The Best of the West

Periodo: 4/30 agosto 2009 – viaggio di coppia – costo circa 2.500 € a persona tutto compreso ITINERARIO: Los Angeles - Bakersfield – Sequoia NP – Three Rivers - Yosemite NP - Mariposa - Mammoth Lakes - Lone Pine - Death Valley - Las Vegas – St. George - Zion NP – Panguitch - Bryce Canyon NP - Kodachrome SP – Burr Trail - Capitol...
Scritto da: sere71
the best of the west
Partenza il: 04/08/2009
Ritorno il: 30/08/2009
Viaggiatori: in coppia
Periodo: 4/30 agosto 2009 – viaggio di coppia – costo circa 2.500 € a persona tutto compreso ITINERARIO: Los Angeles – Bakersfield – Sequoia NP – Three Rivers – Yosemite NP – Mariposa – Mammoth Lakes – Lone Pine – Death Valley – Las Vegas – St. George – Zion NP – Panguitch – Bryce Canyon NP – Kodachrome SP – Burr Trail – Capitol Reef NP – Goblin SP – Moab – Canyonlands NP (Island in the Sky) – Dead Horse Point SP – Arches NP – Bluff – Monument Valley – Mooki Dugway – Gooseneck SP – Albuquerque – Santa Fe – White Sands NP – Las Cruces – Chiricaua NP – Tombstone – Benson –Saguaro NP – Sedona – Flagstaff – Grand Canyon NP (South Rim) – Page – Lake Powell – Antelope Canyon – Los Angeles FUSO ORARIO: -9 California, Nevada e Arizona / -8 Utah, New Mexico e Territori Indiani Tempistica: prenotazione voli: fine gennaio United Airlines (pagamento immediato) prenotazione auto: National febbraio (pagamento alla riconsegna dell’auto) prenotazione hotels: marzo-luglio (pagamento in genere al check-in) stipula assicurazione sanitaria: Mondial Assistance luglio (pagamento immediato) Guide di viaggio e organizzazione: Routard Stati Uniti Occidentali, secondo noi la migliore. Prima della partenza ho letto anche la Lonely Planet USA West, la guida Mondadori USA ediz. 2009 e le vecchie guide EDT di Utah, Arizona, Nevada, New Mexico, reperite in biblioteca e molto ben dettagliate, il materiale speditomi gratuitamente dagli uffici del turismo di questi stati (basta fare una richiesta per posta elettronica), centinaia di siti internet dedicati alle località che intendevamo visitare (tra cui ovviamente i siti web dei parchi naturali), decine di itinerari di viaggi TPC e altri (consiglio caldamente il sito jompage.Com), l’enciclopedia Globus Stati Uniti e Canada, meritevole anche per le splendide foto. Poi, cartina alla mano (noi avevamo la Michelin Western Usa formato 1: 2.400.000 comprata da Feltrinelli) si pianifica l’itinerario, si calcolano i km, o meglio le miglia giornaliere, con l’aiuto di google map, mapquest o altro, si legge qualche giudizio su Tripadvisor sui motel e i ristoranti, tanto per andare sul sicuro e poi…Conto alla rovescia e partenza! 4-5 agosto martedì-mercoledì Il viaggio aereo è di quelli che fan passare la voglia: Milano-Londra con Easy Jet, pernotto nelle vicinanze di Heathrow e il giorno successivo Londra-Los Angeles con United Airlines, di cui non si può parlare male (puntuale, rapida nella riconsegna bagagli, servizio impeccabile a bordo, mini schermo su tutti i sedili – con film in lingua, s’intende – acqua e cibo a volontà), però 11h e 30 di volo sono troppe, sembrano non finire più. Quando ormai ho perso la speranza e sono preda di nausea, mal di testa e sfasamento da jet-lag, ecco apparire dal nulla in mezzo al deserto Las Vegas, e da lì a poco Los Angeles, sterminata oltre ogni immaginazione.

Le operazioni di ingresso si svolgono celermente e approdiamo con i nostri bagagli sul marciapiede degli shuttles gratuiti che conducono alle compagnie di autonoleggio. La nostra è la Nazional, prenotata telefonicamente dall’Italia tramite la sua partner Maggiore (se siete iscritti al programma Millemiglia dell’Alitalia vi faranno uno sconto). Era la più conveniente: 500 € per 24 giorni, con copertura CDW e LIS (furto, incendio e danni provocati a terzi) per un’auto di categoria compact, appena superiore all’economica ma per noi più che adeguata in quanto sufficientemente spaziosa e con un bagagliaio molto contenitivo. Ci scontriamo subito con lo slang incomprensibile della poco paziente impiegata della National, Donna, che fa del terrorismo psicologico cercando invano di venderci ogni genere di copertura assicurativa supplementare e infine ci indirizza sul piazzale esterno, dove troviamo una decina di vetture della categoria prescelta, tra le quali scegliamo una Hyunday Accent celeste con 8.000 miglia percorse, cambio automatico, autoradio e aria condizionata. Ci facciamo dare qualche sommaria indicazione stradale, il che non ci impedisce di perderci un paio di volte (anche per via della carente segnaletica) prima di riuscire finalmente ad imboccare la 405 Nord che, dopo un primo tratto cittadino ingolfato di traffico, si scioglie un po’ e ci porta fino a Bakersfield, dove abbiamo prenotato un Motel 6. Per questo viaggio noi abbiamo prenotato dall’Italia tutti i pernottamenti, ma è essenziale prenotare almeno la prima notte, perché all’ingresso negli Usa è necessario dare l’indirizzo del primo posto in cui si risiederà su suolo americano. Precisazione: per entrare negli States da gennaio 2009 è necessario richiedere un’autorizzazione sul sito dell’ESTA (italy.Usembassy.Gov/visa/default-it.Asp), cosa che noi ci eravamo premurati di fare con grande anticipo, stampando la relativa ricevuta. Una volta su suolo americano, però, ci è stato chiesto di compilare nuovamente la richiesta di ingresso, fornendo i dati già specificati a suo tempo su internet; abbiamo mostrato l’autorizzazione cartacea di cui eravamo in possesso ma ci è stato risposto che non aveva valore, essendo stata fatta in Italia e non in Usa. Mah! Il Motel 6 di Bakesfield, 1350 Easton Drive, è squallido e maleodorante – cominciamo bene – e anche l’impiegata alla reception non è delle più amichevoli. Facciamo due passi per sfamarci al Taco Bell di fronte, dove servono cibo spazzatura, e filiamo di corsa a letto per tentare di recuperare almeno in parte le energie spese in questa faticosa prima giornata.

6 agosto giovedì Oggi è il nostro vero primo giorno americano e già di prima mattina sembra tutto più bello. Puntiamo al Sequoia, dopo una sosta lampo a Delano, paesone senza fascino incontrato lungo la 99 Nord, per fare rifornimento e colazione. Scopriremo che la nostra auto ci costringe ad un rifornimento quasi quotidiano, un po’ perché effettivamente ogni giorno percorriamo molte miglia, un po’ perché il cambio automatico fa consumare di più. Inoltre non è diesel ma va a benzina, come tutte le auto in America. Ci rallegriamo di non aver scelto un Suv.

Capitolo “gasoline”. Fare benzina in America all’inizio vi potrà creare qualche problema. Innanzi tutto alcuni distributori applicano prezzi diversi a seconda che paghiate cash o con carta di credito (il che contraddice la diceria che in America è inutile girare coi contanti; sarà anche vero che sono tutti abituati a pagare con moneta elettronica, però di fatto i contanti in viaggio vi saranno molto utili: dal benzinaio, nei bar, al ristorante per le mance, nelle lavanderie automatiche, per tutti i piccoli acquisti quotidiani). In alcuni distributori di benzina, poi, la carta di credito non viene accettata. Ve ne accorgerete perché, dopo averla inserita, il monitor vi chiederà un codice, il che significa che vi sta chiedendo in realtà una carta di debito. Noi abbiamo provato ad inserire il nostro bancomat, che è abilitato ad operare sui circuiti internazionali, ma è stato respinto. A quel punto l’unica è andare alla cassa prima di fare rifornimento. E lì comincia il bello. Ti chiedono di pagare subito, in contanti o con carta, una cifra a forfait, prima di fare benzina e conoscere esattamente la quantità di carburante che entrerà nel serbatoio. Per cui l’importo è presumibile e, se dovesse dimostrarsi superiore alla reale capienza del serbatoio, bisogna rientrare in negozio e farsi restituire il resto. In tutto il viaggio solo un benzinaio ha accettato che gli lasciassi la carta di credito in ostaggio, in attesa di conoscere l’importo preciso da pagare, tutti gli altri hanno preteso il pagamento anticipato. Comunque dopo un paio di volte ci si fa l’occhio, però è una scocciatura. Il costo del carburante è variabile, più caro in California, meno in New Mexico e Arizona. Schizza vertiginosamente in prossimità di deserti e parchi. Il minimo da noi trovato è stato 2,47 $ al gallone, il massimo 3,99 $. Un gallone equivale a 3,7 litri per cui il risparmio rispetto all’Italia è notevole (circa 0,50-0,60 € al litro). Noi abbiamo speso in tutto 220 € in benzina per percorrere 5.000 miglia (circa 8000 km).

La 99 N porta a Visalia (da cui si può imboccare la 198 W fino all’ingresso del Sequoia National Park) oppure a Fresno, dove usciamo noi, per prendere poi la 180 Est, che conduce all’entrata del King National Park. I due parchi sono contigui, in pratica gemellari. Come capirete presto, le strade in Usa sono contraddistinte da un numero e una direzione; quelle che vanno da nord a sud hanno una numerazione dispari, da est ad ovest pari. Noi prima di partire ci eravamo posti molti dubbi circa il noleggio di un navigatore; alla fine abbiamo deciso di farne a meno e la scelta si è rivelata azzeccatissima. Nell’ovest le rotte principali sono poche e facilmente riconoscibili. Con una cartina stradale si arriva benissimo ovunque. La 180 attraversa piccole cittadine, raggruppamenti di case più che altro, piantagioni di viti e di pesche. Agli incroci si intravedono ogni tanto banchetti di frutta e verdura. Poi, via via che ci si avvicina al parco, la zona si fa più collinare. Il paesaggio è giallo, prati secchi, colline pelate, molto brullo ma affascinante. Poi le colline cominciano a sollevarsi e appare un po’ di vegetazione: cespugli, alberelli bassi, infine le rocce. Siamo in prossimità dell’entrata, a Grant Grove. Si sale ancora, ed ecco le montagne, i boschi verdi. Per 80 $ acquistiamo la tessera annuale (Interagency Annual Pass America the Beautiful), che tornerà molto utile visto che abbiamo intenzione di visitare molti parchi nazionali. Ci troviamo a 2.000 mt di altezza e la temperatura è freschina. Per prima cosa ci rechiamo al Visitor Center per avere una piantina dei sentieri e qualche indicazione sulle distanze stradali all’interno del parco. La zona di Cedar Grove già sappiamo che ce la perderemo. E’ quasi l’una e non faremmo in tempo se vogliamo visitare anche il Sequoia. Negli Usa non vanno mai sottovalutate le distanze; anche posti che sembrano relativamente vicini sulla carta si rivelano poi lunghi da raggiungere, anche per i limiti di velocità piuttosto bassi. E’ anche vero che sfrecciare, oltre ad essere pericoloso, non consente di assaporare il paesaggio. In più le pattuglie stradali e i rangers sono molto assidui. Quindi con un pizzico di dispiacere rinunciamo a Cedar Grove (1h di strada da Grant Grove, più il tempo per la sosta e le escursioni, più un’altra ora di tempo per tornare indietro) che ci dicono essere molto bello. Noi invece ci avventuriamo per il facile sentiero (mezzora a/r) che ci porterà a fare conoscenza con il generale Grant, una delle sequoie più grandi del pianeta. Il tragitto è assolutamente pianeggiante e nel bosco si incontrano molti simpatici scoiattoli. Suggestivo il tunnel percorribile del Fallen Monarch, un sequoione caduto il cui interno è stato scavato in parte dall’uomo in parte dagli agenti atmosferici. Il Generale Grant è alto 84 mt, ha ben 2.700 anni ed è stato eletto l’albero di Natale nazionale. Di nuovo in macchina verso la parte sud. Da Grant Grove occorre circa un’ora di rilassante guida dentro la foresta lungo la general highway. Si incontrano diversi campeggi e strutture in cui pernottare, e simpatiche sculture che raffigurano orsi, i padroni incontrastati di queste terre. Noi non ne incontriamo, però. Peccato! Arrivati alla Giant Forest non possiamo non addentrarci per la breve passeggiata (1/2 ora) che arriva sotto al Generale Sherman, considerato il più grosso organismo vivente (95 mt di altezza, 3.200 anni). E’ un tragitto in discesa, la fatica si fa al ritorno, ma è davvero breve e costellato di panchine per i più pelandroni. Dal generale Sherman parte il Congress Trail, un sentiero di un paio di miglia che si addentra nella foresta. E’ un loop pianeggiante; noi percorriamo il primo tratto, e dopo una mezz’oretta torniamo indietro. Sono le 18, siamo ancora sfasati dal fuso e abbiamo bisogno di un po’ di riposo. Usciamo dal parco in direzione Three Rivers, la strada è lunga e tortuosa, ci vuole un’oretta per arrivare in paese. Three Rivers è un centro piccolissimo, poche case sparse adagiate lungo il fiume, quasi tutte prefabbricate. Sarà qui che dormiremo, al Sequoia Motel, in cui Chris, una 60enne molto amichevole ci dà il benvenuto e dei suggerimenti per la cena e la colazione di domani. La camera è carina e pulita. Ci docciamo e usciamo a mangiare un boccone al Riverview Restaurant, su una terrazza che affaccia sul torrente. Scopriremo subito che il cibo in Usa è piuttosto caro, per una cena sobria in media si spendono 20/30 $ a persona (nei fast-food 12/15 $). Se chiedete dell’acqua vi portano enormi bicchieroni riempiti direttamente dal rubinetto e stracolmi di ghiaccio. La pulizia, in generale, lascia a desiderare. Ordiniamo zuppa del giorno e insalata (io) e un BLT (panino con bacon-lettuce-tomato) Mik; dopodiché a nanna di gran corsa.

7 agosto venerdì Al mattino di buon ora colazione al We Three, localino (aperto fino alle 15.00) stile Happy Days, con musica pop già dalle prime ore del giorno e pareti rivestite di foto di eroi di guerra americani. C’è anche un grazioso giardino con una fontana e delle panche su cui consumare il pasto. Prendiamo due orange juices, uova strapazzate e toasts io, una brioche alla marmellata enorme Mik (peserà un kg e mezzo). Sfamati e rifocillati a dovere, cominciamo lo spostamento verso nord (di nuovo 99 N fino a Fresno, e poi da lì la 42 N fino ad Oakhurst che si trova alle soglie di Yosemite National Park. Entrando dall’ingresso sud l’attrazione più vicina è il Mariposa Grove, nei pressi di Wawona (bellissimo l’omonimo albergo, adagiato su un immenso prato verde). Troviamo però la strada chiusa perché sono terminati i parcheggi disponibili. Così dobbiamo prendere lo shuttle allungando un po’ i tempi. Purtroppo nel fine settimana questi parchi si riempiono di gente, gli Americani adorano trascorrere il loro tempo libero a contatto con la natura e Yosemite è da sempre uno dei loro parchi prediletti. Mariposa Grove è una foresta di sequoie, diversa però da quelle visitate ieri. Ci sono stati incendi e il paesaggio, almeno nel primo tratto, è spettrale. Fa impressione vedere questi enormi alberi carbonizzati, anche se i rangers sostengono che il fuoco è fisiologico e utile per consentire alla natura di rinnovarsi. Anche qui tanti scoiattoli che non disdegnano di mostrarsi ai turisti. Arriviamo fino a Grizzly Giant, una sequoia davvero spettacolare, passando davanti ad un gruppetto di 4 molto simpaticamente definito the Bachelor & the Three Graces. La navetta ci riporta poi in una ventina di minuti al punto in cui abbiamo lasciato l’automobile. Purtroppo a Yosemite, a differenza di Zion o del Grand Canyon, gli shuttles partono ogni 30’ circa, per cui è consigliabile visitare il parco in autonomia, il che impone di arrivare prestino per evitare l’inconveniente della carenza di parcheggi. Ci dirigiamo verso Glacier Point, una delle zone più suggestive di Yosemite, da non perdere. Già la strada per arrivarci è bellissima, anche se lunga (richiede almeno un’ora), e da lassù lo sguardo spazia libero su un panorama mozzafiato. Fa freddo, però: copritevi. Un miglio prima di Glacier Point c’è un altro bellissimo punto panoramico: fermatevi anche lì, ne vale la pena. Cosa vedrete da lassù? L’Half Dome in tutta la sua imponenza, la valle di Yosemite, il fiume Merced che scorre piccolissimo in basso, prati verdi e cime bianche a perdita d’occhio. Ci piacerebbe percorrere il sentiero che conduce alla Sentinel Dome, circa due miglia, ma sono già le 16.30, il tempo previsto per il tragitto è di tre ore e il cielo si è tutto coperto. Non rischiamo. Scendiamo a valle, uscendo stavolta dall’ingresso ovest del parco, in direzione di Mariposa, dove dormiremo. Prima di lasciare il parco, però, ci attendono ancora la breve passeggiata di ¼ d’ora alle Bridaveil Falls, che non ci colpiscono più di tanto a causa della scarsità di acqua, e il vista point di Tunnel View, che apre la visuale su un altro monolite famoso di Yosemite, El Captain. Dormire nel parco ci sarebbe piaciuto, tanto più che domani ci torneremo per completare la visita, ma è venerdì e i prezzi sono alle stelle. Per raggiungere Mariposa, la località più vicina, ci vogliono dai 50 ai 60 minuti. Molto più turistica di Three Rivers, sembra quasi artificiale. Sette vie si intersecano alla Main street. Su una di queste individuiamo il nostro motel, il River Rock Inn, gestito da Vicky, una signora che fa avanti e indietro dall’Italia, avendo dei parenti a Lucca. Di per sé il posto non sarebbe male ma è un bel po’ trascurato. C’è un giardinetto in cui rilassarsi e fare colazione (compresa nel prezzo) ma sia i tavoli che le panche sono decisamente sporchi. La camera è datata e non ci entusiasma né per le dimensioni né per la pulizia, il bagno inoltre è separato dalla zona notte solo da una tenda; nemmeno il prezzo è dei migliori. Del resto trovare alloggio qui stasera non è stato facile; era già tutto esaurito mesi fa e i prezzi erano esorbitanti ovunque. Infatti il paese è assaltato dai turisti, tutti i ristoranti sono pieni; troviamo posto solo al Butterfly Cafè, piccino piccino, con un servizio gentile e qualità discreta. E’ il nostro anniversario di nozze, per cui ci concediamo 2 bicchieri di vino californiano, un piatto principale a testa (pollo ripieno e salmone alla griglia, entrambi con accompagnamento di riso basmati) e per finire il dolce, un brownie gigante sormontato da una cascata di panna montata; spendiamo 50$ in totale.

