Nella terra del cielo

Qui c’è più cielo di quanto abbiate mai visto, orizzonti piatti e blu, o frastagliati di colline che confondono le distanze. Terra che si riempie di luce: ed è la solitudine, magnifica e meschina. («Free state», F.D. Sinclair). 18/9: PENISOLA DEL CAPO Ci vuole una notte intera di volo per arrivare in Sud Africa. Siamo sopra Cape Town alle...
nella terra del cielo
Partenza il: 17/09/2000
Ritorno il: 02/10/2000
Viaggiatori: in coppia
Qui c’è più cielo di quanto abbiate mai visto, orizzonti piatti e blu, o frastagliati di colline che confondono le distanze. Terra che si riempie di luce: ed è la solitudine, magnifica e meschina. («Free state», F.D. Sinclair).

18/9: PENISOLA DEL CAPO Ci vuole una notte intera di volo per arrivare in Sud Africa. Siamo sopra Cape Town alle otto di una mattina fosca ma soleggiata. Il Boeing 747 atterra sulla pista fradicia, che rivela tracce di pioggia recentissima: nonostante qua sia appena iniziata la primavera, sarà la prima ed unica testimonianza d’acqua piovana per tutti i 14 giorni della nostra vacanza. L’aeroporto del Capo è piccolo, lindo ed ordinato, ed anche se gli inservienti dello scalo, i poliziotti della dogana e gli impiegati della Hertz che ci consegnano l’Opel Corsa noleggiata sono tutti rigorosamente di colore, non sembra di essere appena atterrati in un aeroporto africano, ma piuttosto in una tranquilla cittadina del nord Europa.

La prima impressione, però, è spesso quella sbagliata, e questa volta si sbriciola appena usciti dall’aeroporto. L’autostrada che collega lo scalo alla città costeggia infatti un’immensa baraccopoli, uno di quei famigerati ghetti di cui tanto avevo sentito parlare durante il periodo dell’apartheid.

Una serie impressionante di baracche, costruite con legno, cartone, laminato metallico e quant’altro, racchiuse all’interno di un alto steccato che però non impedisce la vista a chi transita lungo la strada. Una visione scioccante, alla quale non eravamo preparati; sapevamo che questo non sarebbe stato un viaggio come gli altri, che la segregazione razziale è stata abolita da nemmeno dieci anni e che il paese è tuttora lacerato da conflitti interni lontani dall’essere risolti. Ma quello che non sapevamo, ed abbiamo scoperto in fretta, è che la discriminazione ha partorito una diseguaglianza sociale ed economica (tutta, naturalmente, a favore dei bianchi) che solo il tempo, forse, potrà sanare.

Dopo alcuni chilometri, lasciata finalmente alle spalle quella misera visione, seguendo le indicazioni inviateci via e-mail e costeggiando la parte sud della città, troviamo il B&B (bed and breakfast, prenotato grazie alla rete) di Hout Bay, piccola cittadina sita a 10 chilometri da Cape Town: è una costruzione graziosa, di legno e mattoni, costruita in mezzo ad un bosco umido e freddo. Come umida e fredda è la nostra camera. Prima di partire per la penisola del Capo, nostra meta iniziale, lasciamo gli zaini ed accendiamo il termosifone elettrico per assicurarci un rientro più tiepido.

Cercando di ricordare che qua si guida a sinistra, buttiamo la macchina verso sud, direzione Capo di Buona Speranza. Dopo nemmeno 20 chilometri un cartello annuncia che siamo entrati nella riserva naturale del Capo. Non sembra possibile, perché intorno a noi ci sono automobili, case e pure la ferrovia. Ma dopo una curva ci arrendiamo all’evidenza: un gruppo di babbuini staziona ai lati della strada. I piccoli giocano saltellando ovunque, mentre gli adulti se ne stanno tranquilli, seduti nell’erba bassa. Ci fermiamo a far foto: li avviciniamo e loro non scappano, evidentemente abituati all’uomo. Digerita l’emozione ed esauriti gli scatti, torniamo verso l’auto. Ma c’è un problema: il sedile del passeggero è occupato da un babbuino maschio, entrato attraverso il finestrino lasciato abbassato. Sta frugando negli zaini, cercando cibo che per fortuna non c’è. Virna lo avvicina, apre lo sportello e cerca di farlo scendere, ma la reazione non è incoraggiante: allunga una zampa e cerca di colpirla, o forse solo di afferrarla. Per noi è comunque abbastanza, e per evitare una rissa dall’esito quantomeno incerto, ci allontaniamo. A quella che ci sembra una distanza di sicurezza attendiamo le sue decisioni, che non tardano: dopo nemmeno cinque minuti scende dall’auto e sceglie di dedicare tutte le sue attenzioni al pelo di una femmina, che prende a spulciare con cura.

