A spasso negli Usa

Tornata a New York per la terza volta ho voluto conoscere altre importanti città come Boston, Washington, Chicago e New Orleans. Tutte bellissime e diverse, ognuna mi ha lasciato un ricordo indelebile
Scritto da: airada
a spasso negli usa
Partenza il: 28/08/2016
Ritorno il: 11/09/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
Itinerario: New York-Philadelphia-Washington-Boston-Chicago-New Orleans

Prese elettriche: tipo a lamelle piatte americane Valuta: ovviamente dollaro

Clima: fine agosto-primi di settembre buono, a volte ancora caldo, ma gradevole.

Considerazioni generali in ordine sparso

Abbiamo prenotato i voli e gli hotel tramite un tour operator online e comprato tutte le escursioni, sempre online, tramite Viator. Era da molto tempo che desideravo vedere la parte est degli Usa e in questa occasione ho colmato qualche lacuna. Un altro sogno erano Chicago e New Orleans e sono felicissima di aver inserito anche queste mete.

Premesso quindi che ogni città mi ha affascinato (ognuna con le sue peculiarità) ed emozionato, facendomi percepire le sue atmosfere, i suoi colori, la sua effervescenza, imponenza o sobrietà, non posso fare a meno di sottolineare anche le considerazioni negative. Mentre per strada le persone sono sempre state gentili nel dare info, al contrario, nei negozi, hotel e posti di lavoro, ho trovato tanta gente esasperata, soprattutto a New York. Forse percepiscono stipendi troppo bassi per il costo della vita e anche per questo sono ossessionati dalle mance che “suggeriscono” a partire dal 18%. Alla fine non ne potevamo più. Il “tip” dovrebbe essere una gratifica discrezionale nel caso di un buon servizio prestato e non un quasi obbligo, preteso e a volte estorto, anche dopo un trattamento antipatico e scorbutico. Ho notato, specialmente a New York, molto sporco dappertutto e anche nei quartieri più eleganti si percepisce poca manutenzione. Sembra tutto fermo a tanti anni fa, al periodo del boom americano. Insomma aria di crisi e decadenza. Anche nella metro newyorchese (sicuramente datata) le indicazioni sono scarse e imprecise. Per non parlare dei bar, gestiti prevalentemente da asiatici, che paiono realmente posti da terzo mondo o terribilmente antiquati.

Nei ristoranti (forse eccetto quelli più lussuosi) non usano mai tovaglie e nemmeno i cosiddetti “servizi all’americana”, ma appoggiano piatti e posate direttamente sui tavoli. È ovvio che ci saranno milioni di eccezioni, con luoghi da favola e posti super lusso. Sicuramente in ogni città ho ammirato quartieri eleganti o recuperati in modo originale, moderno e trendy. Ecco: in questi luoghi si vedevano le nuove tendenze, mentre mi hanno deluso le icone americane di un tempo, specie a New York. Qui però resta immutato il fascino della città e dei suoi grattacieli unici: nessuna nuova città asiatica, mediorientale o africana, potrà toglierle la sua identità. Manhattan non si tocca. Se dovessi vivere per un periodo qui (e mi piacerebbe per imparare meglio la lingua) sceglierei Boston, città giovane e più vivibile, purtroppo molto fredda in inverno.

28 agosto, domenica

All’arrivo stranamente non troviamo molta fila al controllo passaporti né al ritiro bagagli.

Ci dirigiamo subito al Ground Transportation Desk, dove mostriamo il nostro voucher di trasfer condiviso. Dopo circa una mezz’ora entriamo in un pulmino che ci porta in hotel in tre quarti d’ora circa. The Westin Grand Central ci entusiasma subito per la sua posizione strategica sulla E 42nd, con vista sul Chrysler dal 21° piano della nostra camera. Velocemente posiamo le valige e, senza cambiarci, usciamo di corsa.

Ci godiamo tutto il percorso fino a Time Square: la Grand Central Station, il Bryant Park accanto alla Public Library, gli attraversamenti della Lexington Ave., Park Ave., Madison Ave. e 5th Ave. Le luci abbaglianti delle innumerevoli insegne di Time Square e Broadway, che si spengono e riaccendono facendo scorrere le loro coloratissime pubblicità, ci entusiasmano come la prima volta e veniamo nuovamente ammaliate dal fascino di New York.

Siamo nel cuore del mitico crocevia, definito anche “il centro del mondo”, all’incrocio tra la Broadway e la 7th Ave. La zona, pedonale, è affollatissima di persone, artisti di strade, turisti e poliziotti. Baracchini volanti vendono i tipici “hot pretzel”, ciambelline semidolci con tre fori.

Da qui si dirama il distretto teatrale di New York, con i cartelloni che reclamizzano gli ultimi spettacoli e i famosi musical. Mi sarebbe piaciuto molto vederne uno, ma sinceramente non abbiamo il tempo necessario.

Cerchiamo un posticino per mangiare qualcosa, ma la stanchezza non ci dà molte possibilità e ci fermiamo da “Sbarro”, una catena di fast-food-self service, relativamente economica per gli standard della città.

29 agosto lunedì

Oggi intera giornata dedicata al quartiere di Brooklyn che non conoscevo per niente. Per la colazione mattutina scegliamo “Pret a Manger”, una catena già sperimentata a Londra con prezzi accettabili che si trova di fronte al nostro hotel. Facciamo poi le foto di rito all’atrio della Gran Central Station, il cui orologio centrale è stato immortalato in molti film.

Da qui prendiamo la metro (più di 3 dollari a biglietto, non proprio economica) e precisamente la linea 6 (andava bene anche la 4 o la 5) che ci porta alla fermata di City Hall-Brooklyn Bridge. In effetti la subway di New York è molto datata e abbastanza decadente, con poche segnalazioni che non aiutano il viaggiatore. Pensando di usare prevalentemente i taxi, non mi ero documentata sugli abbonamenti, senz’altro più convenienti.

Appena scendo (fa molto caldo) mi trovo in un grande spiazzo (il City Hall park) con intorni edifici datati, come quello del municipio di New York. Ma la cosa più emozionante mi appare di fronte: il famoso ponte di Brooklyn che non ho mai attraversato, avendolo solo visto in lontananza.

Decidiamo di percorrerlo tutto a piedi. La passeggiata è abbastanza lunga, anche perché, per accedere al ponte e poi uscirne, bisogna entrare in una bretella di collegamento, con due corsie: a destra una riservata ai predoni e a sinistra una per le bici.

È bellissimo perché assimiliamo a poco a poco tutto il panorama di Lower Manhattan, con il Financial District che gradualmente si allontana, e contemporaneamente pregustiamo il quartiere di Brooklyn, che a mano a mano si avvicina. Il ponte è stato completato nel 1883 e progettato dall’ingegnere tedesco John Augustus Roebling.

Fu il primo ad essere costruito in acciaio e per molto tempo è stato il ponte sospeso più grande al mondo. Durante la sua costruzione molti operai sono morti per embolia gassosa, dovuta alle immersioni nelle camere di scavo sottomarine.

E’ caratterizzato da altissimi pilastri, ai quali si appoggiano altrettanto elevati tiranti. Un intricato gioco di funi d’acciaio si mescola con i reticoli che sorreggono il percorso delle auto, al livello inferiore. Sui parapetti leggo le immancabili scritte-firme con frasi di tutti i tipi.

E’ un elettrizzante colpo d’occhio e i grattacieli sullo sfondo ti fanno restare a bocca aperta. Il cielo è azzurro, il mare calmo: in fondo Liberty Island con la statua che spicca.

Arrivata oltre il fiume East (sul quale si nota un altro bellissimo ponte, il Manhattan Bridge sulla mia sinistra) siamo già stanche e accaldate, e decidiamo di prendere un taxi per Williamsburg, la parte di Brooklyn attualmente più trendy.

Anticamente era un piccolo villaggio dal quale venivano spedite le merci dell’entroterra verso la città di New York. In seguito vennero costruite qui molte fabbriche, che oggi sono state trasformate in negozi, ristoranti e abitazioni residenziali. Molti newyorchesi si stanno trasferendo in questo quartiere alternativo, dove si mescolano italiani, ebrei, polacchi, portoricani e dominicani. All’inizio il basso costo della vita aveva attirato nella zona molti artisti e musicisti, ma a poco a poco i prezzi sono molto lievitati, alzando il livello sociale dei nuovi residenti.

Il taxi ci chiede circa 18 dollari all’andata e altrettanto al ritorno. Del resto la metro, non so per quale strano motivo, non collega direttamente questa zona con Brooklyn Downtown, ma porta prima a Manhattan e poi di nuovo a Brooklyn.

Dopo pranzo andiamo a curiosare per le strade di Downtown Brooklyn, che in realtà sono abbastanza commerciali, con negozi scadenti.

Allora decidiamo di dirigerci verso Carroll Gardens, un quartiere fondato verso il 1800 da emigrati irlandesi: infatti il nome deriva da Charles Carroll, l’unico cattolico che firmò la dichiarazione d’indipendenza. Per arrivare qui passiamo per Cobble Hills, una zona residenziale molto carina, con tanto verde e le tipiche case in mattoni rossi, con le scale antincendio in ferro: un paesaggio tipico dei film americani, specie quelli di Woody Allen.

Gli ingressi sono preceduti da scalette strette e hanno portoni spesso colorati in rosso o blu. Ogni abitazione ha un piccolo giardinetto privato davanti. Nei viali alberati vedo parecchie persone dall’aspetto distinto, che portano a spasso i cani o vanno in bicicletta, un mezzo molto usato in questo quartiere.

Camminiamo tanto fino a tornare indietro verso la Brooklyn Promenade, un sentiero che costeggia la baia ed è meta di sportivi che fanno jogging. Brooklyn Heights: da qui il panorama sui grattacieli di Manhattan è strepitoso e i colori del tramonto lo esaltano, tingendo il cielo di rosa che a poco a poco cede il passo alle luci dei palazzi.