8 agosto sabato Oggi visiteremo la Yosemite Valley e poi attraverseremo il parco sulla 120, la Tioga Road, per uscirne ad est, verso Mammoth Lakes. Cerchiamo di metterci in marcia presto perché è sabato e si prevede una grossa affluenza. Difatti arriviamo appena in tempo per accaparrarci uno degli ultimi parcheggi comodi. Nella Valley si possono intraprendere alcuni facilissime passeggiate: noi scegliamo il Cook’s Meadow Loop (mezzora) e il Lower Yosemite Fall Trail. Il primo è un sentiero asfaltato che attraversa i prati della valle offrendo una prospettiva dei monti circostanti e arriva davanti alla cappella del vecchio insediamento spagnolo dell’800. Pur trovandoci in una zona centralissima del parco, a breve distanza dai parcheggi e in pieno passeggio pedonale, ci troviamo faccia a faccia con un bellissimo cervo che, per nulla intimorito, si concede a volontà alle nostre riprese fotografiche. Il Lower Fall trail conduce, appunto, alla cascata bassa, che in questa stagione non abbonda certo di acqua, il che non ci fa venire voglia di proseguire verso la Upper. Passando davanti al Visitor Center, ci fermiamo alla Adam Ansel Gallery per ammirare le foto che questo famoso artista ha dedicato al parco di Yosemite. Poi riprendiamo l’auto e ci avventuriamo verso nord, lungo la Tioga road. Anche questa strada, come la Glacier Point road, è imperdibile, se si visita Yosemite. Proprio spettacolare! Tappe obbligate: 1) Olmsted Point, una distesa di rocce bianche spazzate incessantemente dal vento, dove sopravvivono alberi ostinati e contorti, un posto di estrema solitudine e bellezza – attenzione che il sole picchia e la roccia chiara fa da riverbero; 2) Tenaya Lake, incantevole e rialssante, un’oasi di pace e silenzio dove si può fare un pic-nic, nuotare, stendersi a prendere il sole su una delle minuscole spiaggette; 3) Toulumne Meadows, dove improvvisamente finisce la roccia e si aprono immense praterie, solcate da ruscelli. Andiamo al visitor center per chiedere consiglio su qualche passeggiata, e ci indicano il John Muir Trail, un sentiero di per sé abbastanza impegnativo e lungo, di cui però si può percorrere la parte iniziale, che attraversa un bosco, passa su due ponti gemelli per poi piombare dentro un canyon. Sembra interessante: andiamo. In realtà, però, il sentiero è una grossa pista sabbiosa in cui ci si sporca che è una bellezza, passato il primo ponticello del secondo non si vede traccia, ci inoltriamo nel bosco e siamo del tutto soli, non si vede anima viva; dopo 20 minuti ci guardiamo in faccia e decidiamo di tornare indietro, in fondo è pur sempre terra di orsi e il luogo non ci sembra così ameno come ci era stato descritto. Riprendendo la macchina, ecco riapparire poco più avanti il paesaggio tipico dei Meadows: verdi prati sconfinati e gorgoglianti ruscelli. Che bello! Ma è ora di uscire dal parco, siamo quasi al tramonto. Superata la Tioga exit, il Tioga Lake è una profonda pozza scura e subito dopo ecco un altro laghetto, l’Ellery Lake. Le montagne ci affiancano per qualche decina di km, mentre procediamo verso sud, poi lasciano il posto a collinette cespugliose color verde mela. Arriviamo a un bivio: a sinistra si va verso il Lee Vining e il Mono Lake, noi invece prendiamo a destra verso Mammoth Lakes, dove faremo una tappa di riposo prima di affrontare la famigerata Death Valley.

9 agosto domenica Mammoth Lakes è una cittadina votata al turismo, e si vede. Tutto è molto curato e costoso, girano grossi macchinoni, i ristoranti sembrano fatti apposta per spennarti vivo e il prezzo della benzina è alle stelle. Ieri sera, dopo varie peregrinazioni, siamo approdati in un locale tipicamente americano, con tanto di neon, sedili in pelle, foto alle pareti, tavoli lucidi (il Camp Base Cafè). Cena buona, posticino simpatico, ottimi prezzi. Piccola parentesi: le abitudini statunitensi a tavola sono un tantino diverse dalle nostre. Non si usa la tovaglia, nemmeno quella “all’americana” e i camerieri appoggiano direttamente sul tavolo, spesso pulito molto sommariamente, piatti, bicchieri, posate, pane (quando ne portano). Dopo le prime volte non ci si fa più tanto caso, comunque. Stamattina invece, dopo una notte in un Motel6 per nulla disprezzabile proprio al centro del paese, ci fiondiamo in una panetteria individuata ieri sera, la Schat’s Bakery, dove prendiamo due grosse paste, caffellatte, orange juice e anche i panini per il pranzo (li fanno espressi e farciti di ogni ben di Dio). Trascorriamo la mattinata gironzolando per negozi e outlets – nulla di memorabile. Entriamo in un supermercato Von’s per fare provviste per la colazione di domani dal momento che ci aspetta una levataccia e non troveremo nulla di aperto. Compriamo biscotti, succo di frutta, acqua in abbondanza, due barrette energetiche (per la Death V.) e un grosso frigo in polistirolo da riempire di ghiaccio per tenere al fresco i viveri. La cassiera ci chiede se possediamo un tessera Von’s e, alla nostra risposta negativa, se ne fa allungare una dalla collega, consentendoci di risparmiare circa 12 $. Che gentile! All’ora di pranzo ci dirigiamo, con i nostri paninozzi, ai Twin Lakes. Mammoth è circondata da laghi, come si intuisce dal nome; ce ne sono una dozzina nei dintorni, noi abbiamo scelto i più vicini, che sono contigui e formano una specie di 8. Un tram verde e rosso ogni 10 minuti fa la spola tra i laghi e il paese; ha anche una griglia posteriore per il trasporto biciclette. Ci stendiamo sul prato a leggere, non siamo gli unici; ci sono famiglie che fanno un pic-nic, pescatori della domenica, canoisti, gente del posto che si rilassa sorseggiando una bibita sulla veranda del proprio chalet vista lago. Che vitaccia! Tutta la zona si presta molto ad escursioni, passeggiate, gite in bici. Verso le 17.00 ci rimettiamo in marcia, in un’ora e 40 arriveremo a Lone Pine. Lasciamo i bagagli al Dow Villa Motel, che sconsigliamo per via delle stanze maleodoranti, nonostante la hall si presenti bene e l’albergo si vanti di essere edificio storico. Il paese pullula di italiani; per chi viene da ovest è la tappa ideale per pernottare in vista dell’escursione nella Death Valley. Per cena scegliamo il Mount Whitney restaurant, una tavola calda che offre servizio veloce e pietanze saporite, simpaticamente arredata con locandine dei film western girati in zona, sulle Alabama Hills. Poi a letto: domani la sveglia è alle 5.

10 agosto lunedì Quando lasciamo la camera è ancora notte, ma la temperatura esterna è già mite. C’è un certo fermento, motociclisti e automobilisti si stanno mettendo in marcia, ma si volatilizzano dopo il primo tratto di strada. Ci ritroviamo da soli, sarà perché siamo gli unici a rispettare i limiti di velocità? Facciamo colazione con succo d’arancia e cookies al cioccolato tra le buie curve che portano alla Death Valley e pian piano il paesaggio si rischiara ed è l’alba. Partite presto: sembra molto vicino ma vi accorgerete che la Death Valley non è dietro l’angolo. Noi abbiamo impiegato un’ora e mezza solo per varcare i confini del parco; al primo punto panoramico arriviamo alle 7.30 e da lì inizia la visita vera e propria, che dura dalle 3 alle 4 ore. In pratica si termina il giro intorno alle 11.30, orario limite per il caldo, almeno in questa stagione. Noi, a dirla tutta, non abbiamo sofferto eccessivamente. Certo, è caldo, ma il caldo torrido di una giornata estiva italiana; nulla di infernale. Fino alle 10 si resiste tranquillamente, dopo diventa appena più faticoso. Noi siamo sopravvissuti bene con i finestrini aperti, senza accendere l’aria condizionata, un po’ per non sforzare il motore, un po’ per evitare lo shock termico quando si usciva dalla macchina ai vista points. Ci siamo limitati alla parte sud della valle, escludendo lo Scotty’s Castle e l’Ubebeke Crater, che ci avrebbero portato fuori strada. L’itinerario ha toccato le seguenti tappe: 1) Sand Dunes, carine ma niente di speciale 2) miniera di borace, non siamo entrati a visitarla ma un breve sentiero ci ha condotto ad un punto panoramico sopraelevato 3) Fournace Creek 4) Badwater il punto più basso del pianeta -86slm, ci andiamo diretti senza fermarci alle tappe che via via si incontrano e che faremo al ritorno 5)Devil’s Course, dove vedrete il terreno frastagliato e bianco per l’arsura 6) l’Artist’s Drive che, essendo a senso unico, va appunto percorsa provenendo da Badwater in direzione Fornace Creek, e l’Artist’s Palette; poi riprendiamo la strada principale, l’Hwy 190 east e ci fermiamo a 7) Zabrinskie Point, il più bello in assoluto. Per finire una piccola deviazione ci porta a 8) Dante’s View che domina dall’alto tutta la valle e dove spira pure un leggero venticello. Tra tutti, la vista che più ci ha emozionato è quella che si gode da Zabrinskie Point; a seguire l’Artist’s Palette; non vi aspettate però colori strepitosi, nella valle c’è spesso foschia. Anche dai punti di osservazione sopraelevati non vedrete un paesaggio nitido, per lo meno in questo periodo dell’anno. Sarebbe bello visitare la Valle in primavera, quando è tutta fiorita e ci si può avventurare in escursioni ad agosto proibitive per via del caldo (ad esempio nel golden canyon) e persino pernottarvi, per godersi – dicono – una stellata eccezionale.

Usciamo dalla valle intorno a mezzogiorno e seguiamo le indicazioni per Las Vegas, attraversando uno dei paesi più brutti del mondo, Pahrump, ubicato in una conca torrida e desolata, esteso per miglia e miglia costellate di casupole trasandate e roulottes fatiscenti, che poi improvvisamente di punto in bianco passano il testimone a immensi centri commerciali e casinò sgargianti di luci. Un posto squallidissimo in cui abitare, che ci ricorda un po’ in negativo, l’ambientazione del film di Inarritu “The burning plan”. Dalla Death V. A Las Vegas sono circa 160 km, percorribili in un paio d’ore. All’improvviso si intravede la torre dello Statosphere e tu dici “alè, ci siamo!”, ma è solo un miraggio, in realtà mancano ancora più di 20 miglia. Lasciatemelo dire: in un viaggio nel South West Las Vegas è una nota stonata. Lo so, come tappa risulta comoda e dopo diversi giorni di natura uno stacco in mezzo alla città, alla gente, ai negozi può costituire un diversivo, ma Las Vegas è troppo di tutto e, si sa, il troppo stroppia. Te ne accorgi subito, appena vieni catapultato nel traffico delle sue autostrade (e meno male che avevamo un tragitto scaricato da Mapquest con le indicazioni per arrivare fino al nostro hotel, altrimenti ci saremmo persi di brutto). Prima di arrivare al centro (lo Strip, Las Vegas Blvd) si costeggiano quartieri periferici che rasentano lo squallore: un lungo susseguirsi di fast-food, motel di bassa categoria, casermoni popolari, benzinai e ancora fast-food. Manca del tutto il verde, siamo nel deserto. Altro che praterie in onore delle quali i conquistadores spagnoli battezzarono questa località! Arriviamo allo strip, miracolosamente individuiamo subito il nostro hotel, il Bally’s, scelto per il prezzo e la posizione strategica. Proviamo il parking fai da te, andiamo a finire al Paris (credo siano collegati); torniamo indietro e decidiamo che è meglio affidare l’auto ad un car valet. La riprenderemo il giorno dopo, basta esibire la ricevuta che ti hanno rilasciato e te la riconsegnano in due minuti (mancia suggerita: 2$). Se decidete di andare a Las Vegas alloggiate sullo strip, non ha senso andare altrove: prenotando per tempo e possibilmente in giornate feriali, si spuntano prezzi assai convenienti. Come al solito, non sottovalutate le distanze. Alloggiare più lontano comporterà non poche difficoltà per raggiungere la zona dello struscio la sera, quando il traffico si congestiona, e trovare un parcheggio comodo. Inoltre fuori dal centro Las Vegas è davvero deprimente! La camera del Bally’s non è delle più moderne (ci avevano proposto un upgrade per 20$ di differenza ma abbiamo rifiutato) ma è enorme e funzionale. Le grandi vetrate affacciano sullo Strip: Flamingo, Ceasar’s Palace, Mirage e un angolino di Bellagio (riusciamo ad intravedere i giochi d’acqua). La sveglia precoce si fa sentire. Ci concediamo un paio di ore di pausa durante le quali Mik ronfa, io invece, nel vano tentativo di prendere sonno, incappo in una serie di riflessioni metafisico-esistenziali. Sarò l’unica persona al mondo che viene a Las Vegas per elucubrare su questioni filosofiche… e vabbè! Alle 18.00 siamo pronti per uscire e affrontare il toro per le corna. Come dicevo prima, a Las Vegas le distanze possono costituire un problema se non si dispone di molto tempo. Di per sé la visita di ciascun albergo non porta via molto, soprattutto se si sa già in anticipo cosa vedere (e le guide di viaggio non lesinano certo consigli), ma il tragitto a piedi da un hotel all’altro richiede più tempo di quanto si pensi. Gli hotel sembrano – e di fatto sono – tutti attaccati l’uno all’altro, ma, essendo enormi, occupano a volte uno o due isolati; insomma si scarpina un bel po’ e a fine serata le distanze percorse risultano notevoli. Ci sono diversi mezzi di trasporto che fungono da collegamento (tram, monorotaia, ecc…) ma non tutti sono gratuiti e in generale ci si impiega più tempo a capire da dove partono e dove arrivano e in quali orari, oltre che a fare la fila d’obbligo per salire a bordo, piuttosto che ad andare a piedi. Noi ci giriamo prima di tutto il Paris, molto carino, con i corridoi che simulano i vicoletti francesi, il cielo dipinto sul soffitto che, grazie alla particolare illuminazione, sembra vero e una riproduzione su scala minore della Tour Eiffel. Usciamo sullo Strip appena in tempo per goderci lo spettacolo, notevole, delle fontane del Bellagio, sulle note di Celine Dion. I giochi d’acqua si tengono ogni mezzora nei giorni feriali dalle 15 alle 20, poi ogni ¼ d’ora, mentre nei festivi la frequenza aumenta. Lo spettacolo ci piace a tal punto che decidiamo di assistere anche alla replica successiva, con l’accompagnamento musicale di Frankie, stavolta. E’ bellissimo perché nel frattempo sta scendendo la sera, cosicchè le fontane sono illuminate stavolta. Lo spettacolo dura circa 10 minuti e si gode molto, il panorama vista lago (di Como) è super rilassante. Lo strip si sta animando. Via via che si fa sera, e poi notte, una sempre maggiore quantità di gente si riversa in strada, fino al punto che si deve fare a pugni per passare. Vediamo passarci a un tiro di schioppo Johnny Depp nelle vesti di Capitan Sparrow! Non sarà stato lui, è impossibile, magari un sosia, ma era preciso identico, e camminava esattamente allo stesso modo! Purtroppo siamo così sbigottiti che non abbiamo la prontezza di spirito di scattare una foto. Andiamo verso il Mirage per assistere all’eruzione del vulcano. Se non si arriva presto, almeno ¼ d’ora prima, si rischia di vedere poco e male. Posizionatevi sul lato sinistro rispetto all’hotel per avere la visuale migliore. Quando escono le prime nuvolette di fumo lo spettacolo sta per avere inizio. Il tutto dura poco, meno di 5 minuti e non è paragonabile alle fontane del Bellagio, però è carino da vedere almeno una volta. Gli sbuffi di fuoco surriscaldano l’aria in modo impressionante! Successivamente ci avviciniamo al Treasure Island per vedere Sirens, una sorta di musical-battaglia navale tra sirene e pirati. Lo sconsiglio decisamente. Lo spettacolo si tiene 3 o 4 volte a sera, alle 19.00 il primo, a intervalli di circa un’ora e mezza/due i successivi. Noi abbiamo visto quello delle 10 ed è stato un vero incubo. Eravamo schiacciati tra la folla, stretti al punto da non riuscire a respirare. Abbiamo provato a sfilarci di lì, rinunciando allo spettacolo, ma è stato impossibile, eravamo talmente pressati che non si andava da nessuna parte. Il che porta ad un unico risultato: la visibilità è assolutamente compromessa, a meno che non siate alti 1mt e 90. Anche arrivando molto presto (almeno mezzora prima dell’inizio) dovrete scegliere un lato, perché il corridoio sul quale si raduna il pubblico è al centro dell’azione, tra la nave delle sirene e quella dei pirati. Per cui o vedrete l’una o l’altra, in base alla vostra posizione, in nessun caso entrambe. Lo spettacolo è una specie di musical abbastanza rumoroso con le sirene che ancheggiano come pseudo veline e i pirati che ogni tanto sparano qualche cannonata. A noi non è piaciuto. Dura un bel po’: 20/25 minuti. Poi calcolate un altro quarto d’ora perché la folla si diradi e si riesca a riguadagnare il marciapiede. Un’ora buttata, secondo il nostro parere. Dopo questa traumatica esperienza al Treasure Island, nel quale non metteremo più piede, ci spostiamo al Venetian, altro hotel scenografico che merita una visita, per vedere la ricostruzione di Piazza San Marco e del Canal Grande. A noi tutto questo kitch fa un po’ sorridere, soprattutto avendo visitato la vera Venezia, capisco però che gli americani possano entusiasmarsi. In realtà Las Vegas somiglia ad un enorme giocattolo, una specie di Legoland, nulla sembra reale a partire dai casinò pieni di tintinnii e lucine lampeggianti. E’ una città (?) che non si può prendere sul serio, è un baraccone da luna park e come tale mette addosso un po’ di tristezza. Insomma, tutto è talmente artefatto, pacchiano, ostentato che non può suscitare vere emozioni.

