west usa: have a nice day!

Quello che segue è il racconto di un viaggio interamente organizzato in autonomia, senza l’ausilio di agenzie o tour operator e plasmato grazie ai suggerimenti di precedenti viaggiatori, alle letture di riviste, guide di viaggio e alle informazioni trovate navigando su internet. Spinti dalla voglia di celebrare un evento particolare con un...
Scritto da: madeinflorence
west usa: have a nice day!
Partenza il: 09/06/2009
Ritorno il: 30/06/2009
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
Quello che segue è il racconto di un viaggio interamente organizzato in autonomia, senza l’ausilio di agenzie o tour operator e plasmato grazie ai suggerimenti di precedenti viaggiatori, alle letture di riviste, guide di viaggio e alle informazioni trovate navigando su internet. Spinti dalla voglia di celebrare un evento particolare con un viaggio di quelli “che rimangono”, dopo aver preso in esame vari paesi e dopo lunghe valutazioni, salta fuori l’idea che mette d’accordo tutti…Quest’anno sarà la volta degli Stati Uniti Occidentali. A febbraio, con un certo anticipo per accaparrarsi tariffe agevolate, prenotiamo l’aereo: volo KLM da Bologna a San Francisco (andata e ritorno) con scalo ad Amsterdam per 424 euro a testa (ottimo volo, consiglio vivamente tale compagnia aerea per serietà e servizio offerto). Poche settimane dopo è la volta dell’albergo a San Francisco, riservato per le nostre prime due notti su suolo statunitense e, per finire, dell’auto prenotata attraverso la eNoleggioauto (che negli USA fa capo all’Alamo), compagnia di noleggio presente solo su internet rivelatasi affidabile e con tariffe competitive. Ritiro e consegna dell’auto direttamente all’aeroporto di San Francisco, per un totale di 20 giorni di noleggio per poco meno di 610 euro (pieno di benzina, assicurazione e 2° guidatore inclusi). A questo punto non rimane che partire…Nel frattempo cresce l’attesa, l’ansia di partire è alle stelle e le aspettative per questo viaggio imminente sono altissime. 9 Giugno 2009 Partiamo nel cuore della notte da Firenze per raggiungere l’aeroporto di Bologna da dove, alle 6.00 circa, decolla il nostro aereo con destinazione San Francisco. Lasciamo l’auto in località Calderara di Reno (10 minuti nemmeno dall’aeroporto Marconi) al parcheggio Park to Fly, secondo una consuetudine ormai già acquisita in precedenti viaggi che ci ha sempre lasciato estremamente soddisfatti dal servizio offerto. Dopo lo scalo ad Amsterdam, con un volo di circa 9 ore raggiungiamo finalmente (alle ore 13.30 locali) la California. Ottenuto il visto di ingresso dal funzionario della dogana, dopo aver mostrato la nostra domanda ESTA e lasciato le impronte digitali, ci rechiamo a ritirare l’auto. L’aeroporto internazionale di San Francisco è enorme ma ottimamente organizzato. Un “air train”, un trenino cioè che si muove su una rotaia sopraelevata, percorre un anello intorno all’aeroporto consentendo ai passeggeri di spostarsi rapidamente (e gratuitamente) da una zona all’altra. Raggiunto il terminal dove hanno sede le compagnie di noleggio auto, dopo il disbrigo delle pratiche amministrative, scegliamo l’auto che piace di più all’interno della categoria prescelta e per la quale è stato effettuato il pagamento. Nel nostro caso (categoria FULL SIZE che comprende berline spaziose con grande bagagliaio adatto per 4 valigie grandi), la scelta ricade su una TOYOTA Camry rossa, auto che si rivelerà comoda, spaziosa e piacevole da guidare. Dopo un attimo di panico e impasse dovuto al funzionamento del cambio automatico in dotazione sulle macchine americane, prendiamo il via e raggiungiamo in breve tempo il nostro albergo grazie all’ausilio del navigatore satellitare che, sapientemente, ci siamo portati dall’Italia. Nessun addetto del noleggio ci ha fornito spiegazioni sull’utilizzo del cambio e su alcune