30 agosto, martedì

Oggi è una bellissima giornata e ce la godiamo tutta con lo sguardo rivolto prevalentemente in alto, per assaporare la vista dei grattacieli, svettanti intorno a noi. Dovunque ti giri vedi sventolare bandiere americane di tutte le misure: è una vera e propria invasione.

La 5th Ave. è sempre imponente, con i suoi eleganti negozi di grandi firme, anche se purtroppo con la globalizzazione è diventata simile alle sue “sorelle” delle principali capitali mondiali.

Arriviamo davanti al celebre hotel Plaza, elegante e lussuoso, e non resistiamo alla curiosità di entrarci. Il personale, gentile, ci permette un rapido giro della hall d’ingresso e della zona bar-salotto, molto elegante e chic, sfavillante di lampadari di cristallo, di soffici tappeti e piante ornamentali.

La giornata di oggi era dedicata alla visita del Museo Moma, ma quando ci troviamo davanti a Central Park, verdissimo sotto il sole, siamo attirate da un giretto intorno al lago e da qualche foto stese sul prato. All’ingresso sono posizionate le immancabile carrozzelle con i cavalli, pronte per far fare un giro nel parco ai turisti.

Per pranzo optiamo (un po’ forzatamente perché qui sulla quinta strada vediamo prevalentemente. negozi) per il self service della Trump Tower, in cui la cascata d’acqua, che tanto ci aveva colpito, oggi non funziona. Il posto, elegante per il suo marmo rosa, non stupisce più come una volta perché superato da altri magazzini più trendy.

Lo stesso vale per il Rockefeller Center, il cui quadrato posto leggermente più in basso del piano stradale, è ora occupato (invece dell’invernale pista di pattinaggio) da un bar con tendoni che coprono i tavolini, e nell’aria si sente un forte odore di arrosto, proveniente dalle fornacelle. Le numerose bandiere colorate continuano a sventolare tutt’intorno, come sempre. Poco oltre si potrebbe salire sul Top of the Rock, per godere di una insolita vista panoramica sulla città, ma il prezzo è molto alto e ci rinunciamo.

Un must della 5th è la Chiesa di St.Patrick, bianca e accecante, che spicca bellissima sul cielo azzurro, con il suo stile neo gotico, tra i grattacieli moderni. Costruita tra il 1853 e il 1878, è il principale luogo di culto cattolico di New York. Anche l’interno è bello, con le sue colonne chiarissime e i vetri colorati sull’azzurro.

Raggiungiamo in taxi il Corso Cofee, tra la 7th e l’8th Avenue, dove due simpatici ragazzi italiani dell’agenzia “Il mio viaggio a New York ” ci accolgono e ci offrono una specie di piadina arrotolata con pollo e insalata, come aperitivo. Questa è l’unica nota stonata della serata. Non ha senso far mangiare alle 19 questo tipo di stuzzichino, con nessuna bibita, e poi offrire tre cocktail senza niente di sfizioso da accompagnare. Comunque la serata è bellissima e vale la pena aver speso oltre 60 euro. Il primo rooftop si trova nel Queens, il quartiere più grande e più ad est dei cinque di New York (Manhattan, Bronx, Brooklyn, Queens e Staten Island).

Il nome deriva dalla regina d’Inghilterra Caterina di Braganza, che regnava nel 1638, epoca della fondazione del Queens. E’ la zona dei due principali aeroporti di New York: il JFK e La Guardia, che causano un grande affollamento dei suoi cieli.

Lasciamo Manhattan attraversando il Queensboro Bridge e ci troviamo circondati da ciminiere e fabbriche. Saliamo al 12° piano dell’hotel Four Points by Sheraton. La terrazza offre una bella visuale sui grattacieli di Manhattan e spazia dal Financial District, in lontananza, al Crystal.

La seconda sosta è la più bella: in quinta strada al 230, un locale posto al 20° piano su una favolosa terrazza piena di fiori e tavolini, con vista diretta sull’Empire.

L’ultimo rooftop, The attic, invece è vicino a Time Square. Vi si accede tramite un lungo e scuro corridoio nero e rosso. La terrazza con il bar non è molto elevata, ma ha una posizione particolare, trovandosi tra i grattacieli che la circondano.

31 agosto, mercoledì

Arriviamo a Philadelphia (Pennsylvania) verso le 9.30.

Questa città è molto importante, insieme a Boston, nella guerra d’indipendenza delle 13 colonie americane contro la madrepatria Inghilterra.

Il primo impatto con la città di Philadelphia è un monumento che rappresenta un parafulmine, in omaggio al suo inventore, Benjamin Franklin, uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, giornalista, politico e scienziato. Ci avviciniamo poi al cuore della storia americana: l’Independence Hall, con la sua torre ed edifici in mattoni rossi e dove fu dichiarata l’indipendenza nel 1776. Nel museo annesso sono conservate le copie originali della Costituzione e l’inchiostro con cui è stata scritta. Entriamo poi nella Congress Hall, con tante sedie in pelle verde disposte a semicerchio, usate dai parlamentari dell’epoca. Un po’ più in alto si affaccia una balconata, per il pubblico che voleva assistere alle riunioni. Al piano superiore invece i senatori prendevano le decisioni. Nelle piccole stanze ci sono ancora i mobili originali, in quella più grande solo le sedie rimangono tali.

Non si può venire a Philadelphia senza farsi una foto con la Liberty Bell, la famosa campana che con i suoi rintocchi precedeva le assemblee legislative e i meeting cittadini.

Sicuramente annunciò la lettura della dichiarazione d’indipendenza, l’8 luglio 1776. Ora, danneggiata da una vistosa fessura, è esposta in un padiglione a parte, per entrare nel quale dobbiamo passare il secondo metal detector: nel tempo la campana è diventata il simbolo di tutte le libertà.

Dopo una sosta pranzo, andiamo in un posto molto tipico: Elfreth’s Alley (1750), un vicolo caratteristico dell’antica città, con ancora il selciato originale, che deve il suo nome ad un fabbro qui residente. Le case sono in mattoni rossi, ben tenute e aggraziate da fiori all’esterno. Nella parte bassa spiccano degli sportelloni di legno colorato, che danno accesso ai locali scantinati. Prima di lasciare Philadelphia ammiriamo molte grandi piazze, giardini, palazzi antichi e moderni. Mi trasmette la bella sensazione di un luogo vivibile e gradevole.

Saliamo al Museo d’arte, costruito nel 1876 in occasione dell’Esposizione centennale (la prima fiera mondiale americana) organizzata per commemorare la Dichiarazione d’Indipendenza, davanti al quale c’è la scalinata (Rocky Steps) resa famosa da Rocky (Silvester Stallone), che la saliva di corsa per i suoi allenamenti. C’è anche una statua a lui dedicata, che lo immortala con le mani alzate. Nello spazio davanti al colonnato neo greco, oltre a una fontana, c’è una scultura dell’artista americano della Pop Art, Robert Indiana, che rappresenta la parola Amor. Questa opera è stata realizzata nel settembre 2015 in occasione della visita di Papa Francesco, traducendo la parola “Love”, caratteristica delle altre opere dello scultore, nella lingua del pontefice (spagnolo o latino).

Il pomeriggio è dedicato alla visita di un villaggio amish, discendenti da un gruppo di cristiani svizzeri anabattisti (cioè persone che non desiderano il battesimo da neonati, ma solo quando l’individuo è consapevole della sua fede).

Questa comunità è emigrata in Pennsylvania verso l’inizio dell’Ottocento. Prima ci fermiamo in un piccolo centro turistico, Kitchen Kettle Village, con negozi e degustazioni di prodotti confezionati da questa comunità religiosa, che ha scelto un tipo di vita prevalentemente semplice, legata strettamente alla natura e ai suoi cicli biologici: possono guidare solo mezzi trainati da cavalli. Addirittura hanno biciclette senza pedali, che usano tipo monopattino. Sono agricoltori, anche benestanti, perché i loro terreni coltivati sono estesi e particolarmente curati, e hanno prodotti ben commercializzati. Il posto è turistico ma molto grazioso.

Poco più avanti saliamo su un calesse, aperto lateralmente e trainato da due cavalli, sul quale possono entrare circa 15 persone, e facciamo un giretto molto bucolico tra immensi campi coltivati, prevalentemente a mais e mele. Il nostro mezzo è guidato da Barbara, una donnona amish ben impostata, con l’aria di comando, che ci illustra e decanta il proprio stile di vita così naturale e sobrio.

Terminata la visita si riparte per Washington, dove arriviamo in serata e ci sistemiamo in un hotel in periferia della capitale.

1 settembre, giovedì

Oggi la giornata è dedicata alla visita di Washington D.C. (District of Columbia). Questa città va assolutamente vista: una giornata è sufficiente per avere un colpo d’occhio generale. È di certo un luogo di rappresentanza che vuole mettere in evidenza tutti i simboli di potere degli Stati Uniti, a cominciare dal famoso Pentagono, che vediamo di passaggio dal bus, perdendo naturalmente la vista caratteristica della sua forma, che si evidenzia solo dall’alto.

Il primo posto che visitiamo è il famoso cimitero di Arlington, dove c è la tomba di J.F.Kennedy. È un luogo che trasmette emozione, come mi era capitato in quello della Normandia. A destra, sinistra, avanti e dietro, sono circondata da prati verdi, sui quali spiccano delle lapidi rettangolari bianche, tutte uguali, con incisi il nome, le date di nascita e morte, la guerra combattuta e la divisione di appartenenza dei defunti. Più in alto spicca un edificio in antico stile greco: si tratta dell’Arlington House, ora Memorial ed ex abitazione del generale Robert E. Lee che, nel 1861, passò all’esercito confederato del sud, seguendo la Virginia nella guerra di Secessione. In questo stato è situata la costruzione, sull’altra sponda del fiume Potomac: abbraccia la vista del Mall di Washington e fu occupata dalle truppe dell’Unione nel 1864, che costruirono l’attuale cimitero sul terreno antistante all’abitazione: la scelta fu fatta sia per la necessità di reperire un nuovo sito per le crescenti vittime della guerra, e sia per impedire al generale Lee il ritorno nella sua proprietà.