Si è ormai fatta notte, siamo stanchi e il casino in strada è diventato ingestibile. Per stasera ne abbiamo avuto abbastanza, buonanotte.

11 agosto martedì Las Vegas, ovvero il posto più caldo del mondo (non per nulla si trova alla stessa latitudine di Kabul), di giorno ha ancora di più l’aspetto di un circo malconcio. Lo strip è intasato di traffico, gli alberghi svelano il loro lato decadente, non più scintillanti di luci dorate. Facciamo colazione per conto nostro in camera, lasciamo il Bally’s, il car valet ci riconsegna l’auto e, armi e bagagli, ci trasferiamo nella vecchia downtown per vedere gli alberghi “storici” e Freemont Street. Prima però facciamo una capatina al Premium Outlet tanto celebrato nei resoconti di viaggio. Premetto che già alle 9.30 del mattino si fatica a trovare posteggio e che il caldo è così stroncante che davanti ad ogni punto vendita sono posizionati dei nebulizzatori di acqua che rinfrescano i passanti. In compenso all’interno dei negozi l’aria condizionata si spreca per cui lo shock termico è assicurato. Le aspettative sulla convenienza di questo outlet erano molto alte, per via dei resoconti di chi c’era stato, che parlavano di articoli bellissimi a prezzi super stracciati. Ci dispiace dissentire, ma la nostra opinione è che la qualità è medio-bassa e i prezzi ben poco difformi a quelli degli outlet italiani (considerate che ci sono le tasse da aggiungere). Certo, il tasso di cambio favorevole aiuta, ma la convenienza è complessivamente minima. Io non sono riuscita a trovare nulla che valesse la pena acquistare, Mik ha comprato un felpa Oakley e un paio di scarpe Timberland. Siamo usciti da lì due ore e mezza dopo un po’ delusi, ma in fondo lo scopo del nostro viaggio non è certo quello di fare shopping! La temperatura è salita ancora, questa Las Vegas comincia un po’ a stufarmi. Lasciamo in consegna l’auto al Main Street Hotel per i soliti 2 $ di mancia e giriamo un po’ l’albergo, che è costruito tutto in stile vittoriano, fermandoci anche al buffet all you can eat, che è uno dei più economici e – dicono – completi della città (7 $ circa a persona). Poi andiamo a passeggiare per Freemont Street, che è carina ma sicuramente dà il meglio di sé la sera, quando la volta che la ricopre, composta di migliaia di lampadine, si illumina tutta a ritmo di musica. Entriamo al Golden Nugget, altro storico hotel, molto ben tenuto ed elegante, che espone la pepita d’oro più grande del mondo (che ha la forma di una mano). Il tempo a nostra disposizione è finito. In uscita dalla città ci fermiamo a sbirciare due Wedding Chapels sul Las Vegas Blvd (Graceland e Little White), uscendone profondamente intristiti e sconcertati per come sia possibile che tanta gente scelga di celebrare un rito così gioioso e intimo in un ambiente tanto deprimente e pacchiano. Basta. Fuggiamo da Las Vegas senza rimpianti; da domani inizia il fulcro del nostro viaggio con la visita dei parchi dello Utah. Arriviamo a St Gorge in circa due ore di macchina, mettiamo l’orologio indietro di un’ora. Il buffet del pranzo ci ha saziato al punto di saltare la cena. Alloggiamo al Best Western Coral Hills, struttura molto valida: piscina coperta e scoperta, hot tube in entrambe, palestra, wi-fi e postazione internet nella hall, colazione inclusa nel prezzo e per di più ci applicano anche uno sconto coupon grazie ad un giornaletto trovato a Bakersfield. Cosa chiedere di più? Lasciamo i bagagli, Mik va un’oretta in palestra, io preferisco una nuotata. La piscina esterna è infestata di bambini, ma quella coperta è deserta e riscaldata: un sogno! Me la godo fino alle 10.00, poi Mik mi raggiunge e andiamo a terminare questa rilassante serata nella vasca idromassaggio.

12 agosto mercoledì Colazione al motel più che soddisfacente. Ci attende a un’oretta di macchina da St. Gorge, Zion NP, così denominato dai mormoni che lo vedevano come una sorta di Terra Promessa (Sion) e che hanno battezzato tutte le vette di questo parco naturale con altisonanti nomi di ispirazione biblica: le Torri della Vergine, i Tre Patriarchi, il Grande Trono Bianco, l’Altare del Sacrificio. Piove, il cielo è tutto coperto e fa freddino. Siamo un po’ dispiaciuti di non poter ammirare il parco in tutto il suo splendore, ma c’è poco da fare: ci armiamo di k-way ed entriamo. A Zion è obbligatorio lasciare l’auto e muoversi con lo shuttle. Il servizio è efficientissimo, le navette partono ogni 10 minuti da ogni fermata e il driver durante il tragitto fornisce abbondanti spiegazioni su ciascun punto di sosta. Come sempre, poi, la mappa e la guida del parco, distribuite all’ingresso, aiutano ad orientarsi tra i possibili sentieri da percorrere e i punti panoramici da visitare. Noi ci godiamo una prima visione d’insieme del parco dal bus, arrivando fino al capolinea (Temple of Sinawawa). Lì intraprendiamo la Riverside Walk, passeggiata assai agevole bordo fiume, andata e ritorno 1h circa; carina ma niente di più, il tempo non aiuta e in più c’è molta gente sul sentiero. Più avanti cominciano i Narrows e per proseguire è necessario guadare il fiume Virgin. Riprendiamo lo shuttle in direzione inversa, i paesaggi sono spettacolari, ti senti veramente piccolo in mezzo a queste rosse montagne imponenti. Scendiamo a Weaping Rock e facciamo l’omonima passeggiata, veramente irrisoria (1/4 d’ora). Decidiamo di provare qualcosa di più stimolante, l’Hidden Canyon trail, che è descritto come lungo, impegnativo e assai scosceso. Non lo percorriamo tutto, ci vorrebbe troppo tempo, ma ci inerpichiamo abbastanza da dominare dall’alto tutta la valle. Le vette così sembrano più vicine, è molto bello. Il tragitto ci porta via un’altra oretta, è tempo di tornare al Lodge a mettere qualcosa sotto i denti. Zion Lodge è un posto molto suggestivo in cui alloggiare, con questo immenso prato davanti – in mezzo al quale svetta l’immancabile bandiera americana – sul quale la sera, quando i turisti sgombrano il campo, si radunano gli animali. Bisogna, naturalmente, prenotare con largo anticipo ed essere disposti a spendere un po’ ma penso che ne valga la pena. Per noi comunque il problema non si pone: abbiamo deciso di dormire a Panguitch in modo da essere vicini al Bryce domani mattina. Quindi ci limitiamo a gironzolare per il gift shop, prendiamo due hamburgers, che si riveleranno i peggiori di tutta la vacanza, e andiamo a mangiarli sul prato. Siamo pronti per rimetterci in marcia. L’ultima passeggiata di oggi sarà alle Emerald Pools; si parte proprio dallo Zion Lodge attraversando un ponticello. All’inizio il sentiero è congestionato in modo quasi intollerabile. Fino alla Lower Pool è come fare la vasca sul corso all’ora di punta. Poi però la situazione migliora e la folla si disperde. Noi arriviamo fino alla Middle Pool senza sforzo, decidiamo di non proseguire per la Upper e torniamo alla base con un loop ben segnalato che ci ricongiungerà al ponticello. Questo è il tratto più bello del sentiero e finalmente siamo soli. Il panorama è incantevole e anche il sole si è deciso a venir fuori, rendendo tutto più allegro. Le pools invece sono state una vera delusione, poco più che pozzanghere putride. E ti avvisano anche che è vietato farci il bagno, come se a qualcuno potesse venire in mente di farlo! Ci riposiamo ancora un po’ sul pratone davanti a Zion Lodge (un posto che ispira grande serenità) prima di riprendere lo shuttle che ci porterà alla macchina. Complessivamente questo parco ci è piaciuto, anche se l’impressione è che sia un po’ troppo affollato; siamo stati penalizzati dalla giornata grigia, col sole splendente e le rocce rosse brillanti deve essere spettacolare. Tempo consigliato per girarlo un po’ approfonditamente: una giornata e mezza, alloggiando all’interno, ma già con 6-7 ore si vedono le cose principali. Sono le cinque quando imbocchiamo la bellissima Mount Carmel Hwy che ci porterà all’uscita est del parco (e da lì alla Hwy 89 verso il Bryce). Ne restiamo entusiasti, le rocce hanno tutta la gamma di gradazioni dal bianco al rosso, passando per meravigliose sfumature di rosa: ci fermiamo decine di volte a scattare foto che non renderanno giustizia alla magnificenza del paesaggio. Bella davvero! E la UT89 non sarà da meno: usciti dal parco, in direzione Hatch, si attraversa una zona verdissima, molto fertile, punteggiata di fattorie, piccoli ranch, animali al pascolo. Molto bucolico. A Panguitch individuiamo il Purple Sage Motel, in cui ci fermeremo due notti. Dignitoso, però forse c’è di meglio (anche in termini di vicinanza al parco); non offre la colazione né la piscina però c’è la connessione wi-fi, come sempre, ed una postazione internet dedicata agli ospiti alla reception. Ci cambiamo e andiamo a cena; scegliamo un piccolo cafè sulla main street, il Foy’s Country Corner, dove il cibo è discreto ma in compenso la cameriera assai antipatica.

13 agosto giovedì Oggi è il gran giorno del Bryce, sul quale abbiamo grandi aspettative (che non saranno deluse). Da Panguitch c’è una mezzora abbondante di auto. Quando si prenota on line dall’Italia spesso non si ha un’idea precisa delle distanze. Il Purple Sage mi era sembrata una buona soluzione, anche per i commenti positivi su tripadvisor, ma nei dintorni del Bryce Canyon c’è una tale scelta di alloggi che senz’altro si può trovare qualcosa di più vicino. Appena entrati, e dopo il consueto passaggio al Visitor Center per ritirare mappa, guida e ascoltare i consigli dei rangers, vediamo subito un branco di cerbiatti intento a procurarsi del cibo, del tutto incurante della presenza umana. Sono davvero animali dolcissimi e molto fiduciosi. Non ci mettono nulla ad attraversare la strada e a buttarsi trotterellando davanti alle auto, quindi mi raccomando: guidate con prudenza. Il must di questa mattina è il Queen’s Garden-Navajo Loop, quindi ci rechiamo al Sunrise Point, lasciamo la macchina, inforchiamo i bastoni e via. Portate acqua; il giro è lunghetto (3-4 ore), anche perché ci si ferma ogni 5 minuti a fare foto. Il Bryce è un parco che accende emozioni. Già dal Sunrise Point la vista è sorprendente; è presto e i colori sono ancora un po’ spenti, gli hoodoos sono avvolti da un leggero strato di foschia ma l’emozione è intatta e affacciarsi da questo vista point è davvero impagabile. Si inizia a scendere, ad ogni curva il panorama è più bello e più vicino, i colori si ravvivano e ci riempiono gli occhi. Bianco, crema, beje, rosa, arancio, rosso, marrone. Le formazioni rocciose assumono le forme più strane: allungate, massicce, tozze, contorte…Ovunque si giri lo sguardo sopravviene un moto di meraviglia. Le foto si sprecano, è davvero troppo bello. Seguiamo le indicazioni per connetterci al Navajo Loop. E’ chiaro che unendo i due percorsi si sacrifica una piccola parte di ciascuno di loro. Sarebbe preferibile percorrerli entrambi completamente, per vedere proprio tutto, ma ci accontentiamo: è comunque un giro fantastico. Dopo il primo tratto roccioso, a un certo punto il sentiero passa in mezzo al bosco. Siamo in basso e fa parecchio caldo. Poco dopo c’è un bivio, in prossimità di una panchina ricavata da un tronco d’albero. A destra si va verso i Two Bridges, a sinistra per Wall Street. Noi, che vogliamo vedere il più possibile, decidiamo di vedere prima i ponti e, arrivati lì, torniamo indietro per prendere l’altro ramo del sentiero. Chi ha poco tempo può tranquillamente tralasciare i Two Bridges, sono la cosa meno interessante. L’ultima parte del tragitto è tosta, tutta in salita, ma è anche la più bella. Wall Street è così detta perché si passa in mezzo a pareti di roccia altissime che ricordano dei grattacieli. La luce filtra dall’alto creando un’atmosfera magica. Le foto acquistano una sfumatura seppiata. Continuando a salire, si sbuca al Sunset Point. Percorrendo nel senso opposto di marcia i primi metri del Navajo Loop (dal Sunset verso il Sunrise) si svelano altre bellezze. Ecco apparire davanti ai nostri occhi Thor’s Hammer e altre magnifiche visuali. C’è una troupe televisiva intenta a fare riprese. Captiamo qualche commento: “Certo che il Gran Canyon è bello – dicono – ma il Bryce è ancora più bello!” Entusiasti dell’escursione, percorriamo i 500 mt di Rim Trail che ci separano dal posto in cui abbiamo lasciato l’auto, saltiamo su e facciamo il giro di tutti i vista point del parco. Meritano tutti di essere visti, ma se avete poco tempo gli imperdibili sono Natural Bridge, Bryce Point e Inspiration Point. Assolutamente magnifici! Alle 17 cominciamo ad essere un po’ cotti e decidiamo di avviarci al motel. Scelta tempestiva: difatti di lì a breve si scatena un nubifragio che durerà tutta la notte. Per cenare scegliamo un locale molto carino, con buon cibo e musica dal vivo: il Cowboy’s Smoke House Café, dove fanno una carne dal sapore particolare per via della cottura su braci di carbone mesquite. Non potevamo trovare modo migliore di concludere questa appassionante giornata.