Congedate le scimmie ripartiamo verso la penisola. Altre due curve ed un cartello ammonisce: «I babbuini sono pericolosi ed attratti dal cibo». Interessante.

Altri 20 chilometri ed arriviamo a Cape of Good Hope, Capo di Buona Speranza. Certamente per merito del nome incoraggiante, con l’immaginazione l’ho sempre contrapposto al terribile Capo Horn, ma adesso non oso pensare cosa possa essere la punta argentina se qui il faro strapiomba su un mare cattivo e scuro, che ribolle contro la costa ed esplode su una distesa di rocce affioranti. Uno scenario inquietante, ma reso straordinario anche dalla consapevolezza che è il punto (teorico) dove si incontrano due oceani: l’Atlantico e l’Indiano. Nel parcheggio, intanto, qualche babbuino si diverte a saltellare sulle macchine: ma la nostra, stavolta, è ben chiusa. Dopo la notte passata in aereo, le baracche, i babbuini e il Cape Point: come prima giornata ci si può accontentare, anche perché siamo pure un po’ cotti. Ma invece non è ancora finita. Risalendo verso Hout Bay attraversiamo Simon’s Town: qui un tratto di costa strepitosa, che alterna rocce enormi e levigate a spiagge bianchissime, ospita una colonia di pinguini africani. Sono animali buffi, decisamente più piccoli di quelli antartici visti tante volte in tv, che si immobilizzano a fissarti quando li avvicini. Meglio, però, non esagerare: Virna, dopo aver assaggiato il becco di un esemplare decisamente permaloso, probabilmente non lo dimenticherà più.

La prima giornata sudafricana si conclude con una cena a base di pesce consumata in un ristorante di Simon’s Town: sulla porta d’ingresso un inquietante «Right admission to reserve» col quale il proprietario si riserva il diritto di far entrare chi gli pare. Dentro al locale, gestito da gente di origine olandese, non c’era nemmeno un nero, ma non potrei giurare che tra le due cose ci fosse necessariamente un nesso. Il sospetto, però, l’ho portato fino a casa, perché questi avvertimenti li abbiamo trovati un po’ dappertutto.

19/9: CAPE TOWN Dedichiamo il secondo giorno alla visita di Città del Capo. Che ci appare subito per quello che è: stupenda. Pulita ed ordinata, con pochissimo traffico, alterna edifici di origine chiaramente vittoriana a costruzioni recentissime, mercatini di artigianato africano ad internet cafè. Ma a colpire di più, ovviamente, sono le montagne. Dalle forme più svariate, piatte come la «Table», o appuntite come il «Lion’s head», le loro pendici si prolungano fino al mare, dividendo la città in vari settori e regalandole un fascino particolare. Ovunque volgi lo sguardo vedi incombere sopra di te questi maestosi massicci.

Per fare un giro completo della città prendiamo un autobus scoperto, a due piani, rosso come quelli londinesi: ci porta fino al Waterfront (proprio sul porto, una zona turistica piena di negozi) e poi a «Signal Hill», una collina dalla quale si vede «Robben Island», l’isoletta che per 25 anni è stata la prigione di Nelson Mandela e che ora è un museo. Terminato il giro, seduti su una panchina decidiamo di rifocillarci con acqua e cioccolata, ma due bambini si avvicinano. «Abbiamo sete», dicono, e non possiamo non dargli da bere. «Anche fame», insistono. E parte pure la cioccolata. Se ne vanno sorridenti, mentre il mio stomaco brontola. La coscienza un po’ meno.