funzionalità della vettura, ignorando il fatto che in Europa la maggior parte dei modelli di auto americane non esiste! In breve vi posso dire che l’accensione e lo spegnimento devono avvenire con la marcia P inserita (fa stare ferma l’auto), senza necessità di schiacciare i pedali. Per partire è necessario premere il freno e impostare la marcia 4, che consente di viaggiare sia a bassa che alta velocità. La marcia 4D corrisponde alla nostra quinta; per le salite e le discese è necessario spostare il cambio sulla 3 o sulla 2 (se la pendenza è notevole c’è anche la marcia ridotta 2L). La R serve per fare retromarcia e la N per rimanere in folle. Non essendo presente il pedale della frizione, la gamba sinistra non ha alcun ruolo nella guida! Il corrispondente del nostro freno a mano è rappresentato da un piccolo pedale sotto il volante. Raggiunto il Grant Plaza Hotel (2 notti a $173), parcheggiamo l’auto nel garage (piuttosto caro!) convenzionato con l’albergo, sistemiamo i bagagli e ci tuffiamo subito per le strade di San Francisco. In alcuni giorni e in alcune fasce orarie è consentito parcheggiare gratuitamente per strada, e la disponibilità dei posti, almeno nella nostra zona era assai cospicua. Informatevi bene e potrete risparmiare un bel po’ di soldi nel parcheggio. Dove la sosta lungo la strada è a pagamento non osate fare i furbi! I controlli sono frequenti e inflessibili. L’hotel da noi scelto è dotato di camere standard piuttosto piccole e modeste, ma gode di una posizione davvero invidiabile. E’ collocato a Chinatown appena oltre Dragon Gate, la grande porta di ingresso, una zona strategica tranquilla e ben servita dai mezzi pubblici cittadini. La zona di Chinatown, stretta tra Union Square Nob Hill e il Financial District, è un interessante susseguirsi di negozi ricolmi di cianfrusaglie e di esercizi di generi alimentari permeati da un miscuglio di forti odori orientali. Tra tipici lampioni e tetti a pagoda, si esplora la più grande comunità cinese fuori dell’Asia dove stoffe di ogni genere ed enormi statue dal gusto assai kitsch attendono i turisti incuriositi. Attiguo a Chinatown si trova il quartiere di Nob Hill, una Little Italy dal carattere decisamente più elegante e composto rispetto a Chinatown. Qualche bel palazzo e numerosi ristoranti che propongono cucina italiana si incontrano lungo le strade della zona. Attraversata Union Square, una vasta piazza lastricata cinta da palazzoni, giriamo per il Financial District che ci cattura per i negozi di moda e i numerosi grattacieli tra cui spicca la Transamerica Pyramid. Prima cena con l’immancabile mega hamburger circondato da french fries e onion rings. 10 Giugno 2009 Per questa mattina abbiamo in programma alle ore 9.00 la visita ad Alcatraz (prenotata dall’Italia tramite internet, costo 26 $ a testa con Alcatraz Cruises). Consiglio di prenotare in anticipo la visita (è un’attrazione che richiama molti turisti) e di effettuare la prima visita del giorno, con partenza alle ore 9.00, che consente di godere del senso di solitudine che si respira nell’ex-penitenziario senza essere travolti dalla folla che giunge in massa sull’isola a metà mattina. Con un vecchio tram elettrico raggiungiamo il Pier 33, da cui parte il traghetto che conduce ad Alcatraz. Giunti sull’isola, lungo il percorso che dal piccolo ormeggio dove attracca il traghetto conduce all’entrata della prigione, ci imbattiamo in numerosi edifici fatiscenti (casa di guardia, cappella militare, lo spaccio, i magazzini, la centrale elettrica, l’obitorio) che un tempo rendevano Alcatraz una piccola comunità autonoma e che oggi sono luogo di nidificazione di una numerosa colonia protetta di gabbiani. All’ingresso del penitenziario viene distribuita gratuitamente un’audioguida in italiano che vi conduce, passo per passo, alla scoperta dell’interno del carcere. Le spiegazioni sono fornite