14 agosto venerdì La sveglia suona alle 5.30 del mattino, aiuto, non voglio crederci… ma siamo qua, come si fa a rinunciare ad un’alba dal Bryce Point? Comunque le provo tutte per convincere Mik a desistere, compresa l’argomentazione estrema: “Ma se poi ci sbuca fuori un puma all’improvviso alle spalle mentre stiamo ammirando il panorama tutti soli?”, che lui non degna nemmeno di risposta. Quando arriviamo sul posto troviamo altre 11 persone. Eccoci qua: 13 pazzi invasati che sfidano il buio (o quasi), il sonno (e scoprirete quanto sia sacro il sonno durante un viaggio on the road) e il gelo (siamo pur sempre a 3000 mt) per ammirare il primo raggio di sole che colpisce la rossa roccia del Bryce. Cinque campeggiatori giapponesi arrivano avvolti in una coperta, tre adulti e due bambini sui 10 anni per nulla soddisfatti di essere stati buttati fuori dal letto a quest’ora. Ovviamente Murphy ci ha messo lo zampino: il cielo è tutto sgombro, tranne che per una folta nuvolaglia ad est che promette fastidio. Più ci avviciniamo all’ora X (6.30) più è palese che non assisteremo a uno spettacolo indimenticabile. Il sole sorge e quasi non ce ne accorgiamo, i raggi non riescono a bucare la cortina di nubi, il canyon si rischiara ma gli hoodoos non si incendiano: insomma, il miracolo non si compie. Instancabili, attendiamo ancora. Alla spicciolata arrivano altre coppie, in prevalenza italiani. Il sole viene fuori pallido, velato; non ci ha fatto un gran regalo. Alle 8.30 ci schiodiamo tutti intirizziti, alla fine siamo stati più di 2 ore e adesso urge mettere qualcosa di caldo in corpo. Ci fermiamo al Ruby’s Inn, appena fuori il parco, facciamo colazione con toasts, marmellata e una tazza di tè bollente…E si comincia a ragionare.

A circa 40 minuti di distanza dal Bryce c’è un piccolo parco statale, il Kodachrome Basin (6 $), così chiamato perché i fotografi del National Geographic, quando lo scoprirono, rimasero talmente estasiati da dare fondo alle loro scorte di rullini per immortalarlo. E’ un parco che si gira in un paio d’ore ed ha la tipica conformazione dei deserti rossi rocciosi; è pochissimo frequentato. Noi scegliamo di fermarci a visitarlo, tanto è di strada, e intraprendiamo l’Angel’s Palace Trail che si inerpica (non di molto) fino ad un punto di osservazione che domina tutta la valle, fino a scorgere il Bryce Canyon in lontananza. Fa molto caldo fin dalle prime ore del mattino e c’è pochissima ombra: necessari acqua e berretti. Al ritorno dal sentiero prendiamo la deviazione verso lo Shakespeare’s Arch. Non era in programma, ma già che ci siamo… Per arrivare al parcheggio c’è una breve strada sterrata da fare – circa 1 km – e all’ombra dell’unico albero sonnecchiano delle mucche. Non vi aspettate di trovare molta gente: il Kodachrome è relativamente poco conosciuto, sui sentieri si è spesso soli. Il trail per lo Shakesperare’s Arch dura circa 1/3 di miglio, poi prosegue per il Grosvenor Arch con un loop di 1,7 miglia totali. Noi facciamo solo il primo tratto. Per scorgere l’arco bisogna aguzzare la vista, altrimenti rischia di passare inosservato, perché è piccolino e addossato ad un’altra parete rocciosa. Si trova all’incirca all’altezza del cartello con l’indicazione per il Grosvenor. Guardate in alto alla vostra sinistra e lo vedrete. Riprendiamo la U12. Questa scenic byway attraversa paesaggi molto diversi e suggestivi. Il primo tratto, fino ad Escalante, è brullo, roccioso, curvilineo e un po’ spericolato. Non conviene percorrerlo di notte. Ad Escalante, paesino minuscolo che fa venire voglia di fermarsi e immergersi nel dolce far niente, cominciano i prati e i pascoli, fino a Boulder. Superato quel tratto, si entra nella Dixie National Forest: boschi di betulle e paesaggi di montagna vedissimi. A Boulder ci fermiamo a mangiare in un posticino tranquillo: il Burr Trail Grill. Il Burr Trail è una strada molto panoramica, in gran parte sterrata, che conduce fino al lago Powell. Non abbiamo né il tempo né il veicolo adatto per percorrerla tutta, però, seguendo il consiglio di chi ci ha preceduto, decidiamo di vederne un pezzettino, una decina di miglia. All’inizio sembra simile a quanto già visto finora: rocce bianche, paesaggio aspro, qualche cespuglio. Poi il colore vira al giallo, all’arancio, via via che ci si addentra le montagne si fanno più imponenti, finché non ci si trova dentro ad una gola stretta tra enormi lastroni di roccia rosso fuoco. Suggestivo, e anche un po’ inquietante: un paesaggio davvero surreale. Torniamo indietro in direzione Torrey, dove dormiremo stanotte. Attraversiamo la Dixie National Forest, l’aria si rinfresca moltissimo; è incredibile come nel raggio di poche miglia clima e paesaggio cambino completamente. Arriviamo a Torrey alle 6 del pomeriggio, cerchiamo il Capitol Reef Inn, che si trova alla fine della cittadina (o per meglio dire della strada!) sulla destra, carinissimo, circondato da un giardino in cui troneggia una vasca idromassaggio in cui ci immergeremo prima di cena. Beatitudine massima, stare lì nell’acqua calda, con le chiome degli alberi sopra, il silenzio intorno, lontani da tutto… Le stanze sono ampie e accoglienti, arredate in stile indiano; c’è anche una kiwa (stanza cerimoniale indiana), ma non riusciamo a visitarla perché c’è sopra un cartello “do not disturb”. Chissà per cosa la staranno utilizzando… Il paese è minuscolo, il traffico inesistente. Arrivando abbiamo adocchiato un cartello che parlava di un rodeo, andiamo a curiosare. Purtroppo non lo fanno in città, ma in una località distante una ventina di miglia, Loa. Di km ne abbiamo percorsi a sufficienza oggi, per cui rinunciamo e mentre torniamo al motel ci attraversa la strada un bellissimo cervo! Ceniamo al Capitol Reef, che dispone anche di un buon ristorante, gestito interamente da personale femminile. Si respira un’atmosfera hippy e amichevole, è un posto che consigliamo. Soddisfatti del luogo e della cena ci godiamo il meritato riposo.

15 agosto sabato Sveglia alle 7.30, colazione in camera con tè caldo e biscotti, poi lasciamo questo grazioso motel e imbocchiamo la U24 che ci condurrà a Capitol Reef. Questo parco per me è un’incognita, nel senso che leggendone le descrizioni da casa non sono riuscita ad inquadrarlo fino in fondo e non me lo so immaginare. Inoltre compare raramente negli itinerari di viaggio italiani; le descrizioni dei sentieri, ben dettagliate, le ho trovate su siti specializzati americani. La parte che più mi affascinava era quella a nord, la Cathedral Valley, dove sorgono spettacolari monoliti chiamati Tempio del Sole e della Luna, ma ero consapevole del fatto che non saremmo riusciti a visitarla senza una jeep, perché ci sono 18 miglia di sterrato più il guado del letto di un fiume. Appena prima del visitor center di Capitol Reef, si apre un punto panoramico sulla destra, chiamato appunto Panorama Point. Da lì una stradina porta al Gooseneck Point, punto di partenza di un breve sentiero (400 mt) particolarmente consigliato al tramonto. Per ora lo tralasciamo e andiamo al Visitor Center a ritirare mappa e guida del parco. La ranger ci avvisa cha la strada che porta al Grand Wash è chiusa causa flash flood. In effetti ieri deve aver piovuto parecchio da queste parti, le strade sono piene di fango e pozzanghere. Per prima cosa ci avventuriamo sull’Hickman’s Bridge Trail (1 miglio, 1h circa). Consiglio agli interessati di farlo di prima mattina perché nel corso della giornata la temperatura sale drasticamente; il sentiero è tutto al sole e già alle 9.30 c’era un caldo torrido. All’inizio troverete una leggera salita; si attraversa un paesaggio roccioso estremo, con grossi massi neri e in alto il Capitol Dome bianco e rotondo. Si arriva poi a due bassi ponti naturali – li vedrete sulla destra – e infine all’Hickman’s Bridge, davvero molto bello. Il sentiero ci passa proprio sotto e, tramite un breve loop, si ricongiunge ai due ponti naturali, consentendo di scattare foto da diverse angolazioni. Il ponte è suggestivo, e vale la pena vederlo; tutto il sentiero però è un po’ estremo (non per difficoltà, ma proprio come paesaggi). Tornando verso il Visitor Center si incontra prima una parete rocciosa su cui compaiono petroglifi indiani (poco più che dei graffiti per la verità, ma un’occhiata la diamo volentieri) e più avanti la vecchia scuola utilizzata dai pionieri, composta da un’unica aula dove sono rimasti intatti i banchi originali, la cattedra, la lavagna, i calamai, alcune foto degli scolari dell’epoca… molto caratteristica! In prossimità della scenic road che taglia il parco perpendicolarmente rispetto alla UT-24 troviamo l’oasi di Fruita; tra i vari frutteti ce ne sono alcuni che invitano i visitatori a servirsi, ma solo dagli alberi contraddistinti da un laccio rosso e avendo cura di cogliere solo i frutti maturi. Rispettando tutte queste indicazioni ci si ritrova in mano…Nulla! Tutta la frutta “utile” è già stata saccheggiata da chi è arrivato prima di noi. Peccato! Più avanti c’è un’area verde con tavoli da pic-nic, il camping, la Giftord Farm, dove si può vedere come (e dove) vivevano le famiglie di pionieri, con annesso punto vendita di salse, marmellate e torte del Cafè Diablo, celebrate dalla Routard, ridimensionate dal nostro giudizio (troppo stucchevoli). Imbocchiamo la scenic road: è lunga 10 miglia e non è un loop, bisogna arrivare in fondo e tornare indietro, oppure, volendo, si può proseguire per uno sterrato e affrontare alcuni sentieri, tra cui il Capitol Gorge Trail. Noi però alle 11.30 non ce la sentiamo: fa un caldo infernale. La strada è suggestiva e passa in mezzo a grosse montagne color terra bruciata, ma forse l’avremmo apprezzata di più se ieri non avessimo percorso un tratto del Burr Trail; così ci è sembrata un po’ una ripetizione. Comunque una delle due, quella che vi rimane più comoda, fatela: è stranissimo viaggiare circondati da questi giganti rossi.

Prima di lasciare definitivamente questo parco, che tra tutti quelli visti finora è forse quello che ci è piaciuto meno, anche se è molto eterogeneo, tentiamo un altro piccolo sentiero che parte dal campeggio e costeggia il Fremont River. Soprassediamo subito, però: c’è da passare in mezzo all’erba alta e bagnata e con tutti i serpenti che gironzolano da queste parti io non me la sento mica.

Lasciamo Capitol Reef e prendiamo la U24 che lo costeggia per parecchie miglia. Ci ritroviamo in un paesaggio stranissimo e lunare dove le rocce assumono colorazioni grigio-bianco-giallastre. La vera Road to Nowhere! Così fino a Cainsville, paesino fantasma che nemmeno ci siamo accorti di sorpassare. Percorriamo decine e decine di miglia in queste lande sconfinate senza incontrare una casa, solo spazi immensi, e capiamo come mai non ci sia copertura per i cellulari. Ad Hanksville compare dal nulla, come il cacio sui maccheroni, un supermarket. Compriamo un panino e una bevanda allo yogurt. Incredibilmente qui c’è anche campo per fare gli auguri di ferragosto via sms. Di nuovo on the road e di nuovo il paesaggio cambia: dopo Hanksville tutti campi verdi e gialli in mezzo ai quali sbucano grosse pareti rocciose di tanto in tanto. Bello… L’ultima deviazione del giorno è per il Goblin State Park (7 $ a veicolo), una vallata scoperta solo nel 1920 da un cowboy alla ricerca del bestiame disperso, caratterizzata da strane formazioni rocciose funghiformi. Un giro veloce, giusto per dare un’occhiatina a questo insolito parco. Ci sono 3 sentieri che permettono di addentrarsi tra i goblins. Fa molto caldo, è bene munirsi di acqua e cappello. Ora manca poco alla nostra tappa finale. Prendiamo in direzione Green River, percorriamo un tratto di I-70, attraversando sempre zone desertiche, poi la 191 sud per Crescent Junction ed ecco che si entra in Moab. Il nostro motel è uno dei primi, l’Inca Inn, ed è gestito da una famiglia svizzera capitata qui chissà come e perché. Niente di speciale, è un motel ordinario, ma almeno ha la piscina (minuscola) e la colazione compresa. E’ anche sufficientemente silenzioso, nonostante la vicinanza alla strada. Pausa relax in piscina, poi con calma ci prepariamo per la cena. Sappiamo già dove andare, grazie ai consigli di Tripadvisor: alla Moab’s Brewery, dove trascorriamo una piacevole serata con ottimo cibo e birra artigianale in un locale colorato e simpatico.

16 agosto domenica Colazione al motel più che sufficiente, ma la sala è piccola e lo spazio risicato costringe gli ospiti a una forzata turnazione. Partiamo per Canyonlands, che dista circa 30 miglia. Su questo parco non avevo grosse aspettative, invece si è rivelato molto bello. Abbiamo programmato di vedere solo Island in the Sky, la sezione più vicina a Moab, quella più accessibile e con i sentieri più semplici, rinunciando con un po’ di rammarico a the Needles, che ci costingerebbe a fare troppi km. Canyonlands è l’unico parco, tra quelli da noi visitati, in cui si ha la confluenza dei due fiumi – Green River e Colorado – ma molto più a sud rispetto a dove ci troviamo ora, nel distretto di the Needles. Percorriamo la scenic road e andiamo a prendere il Grand View Point Trail. Già dall’overlook il panorama è grandioso. Smisurati altopiani che improvvisamente precipitano nel canyon aprendo voragini nel terreno. Il sentiero dura un’oretta ed è affascinante, molto fotografabile e pochissimo frequentato. Attenzione: non ci sono protezioni e se si mette male un piede si va dritti nello strapiombo. Comunque c’è tutto lo spazio del mondo, basta usare la normale prudenza. Si aprono viste superbe sia a destra che a sinistra sul canyon, c’è poca ombra e poca vegetazione, le rocce hanno colori molto intensi, rosso, arancio e marrone. Dal trailhead riprendiamo l’auto e iniziamo a percorrere la scenic drive, fermandoci ad ogni vista point (Buck Canyon, Candlestick Tower, Green River Overlook). A Mesa Arch decidiamo di intraprendere il breve sentiero che ci porterà sotto l’arco. Bellissimo, nonostante le frotte di turisti e la conseguente lunga attesa per poter scattare una foto decente. L’arco si apre a precipizio sul canyon e svela dietro di sé un paesaggio fatto di guglie, avvallamenti, crateri. Mik, un po’ incosciente, va a farsi una foto in cima all’arco, io non oso: è troppo stretto e sotto c’è un bel volo di qualche centinaio di metri.

Proseguiamo verso l’uscita fermandoci allo Shafer Canyon Overlook, da cui parte una strada sterrata a zig zag, la Shafer Trail Road, che si congiunge alla White Rim Road e arriva a ridosso del Colorado. Vediamo alcune auto tentarla, poi tornare indietro sconfitte. E’ scoscesa e sabbiosa, senza una 4 x 4 diventa insidioso percorrerla. Certo, arrivare al fiume sarebbe bello, ma noi godremo ugualmente di un bel panorama dall’alto nel Dead Horse State Park, che è qui a due passi. Parco statale, quindi paghiamo i 10 $ richiesti. Anche qui ci sono dei sentieri che scendono al fiume ma noi, come la maggior parte dei turisti che lo visitano, ci limitiamo ad andare in auto fino all’overlook, una terrazza da cui si gode la visuale del Colorado che compie un’ansa a collo d’oca (gooseneck). Il fiume è verdissimo e bello; si arrotola intorno al massiccio centrale come un serpentone e si intravedono dall’alto i puntini dei gommoni che portano i turisti a fare rafting sulle rapide. Appena fuori il parco, ci sorprendono delle pozze azzurrissime rettagolari, che da lontano sembrano delle piscine, ma forse sono depositi di sale, chissà! Torniamo a Moab e riposiamo un’oretta al motel in attesa del gran finale di stasera: tramonto al Delicate Arch. Il parco di Arches lo visiteremo domani ma, dato che c’è molto da vedere, abbiamo deciso di giocare d’anticipo e salire fino al Delicate stasera, in modo da avere più tempo per il resto domani. Su internet ci sono giudizi contrastanti su questa escursione: chi la dipinge come un’ammazzata tremenda, chi ne parla come di un tragitto affrontabilissimo. Con un po’ di curiosità partiamo.

