e picchiettata qua e là di alberi, in alcuni punti fitti, in altri più radi, in altri an-cora totalmente ine-sistenti. A pochi passi dall’orizzonte brillano alcune preziose pozze d’acqua in cui un sole particolarmente vanitoso sembra specchiarsi, accecan-doci, or-goglioso della sua potenza. Questa terra, infatti, appartiene a lui.

Lui l’ha plasmata con i suoi raggi, a volte simili a sferzanti frustate, altre volte leggeri come carezze.

Lui le ha donato il suo stesso colore: il fulvo del manto di un leone, il giallo degli occhi di un ghepardo, l’arancio dei petali di una protea.

E lui le ha trasmesso anche il suo stesso carattere, rendendola forte, aspra e violenta, ma bella da mozzare il fiato… La-sciando lo sguardo vagare su questa distesa sconfinata non si può non percepire in modo inequivocabile la vastità del Kruger Park: di fronte a noi, in-fatti, c’è solo una parte infinitesimale del parco che però riesce a riempire tutto il nostro campo visivo. Laggiù, invisibili ai nostri occhi, si staranno muovendo migliaia di animali: minuscole formiche alla ricerca di cibo od indaffarate a sca-vare nuove vie nei loro rifugi sotterranei e maestosi elefanti immersi in qualche pozza d’acqua o pronti ad assalire gio-vani alberi di yel-lowwood per assicu-rarsi le foglioline appena spuntate sui rami più alti; titubanti antilopi nascoste tra l’erba alta cresciuta vicino a qual-che fiume, con le orecchie ritte a captare il passo fel-pato di un leone o lo strisciare sinuoso di un pericoloso serpente; piccoli uccelli indi-catori, golosi di cera e di uova di ape, intenti ad attirare l’attenzione, con i loro richiami frenetici, di una genetta ghiotta di miele per condurla verso il piccolo alveare adocchiato tra gli alberi e concedersi, dopo che lei l’avrà aperto e saccheggiato, un delizioso spuntino a base di cera e di larve; indolenti tartarughe allar-mate da un rumore sospetto e prontamente rintanate nei loro gusci ed agili ghepardi sfiancati dalla recente corsa, purtroppo infruttuosa, alle calcagna di un branco di impala; e poi sciacalli, coccodrilli e struzzi; linci, avvol-toi e porcospini… un mondo di fronte al quale non possiamo sen-tirci nient’altro che una nullità.

Ben presto, il sole reclama il suo dominio su Nkumbe, rendendo le pietre su cui ci eravamo seduti roventi e le nostre gole secche, e così, dopo aver ca-pito che neanche rifugiarsi all’ombra di una grande euforbia cresciuta lì vicino serve a qualcosa, non possiamo far al-tro che allontanarci da questo luogo così magico e raggiungere il campo di Tshokwane, dove possiamo rimpinguare le nostre scorte d’acqua: le numerose bottiglie che i rangers hanno provveduto a caricare sulle jeep questa mattina sono infatti abbandonate sui sedili, tristemente vuote, e lungo la strada riusciamo a trovare un po’ di refrigerio soltanto spruzzandoci addosso il ghiaccio ormai sciolto che fino a poche ore fa provvedeva a tenerle fre-sche.

Ma, una volta dissetati, il nostro safari può riprendere. Ci avviciniamo alla Silolweni Dam, una grossa pozza d’acqua in cui due ippopo-tami stanno cer-cando, con i loro ruggiti sguaiati, di spaventare un esercito di cicogne marabù che ha invaso il loro territorio, ma ci fer-miamo solo per pochi secondi: gli occhi attenti di Keith, infatti, hanno scorto un movimento felino tra gli arbusti cresciuti sull’altra sponda. Ritorniamo quindi in strada per cercare di avvi-cinarci il più possibile ed ecco che di fronte a noi appare una giovane leonessa. Si sta aggirando disperata in mezzo agli alberi, in cerca di una preda che possa rinvigorire il suo corpo, scavato da giorni e giorni di fame. Le zampe sono magre, prive di muscoli, mentre sul dorso e sui fianchi le costole sem-brano voler forare il mantello, un tempo lucido e nobile ed ora arruffato e cascante. Ma lo sguardo, violento, acceso e risoluto, non lascia trasparire il suo tormento ed il ruggito che ci rivolge prima di allontanarsi è flebile, eppure carico di de-terminazione. La lasciamo alla sua caccia, augurandole con tutto il cuore che sia proficua, ed imbocchiamo la lunga strada che ci riporterà ai cancelli: il sole infatti sta già cominciando a calare e noi dobbiamo ancora percorrere parecchi chilometri prima di arrivare alla Paul Kruger Gate. Fortunatamente, però, gli incontri non sono ancora finiti. Qualche minuto dopo, infatti, ci imbattiamo in un grosso rinoceronte bianco… e sono io ad avvistarlo! Non che fosse difficile, visto che era fermo a tre o quattro metri dalla strada, ma tutti gli altri, inspiegabilmente, non si sono accorti della sua presenza ed anche Keith avrebbe pro-seguito tranquillo se quella mia esclamazione non gli avesse rotto i timpani (di fronte ad un animale così, infatti, mi sono scordata la prima re-gola del safari, ossia fare meno ru-more possibile!).