con in sottofondo le voci originali di secondini e carcerati, frammiste ad avvolgenti rumori di sbarre che si chiudono, tintinnare di chiavi e ruvide grida di protesta. Il tutto rende l’atmosfera di questo posto particolarmente suggestiva. E’ tuttora visibile una delle celle con il buco, scavato da un prigioniero, da cui fu effettuata l’unica fuga riuscita della storia di Alcatraz. Presso il bookshop è stato sorprendente trovare un ex carcerato di Alcatraz (4 anni per rapina in banca sul finire degli anni ’60) nelle vesti di autore di un libro di successo sulla sua prigionia nel carcere di massima sicurezza, intento a fare dediche e firmare autografi agli acquirenti delle sue memorie. Tornati sulla terraferma ci spostiamo al vicino Fisherman’s Wharf, l’antico borgo di pescatori trasformato in vivace zona turistica, con negozietti, ristoranti che servono ottimi panini al granchio e la fumante clam chowder (zuppa di vongole e patate servita in pagnotta di pane al lievito naturale), e banchi ricolmi di quella frutta fresca che rappresenta un orgoglio per la California. Non possiamo esimerci dall’assaggiare delle succose ciliegie e le fragole più grandi mai viste (favolose). Il giro a piedi attraverso la gioia atmosfera del Fisherman’s ci conduce al Pier 39 dove una nutrita colonia di leoni marini, giocherelloni e confusionari, ha stabilito la propria “residenza” su degli zatteroni ancorati a breve distanza dal molo. A Powell Street saliamo su uno dei simboli di San Francisco, il cable car, il tram elettrico aperto sui lati considerato un monumento della mobilità pubblica cittadina. Essendo Powell Street uno dei due capolinea, assistiamo alle manovre di inversione di marcia del cable car che, arrestato su una ruota lignea incassata nel manto stradale, con la forza delle braccia, viene girato nel senso opposto di marcia. Il costo della corsa singola non è proprio economico ($5) ma ne vale sicuramente la pena perché offre una visuale insolita di San Francisco. Soprattutto se si ha la prontezza o la fortuna, come capitato a noi, di accaparrarsi i posti in piedi, avvinghiati ai pali, che rendono l’esperienza unica e divertente. E’ necessario però tenersi ben saldi perché le partenze e le fermate sono brusche e improvvise! La nostra corsa sul cable car termina a Chinatown dove recuperiamo la nostra auto dal garage e ci dirigiamo sul Golden Gate. Attraversato in auto tutto il ponte (è necessario pagare un pedaggio), ci fermiamo nel punto panoramico, ben segnalato, da dove è possibile ammirare la baia di San Francisco sovrastata dal Golden Gate in tutta la sua imponenza. Per tornare indietro in direzione della città, poco dopo il punto panoramico, c’è un’uscita che consente di riprendere la strada nella direzione opposta. Percorrendo la strada verso San Francisco vi consiglio di fare nuovamente una sosta prima del ponte, imboccando una strada sulla destra che sale fino ad alcune piazzole di sosta da dove il panorama è veramente mozzafiato. Torniamo quindi al Fisherman’s Wharf (in zona si trova facilmente parcheggio gratuito) per cenare all’Hard Rock Cafè, in una bella sala rotonda addobbata con cimeli musicali di alto pregio. 11 Giugno 2009 Sveglia presto, ottima colazione da Starbucks con blueberry muffins e cappuccino, quindi partenza verso lo stato del Wyoming. La strada è lunga, i km da percorrere sono circa 1500 ma l’entusiasmo alle stelle ci fa affrontare con serenità questa avventura. Se percorrere la California è rilassante (la strada che da Sacramento porta in Nevada è circondata da laghi e boschi di conifere), altrettanto non si può dire per il brullo e cocente stato del Nevada. Sosta pranzo nel deserto del Nevada presso la Rest Area 40 mile Desert, che offre una spartana toilette, area picnic e acqua potabile che sgorga da una vecchia pompa da azionare a mano. Pernottiamo lungo la statale 93, nel piccolo paese di Jackpot al confine tra Nevada e Idaho che vanta più casinò che case. Il Barton’s Club 93 Casinò è corredato da un piacevole motel economico ($52 a notte) e da un ottimo ristorante aperto 24 ore su 24. 