La strada che ci riporta a Hout Bay costeggia un tratto di costa molto bello, prettamente turistico. Il mare è fantastico e le spiagge pure, ma la temperatura potrebbe invogliare solo i pinguini.

20-21/9: GARDEN ROUTE Hermanus, il giorno della delusione. La baia che più di ogni altra piace alla balene e quindi ai turisti è a circa 150 chilometri da Hout Bay. La strada è bellissima, tutta a strapiombo sul mare, ma anche faticosa: quando arriviamo veniamo informati che ci sono oltre 20 balene nella baia. Sono visibili da terra e, naturalmente, anche meglio dalle imbarcazioni che, dietro compenso, ti portano proprio nei pressi dei cetacei. Dato che nonostante le urla isteriche degli altri turisti dalla riva riusciamo a vedere solo spruzzi (balene? rocce? onde?, pure il binocolo non aiuta), optiamo per la barca: la stessa che ha preso Steffy Graf, mostrano le foto esibite nell’ufficio dove si prenota. Ma non si andrà da nessuna parte: nonostante due ore di attesa c’è troppo vento, e l’imbarcazione che ci deve portare fuori non riesce nemmeno a rientrare in porto.

Mentre torniamo indietro penso che abbiamo buttato un giorno e anche 300 chilometri (la nostra auto non è a chilometraggio illimitato), ma poi sulla costa un’altra colonia di pinguini, che fotografiamo abbondantemente, serve a consolarci.

Dopo il terzo ed ultimo giorno al Capo, ci avviamo verso est. Attraversiamo tutto il Western Cape, una delle nove regioni del Sud Africa, percorrendo la mitica (almeno qui la definiscono così) «Garden Route». Come dice il nome dovrebbero essere oltre 300 chilometri di foreste, fiori (su tutti la «protea»), alberi e giardini curatissimi, ma forse la vera fioritura non è ancora arrivata, perché il panorama, seppur bellissimo, ci sembra sempre lo stesso ammirato anche in altre zone. Dormiamo a Knysna, una piccola località sul mare, dove per la prima volta ci viene detto che si può pure girare a piedi, tanto la criminalità è sotto controllo. Effettivamente non vediamo nessun ghetto, e quando usciamo a fare un giro tutto sembra tranquillo; per strada incrocio lo sguardo con una signora di colore, e le sorrido. Mi ricambia con uno squillante «Jesus loves you».

22-23/9: EASTERN CAPE Lasciamo Knysna di buon mattino, accorgendoci che la temperatura sta cambiando. Indossiamo pantaloni corti e magliette per la prima volta, e quando arriviamo alla «Tsitsikamma Forest», non prima di aver incontrato un branco di struzzi, fa addirittura caldo. E’ un parco naturale che si snoda lungo una costa impervia e bellissima, con fiordi alternati a spiagge bianche. Turisti coraggiosi fanno il bagno nell’acqua trasparente e fredda, ma io vado a mollo solo coi piedi. E mi basta.

Nel primo pomeriggio ripartiamo, e dopo circa 250 chilometri arriviamo a King William’s Town. Nonostante il nome è una città prevalentemente nera, la prima che incontriamo. Gestito da neri pure il B&B dove alloggiamo: ma più che nel 2000 africano, questa costruzione mostra origini talmente britanniche che sembra di stare nella Londra del 1850, ed anche la signora che ci ospita potrebbe essere stata trapiantata da un’altra epoca. Per modi e fattezze fisiche assomiglia alla Mumy di «Via col vento», ed è evidentemente preoccupata per la nostra magrezza, perché alla sera ci cucina riso, pollo in umido, sformato di broccoli, patate al forno e pudding, annaffiando con vino, succo di frutta ed acqua. Il conto? 50 rand, circa 15.000 lire a testa.