Arches dista da Moab solo 5 miglia. Entrando, l’impatto è notevole: tutte queste formazioni rocciose dalle strane forme e i nomi fantasiosi (Three Gossips, The Organ, Sheeprock, Tower of Babel) ci lasciano increduli e a bocca aperta. In più siamo verso sera e il sole basso accende i colori delle rocce. In una decina di minuti arriviamo al parcheggio del Wolfe Ranch. Attenzione, si riempie facilmente. Il consiglio, se volete assistere al tramonto in questa stagione, è di non arrivare dopo le 18.00. Calcolate un quarto d’ora da Moab al parcheggio, 45-50 minuti per percorrere il sentiero con prudenza, e poi una volta su, tra il tempo necessario per riaversi dallo stupore, scattare qualche foto, cercare il punto migliore in cui sistemarsi, ci vuole poco che si facciano le 19.30 e lo spettacolo abbia inizio… Ci incamminiamo e Miki viene colto dal raptus dell’uomo invincibile, che entra in competizione col resto del mondo e deve battere tutti sul tempo. Per cui comincia a staccare con la sua falcata da trampoliere mentre io dietro arranco come un vecchio diesel. Non che la salita sia poi così mozzafiato. Certo, un po’ si sale, e bisogna in certi punti fare un po’ di attenzione perché la roccia è liscia (obbligatorie le scarpe da trekking) ma prendendolo con calma il percorso è fattibilissimo. C’erano anche bambini di 3, 4 anni! Certo, volendo fare il record del mondo di ascesa è un altro discorso. Noi arriviamo su in 35 minuti con un mezzo fiatone, ma la vista che ci attende ripaga lo sforzo. Il Delicate Arch è al centro di un anfiteatro di roccia ondulata e liscia, attore protagonista su un palcoscenico scolpito dalla natura ed è…Bellissimo. Molte persone hanno già preso postazione per godersi il tramonto, altre gli gironzolano intorno cercando la prospettiva migliore per una foto. In realtà non ve ne sono: da qualsiasi angolazione lo si riprenda è magnifico e spettacolare. Anche noi compiamo il rituale delle foto, poi ci rintaniamo in un angolo ad attendere che gli ultimi raggi di sole della giornata colpiscano il Delicate. Il bello è che se fino all’istante prima la base dell’arco pullulava di turisti armati di fotocamera, come per incanto all’ora X tutti si fanno da parte per consentire a chiunque di ammirare il tramonto in religiosa concentrazione e di immortalare lo spettacolo senza interferenze. Bello davvero, emozionante! Provare per credere.

Poi si ridiscende in fretta, perché la luce diminuisce ad ogni passo. In 25’ siamo al parcheggio, di corsa a Moab a cercare un posto in cui cenare (Smitty’s Golden Steak, niente male) e poi, stanchissimi, sotto la doccia e a letto.

17 agosto lunedì Oggi avremo una giornata un po’ impegnativa fisicamente. Ci alziamo presto, colazione veloce e rotta su Arches. Col fresco della mattina visitiamo la sezione di Devil’s Garden, la più remota del parco. O meglio, a Devil’s Garden finisce la scenic road asfaltata e inizia lo sterrato che porta a Klondike Bluff, a Tower Arch e ai Marching Men. Sarebbe bello visitarli, ma come al solito rinunciamo perché non adeguatamente attrezzati. La prossima volta verremo con un fuoristrada e più tempo a disposizione e metteremo assolutamente in programma: 1) Klondike Bluff – situato all’estremità nord-ovest nel parco di Arches, strada sterrata ma non impossibile da percorrere con buone condizioni meteo; è possibile anche effettuare l’escursione in bici; 2) Toroweap: il più sensazionale belvedere del North Rim; 60 miglia circa da Kanab o Fredonia, 6 ore di sterrato a/r; 3) Cathedral Valley, nella sezione nord di Capitol Reef, 51 km totali di sterrato a/r, da Cainesville; porta ai magnifici monoliti chiamati Tempio del Sole e della Luna; 4) The Wawe – Paria Canyon; ci si arriva da Kanab, da Moab o da Page; accessibile solo su autorizzazione del Bureau of Land Management al quale va inoltrata richiesta 4 mesi prima; è un’escursione a piedi: la difficoltà sta nel fatto che non si hanno punti di riferimento e si procede “a vista”. L’area è alquanto inospitale, torrida e infestata da rettili, ma il paesaggio è soprannaturale! 5) Valley of Gods (17 miglia di sterrato) e Muley Point Overlook (5 miglia): dalla I-163, nelle vicinanze di Bluff, sensazionali belvedere sulla valle del San Juan River e Monument Valley in lontananza; 6) Devil’s Garden a 17 miglia di distanza da Escalante, lungo la Hole in the rock Road: sterrata difficile, non adatta alle berline, che conduce a degli slot canyons (uno per tutti: il Pek-a-boo) e a formazioni rocciose spettacolari, tra cui il Metate Arch.

Arches Park è completamente accessibile ai visitatori, ad esclusione della zona di Fiery Furnace, alla quale si accede solo con visita guidata da rangers, a pagamento, perché si entra in un labirinto dove non ci sono punti di riferimento.

A Devil’s Garden parte il sentiero che conduce sia al Landscape che al Double O arch. Strada facendo si incontrano brevi deviazioni che permettono di vedere numerosi altri archi. Tutto dipende da quanto si ha voglia di camminare. Noi andiamo subito al Landscape Arch, un arco sottilissimo e quindi a rischio di crollo (0,9 miles), poi da lì ci incamminiamo verso il Double O Arch. Precisazione: se ce l’abbiamo fatta noi ce la possono fare tutti, però il tragitto è un po’ faticoso. Dal parking lot sono circa 2 miglia di strada (4,8 km); si cammina prima sulla sabbia e poi sulle rocce, molto lisce e con dislivelli vari, per cui ogni tanto è necessario usare anche le mani per arrampicarsi. Michele, come al solito, viene preso dalla sindrome dello stambecco e prende il via mentre io dietro sbuffo e inciampo. Non è colpa mia se ho due metri di gambe in meno di lui! In un tratto, per fortuna breve, si cammina su un costone di roccia sospeso nel vuoto e inoltre il sentiero in più punti non è segnalato benissimo. Si rischia di sbagliare strada; a noi è capitato e siamo andati a finire sotto un arco pericolante circondato da cartelli che minacciavano la caduta di massi. Non voglio spaventarvi, andate pure, ma è bene essere informati su cosa troverete. L’arco, una volta arrivati, è molto bello. Una O grande e tonda in alto, un’altra più piccina in basso. E’ altamente consigliabile fare questo percorso di primo mattino perché Arches è uno dei parchi più torridi che abbiamo visitato, già verso le 11.30 io avevo abbassamenti di pressione. Tornando indietro ci fermiamo agli archi secondari, raggiungibili con brevi deviazioni dal sentiero principale: Navajo, Partition, Tunnel e Pine Tree Arch. Poiché gli archi da vedere in questo parco sono davvero tanti, è bene cercarne le immagini in internet e scegliere già a priori quali si vuole visitare. Il rischio, altrimenti, è di non riuscire a vedere tutto o di non saper selezionare direttamente sul posto. Sul sito del parco trovate anche per ogni arco utili suggerimenti sulla luce giusta e il momento della giornata più adatto alle fotografie. Quando usciamo da Devil’s Garden è mezzogiorno e siamo leggermente stremati. Il sole inizia a picchiare seriamente, consumiamo litri e litri di acqua. Decidiamo di vedere ancora Double Arch, che si trova al centro del parco, nella sezione chiamata Garden of Eden, per poi concederci due ore di riposo al motel. Double Arch è molto suggestivo; descrive un ampio cerchio, al cui interno i due archi si intrecciano, e un sentiero di trecento metri conduce fino alla base. Stanchi e soddisfatti ci leviamo dal grande caldo e solo alle 16 riprenderemo la seconda parte della visita, che include le Windows Sections & Turret Arch, sempre raggiungibili con brevissimi sentieri, la magnifica Balanced Rock, il Sand Dune Arch, che si trova all’interno di un piccolo slot canyon dove la luce che filtra conferisce al paesaggio una tonalità rosata, e il Broken Arch che richiede un po’ di strada in più, circa un miglio, ed è forse il meno interessante di tutti. Abbiamo cercato di vedere il più possibile di questo parco, ma per una visita completa sono necessari almeno due giorni pieni. A noi manca lo Skyline Arch e tutta la parte iniziale di Park Avenue, che abbiamo intravisto solo dalla macchina. Però abbiamo avuto una buona panoramica generale e ci accontentiamo. Un salto al motel per una doccia veloce e andiamo a cena al Moab Diner, che ha prezzi davvero bassi. A Moab troverete ovunque (nei motel, supermercati, esercizi commerciali) un elenco dei ristoranti della città con annesso menù e prezzi, il che vi aiuterà non poco ad orientarvi sulla scelta. Ci sono anche, per chi è disposto a spendere di più, ottimi ristoranti panoramici oppure d’atmosfera western, ad esempio il Sunset Grill, il Buck Grill’s House, il Desert Bistro, il Sorrel River Grill. Come non mancano cafè, deli, fast food e due ottimi supermarket (il City Market e il Village Market) che preparano pietanze espresse take-away. Insomma, a Moab non si muore di fame. Dopo cena facciamo un giro per negozietti, che chiudono alle 22, ma non c’è niente di bello, solo souvernirs pacchiani per il turista.

18 agosto martedì Oggi lasceremo Moab per andare a sud nella Monument Valley. Va bene così, il viaggio prosegue, però Moab offre davvero tanto per chi dispone di tempo a sufficienza. Per esempio si può fare un giro in barca sul Colorado o spingersi fino alla sezione The Needles di Canyonlands (sulla 191 sud), esplorare le scenic byways 279 e 128, fare escusioni nella Castle Valley o alle Fisher Towers, visitare il Corona Arch o il Negro Bill Canyon… Noi ci limitiamo, stamattina, solo a una puntata sulla route 128, che costeggia a sinistra il Colorado, a destra la Castle Valley. E’ molto presto e non c’è quasi nessuno in giro, tranne qualche assonnato campeggiatore che utilizza una delle tante panchine vista fiume per apparecchiarsi una colazione di fortuna. La strada è bella ma probabilmente rende di più al tramonto, quando la foschia si dirada. Torniamo a prendere i bagagli e lasciamo il Motel. Sosta alla biblioteca, dove approfittiamo di 15 minuti di navigazione gratuita, e alla lavanderia automatica (siamo a metà vacanza e un bucato ci fa comodo). Costo: 4 $ in tutto (2,75 lavaggio + 1,25 asciugatura) in monetine da 25 cents. Un simpatico signore ci presta il suo detersivo. All’interno del locale c’è la macchinetta cambia banconote. Semplicità di utilizzo: estrema. Ve la cavate in un’oretta. Alle 12 siamo pronti a partire. Riprendiamo la 191 sud, passiamo per Hole in the Rock, un posto dove dei coniugi alquanto originali negli anni 50 hanno costruito una casa interamente dentro una parete di roccia, che si può visitare a pagamento ad orari prestabiliti. Ci sono anche dei negozietti ed un piccolo zoo. La visita non ci tenta per cui proseguiamo per Bluff, fermandoci ad ammirare il Wilson Arch e i Navajo Twins lungo la strada. Bluff è un altro paese minuscolo in mezzo al nulla; individuiamo il Recapture Lodge e andiamo a fare il check-in. Questo motel è proprio carino: tutto di legno rossiccio, sufficientemente isolato dalla strada e con un deliziosa piscina frequentata da dolcissimi colibrì. E ora un tuffo non ce lo toglie nessuno, se non altro per rinfrescarci delle miglia percorse e del caldo patito. Alle 16.00 doccia e di nuovo in cammino, la Momument ci aspetta! Dobbiamo arrivare in tempo per il tramonto, da Bluff sono circa 100 km, considerate un’oretta, sulla 163, via Mexican Hat. Poco più avanti il San Juan river segna il confine con la nazione Navajo. Le terre sono sempre più rosse, ai lati della strada compaiono banchetti degli indigeni che vendono oggetti di artigianato. Si comincia a distinguere il profilo dei mittens in lontananza; il tutto è però velato, avvolto nella foschia e nella sabbia che turbina ovunque. Nella valle, che dista ancora svariate miglia dal primo punto di avvistamento, il vento un po’ si placa, ma salvarsi dalla sabbia è impossibile. Paghiamo 5$ a testa all’ingresso e ci mettiamo in coda alle altre macchine. La strada panoramica è lunga 17 miglia e il primo tratto è davvero scoraggiante, dissestato a più non posso, con buche grosse come crateri.

Per fortuna proseguendo un po’ migliora, altrimenti ci vorrebbero 5 ore per girare questa valle. Noi non prenotiamo il giro in jeep con i Navajo, e pian pianino facciamo tutto il tragitto con la nostra auto, fermandoci ad ogni punto panoramico (i migliori, secondo noi, Mittens e Artist’s Point). E’ bello, molto bello, ma un po’ troppo turistico per i nostri gusti, non riusciamo ad immergerci completamente nell’atmosfera western, in carovana tra la macchina davanti e la successiva. Alle 19.30 siamo fuori dal parco, due orette bastano per visitarlo, foto comprese. L’albergatore di Bluff ci ha messo un po’ di fretta, precisando che alle 21 i ristoranti chiudono. In realtà scopriremo che non è del tutto vero; vediamo dei clienti arrivare ed essere accompagnati ai tavoli anche alle 21.10 e in ogni caso c’è anche la possibilità, se non ce la fate con i tempi, di fermarsi a cenare a Mexican Hat, per esempio al San Juan River Inn, che ha una piacevole terrazza sul fiume. La strada di ritorno a Bluff a quest’ora è splendida. Il sole finalmente ha bucato le nuvole e sta sparando gli ultimi raggi. La terra si accende e diviene arancione vivo, quasi ruggine. Nuvole rosate ci accompagneranno per tutto il tragitto; che peccato non aver avuto questa luce alla Monument: le foto sarebbero state di gran lunga migliori… Ceniamo al Cottonwood, all’aperto su delle panche di legno a lume di candela. Cibo ottimo, conto un po’ salato (le mance obbligatorie e le tasse incidono un bel po’ sul totale). In alcuni ristoranti non si lascia libero il cliente di stabilire l’importo della mancia, ma si addebita in conto direttamente il 18% del totale (un po’ tantino, no?). Ci era successo anche a Panguitch e a Moab. Comunque va bene lo stesso, il posto è molto carino e si mangia bene. Torniamo alla nostra accogliente cameretta, stile cottage di montagna (nonostante la temperatura esterna suggerisca tutt’altro).

19 agosto mercoledì Al Recapture Lodge tè e caffè sono a disposizione degli ospiti, per il resto è richiesto un piccolo contributo: yogurt, frutta, muffin, toast, bagel; troverete la lista dei prezzi vicino al frigorifero, insieme al cestino in cui lasciare i soldi. Tutto si può dire, tranne che gli americani siano dei malfidati! In realtà il loro atteggiamento è sempre improntato a grande fiducia nel prossimo; anche nella Death Valley e a Capitol Reef abbiamo trovato delle cassettine in cui lasciare il pagamento del pedaggio, senza alcun tipo di controllo e all’Inca Inn di Moab abbiamo chiesto di poter fare una telefonata internazionale e la proprietaria ci ha abilitato la linea esterna chiedendole la cortesia di dirle successivamente la durata, che lei non poteva controllare. Noi non abbiamo barato, ma volendo si poteva farlo.