12 Giugno 2009 Attraversato l’Idaho, ad ora pranzo siamo nell’angolo meridionale del Montana, nella tipica cittadina di West Yellowstone da dove si accede ad uno dei quattro ingressi del parco Yellowstone. Numerose sono le possibilità di alloggio e ristorazione offerte da questa località. Decidiamo di pernottare (2 notti a $125) al Motel Pioneer, gestito da una cordiale signora che ci riserva due stanze arredate in stile montano. Alle 15.00 facciamo il nostro ingresso nel primo dei parchi nazionali che abbiamo in programma di visitare. All’entrata di ogni parco è necessario fermarsi con l’auto ai box dove il ranger emette il biglietto di ingresso e fornisce le mappe e il materiale informativo sul parco (spesso hanno anche depliant in italiano, chiedeteli!). Facciamo l’Annual Pass (costo $80), una tessera che consente l’ingresso ad 1 auto con 4 passeggeri a bordo in tutti i parchi nazionali degli Stati Uniti per un anno. Considerando che le tariffe di entrata variano da $10 ai $25, è conveniente richiederla se si ha intenzione di visitare almeno 5 parchi. Per noi si è rivelata un vero e proprio risparmio. Poiché l’Annual Pass deve essere firmata da almeno una persona e va mostrata (ogni volta che entrate in un parco) insieme ad un documento di riconoscimento di colui che ha apposto la firma, cercate di firmare nello stesso modo in cui avete firmato sul documento che presentate per risparmiare tempo e per facilitare il controllo al ranger. Dello Yellowstone NP avevamo sentito dire meraviglie…E in effetti è qualcosa di sensazionale. Il parco racchiude al suo interno la metà dei geyser presenti nel mondo e, per l’eterogeneità della sua fauna, non ha uguali in tutti gli Stati Uniti. Gli sforzi compiuti per colmare la lunghissima distanza che separa la California dal lontano Wyoming, sono stati ampiamente ricompensati da una tale concentrazione di bellezze naturali che lascia esterefatti.

All’interno del parco ci sono due “loop” da percorrere in auto (per un totale di 230 km di strade), ognuno con punti panoramici ed escursioni a piedi che richiedono almeno un giorno di tempo ciascuno. Iniziamo l’esplorazione dirigendoci nel Geyser Country, una zona caratterizzata da fenomeni geotermici quali fumarole, gysers, pozze d’acqua calda cristallina e fanghi bollenti che, uniti a isolati alberi secchi, conferiscono al paesaggio un aspetto lunare.

Lungo la strada ci imbattiamo, con grande sorpresa, in quello che diventerà poi un habitué degli incontri nel parco: il bisonte. In fila, fianco a fianco alle auto in transito, o sparsi nelle vaste praterie i bisonti proliferano nel parco e un po’ ovunque ci si imbatte in qualche enorme esemplare. Più rapido e occasionale è stato invece l’avvistamento di coyote, che con l’aria scaltra e diffidente, si tengono a distanza dall’uomo. A conclusione del nostro primo approccio al parco raggiungiamo l’Old Faithful, il più famoso geyser del mondo che, ogni 90 minuti circa, emette un forte getto di acqua alto tra i 30 e i 55 metri, richiamando quotidianamente centinaia di turisti. Non conosciamo la fascia oraria in cui sia prevista “l’esplosione”, tentiamo la sorte e alle 18.05 siamo nei pressi del geyser, ci sediamo su alcune panchine di legno gremite di turisti in attesa del getto e alle 18.13 la fortunata sorpresa…Il geyser inizia velocemente ad animarsi…Vapori sempre più intensi fuoriescono dalla terra…Poi una improvvisa eruzione d’acqua bollente esplode nel cielo generando stupore e meraviglia. Cena in una steak-house di West Yellowstone, dove non possiamo fare a meno di ordinare un buffalo hamburger ben cotto accompagnato da insalata condita con blue cheese.