Al mattino ripartiamo un po’ preoccupati, perché ci aspetta il compito più duro di tutto il viaggio: attraversare l’Eastern Cape, l’ex Transkei, una regione povera e arida, abitata solo da gente di colore di etnia Xhosa. Circa 600 chilometri, ma a preoccuparci di più sono le condizioni delle strade, che due inglesi conosciuti la sera precedente ci hanno descritto disastrose. «Arriverete ad Umtata» (solo 250 chilometri avanti), profetizzano con l’unico risultato di spaventarci. Ma hanno esagerato, perché nel capoluogo ci siamo prima di mezzogiorno, dopo aver affrontato solo un tratto sterrato lungo 16 km e qualche limitata sosta forzata. Umtata è stranamente bella in periferia ed un vero caos nella zona centrale: gente ovunque ma soprattutto sporcizia, costruzioni cadenti, macchine scassate. Devastato persino il «Protea Hotel», nonostante appartenga ad una della catene di alberghi più rinomate del Sud Africa. Non male pure la nostra idea di sbagliare strada e di infilarci in una specie di mercato affollatissimo. Dobbiamo fare manovra in mezzo a centinaia di persone: mi sento tutti gli occhi addosso e non nego di aver avuto un brivido (la guida definisce Umtata una delle città più povere e pericolose del Sud Africa). Ma più che altro mi rendo conto di aver suscitato sorpresa, forse un po’ di ironica compassione.

Dopo Umtata la macchina corre veloce verso Kokstad, dove finisce l’Eastern Cape e comincia il KwaZulu Natal. Ma mancano ancora oltre 300 km, che percorriamo in mezzo a una regione collinare, un susseguirsi di pascoli dove capre, pecore e mucche si alternano a villaggi di case basse e capanne circolari, col tetto di paglia. Forse la povertà è la stessa, ma sicuramente vedo condizioni di vita migliori e più dignità in questi villaggi che nelle baraccopoli che ornano le periferie di ogni città. Ai lati delle strade tantissima gente a piedi, che porta secchi d’acqua sulla testa e chiede passaggi non so per dove: molti di loro hanno il viso dipinto di bianco.

In pieno pomeriggio, con la temperatura che si è fatta davvero calda, un assembramento di gente strappa la nostra attenzione: si sta giocando a calcio, con tanto di porte, squadre con le maglie e pubblico intorno al rettangolo giallo (l’erba era tutto tranne che verde). Peccato che il campo non sia in piano ma presenti una continua serie di evidenti gibbosità: mai come in questo caso l’inversione di campo all’intervallo preserverà la regolarità della partita… Quando, un paio d’ore dopo, l’Eastern Cape resta alle spalle, arriviamo nel KwaZulu Natal. Dormiamo a Horwic: il B&B è brutto, la colazione pessima. Ma siamo stanchissimi, un letto pulito basta e avanza.

24-25/9: BOSCIMANI E ZULU Ritorniamo turisti con zainetto e macchina fotografica, e ci arrampichiamo su per il «Drakensberg», le montagne del Drago, la catena più alta del Sud Africa. I picchi sono infatti innevati, ma noi, dopo un’ora buona di cammino, ci fermiamo più in basso, dove troviamo grotte con pitture rupestri dei boscimani, i primi abitatori di queste zone. Mikka, la nostra guida Zulu, ci spiega che praticamente non ci sono più boscimani in Sud Africa. Li hanno scacciati proprio i suoi antenati, a loro volta ricacciati in queste lande sperdute dall’avanzata degli inglesi e dei boeri, sul finire del secolo scorso. Nelle grotte, infatti, insieme ai graffiti dei boscimani risalenti anche a mille anni fa, troviamo pure le incisioni dei fanti inglesi, lasciate tra il 1890 e l’inizio del ventesimo secolo. E’ l’assaggio di quello che vedremo domani, perché questa regione è stata teatro di tutte le più importanti battaglie tra Zulu, inglesi e boeri. Sulla strada vedo camminare un nero albino: foto di Oliviero Toscani a parte, è la mia prima volta.