È immobile tra gli arbusti, una zampa leggermente ferita, e non accenna a muoversi nemmeno quando i nostri sussurri e gli scatti delle mac-chine foto-grafiche interrompono il silenzio in cui era immerso. Solo il muso si gira lentamente verso di noi, ma i due occhietti miopi, incorniciati da un’intricata ragnatela di rughe, fanno fatica a metterci a fuoco. Il lungo corno che si erge sopra la bocca appare innocuo, così intento a tor-mentare alcuni ramoscelli che tra non molto cadranno al suolo: ormai non c’è più traccia della veemenza che deve aver esibito durante il com-battimento svoltosi poche ore fa, al termine del quale questo colosso ora a pochi passi da noi ha dovuto chinare il capo, sconfitto e ferito, di fronte al suo avversario. A poco a poco, le ombre dei rami si allungano sulla sua spessa pellaccia grigia, facendola apparire ancora più scura, di un colore simile all’ardesia, e facendo sembrare il suo nome – rinoceronte bianco – alquanto fuori luogo! In effetti, solo un grosso equivoco ha fatto sì che que-sto animale venisse battezzato così. La sua bocca, infatti, è più larga rispetto a quella dell’altra specie, i rinoceronti neri, ed an-che la stazza è maggiore: ai Boeri, quindi, nulla sembrò più appropriato, per distinguere le due razze, che attribuire a quella più grande l’aggettivo “wijde”, os-sia “ampio”. Per molti anni questi rinoce-ronti vennero chiamati in questo modo, ma poi, con l’arrivo degli Inglesi, il “wijde” olandese si trasformò in “white” e da quel momento la fantasia dei viaggiatori si scatenò alla ricerca delle più svariate motiva-zioni in grado di giustificare questo nome all’apparenza inspiegabile: qualcuno sosteneva che fossero bianchi solo nei primi giorni di vita, mentre altri, in totale opposizione, erano più propensi ad attribuire la purezza alla vecchiaia ed altri an-cora fantasticavano su un animale raris-simo che però nessuno riusciva mai ad avvi-stare. Naturalmente, poi, non mancavano le persone ostinate a cer-care a tutti i costi qualche sprazzo niveo in mezzo al grigiore della coda, della pancia o delle zampe… Ora che il mistero è stato svelato e campeggia su tutte le guide safari, questo nome così singolare sembra solo un ulteriore omaggio alla stra-nezza di questo animale gobbuto, dal corpo massiccio e dagli occhietti tristi, dal corno che è allo stesso tempo un vanto ed una minaccia, dal carattere forte ep-pure vulnerabile a causa della sua scarsa vista, docile ma capace di lanciare tutti i suoi 1.500 chili ad una velocità di 50 km/h contro chiunque l’abbia minacciato… Noi osserviamo il nostro gigante solo per pochi minuti, poi, quando alcuni sbuffi inquieti cominciano a spargersi nel vento, in un chiaro segnale di nervo-si-smo, decidiamo di accontentare la sua richiesta di solitudine e ci allontaniamo dirigendoci verso il Sabie.