Vi sono sepolte le vittime di tutti i conflitti americani, ma la tomba più famosa è quella del presidente J.F. Kennedy, posta accanto a quella della moglie Jacky (pur essendosi lei risposata).

Adagiato in terra c’è un rettangolo con due lastre scure, che marcano le tombe, e una fiaccola perenne dell’architetto John Carl Warnecke, amico della famiglia.

Facciamo poi una breve sosta lungo l’Arlington Boulevar, di fronte al Marine Corps Memorial, una statua particolare dell’architetto Felix de Weldon, che ha rappresentato in bronzo la celebre foto di Joe Rosenthal, scattata in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale, per la quale ricevette il premio Pulitzer. Rappresenta sei marines che piantano la bandiera americana dopo la battaglia di Iwo Jima. E’ molto bella ed espressiva.

Tutta la grandiosità di Washington è esibita in un enorme rettangolo verde circondato da una strada, il Mall, lungo la quale sono “esposti” i monumenti più famosi, che a poco a poco spiccano oltre i finestrini del nostro bus.

Primo fra tutti: l’obelisco (la struttura in pietra più alta del mondo) dedicato a George Washington, comandante in capo dell’esercito Continentale durante la guerra d’indipendenza, primo presidente degli Stati Uniti e fondatore della città.

Facciamo poi una visita nell’interessante edificio dove vengono stampati i dollari: la zecca americana. Dopo i controlli di sicurezza veniamo ammessi in un atrio per assistere alla proiezione di un video e poi lungo dei corridoi con grandi finestroni, dai quali è possibile assistere all’intero processo: dalla prima stampa dei colori base, su fogli speciali in lino e cotone, all’aggiunta di elementi di sicurezza e foto che caratterizzano i vari tagli.

Ogni pagina, sulla quale sono stampate 32 banconote, verrà poi divisa a metà e infine in piccoli tagli. Accurati controllori impacchettano le mazzette, stampate a seconda della richiesta della Federal Reserve e poi messe in circolazione. Quando viene rilevata una minima imprecisione l’intero foglio viene distrutto e ridotto in pezzettini, venduti poi nello shop adiacente, inseriti in souvenir.

Abbiamo un’oretta scarsa per visitare il Mall e ci avviamo verso la scalinata dell’Abrahm Lincoln Memorial, dedicato al sedicesimo presidente americano. E’ un grande edificio bianco, nello stile di un tempio greco, con un portico di colonne doriche, dentro il quale è racchiusa la celebre statua del presidente seduto in poltrona, scolpita dai fratelli Piccirilli (di origine italiana), su disegno di Daniel Chester French.

Il luogo è stato scelto da Martin Luther King per pronunciare il suo famoso discorso “I have a dream”, nel 1963.

Poco di fronte è posta la statua in bronzo di tre soldati, un europeo, un afro-americano e un ispanico, che trasmettono le espressioni di sconforto e disperazione di una inutile, sanguinosa e snervante guerra.

Sul lato destro invece, i caduti della guerra in Corea vengono rappresentati in un modo suggestivo: statue grige di soldati sono sistemate nel verde, in posizione di avanzamento, distanziati l’uno dall’altro e le loro figure si riflettono sul muro accanto, in lucidissimo granito nero dove, oltre la celebre frase di Martin Luther King “freedom is not free”, sono impresse altre immagini di soldati in combattimento. Il murale è stato creato da Luis Nelson e il Memorial inaugurato nel 1995.

Anche qui, come nel muro del Vietnam, si riflettono le immagini dei visitatori che passano, facendo interagire il passato con il presente.

È tutto molto toccante: ogni cosa è creata in onore delle vittime di guerra e dei soldati che hanno pagato con la vita le scelte politiche ed economiche del loro governo. Il luogo incute un grande rispetto e trasmette solennità.

L’architetto Pierre L’Enfant progettò la città di Washington, concependola come una enorme scacchiera, il cui fulcro doveva essere la Casa Bianca, residenza del presidente, collegata da un viale al Campidoglio, sede del Congresso. Ma l’edificio in questione fu realizzato da James Hoban, che ideò i due saloni di forma ovale della villa e il suo stile neo-classico. L’inaugurazione avvenne nel 1800, poco dopo la morte di Washington. Il suo secondo ospite, Thomas Jefferson, decise l’aggiunta di abbellimenti davanti ai quattro lati: noi ammiriamo quello Nord, con un portico quadrato sormontato da un frontone triangolare e colonne ioniche.

L’ultima visita è nel Museo Spaziale e dell’Aeronautica, dove ci sono gli originali di parecchie navicelle che hanno compiuto storiche missioni nella spazio, come la famosa Apollo 11 che, con i tre eccezionali astronauti (Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins), ha raggiunto la luna dal 16 al 24 luglio 1969.

L’Apollo 11 era formato da tre parti: il modulo di comando (Columbia), il modulo di servizio e quello lunare (Eagle). Mentre i primi due astronauti scendevano sulla luna, Collins rimase sul Columbia, per fare da collegamento con la base spaziale e fotografare la superficie lunare. Questo modulo fu l’unico a tornare sulla terra e vederlo qui, davanti a me, con tutte le parti metalliche consumate e provate dal lungo viaggio, mi emoziona moltissimo.

Prima di ripartire ci fermiamo qualche minuto sulla Capitol Hill, per immortalare il Capitol, bellissimo e bianco, in stile neoclassico, ispirazione più grande del suo “figliolo ” di Cuba.

Questo edificio è la sede del Senato degli Stati Uniti, l’organo legislativo del governo. La parte principale è stata completata nel 1800, per essere poi ampliata e arricchita dalla caratteristica cupola. Il viaggio di ritorno è lungo circa cinque ore.

2 settembre, venerdì

Oggi abbiamo un’intera giornata dedicata a New York e ce la godiamo tutta, iniziando dall’escursione al Memorial e alla Statua della Libertà.

Con la metro numero 4 scendiamo a Wall Street e facciamo colazione in una traversa accanto alla Borsa di New York (la più importante del mondo), in un bar che sembra assurdamente squallido per la zona.

Davanti alla Borsa, una enorme bandiera americana copre le bianche colonne. Quasi di fronte, nello stesso stile greco antico, c’è la Federal Hall, dove si riuniva il Parlamento nel primo periodo dopo la proclamazione d’indipendenza, quando New York fu capitale per un anno. Precedentemente l’edificio originario (1700) era la sede del secondo Municipio di New York. Prima dell’ingresso è sistemata una enorme statua di George Washington. L’edificio è stato ricostruito interamente, nel suo attuale stile neoclassico, nel 1842 per ospitare la Dogana della città e attualmente è un Memorial della storia nazionale. All’interno rimane solo una lastra originale e vi è conservata la Bibbia sulla quale il primo presidente ha giurato fedeltà alla nazione, nel 1789.

Proprio qui davanti, nel 1920, avvenne un episodio cruento che costò la vita a 38 persone. Una carrozza trainata da cavalli, esplose dinanzi alla banca J.P.Morgan, in una Wall Street affollatissima, causando molti danni a tutti gli edifici circostanti. La guida ci mostra delle evidenze dell’esplosione, ancora visibili sul muro di un edificio. Si suppone che il colpevole dell’attentato sia stato un anarchico italiano, nell’ambito di proteste anticapitalistiche e rivendicazioni lavorative post guerra.

Proseguiamo poi per la Trinity Church, per dare una rapida occhiata alle belle vetrate colorate dell’interno, in stile neo gotico, e del cimitero accanto.

La chiesa è situata all’intersezione tra Wall Street e Broadway e il primo edificio fu costruito nel 1698. Poco più tardi, alla chiesa fu aggiunta una scuola per i poveri e, nel 1754, fu fondato il King’s College (ora Columbia University), in un edificio accanto.

Fu completamente distrutta dal grande incendio del 1776 e una seconda Trinity Church fu riedificata nel 1790, per essere poi profondamente danneggiata da una violenta nevicata. Una terza chiesa, l’attuale, fu innalzata nel 1846: a quell’epoca il suo campanile era l’edificio più alto in tutta New York.

Il cimitero intorno è molto particolare, perché situato in pieno centro e circondato da alti grattacieli. Tra le tante tombe ne spiccano due, dedicate a illustri personaggi: Hamilton Alexander (uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America) e Robert Fulton (un ingegnere americano, inventore di particolari imbarcazioni a vapore o sottomarine).

Appena intravedo il grande spazio vuoto, dove un tempo si elevavano le due torri gemelle, mi viene un groppo alla gola e gli occhi si velano.

È stato un avvenimento terribile che abbiamo visto in diretta e che ha causato l’assurda morte di 2977 persone, l’11 settembre 2001. Accanto al luogo c’è casualmente una stazione di vigili del fuoco: questa circostanza ha favorito un intervento più rapido, ma moltissimi uomini sono morti nello svolgere questo pericoloso mestiere. Una lastra in rilievo, sulla facciata dell’edificio, li commemora insieme a una targa con i loro nomi.

Il Memorial è stato realizzato su progetto dell’architetto israeliano Michael Arad. Ci sono due enormi vasche-fontane, grige e rettangolari, con i bordi esterni piatti, sui quali sono incisi i nomi delle vittime (compresi quelli dei passeggeri degli aerei, usati come kamikaze dai terroristi, e delle 6 vittime di un precedente fallito attacco, del febbraio 1993). Per fare questo è stato scelto il criterio di mettere insieme i nomi di quelli che si trovavano vicini al momento dell’esplosione, che lavoravano nelle stesse ditte e uffici, o per accontentare le richieste di famigliari. E così, lungo il perimetro della Piscina Nord, sono ricordati tutti i visitatori e impiegati della Torre Nord, compresi i passeggeri del volo America Aerlines 77, che ha colpito l’edificio. Idem per la Piscina Sud, insieme alle vittime del volo 175, che si è schiantato sulle medesima Torre Sud, del volo 93, caduto in Pennsylvania e del 77, che ha colpito il Pentagono.