Il programma di oggi prevede una lunga percorrenza chilometrica fino ad Albuquerque. Il New Mexico sarebbe un viaggio a parte, ma in fase di pianificazione non me la sono sentita di escludere Santa Fe e White Sands, nonostante la distanza e la ragione lo suggerissero. Per cui nei prossimi giorni visiteremo queste località per poi risalire a nord ovest in Arizona fino al Gran Canyon. Prima di lasciare questa zona, però vogliamo andare ancora un po’ in esplorazione. A una mezzora di macchina da Bluff, in direzione Monument Valley, si imbocca la 163 S, che rivela alcuni bei panorami di questa regione. Da lì si accede al Goosneck State Park, che in realtà è solo un belvedere sulle anse del San Juan river; non c’è tassa di ingresso e non ci sono sentieri. Proseguendo in direzione ovest si incontra poi la 261, lunga solo 33 miglia, che conduce a Moki Dugway, una strada sterrata di 3 miglia in salita che permette di dominare un panorama sconfinato. Tranquilli: rispetto allo sterrato della Monument sarà un passeggiata! Il fondo è piatto e ben tenuto, i tornanti sufficientemente ampi da far passare due auto affiancate, non vi è nessun rischio per la sicurezza. Dalla cima si può poi prendere un’altra stradina sterrata e sabbiosa che in 5 miglia conduce ad una altro belvedere, Muley Point Overlook, oppure proseguire sulla 163 in direzione Natural Bridges. Noi però ci fermiamo qui. Abbiamo una tabella di marcia da rispettare. Ammiriamo ancora una volta il panorama a perdita d’occhio. Siamo soli, in cima al mondo, è il caso di dire! Facciamo il pieno a Bluff, col timore di non trovare stazioni di servizio in territorio indiano, e prendiamo la fregatura: nel tragitto verso Albuquerque (a Many Farms o Chinle) i prezzi del carburante sono decisamente più bassi. Ancora più avanti, al confine col New Mexico, in un paesino dal nome improbabile di Yah-Tah-Hey troviamo addirittura a 2,49 al gallone (e ne approfittiamo). I paesaggi attraversati sono tra i più inimmaginabilmente roventi. Terre bruciate, paesi sperduti in mezzo al nulla pietroso e desertico, avvolti in una bolla di calura al limite del sopportabile. Sono i luoghi dei Navajo, che all’apparenza non ispirano mica tanto: sguardo torvo, aspetto trasandato, tutti grassi e infagottati nei jeans nonostante si crepi di caldo. A Chinle (posto orrendo) ci fermiamo a mangiare un panino sotto l’ombra dell’unico albero, nel cortile della chiesa. E ancora macchina, e ancora deserto. Il paesaggio è tutto giallo, costellato di bassi e radi cespugli. Vediamo un cavallo che si ripara all’ombra proiettata da una collina, nascosto dal fianco del monte. Un gregge di pecore ci attraversa la strada. Ogni tanto intravediamo casupole semidiroccate, credo che stiamo vedendo il peggio dell’America. Vivere qui non sarebbe divertente. Dopo Chinle dobbiamo rallentare per via dei lavori stradali, assai frequenti negli Usa. La manutenzione delle strade è presa molto sul serio, al contrario di quanto avviene in Italia. Complessivamente perdiamo circa un’ora. Finalmente imbocchiamo la I 40, dopo Windows Rock e Gallup; si va un po’ più spediti. Paralleli a noi i binari della ferrovia, dove passano treni che davvero sono lunghi come l’America! Qui intorno ci sarebbero 2 posti interessanti da visitare: Acoma Pueblo (detto anche Sky City), ed El Morro National Monument. La cosa però richiederebbe almeno tre ore e non possiamo permettercelo. Puntiamo dritti su Albuquerque, dove arriviamo verso le 18.30. Trovare il Motel 6 non sarà così semplice. Albuquerque è un intrico di traffico e autostrade sovrapposte, una città smisurata, come sempre negli Usa, che si sviluppa orizzontalmente (a parte qualche grattacielo a Downtown) per decine di miglia. Sbagliamo strada due volte, alla terza centriamo il bersaglio. C’è da dire che i Motel 6 è vero, sono economici, però spesso si trovano in zone orrende della città, a fianco di tangenziali rumorose e a spianate d’asfalto senza un filo d’erba. Questo non fa eccezione, però almeno non sembra vecchissimo e si trova a sole 4 miglia dalla Old Town. Albuquerque è famosa per il Balloon Festival, che ha luogo ad ottobre. Centinaia di mongolfiere colorate si levano in cielo e di notte restano illuminate in sospensione come alberi di Natale. La città registra il tutto esaurito e i prezzi dei motel salgono di conseguenza. La sua parte più bella è la old town, che risale al 1700 si raccoglie attorno ad una piazzetta animatissima nel tardo pomeriggio. Facciamo un giretto, in cerca di un locale in cui mangiare. Ci fermiamo alla Hacienda, posto molto frequentato. Mangiamo messicano, una quesadilla buonissima e dei seafood nachos infuocati come l’inferno. La temperatura è molto gradevole, si sta benissimo seduti ai tavoli fuori, anche dentro però il ristorante è carino, tutto azzurro e giallo stile pueblo messicano. Alle 10 di sera per strada non c’è più l’ombra di un cristiano. Ci adeguiamo e torniamo al motel.

20 agosto giovedì I Motel 6 mettono a disposizione caffè caldo la mattina (il nostro ieri sera offriva anche biscotti e limonata, non so perché); ne approfittiamo e facciamo colazione in camera. Ci stiamo regolando così per recuperare tempo: quando nel costo del pernottamento non è compresa la colazione ci arrangiamo col fai da te, in modo da non andare in giro a cercare un cafè dove in ogni caso è difficile trovare menu con standard europei (tè, caffellatte, croissant, marmellata), è molto più facile trovare uova, lasagne, salsicce già di primo mattino. Inoltre abbiamo visto che per una colazione completa ci vuole niente a spendere 10 $ a testa, che moltiplicati per due per 24 giorni di viaggio fanno una discreta sommetta.

Con calma ci mettiamo in viaggio verso Santa Fe. Abbiamo un po’ capito come muoverci in questo groviglio di autostrade e andiamo a colpo sicuro a prendere la I25 North. Santa Fe dista un’oretta di macchina, è tutta autostrada dritta; poi una volta lì si esce a Cerrillos Rd, la via dei Motel e dei fast food, e si cerca un parcheggio il più vicino possibile al centro. Noi troviamo un free parking in Don Gaspar Rd; da lì con una camminata in 10 minuti si è in centro. Santa Fe è la capitale del New Mexico e negli ultimi anni ha fatto fortuna grazie al suo clima mite (si trova a 2100 mt di altezza); è molto ambita dai ricchi babbioni americani che vanno a svernarci o ci passano le vacanze estive (ne incontriamo parecchi, che girano in enormi limousines). E’ anche un centro culturale ricco di musei e gallerie d’arte. Infine, non mancano negozietti di tutti i tipi: souvenirs, ceramiche, arredamento, abbigliamento, oggettistica per la casa. Santa Fe richiede almeno una mezza giornata di visita. E’ un insediamento di origine spagnola e sono molti gli ispanici che ci vivono. Del resto il New Mexico è uno degli stati Usa con la più alta concentrazione di popolazione di questo ceppo. Giriamo per il centro, visitiamo la Loretto Chapel e la St. Francis basilica, ammiriamo la plaza, vaghiamo per bancarelle, entriamo al New Mexico Museum of Arts, dove oltre alla collezione permanente (un paio di piani, 40’ di visita deludente) accediamo anche ad una mostra temporanea sull’impressionismo americano, mangiamo – e bene – da Zia Sophia, in St Francis Rd, poi di corsa a Canyon Rd per vedere le gallerie d’arte e si fanno le 16.00 del pomeriggio. Le piante dei piedi protestano, noi obbediamo al rimprovero; si torna alla base percorrendo la Scenic Rd 14, anche detta Turquoise Trail perché veniva percorsa in passato dai cercatori di turchesi. A dare credito alle guide turistiche, su questa strada parallela alla I25 avremmo dovuto incontrare autentici gioielli, come Cerrillos, definito il paradiso dei fotografi perché rimasto tale e quale era 130 anni fa, o Madrid, dove una comunità artigiana hippy ha vivacizzato le baracchette di legno dipingendole di colori vivaci e improvvisando negozietti e ateliers. A nostro modesto e incompetente avviso, il tutto suscita qualche perplessità. Comunque la strada è molto bella, tranquilla e verdissima, un’altra cosa rispetto alla trafficatissima I25. Ci si impiega appena di più a raggiungere Albuquerque (1h e un quarto) ma ne vale la pena. Completiamo la visita di Old Town. Nella piazza si sta svolgendo uno spettacolo di danza polinesiana, che il pubblico locale sembra gradire. Ci inoltriamo nei vicoletti, nei cortili, nei negozi; occhieggiamo gli Stetson, tappeti di manifattura indiana, souvenirs classici, come i berretti della route 66. Adocchiamo un ristorante francese, La Crepe Michel, dove consumiamo finalmente una cena diversa dal solito in un ambiente un po’ romantico.

21 agosto venerdì Stamattina, prima di lasciare definitivamente Albuquerque, saliamo al Sandia Peak con la funivia (pare) più lunga del mondo, che attraversa ben 4 ecosistemi passando da 1.500 ad oltre 3.000 mt di altezza, con un tragitto che dura 20 minuti (costo 17,50 $ a persona). Si effettuano corse ogni 30’ dalle 9.00 alle 21. Ci sono in cima dei ristoranti panoramici e i rangers organizzano attività per bambini. Fa freschino. Intraprendiamo una breve passeggiata, ma io mi scopro senza un briciolo di energia, forse per via dell’aria troppo rarefatta. La città in basso è perfettamente visibile nella sua disumana estensione; la zona più verde è quella a ridosso del Rio Grande. Complessivamente il posto ci ha un po’ deluso; pare però che il momento migliore per salire quassù sia al tramonto, nei giorni di buona visibilità. La vetta è molto lussureggiante, poi via via che si scende il paesaggio si fa più roccioso e brullo e il colore del terreno volge al giallastro. Sono circa le 12 quando riprendiamo l’auto. Dobbiamo arrivare a Las Cruces, e da lì prendere per il White Sands National Momument. Anche oggi dunque lunga trasferta, per fortuna è tutta autostrada e basta uscire da Albuquerque perché il traffico diventi inesistente. Il paesaggio è ben poco interessante, le stazioni radio trasmettono solo musica messicana. Ci fermiamo a Socorro a mangiare un boccone in un Denny’s; vediamo una coppia di moderni cowboys sessantenni, in jeans, stivali, camicia e bianco cappello, che dopo aver consumato il pasto si fermano a leggere ciascuno il proprio romanzo, senza fretta. A Las Cruces facciamo il pieno (qui i prezzi sono davvero bassi) e individuiamo il nostro Motel, dove però torneremo più tardi, perché ci attende White Sands, che quasi da solo ha giustificato la deviazione in New Mexico in un viaggio che originariamente avrebbe dovuto interessare prevalentemente Utah e Arizona. Leggendo da casa, però, mi sono imbattuta nelle descrizioni di questo parco, costituito da candide dune di quarzo bianco: una perla rara che non potevamo perdere! Da qui la scelta di rinunciare alla parte ovest del’Arizona (Kingman, Yuma, Lake Havasu, e di conseguenza anche alla California orientale, in particolare a Joshua Tree, che ci tentava parecchio) per inserire un pezzettino di New Mexico. Il parco non delude le nostre alte aspettative. E’ già uno spettacolo percorrere la scenic drive ammirando queste dolci colline di sabbia bianchissima. Quando poi ci addentriamo nel Dune Life Nature Trail, la libidine si scatena. Sembra di stare sulla neve, è magnifico! La sabbia è soffice e compatta, siamo praticamente soli, e il cielo promette tempesta, ad est è scurissimo, quasi nero, il che rende il contrasto con le dune di gesso ancora più suggestivo. Vorremmo tanto incontrare il kit fox, una bella volpina bianca raffigurata su tutti i pannelli illustrativi, ma niente da fare. Trascorriamo due ore in preda ad un’incontenibile entusiasmo e alla più sfrenata follia fotografica, ci godiamo il tramonto sulle dune e meditiamo addirittura di tornare a visitare il parco domani mattina per vederlo sotto altra luce (non lo faremo; la strada da Las Cruces non è breve e il cielo domani sarà ancora nuvoloso). All’andata, sulla strada abbiamo trovato un posto di blocco dove ci hanno fatto fermare e mostrare i documenti. Si è trattato di una cosa molto veloce, a cui sottoponevano tutte le auto. Abbiamo pensato che potrebbe trattarsi di tentativi di arginare l’immigrazione clandestina. Ne troveremo altri nei prossimi giorni nella parte sud dell’Arizona. Al ritorno, invece, è tutto libero per cui filiamo dritti nel buio, mentre comincia a farsi strada la nostalgia per l’approssimarsi della fine del viaggio. Ceniamo accanto al nostro motel, in una meravigliosa steak house chiamata Cattlemen’s, in stile Old America, con un enorme bancone, tavoli scuri, poltroncine di cuoio, foto di vita cowboy appese alle pareti, maxischermi che trasmettono partite di baseball e un fantastico juke box che alterna musica country al rock. All’ingresso non poteva mancare un John Wayne di cartone formato gigante, che dà il benvenuto agli avventori. Gustiamo una cena ottima e abbondante a base di carne, mentre osserviamo la clientela locale chiacchierare rumorosamente davanti a una birra. Poi attraversiamo il cortile e siamo a letto! 22 agosto sabato Il Super8 offre colazione e postazione fissa internet (il wi-fi è presente ovunque, in America, ma noi non viaggiamo con il lap-top al seguito). Il cielo è poco incoraggiante, il paesaggio sulla I10 West piuttosto monotono. In effetti viaggiare in autostrada non aggiunge fascino al viaggio ma sulle lunghe percorrenze fa risparmiare un bel po’ di tempo. Ci fermiamo a Willcox a fare benzina, da lì prendiamo verso Chiricaua National Monument, che dista una 40ina di miglia, sulla 186. E sbagliamo pure strada: l’indicazione per l’ingresso del parco è semi nascosta ed è facile tirare dritto. Bisogna invece svoltare a sinistra quando appare il cartello che segnala la junction con la 181. Questo parco non è molto conosciuto. La sua particolarità è che le rocce in equilibrio le une sulle altre formano strane colonne contorte. Una specie di goblin, ma molto più duri e con colori completamente diversi (qui è tutto verde, lì era rosso). La scenic drive è lunga 8 miglia; non è un loop, termina in un punto panoramico chiamato Masai Point e va ripercorsa al contrario per uscire dal parco. Se poi si vuole camminare ci sono vari sentieri; il migliore arriva a Hearts of the Rocks, dove si trovano le formazioni rocciose più particolari, ma c’è da scarpinare parecchio. Al Masai Point ci fermiamo a mangiare ai tavoli da pic-nic. Pioviggina. Una coppia di sposi ispanici sta facendo un improvvisato servizio fotografico nella cornice del parco. Ci avventuriamo per una brevissima passeggiata, giusto per dare un’occhiata da vicino a queste strane formazioni ricoperte di muschio. Questa era terra dei Comanches, un tempo, capeggiati da Cochise. Adesso invece è terra di puma ed orsi, sebbene sia piuttosto raro per un visitatore imbattervisi. Ci muoviamo per tempo, con l’idea di doverci sbrigare se vogliamo visitare Tombstone; poi scopriremo, invece, di aver guadagnato un’ora per via del cambio di fuso. Tanto meglio: faremo una strada secondaria, la 181, poi 191, poi central hwy fino a Tombstone, sulla quale avvistiamo, con grande gioia di Mik, un roadrunner, e con grande mio schifo un serpentone verde. Vediamo anche 4 messicani bassi come un soldo di cacio tentare invano di guardare dentro al vano motore del loro enorme suv che li aveva lasciati a piedi. Attraversiamo paesini molto tranquilli, all’orizzonte le scariche di fulmini si moltiplicano, ma riusciamo ad entrare in Tombstone indenni. Percorriamo la via principale, un po’ meravigliati, perché non ci sembra che la città abbia mantenuto la fisionomia vecchio west che ci aspettavamo. Sbuchiamo davanti al cimitero, la boot hill, dove i pistoleri si facevano seppellire con gli stivali ai piedi. Luogo pittoresco e, nel suo genere, divertente, anche se può sembrare cinico affermarlo. In mezzo a cactus, agavi e altre piante grasse ci sono tombe molto semplici formate da mucchietti di pietre e una croce di legno. Molti sono degli “unknown”, gli altri sono morti ammazzati, la cui lapide riporta anche il nome dell’assassino. Ci sono anche i due fratelli Clanton, della celebre sfida all’Ok Corral e un altro poveraccio impiccato per sbaglio, la cui lapide recita più o meno così: “Qui giace Tizio, impiccato per errore, noi avevamo torto, lui aveva ragione, ma l’abbiamo appeso alla forca e oramai è andato!” Dopo la breve visita riprendiamo l’auto per avvicinarci al paese e, nel cercare parcheggio, scopriamo infine la vera Tombstone, parallela e interna rispetto alla Main street.. In effetti è tutto molto caratteristico e d’atmosfera, con carrozze e diligenze, negozi d’epoca, il vecchio teatro “Bird Cage”, il saloon, negozi western. C’è anche, per chi vuole, la possibilità di fare un giro esplorativo nella vecchia miniera d’argento e in alcune ore del giorno vengono inscenate le sparatorie e le scorribande che imperversavano all’epoca d’oro di questa città “dura a morire”. Attenzione, alle 17 chiude tutto! C’e però, volendo, la possibilità di soggiornare in un bed & breakfast. Ci aspettavamo qualcosa di più pacchiano, invece è un posto piacevole dove trascorrere almeno un’oretta. Girovaghiamo senza fretta, prendiamo un gelato, scegliendo il formato small. Come al solito gli americani esagerano e ci rifilano due coni immensi alla fragola che a stento riusciremo a finire in 35 minuti. Sono pazzi. Fuggiamo a Benson, mentre infuria il temporale. Viene giù un tale putiferio d’acqua che non si fa fatica a credere ai cartelli stradali che mettono in guardia contro i flash flood. Al Motel 8 ci accoglie una gentilissima impiegata che ci fornisce un buono sconto del 10% al Dennys’ di fronte. In realtà avremmo preferito cenare all’Apple Farm Bakery che usa solo prodotti biologici, ma lo troviamo già chiuso alle 20, per cui ci tocca ripiegare sul famigerato fast food. Cena di fortuna, e non è vero che in posti come questi si è esonerati dall’obbligo di mancia; le cameriere la chiedono eccome! La pioggia finisce, il cielo si sgombra; speriamo che domani sia una bella giornata. Andiamo a nanna, ma arriva 10 minuti dopo la telefonata della reception: abbiamo lasciato accesi i fari dell’auto. Per fortuna ci hanno avvisati, altrimenti domani saremmo rimasti a piedi! Ecco uno dei motivi per cui all’atto della registrazione chiedono sempre il numero di targa dei clienti. Complimenti per l’efficienza! 23 agosto domenica Colazione al motel, proviamo i donuts al cioccolato. Non male, ma complessivamente tutti i dolci americani che abbiamo assaggiato ci sono sembrati un po’ stucchevoli.