La sera dormiamo a Dundee, nel «Royal Hotel». In vero stile old England, è vecchio e pure un po’ fatiscente. Ma a me piace: ogni camera è dedicata a un ufficiale della Corona, ci sono bacheche con fucili, uniformi e libri, alle pareti quadri e cartine che rappresentano i campi di battaglia. Dopo una discreta cena e una notte disturbata dagli schiamazzi di una turba di attempati sudafricani che avevano scelto proprio questo albergo per una allegra rimpatriata, partiamo verso il «Blood River», teatro di una delle battaglie più famose. I boeri olandesi, risalendo la regione verso nord, si trovarono ad affrontare l’esercito Zulu: dove si è svolto lo scontro cruciale c’è un museo, monumenti e lapidi, ed anche una ricostruzione in scala naturale del campo boero, con carrozze e cannoni. A 50 metri di distanza c’è pure il museo dedicato al ricordo degli Zulu massacrati nel fiume di sangue, ma non ci si può andare. O meglio, per arrivarci bisogna uscire dal museo dedicato ai bianchi, percorrere una mulattiera evitando sassi, pecore e capre, implorare le mucche di spostarsi, infine guadare un torrente: solo così si arriva al museo Zulu, che viene aperto apposta per noi. Inutile dire che solo io e Virna, del numeroso gruppo visto al museo boero, ci siamo presi la briga di arrivare fin qua.

La cartina indica tutta un’altra serie di campi di battaglia siti nei dintorni, ma la verità è che queste guerre non sono state combattute con occhi di riguardo verso le esigenze del turista. Bisogna percorrere decine, se non centinaia di chilometri di strade spesso non asfaltate, per raggiungere i vari battlefields, e così dopo il «Blood River» decidiamo di rinunciare, puntando la macchina verso nord.

La sera dormiamo a Nelspruit, la città più importante del Mpumalanga, nome africano della regione che i boeri avevano chiamato Transvaal. Il caldo si è fatto aggressivo, ed anche la natura adesso è davvero africana: il nostro B&B è leggermente fuori città, in mezzo ad un boscaglia dalla quale di notte arriva il frastuono impressionante prodotto da uccelli, insetti, anfibi e non so cos’altro. Ma a stupire ci pensa pure il cielo: terso come non l’abbiamo mai visto, mostra migliaia di stelle. Anzi strati di stelle, tanti da dare il senso della profondità.

26-28/9: IL PARCO KRUGER Da Nelspruit una cinquantina di chilometri e si arriva al Parco Kruger. E’ il più grande del Sud Africa (più o meno la superficie del Veneto), ed ospita un numero stupefacente di animali (25.000 solo le antilopi). Dentro non c’è più posto per dormire, così la nostra base sarà il «Matumi Lodge», poco fuori dal parco. Si può visitarlo con la macchina (rigorosamente ai 40 all’ora) e per girarlo bene, anche se non proprio tutto, ci vogliono almeno due giorni: durante il primo, sotto una calura atroce, a parte centinaia di antilopi, impala, bufali, cinghiali selvatici, vediamo anche zebre, giraffe, ippopotami e coccodrilli. Ovunque cartelli avvertono che scendere dalla macchina è pericoloso, e la direzione del parco declina ogni responsabilità. Ma noi, un po’ avventatamente, usciamo spesso per scattare foto migliori. A metà pomeriggio, però, con l’aiuto di altri turisti scorgiamo un leone accucciato a pochi metri dalla strada: capiamo di aver esagerato, è meglio non rischiare più.

La mattina dopo ci alziamo alle 5 ed entriamo nel parco all’alba, perché anche gli animali si muovono più volentieri col fresco. Ne vediamo ancora a centinaia, ma non gli elefanti, il nostro obiettivo giornaliero. Dovremo attendere fino al primo pomeriggio, quando due maschi enormi attraversano la strada proprio a pochi metri dalla nostra auto. Uno si ferma, ci guarda scuotendo testa e orecchie, e sembra aver voglia di avvicinarsi. Mi prende il panico, innesto la retro ben sapendo che, nella peggiore delle ipotesi, potremmo fare poca strada. Ma poi, zanne e proboscide puntate verso la boscaglia, se ne va: ancora un po’ tremante, gli scatto un rullino di foto.

Dopo qualche chilometro una iena, che si avvicina alla macchina alla ricerca di cibo. Ha bocca capiente e denti affilati: da noi non avrà nulla.