13 Giugno 2009 Enormi pancakes con panna, burro salato e salsa di mirtilli, annaffiati con bollente caffè americano ci danno il buongiorno in una assolata giornata dedicata interamente alla scoperta di Yellowstone. Appena entrati nel parco, dopo poche miglia, ammiriamo una splendida coppia di aquile appollaiate sul nido sulla vetta di un albero in prossimità della strada, quindi è la volta di un maestoso cervo che indisturbato rumina nascosto nel bosco. Percorriamo il loop a nord, visitando la zona di Mammuth Hot Springs Terraces con il suo pullulare di sorgenti di acqua calda ricca di calcare che con i loro depositi, nel corso dei secoli, hanno creato delle vere e proprie terrazze o formazioni bizzarre a forma di elefante. Il colore bianco dominante delle terrazze è interrotto da sfumature colorate, gialle-arancioni-marroni-verdi-rosa, originate dai microrganismi e batteri che popolano le acque. Attraversando la località di Tower-Roosevelt, disseminata ovunque di cerbiatti che girano tranquillamente per strada, ci spingiamo verso sud in direzione Canyon Village. Su questo percorso per ben due volte facciamo un incontro con l’orso: prima una mamma orsa con il suo cucciolo che, giocherellando, la precede sul crinale di una collina poi, più da vicino, un enorme esemplare solitario. Questi orsi appartengono alla razza dei “black bears”; nel parco sono presenti anche gli orsi grizzly, ma sono molto più difficili da avvistare.

Quando vi imbattete in macchine in sosta sul ciglio della strada non esitate a fermarvi. Sicuramente è stato avvistato qualche animale a breve distanza. La zona del canyon è molto suggestiva. Conviene esplorare prima il South Rim, con le soste a Upper Falls Viewpoint e Artist point e, successivamente, il North Rim per evitare di percorrere più volte la stessa strada con conseguente perdita di tempo. Lungo il North Rim è possibile raggiungere le cascate Upper Falls (33 mt) e Lower Falls (93 mt) per ammirarne la potenza. Sono invece evitabili la discesa alla Red Rock Point e la sosta all’Inspiration Point, che non aggiungono nessuna emozione particolare rispetto a quanto già visto in precedenza. Mentre costeggiamo l’immenso Yellowstone Lake scoppia un violento temporale che ci impedisce qualsiasi tentativo di sosta. Tornati a West Yellowstone la pioggia ci abbandona ma, nel frattempo, la temperatura è calata di diversi gradi e in camera siamo costretti ad accendere la stufa! Cena in ristorante messicano poi giro per negozi del paese per digerire i deliziosi quanto pesanti burritos. 14 Giugno 2009 L’odierna giornata di viaggio, che ha come destinazione finale Moab nello Utah, ha inizio con un’abbondante colazione consumata presso il Trapper’s, locale caratteristico di West Yellowstone che annovera al suo interno vecchi strumenti da caccia e memorabilia del luogo. Alle 18.00 circa giungiamo a Moab, base di appoggio per le escursioni ai vicini parchi di Arches e Canyonlands. Prendiamo due camere al Riverside Inn, accogliente e pulito motel ad inizio paese che per $73 mette a disposizione piscina, jacuzzi e un’abbondante breakfast. 15 Giugno 2009 Visita dell’Arches National Park e dei suoi monumentali archi di arenaria. La prima parte del parco, tra paesaggi strepitosi e pittorici giochi di luce, prevede brevi e facili escursioni quali Courthouse Towers Viewpoint e The Windows section con l’imperdibile Double Arch, doppio maestoso arco di pietra rossa che lascia intravedere al suo interno uno spicchio di cielo azzurro. L’escursione più frequentata è quella che conduce fino ai piedi del Delicate Arch, l’emblema del parco e il simbolo riprodotto sulle targhe dello Utah. L’itinerario prevede una camminata di 4,8 Km (tra andata e ritorno), impegnativa soprattutto nella parte iniziale, che viene però ampiamente ricompensata dallo spettacolo offerto dalla meta finale. L’arco, maestosamente in bilico su un crinale, si apre improvvisamente alla vista con la sua aria di fragile perfezione da cartolina.