Ogni tanto spicca una rosa rossa o bianca, posta ogni giorno per ricordare il compleanno di una persona.

Le pareti interne delle fontane hanno un getto fitto e costante di acqua, che scorre lungo le stesse fino a un livello inferiore, che presenta un grande quadrato bucato, del quale non si vede il fondo. Le cascate di liquido hanno lo scopo di isolare e rendere muti i suoni della città, facendo del luogo un posto di contemplazione. Il concetto dell’artista che le ha progettate è di esprimere il vuoto fisico lasciato dagli attacchi terroristici e dalla perdita di vite umane. Inoltre, come non si riesce a vedere la fine del buco, così non si può spiegare l’assurdità dell’accaduto. È incredibilmente toccante. Le fontane (della stessa grandezza della base delle torri) sono posizionate a poca distanza l’una dall’altra, in un giardino in cui è stato recintato un albero particolare: l’unico ramo sopravvissuto all’incendio è stato miracolosamente salvato e ripiantato, in segno di speranza e come esempio di sopravvivenza. Sul posto sono stati ricostruiti (e alcuni ancora in costruzione) parecchi nuovi edifici, tra cui l’altissimo World Trade Center, che svetta con una forma affusolata e un’asta appuntita sulla cima.

Avviandoci verso Battery Park, attraversiamo la Broadway: John ci racconta che questa parte della strada (chiamata Canyon degli Eroi) viene spesso attraversata da parate di ogni genere, organizzate per commemorare particolari occasioni, come la fine della seconda guerra mondiale, gli astronauti dell’Apollo 11, importanti eventi sportivi. Sulla pavimentazione spiccano oltre 200 strisce di granito scuro, con incisi sopra i nomi dei personaggi festeggiati in queste parate, durante le quali, dagli edifici allineati lungo la strada, vengono lanciate innumerevoli quantità di strisce di carta e coriandoli.

A questo punto la nostra guida ci saluta (naturalmente lasciamo una piccola mancia, che qui è veramente una ossessione) e ci imbarchiamo sul traghetto verso Liberty Island. Pensavo che visitare la Statua della Libertà fosse una cosa scontata e senza particolare interesse invece, complice anche la bellissima giornata (che a poco a poco si è riscaldata), si rivela una forte emozione.

Nonostante abbiamo i biglietti per salire sul piedistallo, decidiamo di riprendere il traghetto di ritorno e alla sosta di Ellis Island non scendiamo: il tempo è poco e abbiamo altri programmi. Appena tornate a Manhattan non possiamo perdere la foto con il toro di Wall Street.

Poco oltre prendiamo la metro rossa a Rector Street e scendiamo alla W.23rd, vicino al Chelsea Market, un posto molto carino situato nel Queen, pieno di posticini per mangiare. C’è di tutto: un Sushi Bar, con una grandiosa vendita di pesce crudo e cotto, tra cui enormi aragoste, gamberi, scampi e granchi; tanti take- away, con cibo da consumare ai tavolini esterni; panetterie ed enoteche.

Andiamo ora a High Line, un posto particolare che veramente merita una visita. Era una stazione per treni merci poi caduta in disuso con l’avvento dei camion trasporti. Un comitato di cittadini si è riunito in un associazione, che ha contribuito a bonificare un lungo tratto di binari abbandonati, creando un vero e proprio parco sopraelevato, con aiuole fiorite ai lati, tratti di binari ancora visibili, panchine per relax, addirittura una scalinata con un vetro davanti per guardare il traffico sottostante. È molto scenografico, con i grattacieli a destra e sinistra: bellissimo.

Verso la fine della parte sud c’è proprio lo spazio dove era situata la stazione ferroviaria, ora attrezzato con bar e ristoranti. Prima di abbandonare la High Line ci imbattiamo in una curiosa scultura che sembra proprio un uomo vero, nudo, con indosso un’alta mutandina bianca e la pelle cerea di un morto.

Siamo ora nel distretto di Meatpacking, ex quartiere dei venditori di carne, situato vicino al porto, ma ora recuperato e diventato “very cool”, frequentato da modelle e vip, con ristoranti alla moda in edifici antichi ristrutturati. A poco a poco ci avviamo verso il Greenwich Village, ammirando le ormai abituali case in mattoncini rossi, con strette scale davanti e vari elementi decorativi. Sicuramente la zona è carina, con locali invitanti e negozi vintage. Il Washington Square Park è il centro del quartiere, molto ampio, con panchine, fontane e curiosi tavolini con scacchiere dipinte, accanto alle quali molti negri giocano o invitano a fare una partita a scacchi. Mi ricorda molto lo zocalo delle città messicane. È necessaria una sosta e troviamo un delizioso bar: Lady Bird, arredato con lampadari in cristallo e specchi dorati.

A poco a poco superiamo il Village e arriviamo a Soho, quartiere molto elegante che non avevo mai visitato.

La sua caratteristica sono i bellissimi e imponenti palazzi in ghisa bianca, in stile neoclassico, con colonne sulla facciata principale.

Cerchiamo quelli che vengono chiamati King e Queen, più maestosi degli altri. Sono davvero belli. I negozi di questa zona sono prevalentemente dedicati all’alta moda o alle gallerie d’arte.

Si avvicina l’ora di cena, ma non vediamo niente di adatto intorno a noi: le eleganti strade sono quasi deserte, con i negozi chiusi, e decidiamo di tornare verso l’hotel.

3 settembre, sabato

Verso le 7.30/8 prendiamo il taxi per Penn Station, situata vicino alla 8th Ave, accanto al Madison Square Garden, per prendere il treno verso Boston, Massachusetts. Abbiamo anticipato l’orario per aver tempo a sufficienza per cercare il binario, ma qui il numero del track esce solo 15 min. prima e si accede subito al treno, quindi possiamo fare colazione con calma.

Il biglietto sarebbe per South Station, ma Back Bay è più vicina al nostro hotel, lo Sheraton.

Il primo impatto con Boston è subito positivo. Uscite dall’hotel giriamo a destra e ci troviamo davanti due edifici in mattoncini rossi, abbastanza simili e con il tetto triangolare. Uno è sede dei vigili del fuoco. Svoltando di nuovo a destra imbocchiamo la Boylston St., un’importante strada del quartiere di Back Bay, recentemente recuperato, reso elegante e frequentatissimo da giovani. Ovviamente questa città è piena di studenti, essendo sede di numerose e importantissime università. Per questo motivo credo che sia molto gradevole abitarci. Noto molti club e bar dedicati allo sport, infatti qui è molto seguito il baseball, con i suoi Red Sox. Questa squadra, fondata nel 1901, ha vinto 8 campionati mondiali su 12: il suo nome fu scelto nel 1908 ispirandosi a quello precedente dei Boston Red Stockings, infatti i calzini rossi sono il logo del team.

La maggior parte delle case conserva lo stile antico in mattoni rossi e anche i nuovi edifici spesso vengono costruiti in questo modo. Non mancano però sullo sfondo grattacieli in vetro. Dopo un abbondante spuntino ci avviamo verso la strada parallela, Newbury, pienissima di bar, ristoranti e negozi, affollata di ragazzi di tutte le nazionalità. Ogni abitazione ha una zona leggermente più bassa della strada, che è scelta per posizionare tavolini e ombrelloni. C’è il sole e la temperatura è gradevole.

I taxi qui sono bianchi, a differenza di New York dove ci sono quelli caratteristici gialli. Nel Paint bar intravedo, sui tavoli, cavalletti e tele da disegno: si va qui per dipingere e bere. Sporadiche insegne, molto simpatiche, a forma di scarpe o stivali.

La elettrizzante passeggiata ci riporta in hotel per un breve riposino, prima di “affrontare” l’originale Boston Duck Tour. Si parte dal Prudential Center, al quale si può accedere direttamente dall’interno del nostro hotel. Questo grande e moderno complesso è formato da vari edifici, collegati tutti tra loro con attraversamenti sopraelevati in vetro o da corridoi con soffitti trasparenti. In questo modo alberghi, condomini e centri commerciali sono tutti raggiungibili internamente, cosa molto utile nei gelidi inverni bostoniani. All’uscita del Prudential Center troviamo, allineati, i famosi mezzi anfibi utilizzati dai soldati americani durante gli sbarchi ed ora recuperati nei tour del Boston Duck. Sono tutti di colori diversi: blu, verde, bordeaux, rosa e arcobaleno. All’interno ci sono file di sedili e i lati esterni del mezzo sono aperti. L’autista è una guida-attrice, che si presenta come la caricatura di una casalinga della periferia americana: bandana in testa, doppio grembiule da cucina con tante torte stampate sopra, tutto rigorosamente nei toni del rosa. Come l’accompagnatore del tour del Memorial a New York, anche lei adotta lo stile del classico show americano, con continue battute e risate molto forzate, che non mi piace molto, anche perché in questo modo capisco ancora meno la lingua. In ogni caso abbiamo le cuffie in italiano, anche se la voce tonante della nostra autista sovrasta l’auricolare.

Partiamo dalla zona di Copley Square per procedere lungo la Boylston: a destra e sinistra sfilano negozi, hotel, la imponente biblioteca, gli estesi parchi cittadini (il Boston Common è il più antico degli Stati Uniti) con laghi che d’inverno diventano piste di pattinaggio. Iniziamo poi a salire lungo la Beacon Street, affiancata da antichi lampioni, che restano sempre accesi per ricordare la libertà conquistata, e che di sera deve essere molto romantica. Sulla sinistra spicca la State House (1798), con un tetto a cupola ricoperto d’oro. Beacon Hill è la parte storica di Boston, con il suo famoso sentiero della libertà, marcato da mattoncini rossi, che indica i punti nevralgici della guerra per l’indipendenza dall’Inghilterra.