Dopo questi incontri abbiamo praticamente esaurito la scorta di emozioni, e non ci fanno nemmeno tanto effetto tre leoni, visti in lontananza, accucciati sotto alcuni alberi. Nel tardo pomeriggio usciamo dal parco ed andiamo a buttarci in piscina, nel nostro Lodge. Si sta così bene che il giorno dopo stiamo sempre in acqua: mentre nuoto devo scacciare grosse rane che vogliono farmi compagnia. Nel frattempo un piccolo branco di antilopi è venuta a bere l’acqua della piscina. Prima dell’imbrunire andiamo a fare un giro con una jeep nella riserva privata del Lodge. Un ragazzo, un sudafricano bianco, ci conduce attraverso un percorso accidentatissimo: guadiamo fiumi, attraversiamo campi e vediamo gli ormai soliti animali. Ci fermiamo a guardare il tramonto, il silenzio assoluto rotto solo dalle sue domande: ci chiede cosa ci ha spinto in Sud Africa, e la risposta è ovvia: «La natura, gli animali, ma anche la cultura».

«La cultura?» ripete stupito. «Sì, la cultura africana» puntualizza Virna. Lui ci guarda storto e replica: «Quale cultura?». Preferiamo non insistere, magari ci lascia in mezzo alla savana.

30/9: VERSO JOHANNESBURG Venerdì mattina lasciamo il «Matumi». Attraversiamo un pezzo di «Nothern Province», la regione più settentrionale di questo immenso stato. E’ una zona molto povera anche questa, ma più montuosa, con una vegetazione che potremmo vedere pure nelle nostre vallate. Le città, tutte con nomi africani e sostanzialmente illeggibili, sono brutte e sporche. Abbiamo bisogno di soldi, ma non troviamo nemmeno una banca. Per fortuna a Graskop ce n’è una. Entriamo, e ci mettiamo in fila. Vista la svariata umanità che ci precede, pensiamo sia giorno di stipendi, pensioni e sussidi. Noto che siamo gli unici bianchi, e lo nota pure il cassiere (bianco anche lui), che ci fa passare davanti a tutti. Mi volto credendo di vedere facce irritate, ma hanno capito che siamo turisti, e nessuno si lamenta.

Con qualche soldo in più in tasca prendiamo per il «Blyde River». Il terzo canyon più alto del mondo offre uno scenario fantastico, in qualche modo paragonabile a quello visto in ’Arizona anche se molto meno reclamizzato. E’ davvero una zona bellissima e verde, costellata di cascate e laghetti. Dopo un rapido giro ed alcuni acquisti nei negozi di oggetti locali, arriviamo a Sabie, che sarà la città della nostra ultima notte sudafricana. Dormiamo in un B&B gestito da Sergio Battaglia, torinese immigrato qua da circa mezzo secolo. E’ una persona molto disponibile, felicissima di poter conversare un po’ in italiano. Gli spieghiamo che veniamo dal Capo, che abbiamo percorso oltre 4.000 chilometri attraverso tutto il Sud Africa. Ci confessa di non aver mai visto Cape Town: troppo distante. Inizialmente la cosa ci stupisce, poi, dopo i saluti, in macchina, faccio due conti e lo assolvo: nemmeno io sono mai stato a Palermo, ed è pure più vicina.

Nel primo pomeriggio arriviamo a Johannesburg, fondata nel 1886 ma adesso diventata la città più grande del Sud Africa, di cui è il centro economico e finanziario. A sud c’è Soweto, l’enorme quartiere nero (2 milioni e mezzo di abitanti) teatro in passato di scontri violentissimi. Poteva forse meritare una visita, ma è pericoloso, e pensiamo che vedere un altro ghetto, seppur gigantesco, non avrebbe cambiato, né arricchito, la nostra esperienza sudafricana.

La visita alla città si limita ad un’occhiata superficiale: grattacieli, casinò, persino un «Caesar’s Palace» come quello di Las Vegas. Poi è solo aeroporto, in attesa di rientrare. Il mattino dopo ci attende una Londra nebbiosa e grigia, e una pioggia battente ci accoglie a Bologna. L’Africa, coi suoi colori, è già lontanissima.

Massimiliano Baravelli



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