E’ sconsigliato affrontare il percorso nei mesi estivi senza avere con sé acqua potabile. Da evitare è la salita all’Upper Delicate Arch Viewpoint, punto panoramico per ammirare l’arco da distanza ragguardevole. Nella parte nord del parco si snodano i sentieri più lunghi ed impegnativi. In questa zona è reperibile acqua potabile da alcune fontane situate nel punto di partenza del percorso. Il loop completo è di 11,5 km e permette di raggiungere il Devils Garden, altrimenti la scelta può ricadere su sentieri più brevi e meno impegnativi. Noi abbiamo optato, ancora un po’ affaticati dalla salita al Delicate Arch, per un percorso di circa 1,5 Km per ammirare tre meravigliosi archi (Tunnel Arch, Pine tree Arch e Landscape Arch). Ad Arches non ci sono rivendite di generi alimentari, quindi se decidete di pranzare all’interno del parco procuratevi il cibo prima di entrare. Nel pomeriggio ci spostiamo al Canyonlands National Park alla scoperta della zona nord del parco, detta Island in the sky. Due profondi canyons, scavati dai fiumi Colorado e Green River, attraversano il parco fino alla loro confluenza nella parte meridionale, determinando 3 zone distinte: Island a nord, The Maze a sud-ovest e The Needles ad sud-est. Percorriamo tutto il percorso automobilistico previsto, fermandoci di volta in volta presso i punti panoramici. Assolutamente da non perdere il Grand View point Overlook, uno scenario tra i più emozionanti dell’intero viaggio che non ha niente da invidiare al più acclamato e frequentato Grand Canyon. La vista spazia a perdita d’occhio, in un senso di infinito che porta ad immergersi nel silenzio assoluto circostante. Seduti in contemplazione sulla roccia, il tempo scorre velocemente e dobbiamo a malincuore proseguire il viaggio.

Cena ristoratrice alla Moab Brewery, simpatica birreria-ristorante che mette a disposizione dei clineti ottime birre di propria produzione quali la Dead horse Ale e la Derailleur Ale. 16 Giugno 2009 Entriamo nuovamente a Canyonlands, questa volta nel Needles. Questa zona rivela le proprie bellezze naturali solo dopo aver percorso lunghe escursioni pedestri, mentre la strada percorribile in auto non regala particolari vedute, fatta eccezione per alcune simpatiche concrezioni a forma di fungo e per due conformazioni rocciose visibili da lontano, la Sixshooter Peak (la cima dei sei germogli) e i Needles (gli aghi). L’intenzione di raggiungere la Confluence Overlook, ovvero il punto panoramico che permette di ammirare la confluenza del Green River con il Colorado, è ben presto naufragata in quanto la strada sterrata che ha inizio da Elephant Hill è percorribile solo con jeep mentre il sentiero a piedi che parte da Big Spring Canyon Overlook è lungo 18 km (tra andata e ritorno). Se non si ha l’intenzione o il tempo (come nel nostro caso) di cimentarsi con il trekking è meglio non addentrarsi nel Needles, poiché la strada per arrivarci è alquanto lunga (l’ingresso è a 34 miglia dalla statale 191) e non ripaga del tempo perso a percorrerla. Nel primo pomeriggio entriamo in Colorado per visitare il Mesa Verde National Park e tuffarci nel passato, alla scoperta della storia degli antichi Pueblos, gli antenati degli Indiani d’America. In questo territorio sono conservate molto vestigia delle antiche abitazioni di questo popolo, alcune delle quali si caratterizzano per l’originalità della loro ubicazione, adagiate in cavità presenti su scoscese pareti rocciose (cliff dwelling). Queste abitazioni rupestri furono abitate per circa un centinaio di anni e abbandonate, ancora inspiegabilmente, attorno al 1200 quando i Pueblos migrarono.