Arriva ora il momento di entrare in acqua: è molto divertente fare una discesina e di colpo trovarsi a navigare lungo il calmo fiume Charles che attraversa Boston. La luce del tramonto esalta i riflessi del sole sull’acqua: lungo le coste c’è molto verde. Passiamo accanto alla vasta area che ospita l’enorme università di Harvard e poi sotto un bellissimo ponte, il Longfellow Bridge, che comunemente è chiamato “sale e pepe” perché ha delle torrette che sembrano delle saliere.

La Duck si trasforma di nuovo in bus e continuiamo a girare la città: mi colpisce il New England Holocaust Memorial, sei torri di vetro a forma di parallelepipedo, completate nel 1995, che commemorano i milioni di ebrei uccisi dai nazisti.. Passiamo anche davanti ad un famoso hotel: il Fairmont Copley Plaza, uno degli storici alberghi americani, e poi torniamo al punto di partenza del Prudential Center.

4 settembre, domenica

Oggi ci sentiamo due principesse perché facciamo il giro di Boston con macchina privata e autista-guida tutto per noi. Mentre percorriamo nuovamente la Boylston, ci soffermiamo un attimo nel posto dove morirono dei ragazzi, durante la maratona di Boston di qualche anno fa: una bandierina americana e un cappellino attaccati a un albero ricordano la tragedia. Sulla destra l’enorme biblioteca della città. Scendiamo dalla macchina a Copley Square per fare delle foto alla Trinity Episcopal Church, davanti alla quale ci sono le sculture in bronzo di un coniglio e di una tartaruga. La giornata è bella e soleggiata, ma fa freddo. La guida Antonio ci dice che qui d’inverno il clima è molto rigido e che sul lago ghiacciaio del parco cittadino si pattina. Nella piazza è molto bello l’effetto della chiesa che si riflette nel palazzo accanto di vetro: antico e moderno.

Girando intorno al parco torniamo indietro nella direzione contraria, ma su una strada parallela, e attraversiamo un quartiere residenziale con bellissime e carissime case, abitate dalla ricca borghesia bostoniana: politici di alto livello e magnati dell’economica. Ora siamo di nuovo sulla Newbury, dove abbiamo cenato ieri sera, e andiamo verso il Fenway Park, lo stadio più importante per il baseball, che ospita dal 1912 gli incontri casalinghi dei Red Sox. A parte lo sport, questo quartiere è famoso per i locali di blues, come l’House of Blues, dove si sono esibiti artisti come Billie Holiday, Big Bill Broonzy, Sonny Boy Williamson. Moltissimi concerti sono programmati per i prossimi mesi.

Davanti allo stadio ci sono statue di famosi giocatori di baseball.

Andiamo poi nella zona di Harvard, che mi stupisce molto e della quale non immaginavo l’ampiezza: una delle facoltà principali è quella di medicina, alla quale sono collegati ospedali importanti come il Children’s Hospital e molti istituti specializzati nella ricerca, specialmente del cancro.

Accanto alle facoltà ci sono i campus per gli studenti, con abitazioni, parcheggi e campi sportivi, e viali alberati con villette per gli insegnanti. Il tutto è inserito in spazi molto ampi e pieni di verde. Siamo all’inizio del nuovo anno accademico e si vedono molti ragazzi e ragazze, con le caratteristiche magliette bordeaux, che arrivano carichi di valige, pronti per sistemarsi al campus. Passiamo poi davanti alle facoltà di economia, teologia, architettura ed entriamo nella “città “. Infatti c’è un vero e proprio centro, con bar, ristoranti e negozi ad uso dell’università. Rimango veramente impressionata dalla estensione del posto. C’è anche un famoso ristorante italiano: Toscano.

La zona in cui sorge Harvard si chiama Cambridge, per ricordare il luogo di provenienza di uno dei sui fondatori, Johon Harvard, un sacerdote inglese che alla sua morte lasciò alla scuola una considerevole eredità.

Antonio ci porta poi attraverso la seconda università della zona, il MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Riattraversiamo il ponte Longfellow e andiamo ora in una bellissima e carissima zona elegante, dove fotografiamo un vicoletto con la pavimentazione originale. Siamo intorno a Chestnut Street.

Risaliamo ora la Beacon Street verso la bellissima State House, già vista ieri, con la sua cupola d’oro che spicca sull’edificio rosso e bianco. Questa parte elevata e antica di Boston è molto bella e mi piacerebbe farla a piedi, ma evidentemente la nostra guida ha problemi di parcheggio, oppure non è previsto un tour in questo modo. Scendiamo verso il porto, zona in pieno sviluppo edilizio, dove sono al lavoro moltissime gru. Mentre in altre parti della città i nuovi edifici devono mantenere l’aspetto di quelli più antichi, qui ci si può sbizzarrire nell’elevare grattacieli.

Siamo davanti al mare: Boston è stato il primo e più importante porto di sbarco per gli europei in arrivo nel nuovo continente.

Siamo davanti al ristorante No name, molto amato da divi come Robert De Niro e Matt Demon. Sulla sinistra noto un lungo edificio bianco, con tutte le bandiere dei paesi che commerciano con Boston. Anche il ristorante Strega è molto frequentato da celebrità. Molto bello il Boston Harbor Hotel, che si affaccia direttamente sul porto. Boston è la città natale della famiglia Kennedy: vediamo una targa che commemora il padre e abbiamo ammirato l’abitazione della figlia Carolina, ora ambasciatrice in Giappone.

Entriamo poi nel bellissimo quartiere italiano intorno a North Street e dovunque ci giriamo vediamo insegne di ristoranti: Sfizio, Limoncello, Mamma Maria, Scopa, Il panino, Terramia, Assaggio, Bertucci’s.

Antonio ha terminato il suo giro: sicuramente si è meritato la mancia.

Invece di tornare in hotel approfittiamo per visitare il Quincy Market. Ci facciamo lasciare in zona e camminiamo in questo quartiere pedonale, dove ci sono quattro mercati coperti che vendono varia mercanzia e generi alimentari. Nei corridoi esterni sono sistemate altre bancarelle e tavolini. Poco oltre si esibiscono artisti di strada. Ci fermiamo al ristorante Where Everybody Knows Your Name e ordiniamo un intruglio di granchio con tacos.

È ora di tornare in hotel per riprendere le valige, il taxi per la stazione di Back bay e il treno per New York.

In treno, dopo tante ricerche per coniugare prezzo decente, zona comoda e ambiente carino, abbiamo prenotato un ristorante giapponese vicino al nostro hotel, in E.43rd : Soba Totto. Con i calici di bianco il conto risulta più caro del solito, ma almeno chiudiamo in bellezza il soggiorno a New York.

5 settembre, lunedì

Stamattina si parte per Chicago, sul lago Michigan, in Illinois. Prendiamo un taxi per l’aeroporto La Guardia, più vicino rispetto al Kennedy. Ci vuole circa una mezz’ora. Ci avevano detto che la corsa sarebbe costata intorno ai 30 dollari, invece c’è da pagare il pedaggio di un ponte e spendiamo circa 50 dollari. Il volo parte alle 11 e arriviamo intorno alle 12.30 (qui siamo 1 ora indietro rispetto a New York e 7 meno dell’Italia).

Avevo letto che per andare dall’aeroporto al centro è comoda la linea blu del treno. È facile prendere questo mezzo: ci facciamo aiutare da un ragazzo gentile per fare i biglietti alla macchinetta (5 dollari a testa) e impieghiamo circa 45 minuti per arrivare nella zona del nostro hotel The James, in E.Ontario Street. Dalla metro prendiamo un taxi. Sistemate le valige in camera, usciamo subito per esplorare Chicago. Non mi aspettavo di trovare tanto caldo nella “città ventosa”, specialmente nella stazione dove si soffocava.

Sulla destra invece si innalza il Wrigley Building, un altro landmark di Chicago, sede dell’omonima compagnia del magnate della chewing gum: si tratta di due torri di diversa altezza, la cui costruzione è iniziata intorno al 1920. Quella nord, più bassa, è collegata alla sud da alcuni camminamenti pedonali posti a diverse altezze (piano terra, terzo e quattordicesimo). Quest’ultimo edificio di 30 piani ha una torre simile alla Giralda (campanile) della Cattedrale di Siviglia, con un orologio in ogni direzione. Di notte la sua cupola è illuminata di rosso.

Siamo arrivate a un punto stupendo: il DuSable Bridge, un bellissimo ponte che, attraversando il Chicago river, collega la parte nord a quella sud della città. Anche la sua costruzione risale ai primi anni del novecento. Ai quattro angoli ci sono delle grandi colonne quadrate, con delle sculture che rappresentano momenti salienti della storia cittadina.

Ci troviamo nel clou di Downtown: dovunque ti giri rimani abbagliato dagli edifici di stili diversi che ti circondano, dal fiume che scorre sotto il ponte, dalle barche che passano.

Oggi non c’è molto sole: il cielo è velato e le foto non rendono la bellezza del posto, ma fa caldo.

Scopriamo che proprio da qui parte l’Architecture Tour che faremo domani, ma noi, non conoscendo bene l’ubicazione dei luoghi, abbiamo scelto un altro punto d’inizio.

Di fronte a noi si eleva il Trump building, che contrasta con i suoi vicini grattacieli per lo stile moderno, tutto in vetro, con parti degradanti verso l’alto. Questa torre ospita un hotel e appartamenti: raggiunge 98 piani ed è uno degli edifici più alti degli Usa. E’ molto scenografico sia di giorno che di sera.

Siamo ormai nella parte sud e continuiamo la nostra passeggiata rilassante, alla scoperta di questa affascinante città, che volevamo vedere da tanto tempo e che non ci delude affatto. Oggi abbiamo deciso di arrivare alla famosa Willis Tower e abbiamo già acquistato il biglietto d’ingresso (circa 20 dollari).

Affacciandosi dal ponte è visibile un camminamento pedonale lungo il fiume: lo percorreremo domani.