Nessun altro luogo, infatti, dovrebbe essere più adatto del “fiume del terrore” per scorgere qualche coccodrillo… ed in effetti Keith rie-sce ad avvistarne uno dopo pochi minuti: si tratta di un piccolo nato da pochi mesi e lungo meno di un metro, ma i “dentini” che mette in mostra nel momento in cui apre la bocca sono comun-que un ottimo avvertimento per l’airone cinerino che si sta muovendo, elegante, accanto alla riva. Non ci illudiamo di vedere at-torno a lui altri movi-menti o altre schiene dentellate pronte ad affiorare dal fiume: i coc-codrilli, infatti, sono animali solitari e proprio per questo motivo possiedono una sola espressione che li accompagna per tutta la vita, uno sguardo freddo e cattivo che ri-mane stampato sul loro grugno sia quando stanno riposando che quando stanno cacciando, sia quando sono affamati che quando si sentono sazi e poi quando le uova che hanno deposto nella sabbia si schiudono, quando stanno per morire o quando un qualche pericolo li minaccia… Il nostro esemplare ci osserva per pochi secondi, spalanca ancora una volta le sue pericolose fauci e poi, con un guizzo fulmineo, si la-scia nuo-vamente avvolgere dall’acqua. Nello stesso momento, l’airone cinerino spicca il volo, librandosi in quel cielo che ben presto si tingerà dei colori del tramonto e lasciando al leggero venticello levatosi poco fa l’onore di creare, sbatacchiando le alte canne cresciute nel fiume, l’unico movi-mento visibile sul Sabie.

Prima di raggiungere i cancelli del parco, c’è ancora il tempo per un ultimo avvistamento: un facocero sta infatti frugando nel terreno all’ombra di una grande acacia ad ombrello. Il rumore della jeep non sembra spaventarlo o distrarlo dalla sua occupazione e così, men-tre sguaiati grugniti di approva-zione ci segnalano il ritrovamento di una radice particolarmente saporita o di un appetitoso pezzetto di corteccia, noi possiamo scru-tare nei minimi par-ticolari le dure setole che ricoprono il suo corpo, le buffe protuberanze simili a grosse verruche che spuntano sotto gli occhi per difenderli durante i combattimenti e, ai lati del naso, quelle piccole zanne rivolte all’insù che Carla ci rivela avere una concentrazione di avo-rio maggiore rispetto alle “scimitarre” degli elefanti. Poco distante, scorgiamo la sua tana, scavata nel terreno e probabilmente rubata a qualche altro animale: tra qualche ora, quando la raggiungerà per passarvi la notte, ci entrerà a marcia indietro, cercando in questo modo di proteggersi da eventuali attacchi: per ghepardi e leopardi, infatti, risulta molto difficile resistere ad un corpo così grassottello! Sono le 6.30 di sera quando il profilo ormai familiare dell’ingresso del parco sancisce la fine della nostra entusiasmante giornata di sa-fari. Il sole sta calando dietro il busto arcigno di Paul Kruger mentre intorno a noi il bushveld si prepara ad accogliere il tramonto. Salutiamo Keith, ringra-ziandolo per tutte le emozioni che ci ha fatto provare oggi pomeriggio, ed in pochi minuti raggiungiamo il lodge, dove a darci il bentornato sono le solite scimmie. Il buio ci sorprende mentre stiamo sguazzando in piscina, regalandoci alcuni brillanti persi nella sua immensità ed una luna che, a poco a poco, acquista il coraggio e la luminosità necessari per accompagnarci fino al boma. Qui, il fuoco acceso dona un po’ di sollievo ai no-stri corpi che, scossi dai brividi, si ritrovano a rimpiangere quel sole rovente che non ha dato loro un attimo di tregua per tutta la gior-nata. Ipnotizzati dalle fiamme, lasciamo che nella nostra mente scorrano fugaci tutte le emozioni che il Kruger Park è riuscito a regalarci in questi due giorni: la criniera di un leone si sovrappone agli zoccoli di una zebra, il mantello di una giraffa lascia il posto alle corna di un kudu, un sicomoro gigantesco torreggia sul piccolo stelo d’erba su cui Keith ha scorto una zecca e lo scheletro di un albero sembra ac-cusare le ingrate nuvole inca-paci di far scendere anche una sola goccia di pioggia e, mentre il cuore inizia a battere all’impazzata al ri-cordo di quel rinoceronte ferito o di quei facoceri avvistati dal bagno o ancora di quel piccolo impala che si nasconde tra le zampe della mamma, ecco che nelle orecchie riecheg-giano il grugnito di un ippopotamo, il grido di un’aquila pescatrice, la risata pacata di Jeremy e quella sguaiata di Keith e tutti i nostri sussurri ed i nostri silenzi incantati e, nella cacofonia di voci degli ospiti del lodge, sembra quasi di percepire le parole pronunciate dal vecchio “zio” Paul nel lontano 1898: “Dobbiamo conservare e proteggere il nostro patrimonio affin-ché tutti ne possano usufruire e consegnarlo alle generazioni future. Se non chiudiamo ora questa piccola parte del lowveld, i nostri ni-poti non sapranno mai che aspetto abbia un leone, un kudu o un’antilope”…



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