I siti più importanti sono quelli di Long House, Balcony House e Cliff Palace, che per essere visitati richiedono obbligatoriamente una visita guidata da un ranger e il pagamento di un biglietto ($3) aggiuntivo a quello di ingresso al parco. Dato il tempo a disposizione, scegliamo di escludere dalla visita Long House (fuori mano), di ammirare dall’alto Cliff Palace (è la più grande abitazione rupestre di Mesa Verde, ricorda un piccolo presepe nella grotta) e di partecipare al tour guidato di Balcony House. Questo tour, della durata di circa un’ora, comporta la salita di una scala a pioli alta 10 metri per l’accesso all’abitazione, quindi un breve percorso a carponi in un tunnel largo appena 46 cm e, per finire, un’ascensione di 20 metri su una parete rocciosa tramite due scale a pioli. Nel mezzo si susseguono le interessanti spiegazioni del ranger di turno (molti sono ancora i dubbi interpretativi su queste abitazioni) e le visite di alcuni ambienti tra le quali spicca la Kiva, un ambiente circolare ipogeo utilizzato per cerimonie religiose incentrate sul rapporto con la Madre Terra. E’ una visita che ha unito cultura, avventura (soprattutto per chi come me soffre di vertigini) e divertimento dal momento che uno di noi a stento passava, data la robusta corporatura, nel tunnel a carponi. Con grasse risate degli altri partecipanti. In serata raggiungiamo la gradevole cittadina di Durango che, a causa della sua vocazione turistica, ci regala strutture ricettive al completo e prezzi non proprio economici. Dopo lungo girovagare troviamo una suite al Best Western con due camere, salotto e bagno. Cena in una birreria frequentata da gente locale dove, insieme a fresche pinte di Jack Rubbit Ale e Old Oak, ci vengono serviti squisiti piatti di pasta. 17 Giugno 2009 Varchiamo nuovamente il confine del Colorado per percorrere un breve tratto del New Mexico, in prossimità del cosiddetto Four Corners, punto di incontro ad angolo retto di 4 stati (Arizona, Colorado, Utah e New Mexico). Il quadripunto, all’interno di una riserva indiana, è segnalato da un monumento e costituisce un’attrazione turistica a pagamento per i turisti che vogliono provare la sensazione di calpestare contemporaneamente 4 stati diversi. Entriamo quindi in Arizona e poi nello Utah, dirigendoci verso Mexican Hut, una curiosa roccia a forma di messicano con il sombrero nelle vicinanze della Monument Valley. L’approssimarsi alla Monument Valley attraverso la Highway 163 è qualcosa di semplicemente straordinario: un lunghissimo rettilineo in discesa che sembra condurre direttamente dentro la valle, lungo il quale anche Tom Hanks in versione Forrest Gump non può non arrestare la propria interminabile corsa attraverso tutta la nazione. La Monument Valley è una riserva indiana che non fa parte del circuito dei parchi dell’Annual Pass, interamente gestita dai Navajo con i quali è possibile dialogare ammirando o acquistando, a prezzi ragionevoli, i loro originali manufatti artistici, esposti sulle bancarelle disseminate all’interno della valle. E’ su una di queste che facciamo conoscenza con Kokopelli, la simpatica divinità adorata dalle tribù di Navajo rappresentata con un’accentuata curvatura della schiena nell’atto di suonare il flauto. Tra i numerosi poteri attribuitogli, spicca la facoltà di guarigione attraverso il suono del proprio strumento. Il desertico territorio sabbioso è interrotto da isolate butte e mesas, formazioni di roccia e sabbia dall’intenso colore rosso. La Valley Drive è una strada sterrata che si snoda per 17 miglia dal Visitor Center al Totem Pole, un complesso di guglie di roccia dall’esile aspetto. In mezzo 11 soste panoramiche e un paesaggio dal sapore western in cui non mancano gli incontri con arbusti secchi rotolanti e brevi tempeste di sabbia. Sebbene in alcuni punti la strada si presenti particolarmente dissestata, può essere percorsa tranquillamente con la propria autovettura. L’alternativa è usufruire del servizio di pulmini, condotti dai Navajo, ma ciò non consente di vivere in piena autonomia un luogo che va vissuto senza fretta.