Questa città mi è piaciuta dal primo momento: come ho visto e continuerò a notare durante il viaggio, ogni posto che visitiamo ha delle caratteristiche sue proprie, con atmosfere personalizzate. Chicago mi trasmette imponenza (soprattutto in questo punto scenografico) e mi affascina.

Entriamo per curiosità in un Hard Rock Hotel, arredato nello stile dei cafè, con annessa boutique (in cui entriamo incontrando, come dovunque, commesse odiose e inefficienti). Alle pareti sono appese delle chitarre acustiche, le porte degli ascensori sono particolari: di ottone lavorato. Un bar è in stile giamaiacano, con i tipici cappellini attaccati a un muro e dietro alle bottiglie del bar spicca un allegro disegno colorato, con musicisti e ballerini reggae.

Oggi è festa: è il Labor day e non c’è molto traffico. I negozi sono generalmente aperti, ma non tutti: ci avevano detto che in questo giorno ci sarebbero stati sconti strepitosi, ma qui i prezzi sono abbastanza alti e non troviamo offerte particolari.

Con la cartina in mano ci avviciniamo a poco a poco al famoso grattacielo, percorrendo strade parallele e perpendicolari: sono tutte da scoprire e ognuna offre uno scorcio interessante. Ma la cosa più particolare, che si nota dovunque ti giri, è la metropolitana sopraelevata, caratteristica di Chicago. Questo mezzo di trasporto (il terzo come traffico negli Usa, dopo New York e Washington) è il più antico d’America, avendo iniziato a funzionare alla fine dell’ottocento.

Le sue linee (arancione, verde, rosa) sono prevalentemente di superficie, tranne la rossa (totalmente sotterranea) e la blu, che abbiamo preso dall’aeroporto (mista).

Passano sia parallele che perpendicolari: in questo modo, in ogni direzione, si vedono dei cavalcavia in ferro marrone scuro, che passano sopra le strade e sui quali sfrecciano in continuazione i treni. Mentre da un lato questo continuo avvicendarsi di strutture sopra le nostre teste potrebbe sembrare antiestetico (basta pensare a Boston dove hanno speso un capitale per fare un’autostrada sotterranea per evitare i ponti sopraelevati), qui invece è una particolarità della città e contribuisce alla sua caratterizzazione.

Quella che vediamo intorno a noi è la parte più famosa, perché attraversa il Loop, il distretto più importante della città, centro degli affari, del municipio e della vita commerciale. La zona è delimitata a nord e ovest dal fiume Chicago, a est dal lago Michigan e a sud dalla Roosevelt Road (anche se è in espansione). Si incontrano le sedi delle più importanti società commerciali e finanziarie, compagnie di trasporti e hotel. Comprende l’enorme Grant Park, State Street (che offre i migliori negozi per lo shopping), l’Art Institute of Chicago (uno dei più antichi tra i grandi musei d’arte degli Usa), la Willis Tower (la nostra meta odierna), teatri e sedi di balletti famosi, la Chicago Symphony Orchestra (diretta dal nostro meraviglioso Riccardo Muti), la Lyric Opera, la biblioteca Harold Washington Library.

Un’altra cosa originale di Chicago sono degli enormi orologi posizionati agli incroci delle strade, a mezza altezza, sugli spigoli dei palazzi: sono in stile antico, in metallo lavorato e, a volte, intorno al quadrante bianco hanno tanti pallini rossi tipo strass, che richiamano un’altra caratteristica delle insegne di Chicago, le lucette colorate che le incorniciano.

Siamo ora nella zona di Lake Station, dove riprenderemo la linea blu per l’aeroporto dopodomani, e davanti a noi spicca un altro famoso landmark: il Chicago Theatre, con la sua insegna verticale rossa, con la scritta bianca e le lucette intorno. Sul marciapiede un musicista di strada suona un motivo jazz con la sua tromba.

Come in tutte le città (americane, europee e italiane) si vedono spessissimo parcheggi di biciclette, che si possono prendere con la carta di credito, usare per 30 minuti e poi depositarle in un’altra postazione per prenderne una successiva, all’occorrenza, senza lasciare sguarniti i punti di parcheggio.

Notiamo che le aiuole di questa città sono molto ben curate e tutte uguali dappertutto, evidentemente il sindaco ha scelto questa direttiva estetica, molto carina.

Stiamo percorrendo la State Street, parallela alla Michigan e regno dello shopping: prima di girare a destra e imboccare la Medison, mi colpisce l’angolo di un palazzo, rivestito con un decoro in metallo nero, liberty.

Sulla destra, incastonata tra due grattacieli, spicca una chiesa (St. Peter) in mattoni beige, con un enorme crocifisso scolpito esternamente.

Finalmente arriviamo alla Willis Tower: è ancora giorno, ma decidiamo comunque di salire perché non sappiamo se, pur avendo comprato già il biglietto, dobbiamo fare o no la fila. In ogni caso avremo così tutto il tempo necessario per la nostra visita e per scattare foto. Ci resteremo fino alle 20 circa.

Questo edificio di 108 piani precedentemente si chiamava Sears Tower e quando fu eretto nel 1973 era il più alto d’America. Del resto a Chicago fu costruito, nel 1885, il primo grattacielo del mondo.

Ora questa torre è la seconda degli Usa, dopo il One World Trade Center, situato accanto al Memorial delle Twin Towers.

Esteticamente è un parallelepipedo che si restringe salendo in altezza e termina con due sottili antenne sulla cima.

Siamo un po’ emozionate. Il primo impatto del panorama, guardato a 360° dalle enormi vetrate, non è emozionantissimo: i colori grigi della giornata un po’ nuvolosa e delle ore pomeridiane, non lo esaltano particolarmente, soprattutto dal versante sud, dove però spiccano in lontananza, verso il lago, gli enormi Grant e Millenium Park. Guardando a nord, invece, l’insieme dei grattacieli già attraversati è molto spettacolare, proprio per il loro agglomerato e la diversità architettonica. Ma la meraviglia si rivela a poco a poco, con il calare del buio e l’accendersi delle luci sotto di noi. Io sono salita su tanti punti panoramici altissimi, perché mi piace molto questa esperienza: a Dubai, Londra, New York, Shangai, Tokyo, ma questo è diverso dagli altri per i suoi “balconcini”. Già sulla torre di Tokyo c’era una sporgenza con il pavimento semitrasparente che ti permetteva di vedere il “fondo”, ma quel giorno la giornata era molto grigia e piovosa e non si vedeva bene, anche per lo spazio ristretto. Qui invece ci sono parecchie verandine che si proiettano verso l’esterno, completamente realizzate in materiale trasparente. Con una lunga fila si riesce a posizionarsi (in piedi, seduti, sdraiati, come si vuole) sul pavimento ed avere la sensazione pazzesca, emozionante ed anche paurosa, di essere sospesi nel vuoto. Con infinita pazienza ci mettiamo in coda non una, ma ben tre volte, perché, quando arriva il nostro turno, non abbiamo tanto tempo per provare tutte le possibili combinazioni (col flash, senza flash) per riuscire a fare delle foto decenti che rendano l’idea della meravigliosa esperienza.

Insomma il nostro pomeriggio alla Willis ci resterà impresso come una bellissima esperienza, una cosa unica e conserveremo sempre nel nostro cuore il brivido provato.

Durante la passeggiata di andata avevamo sbirciato intorno a noi per adocchiare un probabile ristorante per la cena. Infatti ci accomodiamo all’interno (fuori fa molto caldo) di McCormick & Schmick’s, un ambiente carino con una cameriera gentile (qui all’inizio lo sono tutti perché vogliono le mance) e ordiniamo la cena.

6 settembre, martedì

Stamattina abbiamo un’escursione di mezza giornata (parte nord e sud) prenotata con Viator. Abbiamo confermato qualche giorno fa (per telefono) il pick up nel nostro hotel.

Scendiamo a fare colazione a uno Starbuck situato di fronte all’hotel e poi aspettiamo il bus per iniziare il nostro tour. Dopo aver caricato altre persone nella zona sud, torniamo di nuovo indietro per visitare quella nord, considerata più cara e residenziale. L’autista-guida non è affatto simpatico: nonostante io abbia premesso che essendo italiana non capisco perfettamente, ogni volta che chiedo qualcosa lui risponde seccato, dicendo che ha già dato l’informazione e mi tratta come una deficiente.

Arriviamo a costeggiare il lago Michigan, veramente molto esteso, tanto che non si vede la riva opposta: le sue sponde sabbiose danno proprio l’impressione di un vero mare, con una lunga spiaggia che costeggiamo.

Accanto scorre un’ampia striscia di prato verde, intersecata da una pista ciclabile.

Arriviamo ora nella parte nord di Chicago dove è situato il Wrigley Field, lo stadio del baseball, inaugurato nel 1914 e regno dei Chicago Cubs, una delle due squadre della città, insieme ai Chicago White Sox.

Questo posto ha due caratteristiche: la prima è che il muro che delimita il campo esterno di gioco è ricoperto di edera, che crea un particolare effetto visivo; la seconda sono i posti (paganti) sistemati sui tetti delle abitazioni limitrofe.

Tutta la zona circostante è piena di pub e locali, affollati dai tifosi prima e dopo le partite. Deve essere movimentata anche la sera.

Sulla via del ritorno passiamo davanti ad un altro teatro landmark della città: The Century, con una facciata baroccamente decorata in stucco bianco.

E’ necessaria una sosta idraulica e il bus si ferma nel Lincoln Park, area verdissima piena anche di serre con piante rigogliose che invitano a fare delle belle foto.

Siamo ora in un quartiere molto residenziale, con abitazioni eleganti e tanto verde. Qui gli affitti sono molto cari.

Ci stiamo riavvicinando a Downtown e percorriamo la parte nord della State Street, piena in questo tratto di parecchi ristoranti specializzati in carne, che pare qui a Chicago sia molto buona. Su uno di questi noto un enorme grill con il coperchio, tutto rosso, completo di piedini, posizionato sull’angolo del palazzo, al posto dei solito orologi.