Si parte per il Saguaro NP. Il programma originale prevedeva anche la visita di Tucson, ma abbiamo dovuto sforbiciare per mancanza di tempo. Passandoci accanto diretti verso il parco, ci è sembrata una città abbastanza benestante: un sacco di belle ville arrampicate sulle colline, in mezzo ai saguari. La strada per il parco è lunga e piuttosto panoramica. E’ presto, sono le otto del mattino perché programmando la sveglia non abbiamo tenuto conto della variazione di fuso, per cui ci siamo alzati alle 6. E nemmeno ce ne siamo resi conto sul momento, perché il sole era già alto e cocente e di movimento in strada ce n’era: sono assai mattinieri, gli americani. Il Visitor Center non apre prima delle 9, fa già un caldo infernale e il parco pullula di rumori e fruscii sospetti. Molti cartelli mettono in guardia dai serpenti, puma e altra fauna selvatica. Non credo che ci inoltreremo per i sentieri, tenendo conto anche del fatto che non c’è nessuno oltre noi in giro. Giriamo in macchina la Bajada Loop, molto dissestata. Il paesaggio è ripetitivo, cactus saguaro a destra e sinistra, null’altro. Non rendono neanche tanto, in foto. Conclusione: questo parco si poteva evitare. In un’ora si vede tutto, a meno che non si voglia percorrere qualche sentiero, a proprio rischio e pericolo. La prossima tappa è Sedona; ci arriviamo in 3 ore di marcia costeggiando Phoenix, molto grande e trafficata. Poi di nuovo spazio alle montagne; ci godiamo il paesaggio mentre la radio trasmette bella musica allegra. Verso Sedona i colori si accendono di tonalità rosse. Molto bella, questa località: proprio in posizione felice. Ammiriamo la Bell Rock, che in effetti ha proprio l’aspetto di un grosso campanello, e le montagne circostanti. Passiamo al Visitor Center, che ci conferma che il red rock pass non ci occorre se già possediamo l’interagency annual pass. Sostiamo alla Chapel of the Holy Cross, piccolissima e arroccata a picco in posizione panoramica (ha ben poco di mistico, ‘sta chiesa). Oltrepassiamo una zona commerciale di recente costruzione (Oak Creek Village) e andiamo a prendere possesso della nostra stanza allo Sugarloaf Motel. Sedona non è una città economica. Il culto new age ha creato una sorta di industria alimentata dai devoti che credono nel potere energetico dei vortici. Lo Sugarloaf è semplice ma pulito, aveva buoni giudizi su Tripadvisor e un prezzo decisamente contenuto, comprensivo di uso piscina e colazione. Dopo esserci un po’ rinfrescati, partiamo alla scoperta del Red Rock Crossing, dove c’è la famosa Crescent Moon pic-nic area, fotografata da tutte le guide turistiche, con la Cathedral Rock che si rispecchia nelle acque del torrente. Si pagano 8 $ ad auto (è un parco statale), oppure 1 $ a persona se si entra da pedoni, salvo il fatto che – guarda un po’ – non c’è uno straccio di posto in cui lasciare l’auto a meno di 3 chilometri, per cui il gioco è presto fatto. L’area è molto circoscritta: il classico parco con tavoli da pic-nic e odore di grigliate. A destra scorre il ruscello, e da lì provengono grida e risate. Gli americani se li godono proprio questi parchi, nel week end. Intere famiglie si divertono sguazzando in acqua, dentro pozze più o meno profonde. Non è un bello spettacolo, però: sono tutti grassi, per non dire obesi. Ci sono molti ispanici e famiglie asiatiche. Vedere bambine di 5, 6 anni già a questi livelli di sovrappeso non è edificante. Cerchiamo il punto giusto per una foto, percorrendo il torrente in tutta la sua lunghezza; siamo sull’altra sponda per cui bisogna di tanto in tanto attraversare su dei tronchi d’albero, sperando di non finire a mollo! Scopriamo un punto abbastanza bello verso la fine del parco, poi torniamo indietro, proprio all’inizio. Scattiamo alcune repliche della famosa foto, che a dire il vero non riescono niente male, poi, approssimandosi il tramonto, fuggiamo sulla collina dell’aeroporto dove – dicono – si gode una visuale invidiabile. Non siamo fortunati: c’è parecchia ressa, un cartello invita ad effettuare una donazione (a chi?) per la concessione del posto, ma constatiamo che tutti lo ignorano clamorosamente. Molti turisti armati di macchine fotografiche attendono il momento mistico, che però non arriva, perché le nuvole sono in agguato. Comunque il posto non ci piace: non è affatto intimo, il Delicate era tutt’altra cosa. Alle 19 la gente, delusa, comincia a sciamare. Ma ecco che si forma un capannello, proprio in mezzo alla strada. Una tarantola sta facendo la sua attraversata trionfale, è lei la star della serata! Ceniamo, in un locale consigliato dalla guida, con una pizza decente su una terrazza affacciata su una folta vegetazione.

24 agosto lunedì Caricati i bagagli, di buon ora andiamo a dare un’occhiata a Tlaquepaque, un centro di gallerie d’arte costruito a somiglianza di un pueblo messicano, che si trova proprio al centro della Y di Sedona. Alle 9 è ancora deserto, ce lo giriamo con calma, è piccolino e molto grazioso. Però anche questo, come tutta Sedona, studiato ad arte per il turista. Prendiamo in direzione Flagstaff, dove dormiremo stasera. Dopo poche miglia si incontra lo Slide Rock State Park, un parco che a detta di alcuni ricorda Saturnia, perché il fiume crea delle pozze (fredde) in cui fare il bagno. Anche qui vige la regola pedoni 2 $, automobile 10$, qui però non ci facciamo fregare e andiamo a parcheggiare un km più a nord per poi scendere come capre dal costone di una collina (idea brillante di Mik). L’acqua è ghiacciata, non ci azzardiano ad immergerci, ci manca solo la congestione! Il posto è carino e sufficientemente tranquillo, ma credo che nel week end diventi un delirio di voci urlanti. Dopo un’oretta ci rimettiamo in marcia verso Oak Crek Vista, un punto panoramico sul canyon, nulla di speciale. Troviamo le immancabili bancarelle indiane che vendono a prezzi folli merce poco appetibile (esempio: orecchini 100 $, pallina per albero di Natale 30 $… Siamo pazzi?) Se vi interessano questi articoli ne troverete ovunque: a santa Fe, nella Monument Valley, a Moab, Sedona… Noi non abbiamo trovato nulla di imperdibile, soprattutto a quei prezzi. Eccoci a Flagstaff, cittadina che sorge tra la ferrovia e le foreste. Qui abbiamo modo di vedere e sentire da vicino i famosi lunghissimi treni merci statunitensi: abbiamo contato più di 90 vagoni! Il bello è che questi treni si annunciano con dei fischi agghiaccianti che squarciano la notte, e la cosa ci aveva assai terrorizzato, al pensiero di dormire qui. Niente paura, però: abbiamo ronfato come ghiri. Il fischio c’è ma il sonno pure, in un viaggio on the road, e dei due è il secondo che prevale.

Il nostro Motel si rivelerà un’ottima scelta: l’Aspen Inn & Suites per la modica cifra di 70$ tasse incluse ci mette a disposizione un mini appartamento con cucina arredata, soggiorno, bagno e camera da letto + colazione, internet, piscina, palestra, hot tube e social time, ossia aperitivo dalle 17 alle 19. Se po’ fa! In più è molto vicino a Downtown: mezzo miglio, andremo a piedi per non perdere tempo a cercare un parcheggio. Flagstaff è una città universitaria ma è comunque piccolissima, il centro si gira in ¾ d’ora spulciando tutti i negozietti (io comprerò un magnifico cappello) di souvenirs dedicati alla route 66. E’ abbastanza vivace e non mancano buoni posti per mangiare e ascoltare musica. Noi scegliamo l’Horseman Lodge, un locale che ha buona fama e si trova 8 miglia fuori città, in direzione Cameron. Molto western, con le pertinenze di cowboy famosi appese alle pareti (cappello e lazo) insieme a teste di animali impagliati, e una cameriera efficiente e sorridente di nome Sandy. C’è un self service di salads & soups, che accompagnano il piatto principale, ovviamente a base di carne. Ordiniamo due bisteccone ma non riusciremo a finirle. Negli Usa c’è l’usanza di impacchettare e portare via gli avanzi, ma dubito che ce la mangeremo domani a colazione, per cui, nonostante le insistenze dell’inserviente, lasciamo stare. 25 agosto martedì Oggi è il giorno del Grand Canyon! L’abbiamo tenuto per ultimo in segno di rispetto. Sarà anche l’unico parco al cui interno pernotteremo. Ci sono molti alloggi, tutti gestiti da Xanterra, e noi abbiamo trovato posto al Maswick Lodge a prezzi inferiori a quelli praticati a Tusayan.

Da Flagstaff ci vuole un’oretta e mezza di macchina. Partiamo subito, anche se nei dintorni non mancano certo altri luoghi interessanti da visitare: La Petrified Forest, ad esempio, o Wupatki, o Montezuma Castle o il Sunset Crater… Ma si sa, il tempo è tiranno, bisogna fare una scelta.

Il tragitto è assai piacevole perché si attraversa una bella foresta. Entrata sud, dunque. Siamo subito a Mather Point ce lo troviamo lì sotto, il canyon, impressionante, enorme. A chi scrive che dopo Bryce, Arches e la Monument il Grand Canyon non fa più effetto vorremmo rispondere: ma che state a di’? E’ fantastico! Ci regala una bella emozione, e dopo aver visitato tanti parchi non ce la aspettavamo una intensità tale! A Mather e Yairepai Point si può arrivare in macchina, perché si trovano sulla blue route, che collega le strutture del Village. Per visitare la parte ovest invece (linea rossa, Hermit’s Road) è obbligatorio utilizzare lo shuttle. Noi decidiamo di parcheggiare al Maswick Lodge e andare a piedi al capolinea (5 minuti). Le navette passano ogni 10 minuti e all’andata fermano ad ogni punto panoramico. Al ritorno invece oltre ai capolinea fanno solo 3 soste: Mohave, Powell e Pima Point. Noi siamo andati con lo shuttle al primo punto panoramico (Trailview Overlook) e da lì a piedi ai 3 successivi (Maricopa, Powell, Hopi), che sono poco distanti, lungo il rim trail che è pianeggiante e per nulla faticoso, poi di nuovo shuttle per i punti successivi che distano abbastanza, fino ad arrivare all’Hermit’s Rest. I più belli? Non so, fateli tutti! In totale vanno via 3 ore, davvero ben spese. Caspita, siete nel Grand Canyon! Non si può andare di fretta! Non vi aspettate panorami molto diversi tra un punto e l’altro, ciò che affascina è l’insieme. In alcuni punti si scorge di più il Colorado, che comunque è lontano. Inoltre può capitare che la visuale sia penalizzata dalla foschia (e le foto pure). Al ritorno prendiamo lo shuttle ad Hermit’s Rest e ci facciamo riportare al punto di partenza. Mettiamo qualcosa sotto i denti alla caffetteria del Maswick Lodge, che è poco più di una mensa aziendale, ma almeno ha prezzi abbordabili. Facciamo il check-in. Il nostro bungalow è carino e accogliente, seppure molto semplice. E’ abbastanza elettrizzante l’idea di dormire nel parco, forse avremmo dovuto fare qualche altra eccezione, e al diavolo i prezzi! Nel primo pomeriggio ci dedichiamo alla Green Route, molto più breve della rossa, infatti contempla solo 3 fermate: Pipe Creek Vista, South Kaibab e Yaki Point. Da South Kaibab Point inizia l’omonimo sentiero che conduce in basso nel canyon. L’altro famoso sentiero del South Rim è il Bright Angel Trail, che parte dal Bright Angel Lodge, sulla blue route. Entrambi sono lunghi e impegnativi, da non sottovalutare perché ogni anno diversi escursionisti ci lasciano le penne. Tuttavia basta seguire le opportune accortezze: non pretendere di scendere e risalire nello stesso giorno, portare con sé tonnellate d’acqua, proteggersi dalla disidratazione e dai colpi di sole. Noi siamo curiosi di percorrere almeno un breve tratto, decidiamo di arrivare al primo step del Kaibab e risalire (1,5 miles). All’inizio sembra un’impresa. Tira un vento forte che solleva la sabbia, quasi non ci si può difendere gli occhi. Proseguendo, però, la situazione migliora. Sul sentiero non c’è quasi nessuno, e questo enfatizza l’emozione. E’ davvero bello scendere e vedere il canyon avvicinarsi. Ci rammarichiamo di non aver pianificato la nostra visita in modo da avere più tempo e arrivare in fondo. Se un giorno torneremo in questa parte d’America lo faremo senz’altro. Non avevamo idea che fosse così affascinante. Incontriamo qualche isolato escursionista, che ci augura buona discesa. Grossi corvi neri svolazzano allegramente; non vediamo traccia però dei famosi condor americani. Purtroppo alle 18 bisogna risalire. Un po’ a malincuore torniamo sui nostri passi.

Yaki Point è uno dei luoghi consigliati per il tramonto, insieme a Mohave sulla red route e Mather sulla blue. Cerchiamo di resistere nonostante il freddo, ma appena il sole si abbassa un po’ restare immobili diventa proibitivo. Intirizziti cediamo le armi e risaliamo sullo shuttle, che ci porta all’interno del Village, dove curiosando tra la Hopi House, El Tovar Hotel e le altre strutture, assistiamo al tramonto a bordo rim. Il silenzio che scende allora sul canyon è impressionante. Si respira un’atmosfera magica, surreale, la natura con l’oscurità prende il sopravvento sull’uomo. Le rocce assumono colorazioni porpora, poi viola, infine blu notte. Tutto tace. Brr che freddo! Doccia calda al lodge, un boccone in caffetteria e a nanna. Portatevi una torcia se alloggiate nel parco. L’illuminazione artificiale, com’è giusto che sia, è carente. Ne guadagnano le stelle, ma attenti a dove mettete i piedi tornando al vostro alloggio dopo cena.

26 agosto mercoledì Che bello svegliarsi nel parco! Un’emozione da provare, almeno una volta durante il viaggio. In fondo cercando un po’ su internet e prenotando per tempo, badando bene ad evitare il fine settimana, i prezzi sono più che ragionevoli. Colazione, bagagli in auto e ci spostiamo in direzione est, verso Cameron, proseguendo sulla green route. Incontriamo ancora parecchi punti panoramici, da questa parte il Colorado è più visibile e una ranger ha montato addirittura un telescopio per consentire ai turisti di ammirarlo in modo ravvicinato. Ci fermiamo a Grandview Point, Moran Point, Lipan Point. L’ultima sosta è Desert View, che dicono dia il meglio di sé al tramonto. Visitiamo la Tower, che è interessante per gli affreschi hopi, seppure di fattura recente. Dopodiché si esce dal parco, sulla 64 in direzione Page. La foresta cede il passo al deserto, gradualmente. La temperatura sale. Poco prima di Cameron troviamo un paio di punti panoramici sulla destra, che affacciano su un enorme burrone, una spaccatura del terreno impressionante. C’è un breve sentiero da percorrere a piedi per arrivare sul ciglio (con tanto di cartello che ammonisce contro i serpenti a sonagli) e l’immancabile bancarella di artigianato indiano. Alla fine del sentiero, un’area pic-nic proprio sul precipizio, come se a qualcuno potesse venire in mente di banchettare nel nulla più assoluto, rovente, scosceso e infestato da serpenti! A Cameron ci fermiamo a fare rifo e a comprare gelati e yogurt al Trading Post. Nel complesso c’è un motel, un ristorante, uno store dove fare qualche acquisto. Scopriamo una piacevole piazzetta ombrosa in cui sedersi a mangiare, un po’ nascosta, allietata da alcune fontane. Vediamo anche il famoso ponte sul Little Colorado, solo che il fiume è completamente in secca e il ponte chiuso al traffico.