Il ristorante Quartino si trova proprio vicino al nostro hotel e lo teniamo presente per la sera.

Molte persone hanno prenotato solo la visita della parte nord e vengono rimpiazzate da chi invece deve vedere solo la parte sud. Noi, con pochi altri, restiamo a bordo per proseguire il tragitto. Costeggiamo ora la parte meridionale della Michigan e mi emoziono a vedere sulla destra la sede della Symphony Orchestra, la Theodore Thomas Orchestra Hall, con accanto il manifesto di Muti, suo direttore dal 2010.

Proseguendo passiamo davanti a importanti hotel come il Plaza e l’Hilton Chicago.

Di seguito anche un luogo dove si esibiscono cantanti blues.

Passiamo ora dentro Chinatown, con la immancabile porta decorata, i negozi, le insegne rosse e i dragoni.

Ci dirigiamo poi verso la zona dell’Università, attraversando i parchi circostanti di Hyde e Washington. E’ piena di verde, elegante e residenziale, con moltissime villette ben curate: al n.5046 della Greenwood Avenue spicca, nascosta tra il verde e con un’imponente rete di protezione, la casa del presidente Barack Obama. La sua figura è legata alla città di Chicago, avendo insegnato legge Costituzionale presso la facoltà di Legge dell’università di questa città (per 12 anni dal 1992 al 2004) e partecipato al Senato dell’Illinois (stato di cui Chicago è il più grande agglomerato) dal 1997.

Proseguiamo poi lungo la Woodlawn Avenue e qui il bus fa la seconda sosta della giornata: scendiamo per fare due passi e ammiriamo la Rockefeller Memorial Chapel, una enorme chiesa in stile gotico, adagiata su un prato verde. Poco oltre ammiriamo una delle famose ville costruite dall’architetto Frank Lloyd Wright: la Frederick C.Robie House, costruita tra il 1908 e il 1910.

Questa costruzione è il più significativo esempio dello stile, tipicamente americano, della Prairie School (scuola della prateria), caratterizzata dalla scelta di linee orizzontali, tetti piatti e cornicioni sporgenti. Il nome di questa corrente deriva dalla sua ispirazione alle praterie americane: l’architetto disegnò non solo l’esterno, ma anche gli interni come i mobili, le tappezzerie, l’illuminazione, ritenendo indissolubile il legame tra le due componenti della casa.

Fa molto caldo e c’è un sole forte: riesco a comprare una bottiglietta d’acqua e ad andare in bagno in un museo lì accanto. La guida, non molto gentile, non ci ha nemmeno dato indicazioni in proposito.

Risaliti sul bus attraversiamo un altro parco, il Jackson, passando davanti al grandissimo Museo della Scienza e dell’Industria, la cui cupola mi ricorda S. Pietro e Paolo di Napoli.

Ci ritroviamo ora di nuovo lungo le rive del lago Michigan, che risaliamo da sud a nord. Anche tutta questa zona è molto verde con edifici importanti. A destra noto il McCormick Place, il più grande centro congressi del Nord America, inaugurato recentemente da Obama.

Di fronte a noi si stagliano i grattacieli di Dawntown e, sempre a destra, la grande area verde, formata dal Grant e dal Millennium Park, che volevo visitare e che sono contenta di vedere almeno dal bus. In essa spicca l’acquario Shedd, di forma ottagonale, il porto con molte barche a motore e l’Adler Planetarium, con cupola circolare.

Facciamo una piccola sosta per scattare qualche foto in un punto meraviglioso: un prato affianca la riva del lago e in lontananza spicca lo skyline della città e, ancora più in fondo, la zona del Marina Pier, da dove partirà la nostra escursione del pomeriggio.

Di regola il nostro tour dovrebbe terminare al James Hotel, ma, approfittando della sosta per far scendere gli altri turisti, decidiamo di fermarci anche noi in questa zona. In questo modo possiamo gironzolare ancora un po’ nella parte finale dei parchi Grant e Millenium, che sono lambiti dalla Michigan Avenue sud, lungo la quale camminiamo ora. Purtroppo abbiamo solo intravisto la famosa fontana Buckingham, che di notte si illumina, ma non si può fare tutto. Ci consoliamo fotografando un altro simpatico gioco d’acqua che scorre, radente, lungo un alto parallelepipedo, mentre su un blocco simile, sistemato accanto, si riflette una figura umana che cambia continuamente espressione.

Abbiamo caldo e fame e dopo un inutile tentativo in un ristorante un po’ caro, situato sotto un gigantesco “fagiolone” in acciaio lucido, entriamo in un posto abbastanza scadente, Noodles and Company, dove ordiniamo della pasta.

Dopo un giusto riposo ci rimettiamo in cammino e decidiamo di scendere lungo il riverwalk. E’ una passeggiata molto gradevole con bar e ristoranti da un lato e il fiume dall’altro, sempre incuneato tra gli splendidi grattacieli.

La prossima escursione sarà il tour architettonico, proprio lungo questo fiume: abbiamo provato a spostare la partenza da questo punto più centrale, ma non ci siamo riuscite: dovremo quindi andare al Marina Pier, sul lago, sicuramente più lontano. Non ci scoraggiamo e, visto che la partenza è prevista per le 19.30, non sprechiamo di certo il nostro tempo e curiosiamo nei negozi della Michigan nord.

Sulla mappa la zona del porto sembra più vicina, invece il percorso è abbastanza lungo.

Arrivate a destinazione ci troviamo davanti un grande edificio in mattoncini rossi: il Chicago Children’s Museum, fondato nel 1982, con alla base vari bar e ristoranti. Ci sediamo per una sosta-merenda, dopo aver cambiato il nostro voucher con il biglietto.

E’ ora di iniziare la nostra avventura serale: ci mettiamo in coda per salire su una imbarcazione piatta, dotata di file di sedili e con una guida inglese delle cui parole capirò solo una parte.

Il cielo a poco a poco si sta scurendo, ma questa è un’ora magica, mentre le luci dei grattacieli iniziano ad accendersi e tutto si trasforma in visione notturna. Sarà una esperienza meravigliosa e straordinaria, accentuata dal fatto che la temperatura è ottimale, con aria calda e immobile, l’ideale per una gita in barca di un’ora e mezzo. Lentamente scivoliamo lungo il fiume Chicago, nel cuore dei più bei palazzi di Downtown, risalenti, i più antichi, alla fine ottocento-inizio novecento. Non so come fa, ma la guida ricorda e cita tutte le date di costruzione di ogni singolo edificio. Io pian piano non cerco nemmeno più di capire, ma mi abbandono all’emozione pura del momento, mentre, dovunque mi giro, vedo svettare luci. Devo tenere sempre lo sguardo in su. Attraversiamo gli innumerevoli ponti, con i treni della metro che sfrecciano nel buio, le altre barche che passano: senza parole.

Quando, alla fine di tutto, scendiamo dalla barca, prendiamo un taxi a volo che ci riporta in hotel per una rapida rinfrescata. Per la cena abbiamo deciso di andare da Quartino, il ristorante pseudo-italiano, già individuato la mattina e situato proprio all’angolo dell’Ontario Avenue, quella del nostro albergo. Da quando sono qui negli Usa, non ho mai avuto una sensazione di paura, in nessuna città, uscendo di sera. Naturalmente siamo sempre rimaste in zone centrali, ben illuminate e piene di gente, ma ciononostante non si sa mai.

7 settembre, mercoledì

Stiamo per lasciare Chicago dirette all’aeroporto, con destinazione New Orleans, in Lousiana. Come per l’andata prendiamo un taxi per la stazione di Lake, da dove parte la linea blu per O’Hara. Il volo è di scarse due ore: l’aeroporto di arrivo è strano, molto vintage, sia come arredamento che atmosfera. Superata una statua di Luis Armstrong, ci dirigiamo verso il ritiro bagagli e poi all’esterno per prendere un taxi (mezzo che risulta non troppo caro). Qui la tariffa per il centro è fissa: 36 dollari. Siamo fortunate perché ci capita un tassista molto gentile e simpatico, di origine slava che, diversamente dagli altri colleghi odiosi, ci racconta parecchie cose sull’uragano Katrina e sulla città. Addirittura ci lascia il suo biglietto da visita per il ritorno. Il nostro hotel è l’Hyatt French Quartier. Capisco subito che in questa città le persone sono più gentili e comunicative: gli impiegati dell’hotel si prodigano subito nel darci info utili. La camera è spaziosa e finalmente la doccia funziona bene. Ci rilassiamo un po’ e recuperiamo le forze. Verso l’ora di cena usciamo per perlustrare questa città che tanto ci incuriosisce.

Per fortuna siamo in pieno centro: uscendo dall’albergo dalla porta laterale, andiamo a destra e all’angolo notiamo un Hard Rock Café (nel quale scopriremo che si può entrare anche direttamente dall’hotel). Perpendicolarmente a noi c’è la famosa Bourbon Street, la strada della vita notturna, dei locali erotici, bar, ristoranti, negozi turistici, musica jazz e blues, gente ubriaca che cammina per strada o è affacciata ai balconi, da dove lancia le famose collanine colorate per attirare le donne. Insomma un allucinante pot pourri di bianchi, neri, mulatti, sia del luogo che turisti, ambiente un po’ vero e un po’ finto, allegro e triste, pieno di chiasso, vocio e musica. Indubbiamente da vedere per viverne l’atmosfera.

Stasera per la cena andiamo in un ristorante, il Pier 424 Sea Food Market, che si affaccia proprio su Bourbon Street, così, mentre mangiamo, possiamo divertirci a osservare il passeggio e i vari personaggi che ci sfilano davanti. Il menù presenta molte specialità locali, che sono prevalentemente intingolate e piccanti. Non è facile scegliere e il risultato è accettabile tranne un contorno strano, la Jambalaya (carne macinata con verdure) che io non assaggio nemmeno. Per digerire continuiamo a camminare e fotografare la elettrizzante location con alcune capatine nei negozi ancora aperti. Poi la nanna in hotel.

8 settembre, giovedì

Oggi abbiamo prenotato (sempre con Viator, che non ci ha dato sorprese) un biglietto hop on hop off per il Sightseeing Tour di New Orleans. In realtà il titolo varrebbe tre giorni, ma noi abbiamo solo oggi per utilizzarlo. A piedi andiamo in Basin Street, la fermata più vicina al nostro hotel. Iniziamo ad assaporare anche di giorno il paesaggio di questa città, che ha proprio tanti contrasti, anche architettonici: palazzi alti e moderni, alternati a edifici primi novecento, e case basse con giardini. Il biglietto del bus viene cambiato all’interno di una stazione adiacente al famoso cimitero St. Louis, il più importante di New Orleans, costruito nel 1789, che ci piacerebbe molto visitare. Infatti al suo interno ci sono le tombe di personaggi famosi, tra cui la sacerdotessa del vodoo, Marie Laveau, e anche la piramide che Nicolas Cage ha fatto costruire per la sua sepoltura. L’attore si è innamorato del posto quando ha girato in questa città il film Zandaly. Purtroppo si può accedere al cimitero solo con una guida e gli orari dei tour non coincidono con quelli del bus. Siamo costrette a rinunciare e ci limitiamo a vedere dal finestrino solo l’insieme delle tombe bianche, tra cui spicca la piramide.

La signora che illustra la città, parlando dal piano superiore del bus, sul quale ci siamo sistemate noi, è molto gentile e capisco abbastanza. Decidiamo di percorrere un bel tratto di strada per avere una panoramica della città, prima di scendere. Percorriamo la grande e importante Canal street sulla quale si affaccia una delle tre entrate del nostro hotel. È piena di vita tra alberghi, ristoranti e negozi, tutta abbastanza moderna e piena si luci di sera, completamente diversa dalle strade immediatamente adiacenti.

Mi colpisce poi la zona dell’Harrah’s Casino, con molti hotel imponenti: siamo nella parte antistante al porto, sul fiume Mississippi, dove purtroppo non riuscirò ad andare, perdendo la vista dei famosi battelli a ruote.

Arrivate allo stop di Magazine Street, scendiamo dal bus per aspettare la guida che ci accompagna in un piccolo, ma nemmeno tanto, giro a piedi nel quartiere residenziale di Garden District. Qui sembra di aver cambiato città: è tutto molto verde. La zona è molto ampia e nelle sue rettilinee strade alberate sfilano, allineate, bellissime abitazioni con lo stile classicheggiante tipico delle case

Padronali delle piantagioni. Infatti nel passato qui si estendevano ampie distese prevalentemente di canna da zucchero, a poco a poco rimpiccolite e frazionate in più proprietari. Sono molto eleganti e pur avendo caratteristiche simili, come i patii e le colonne, si presentano diverse l’una dall’altra per grandezza e tipologia. Dopo una lunga passeggiata la guida ci lascia libere per le visite individuali e noi ci affacciamo nel cimitero Lafayette. In realtà non mi colpisce particolarmente, nel senso che non mi sembra molto diverso da un normale luogo di sepoltura. Fa molto caldo e abbiamo anche fame. Torniamo allora di nuovo verso Magazine Street ed entriamo in un posto fresco per pranzare, Brick & Spoon. Una specialità di questa città sono i Po’ Boy, dei sandwich tradizionali fatti con pane tipo baquette e ripieni di roast beef o pesce fritto: però non abbiamo l’opportunità di assaggiarli.

Esploriamo poi questa strada che si rivela piena di negozi molto sofisticati, sia per l’arredamento che per i prodotti esposti, purtroppo un po’ cari per le nostre tasche già pesantemente provate. E’ comunque molto piacevole entrare, guardare, ammirare e sognare.

Riprendiamo il nostro bus rosso sul quale continuiamo ad assaporare la città. Passiamo anche davanti ad un grande magazzino nella zona portuale, dedicato al Mardi Gras, il famoso carnevale di New Orleans. Intravedo apparati per carri, maschere, abiti, ma non scendiamo per non sprecare tempo. Questa è l’ultima corsa del bus e abbiamo solo una scelta: terminare il nostro giro in un punto dove poter tornare a piedi in hotel.

Ultimo stop al French Market Place: poco oltre c’è la famosa Frenchmen Street, dove il tassista ci aveva raccomandato di recarci per sentire jazz in locali “seri”, lontano dal caos di Bourbon Street. Ma non si può fare tutto: ora è pomeriggio e sarebbe inutile allungare il percorso senza gustare l’atmosfera notturna.

Vaghiamo quindi in questa parte più esterna del quartiere francese, dove restiamo affascinate dalla bellissima musica di un complesso di colore che si esibisce in un ristorante all’aperto, situato in Latrobe Park. Filmiamo con entusiasmo un po’ di questo meraviglioso momento.

Arriviamo a Jackson Square, luogo storico dove, nel 1803, la Lousiana fu annessa agli Stati Uniti. E’ stata progettata dall’architetto Louis H. Pillé, che si è ispirato alla famosa Place Des Vosges di Parigi.

E’ un quadrato verde con al centro la statua equestre di Andrew Jackson, settimo presidente degli States ed eroe della battaglia di New Orleans contro gli inglesi.

Dietro la piazza si staglia la Cattedrale di St. Louis. Qui intorno ogni negozio è attraente, specialmente quelli di Royal Street (parallela a Bourbon) e ci divertiamo moltissimo a visitarli. Contemporaneamente cerchiamo di scegliere un posto carino per la cena: individuiamo il famoso ristorante Court of Two Sisters, veramente meritevole e splendidamente arredato, con un delizioso giardino interno, ma purtroppo (per un’assurda politica, comune anche ad altri locali di questa città) chiude alle 21 e prende gli ultimi clienti alle 19, perché hanno un servizio… lento!

Naturalmente ce ne andiamo, perché vogliamo tornare un attimo in hotel prima di cena. Andando verso l’Hyatt, facciamo un altro tentativo di prenotazione presso un posto molto carino, Mr. B’s bistrot: ma anche qui una signora abbastanza antipatica non prende prenotazioni e ci invita e presentarci entro le 21. Scoraggiate, saliamo in camera da dove telefoniamo al Le Bayou, che finalmente chiude tardi e ci riserva un tavolo. Piccola rinfrescata e cambio rapido e di nuovo nella bolgia di Bourbon Street.

9 settembre, venerdì

La giornata di oggi è dedicata a una escursione (sempre prenotata con Viator) che ci sta molto a cuore: la visita delle piantagioni. Purtroppo il tempo si presenta nuvoloso e le previsioni danno pioggia, anche intensa. Ma noi saremo fortunate.

Il nostro pulmino contiene poche persone e l’autista ci dà qualche informazione lungo il percorso. Attraversiamo un ponte sul Mississippi e mentre piove, a tratti violentemente, arriviamo dopo circa un’oretta alla Oak Plantation, la più famosa. Avviene il miracolo: la pioggia sparisce ed esce il sole, che a poco a poco diventa anche forte e caldo. La guida ci lascia all’ingresso con le istruzioni: possiamo girare per conto nostro fino alla visita guidata dell’interno e poi si riparte. Il luogo è famoso per le bellissime querce, che abbelliscono anche la parte retrostante, da dove accediamo, della bianca casa padronale. Da questo lato ci sono delle casette in legno che ospitano bar, ristorante e shop. Poco oltre c’è una ricostruzione delle abitazioni degli schiavi che lavoravano nella piantagione. Arriviamo alla facciata principale, di fronte alla quale ci sono le meravigliose querce che s’incontrano incrociando le chiome e formando un suggestivo viale-tunnel.

La parte più scocciante della mattinata è proprio la visita guidata dell’interno della casa, perché è eccessivamente dettagliata. Veniamo indirizzati nelle varie stanze mentre assistenti, in abiti stile Via col vento, chiudono le porte dietro di noi, impedendo un’eventuale uscita anticipata. Siamo quindi costrette a restare in piedi, per parecchio tempo, ad ascoltare tutta la storia della famiglia che possedeva la piantagione, senza capire niente perché è illustrata in stretto inglese. Finalmente arriviamo sulla veranda per le ultime foto e poi dritte al bar per un veloce panino e giretto nel negozio accanto.

Anche qui la visita è abbastanza lunga e alla fine abbiamo solo un breve intervallo per il bagno e negozietto.

Con circa un’ora torniamo alla realtà cittadina e invece di farci riportare in hotel, scendiamo nella zona della Cattedrale dove continuiamo a girovagare.

Dopo la sosta d’obbligo in hotel, ci fermiamo per cena all’Oceana grill, dove dobbiamo fare la fila, aspettando di essere sistemate. Scegliamo un tavolo in un cortiletto molto carino, sul quale si affacciano due piani di balconi in legno. Fa caldo, ma si sta bene e mangiamo delle buone specialità locali.

È la nostra ultima sera, non solo a New Orleans, ma negli States, quindi continuiamo a perlustrare tutte le viuzze intorno a noi, entrando nel bell’hotel Monteleone, dove c’è il bar Carousel a forma di giostra. Scopriamo poi dei negozi molto particolari nella parte finale di Royal Street e nelle sue perpendicolari: gallerie d’arte e bar molto raffinati e originali. Questa città è veramente unica e assolutamente da visitare, per la sua mescolanza allegra di stili e una realtà completamente originale.

10 settembre, sabato

Siamo di nuovo in questo aeroporto un po’ vintage. Ci compriamo qualcosa da mangiare perché sicuramente nel volo breve non ci offriranno niente.

Al check in non ci assegnano l’agognato corridoio: fino a Charlotte no problem, ma per il volo lungo riusciamo a cambiare il posto direttamente al gate d’imbarco. Volo per Fiumicino AA720 delle 18.20, con arrivo a Roma alle 9.40 dell’11 settembre, data fatidica per gli Usa.



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