Arriviamo a Page verso le 15. Individuiamo il Motel di Bob Bashful, che a giudicare dall’aspetto deve essere sorto negli anni ’50, quando si costruì la diga e nacque il nucleo originario della città, e da allora non deve essere stato mai ristrutturato. E’ vero che per 44 $ a notte abbiamo un appartamento di 70 mq, composto da soggiorno, cucina, bagno, 2 camere da letto, però forse una tinteggiatina ogni 20 anni e qualche sanitario cambiato non sarebbero male. Scendiamo al lago, che dista due miglia dalla città ed è sorprendentemente bello e azzurro. Dopo tanti deserti vedere l’acqua, seppure di un lago artificiale, è un balsamo per l’anima. Quel blu riempie gli occhi, invita al relax, a lunghe nuotate. Il lago Powell è molto amato dagli americani e turisticamente assai sfruttato nei week end. Oggi è mercoledì ed è abbastanza tranquillo, non c’è grosso movimento. Andiamo prima di tutto alla diga Carl Hayden per procurarci una piantina della zona. Assistiamo alla cerimonia di giuramento di 2 giovanisime ed emozionate junior rangers e abbiamo modo di ammirare il panorama dalle grandi vetrate del Visitor Center. La diga è piccolina; niente a che vedere con quella di Assuan in Egitto, ma ciò nonostante è riuscita a creare un lago di enormi dimensioni, le cui coste frastagliate sono più lunghe dell’intera costa ovest statunitense, anche se per riempire completamente il canyon sottostante ci sono voluti 17 anni. Attualmente il livello dell’acqua non è altissimo. Ci informiamo sulle possibili gite in barca e riceviamo conferma del fatto che il Rainbow Bridge è raggiungibile esclusivamente con un’escursione a piedi di 2 miglia. Insomma, l’acqua non arriva più a bagnarlo. Prima di partire ero convinta di voler effettuare questa escursione ad ogni costo, ma dopo aver visto le foto del ponte che sovrasta, invece del lago, una pietraia, ho cambiato idea, anche perché i prezzi richiesti per la gita sono davvero alti (150 $ a persona per 5 ore di navigazione più il tragitto a piedi). In fondo di archi naturali e ponti ne abbiamo visti tanti; il valore aggiunto del Rainbow era la posizione sul lago; se viene meno quella non ne vale più la pena. Una gitina in barca però la vogliamo fare e scegliamo la più breve: 1h e mezza di navigazione fino all’Antelope canyon che visiteremo anche internamente domani mattina. Prenotiamo per domani pomeriggio alle 16.15.

Intanto andiamo in avanscoperta sul lago, alla ricerca di un posto in cui fare il bagno. Ci sono dei tratti sabbiosi a Marina Wahweap ma l’acqua non ci sembra eccessivamente pulita. Proseguiamo fino alla fine della strada asfaltata; si arriva ad una scogliera a picco sul lago. Riusciamo a scendere, si entra in acqua piuttosto agevolmente. Però dall’alto sembrava più bello. L’acqua è in realtà molto scura e non eccessivamente invitante. Fresca in maniera deliziosa, però! Restiamo fino al tramonto, che andiamo ad ammirare in un punto panoramico provvisto di panchine e sovrastante la Marina. E’ bello vedere questo lago addormentarsi al calar della sera, mette addosso molta serenità, anche se le tre ciminiere in lontananza deturpano un po’ il paesaggio.

Per cena scegliamo un locale ben recensito su tripadvisor (Bonkers); in effetti si mangia abbastanza bene e il servizio è accurato.

27 agosto giovedì La giornata si preannuncia luminosa. Anche se il nostro viaggio volge al termine, siamo eccitati e impazienti di visitare l’Antelope Canyon, di cui abbiamo sentito raccontare meraviglie. Da anni abbiamo appeso alle pareti della nostra casa posters giganti di Antelope, Bryce e la Monument Valley e non ci sembra vero, ora, di toglierci la soddisfazione di visitare realmente questi luoghi. Dato che è presto, facciamo un piccolo giro costeggiando il lago e arriviamo fino a Lone Rock, un grosso monolite che sbuca dalle acque. Anche qui c’è la possibilità di accedere a piccole spiaggette e di fare il bagno. Antelope in realtà consiste in due slot canyon, quello superiore, che visiteremo, e quello inferiore, che anni fa è stato teatro di un incidente, perché a causa di un flash flood decine di turisti hanno perso la vita (ora però è stato attrezzato con delle scalette di ferro di modo che all’occorrenza si possa tornare velocemente in superficie). Tra i due l’Upper ha i colori più spettacolari, almeno nella fascia centrale della giornata, quando il sole è perpendicolare alle fessure della roccia e penetra all’interno del canyon, ed è per questo che l’abbiamo scelto. Per visitare questo luogo è necessario pagare il biglietto di ingresso di 6$ ed aggregarsi ad una guida navajo; ci sono due tipologie di escursioni: il giro standard, di un’ora circa, che costa 25$ e quello fotografico, un paio d’ore, 40$. Si arriva al baracchino, ci si mette in fila, si paga il biglietto e poi si resta ad attendere su delle panche all’ombra di una tettoia che venga chiamato il proprio nome. Di solito le guide aspettano che si sia formato un nutrito gruppo, per cui i tempi di attesa possono essere lunghetti. Noi siamo arrivati in biglietteria alle 11 e siamo partiti per il giro a mezzogiorno. Comunque ci è andata più che bene: è l’orario migliore! Esiste anche la possibilità di prenotare un’escursione organizzata in alcune agenzie turistiche di Page (le trovate in centro città), a costi superiori, e per una durata equivalente a quella proposta dai nativi. Noi eravamo un po’ scettici su quale canale privilegiare; alla fine abbiamo optato per le guide indiane e si è rivelata un’ottima scelta. A parte il prezzo più basso, siamo capitati con un ragazzo navajo estremamente competente che ci ha illustrato la storia del canyon, ci ha mostrato i suoi segreti e svelato tutti i trucchi per fare splendide fotografie, oltre a concederci tutto il tempo necessario per assaporare appieno la bellezza del luogo. Dal baracchino-biglietteria si va in jeep: un tragitto di 5 minuti alquanto saltellante. Vedrete molta gente, per cui vi verrà automatico pensare che il turismo di massa rovini la magia del posto. In realtà una volta entrati la gente un po’ si disperde e vi potrà capitare di essere soli (a noi è capitato, soprattutto al ritorno, quando molti, avendo già visto il canyon, si limitano stupidamente ad attraversarlo in fretta). L’atmosfera che regna dentro è indescrivibile; è come essere in un acquario, in uno scrigno, in un tempio sacro. Sarete isolati dal mondo e incantati dai raggi di sole che filtrano attraverso la roccia per colpire la sabbia sotto i vostri piedi. E’ tutto buio e fresco, intimo e spirituale. La guida navajo ha con sé un piccolo flauto col quale intona melodie tradizionali. Vi sentirete dentro a un documentario, o ancora meglio, dentro un pezzetto di storia. I vostri occhi si volteranno in tutte le direzioni, per carpire tutta la magia del luogo, per raccogliere ogni sfumatura di colore: rosa, giallo, beje, arancione, viola, rosso, marrone. L’Antelope è una festa per gli occhi, e per le macchine fotografiche. Ovviamente 400 ASA e tempi di esposizione lunghi; portate un cavalletto, se l’avete. Noi in realtà non l’abbiamo usato, però sarebbe preferibile per evitare il rischio di foto mosse. E’ vietato l’uso del flash. Il tragitto nel “tunnel” dura una ventina di minuti, poi si sbuca al sole cocente e si rientra per percorrere il sentiero al contrario. Un’ora sembra poco, ma vedrete che l’immersione nell’atmosfera incantata di Antelope è tale che vi sembrerà di essere stati molto di più. Insomma, per noi il giro fotografico di due ore non vale la pena. A quel punto, se si dispone di tempo sufficiente, meglio visitare anche l’adiacente Lower Canyon. Torniamo a Page, un po’ ubriacati da tanta bellezza, soprattutto Mik è entusiasta della visita e già parla di tornarci in futuro. Ci concediamo una pausa relax a bordo lago ad Antelope Point, in attesa che arrivi l’ora di salire in barca. Facciamo un mezzo bagnetto e mangiamo un panino. L’acqua è bella fresca, ma la limpidezza non è il massimo. Non ci ispira più di tanto avventurarci al largo, anche perché spesso passano dei motoscafi.

Poco prima delle 16 siamo alla reception del Lake Powell Resort, luogo di raduno per la partenza della gita in barca. Fa un caldo infernale. Ci sistemiamo ovviamente nelle sedie esterne dell’imbarcazione, per vedere bene il paesaggio durante l’escursione, e facciamo la sauna sotto il sole cocente finchè il comandante non decide di salpare. Roba da colpo di calore, da insolazione istantanea! Senza il cappello ci saremmo squagliati. Per non parlare della temperatura dei sedili! Vabbè. Si parte e la meta è proprio l’Antelope Canyon, solo che stavolta lo vedremo da fuori, avvicinandoci sempre di più alle sue pareti strette e rosate. Un’audioguida in lingua italiana, dopo aver fornito con dovizia di particolari le istruzioni sull’uso corretto dell’imbarcazione, compresa la toilette (!), ci spiega la storia della costruzione della diga e dell’esplorazione avventurosa che il generale Powell fece nel lontano 1869, con una manciata di uomini, scarsi mezzi e un braccio solo. Era veramente un tipo tosto e dotato di notevole forza di volontà! Questa gita rappresenta per noi l’addio a questo lago e al sud ovest americano. Domani attraverseremo 4 stati in un solo giorno (vabbè, diciamo 3 e mezzo, visto che siamo quasi al confine con lo Utah) per riapprodare a Los Angeles in serata e da lì prendere l’aereo per Londra il mattino successivo. Tornati al motel sistemiamo i bagagli, facciamo una doccia, usciamo a mangiare una pizza accettabile allo Strombolli’s, dove Mik pronuncia le sue prime mitiche parole americane di tutta la vacanza, con un po’ di imbarazzo (“two cheese pizzas, please!”). E’ un po’ timido, che volete! A letto, con una punta di tristezza. Questo viaggio è finito! 28 agosto venerdì Coordinate di guida: da Page la 89 nord (la magnifica U-89!) ci porta a Kanab, dove, se siete interessati, alla fine di agosto si svolge ogni anno un festival di musica country molto famoso (il Western Legend Festival), che mobilita gente da tutta l’America e scatena un putiferio (in senso buono) di rodei, concerti e spettacoli. Qui vicino è anche degno di nota il Coral Sand Pink Dunes Park, parco statale il cui nome dice tutto, e che può essere simpatico vedere, anche se in certe ore del giorno è teatro, purtroppo, delle scorribande dei quad. A Long Valley Junction prendiamo la 14 West verso Cedar City, nota per le rappresentazioni di teatro sheakespeariano che si tengono nelle sere d’estate, e ci arrampichiamo di nuovo su nei monti di Cedar Breaks National Monument (un Bryce canyon in versione miniaturizzata), poi a Cedar City si imbocca la 15 South dritta dritta fino a Los Angeles via St George-Las Vegas-deserto del Mojave-Barstow. Stiamo riavvolgendo il nastro e scorrendo indietro il film del nostro bel viaggio. Sempre sulla 15, poco dopo Cedar City, si leggono le indicazioni per raggiungere l’ingresso meno conosciuto di Zion Park, quello che porta alla sezione di Kolob Canyon. Sarebbe bello visitarla, sarà per la prossima volta. Autostrade, deserto, paesaggi infuocati e poi Las Vegas riappare dal nulla e ci rallenta un po’ la tabella di marcia, ma è niente rispetto a chi viene in senso contario. E’ venerdì pomeriggio e i neon della Sin City stanno per illuminare a giorno il lungo week end americano. Come ogni fine settimana, Las Vegas viene presa d’assalto. Da Los Angeles è una lunga, interminabile carovana di automobili. Fiuuuu, per fortuna noi non dobbiamo entrarci ma ne stiamo fuggendo. Vicino Barstow c’è un famoso outlet, dove non facciamo sosta, e a Yermo, 10 miglia più avanti, la ricostruzione di un’altra città fantasma, a pagamento, chiamata Calico. Ma Tombstone ci è bastata, e questa poi suona un pochino fasulla. Già 50 miglia prima di entrare in LA ci incolonniamo nel traffico, ed è tutta a 20 all’ora, per peggiorare via via che ci avviciniamo al centro nevralgico. ‘Sta città non ci piace mica tanto. Inoltre c’è una cortina di smog palpabile. Dormiamo nei pressi dell’aeroporto, in un motel orrendo che ci fa un prezzo stracciato accettando un coupon-sconto e l’indomani mattina presto riconsegnamo la macchina velocemente e ci imbarchiamo per tornare a casa. Bye bye America! Istruzioni per l’uso: Non lasciatevi spaventare. Il paese è immenso, le distanze enormi, l’inglese che parlano non sempre perfettamente comprensibile, vi sentirete all’inizio piccoli e sperduti ma non dimenticate che siete in un paese civile, evoluto e molto collaborativo, anche se in mezzo agli infiniti deserti dell’ovest e alle terre bruciate a perdita d’occhio vi potrà sorgere qualche dubbio. Non esistono pericoli. Andate dritti per la vostra strada e convinti fino in fondo al vostro itinerario: non vi accadrà nulla, se non di vedere posti magnifici, paesaggi impressionanti e natura selvaggia. Il volo va prenotato con largo anticipo, per poter spuntare buoni prezzi. Non esiste un volo diretto dall’Italia per la west coast, speriamo lo mettano prima o poi. Noi abbiamo confrontato varie compagnie aereee (Delta, United, British, Luftansa, Virgin Atlantic) e la più conveniente è risultata la United Airlines con 600 € a testa a/r da Londra (raggiunta con easy Jet).

Il cibo è così così, non fatevi illusioni; più spendete e più otterrete qualità. I panini economici che vendono ai supermercati sanno di plastica, i fast food dopo il secondo giorno consecutivo vi daranno la nausea, il caffè non è certo quello italiano, ma chi se ne frega, siete in vacanza! Cercando, si trovano localini simpatici e menu non troppo dannosi per il fegato, anche se i non carnivori faranno fatica ad assecondare i loro gusti. Notti: per i motel noi abbiamo cercato un compromesso qualità-prezzo, senza volere il lusso e il comfort eccelso; è andata quasi sempre in modo soddisfacente, tranne in California dove i prezzi erano altissimi, anche perché ci siamo trovati a visitare Sequoia e Yosemite a ridosso del week end. I nostri Motel: (prezzi in $ tasse incluse) Bakersfield: Motel6 Easton Drive $ 46,36 voto 4 Three Rivers: Sequoia Motel $ 98,98 voto 7 Mariposa: RiverRock Cafè BB $ 105,45 voto 6- Mammoth Lakes: Motel6 $ 93,55 voto 6 e 1/2 Lone Pine: Dow Villa Motel $ 73,92 voto 5 Las Vegas: Bally’s $ 75,21 voto 7 (si paga alla prenotazione, se poi disdite vi rimborsano) St. George: Best Western Coral Hills BB $ 61,34 voto 9 Panguitch: Purple Sage Motel $ 77,45 voto 6 e ½ Torrey: Capitol Reef Inn $ 58,43 voto 8 Moab: Inca Inn BB $ 76,66 voto 7 Bluff: Recapture Lodge $ 71,63 voto 7 Albuquerque: Motel6 $ 51,86 voto 6 Las Cruces: Super8 BB $ 57,79 voto 6 Benson: Super8 BB $ 54,17 voto 7 Sedona: Sugarloaf Motel $ 67,40 voto 7 Flagstaff: Aspen Inn & Suites BB $ 71,55 voto 9 Grand Canyon: Maswick Lodge di Xanterra $ 96,06 voto 7 e 1/2 (pagamento alla prenotazione, si può disdire entro 48 ore dall’arrivo con pieno rimborso) Page: Bob Bashful’s Motel $ 44 voto 5 e ½ (pagamento solo cash) Smanettando su internet non si fa fatica a trovare soluzioni di ogni genere per il pernottamento. Quasi tutti i motel praticano prezzi maggiorati nel week end, ma molte catene come Best Western, Super8, Motel6, Travelodge offrono ottime opportunità per chi prenota on line con un discreto anticipo. Non costa nulla e la camera si può disdire fino alle 16 o addirittura alle 18 del giorno di arrivo senza applicazione di penali. Conviene mettersi al sicuro perché in certe località in alta stagione trovare da dormire all’ultimo minuto può essere problematico: mi riferisco sicuramente ai territori indiani, e quindi la Monument Valley, ma anche a Page, ai paesini nei pressi di Sequoia e Yosemite, o nelle vicinanze della Death Valley. Per qualsiasi consiglio o suggerimento siamo qua. Serena e Michele



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