Abbandoniamo l’Utah per addentrarci in Arizona con destinazione Page, la più recente comunità degli Stati Uniti sorta negli anni ’50 come base per gli operai impegnati nella costruzione dell’enorme diga sul fiume Colorado che ha dato vita allo splendido Lake Powell. Durante la ricerca di una sistemazione per la notte percorriamo la cosiddetta strada Church Row dove, una accanto all’altra, hanno sede 12 chiese di dottrine religiose diverse. Pernottiamo per due notti in un modesto motel in città. 18 Giugno 2009 Di buon’ora ci mettiamo in marcia in direzione Bryce Canyon, nell’Utah. Il Tom Tom decide, in autonomia, di regalarci un po’ di suspense e adrenalina facendoci deviare dalla strada statale in una tranquilla e poco trafficata strada secondaria che ad un tratto diventa…Sterrata! Decidiamo di percorrere ugualmente questo tragitto che, tra paesaggi bucolici, mucche distese sotto l’ombra degli alberi, 3 ruscelli guadati e 26 miglia percorse ci conduce al centro abitato di Cannonville. Alle 11 entriamo finalmente nel parco (calcolare circa 3 ore di viaggio da Page). Il tempo non ci assiste e una leggera quanto costante pioggerellina ci induce a non affrontare subito il percorso a piedi più suggestivo del parco (da Sunrise Point a Sunset Point) che ci lasciamo per ultimo in attesa di…Buone notizie dal cielo! Il Bryce Canyon è semplicemente affascinante: la natura, nelle vesti di un estroso architetto, ha tessuto in questo piccolo angolo d’America una fitta tela di slanciate conformazioni rocciose, gli hoodos, che dall’alto appaiono come una miriade di spaghetti eretti verso il cielo. Una giornata di sole è fondamentale per godere delle loro calde tonalità cromatiche (dal giallo al rosa all’arancione al rosso) e per affrontare il Navajo Loop, sentiero irto che conduce in mezzo agli hoodos da dove ammirare il paesaggio più suggestivo che, a detta di tutti i partecipanti, si ricordi dell’intero viaggio. Con grande dispiacere abbiamo rinunciato ad affrontare tale itinerario perché un violento temporale ha reso il sentiero impraticabile. Nonostante il fango e il terreno in pendenza assai scivoloso, le poche centinaia di metri percorse tra pareti di roccia rossa e scorci indimenticabili, hanno reso ancora più amara tale rinuncia. Appena fuori dal parco, si trova un piccolo villaggio turistico in stile far west dove è possibile fare acquisti e scattare simpatiche foto. Ottime sistemazioni per la notte nei pressi del Bryce si trovano a Kanab o Tropic, curate cittadine che ospitano deliziosi motel e lodge. Noi ci rimettiamo in viaggio verso Page, attraversando in auto il piccolo Red Canyon e facendo una breve sosta sul Lake Powell per ammirare dall’alto la Lone Rock, l’enorme roccia solitaria che emerge dal lago. Cena da Strombolli’s, pizzeria italiana molto frequentata che propone pizze super-condite.

19 Giugno 2009 Prima tappa di oggi è l’Horseshoe bend, al miglio 545 lungo la 89 Road in direzione sud. Dopo un breve sentiero di 0,6 miglia, si raggiunge un punto panoramico da cui ammirare da altezze vertiginose la spettacolare ansa sottostante del fiume Colorado. Rimboccata la 89 Road, questa volta in direzione nord, oltrepassato Page e superata la Glam Dam (diga), si incontra sulla destra la deviazione per la scenic view road, una breve strada sterrata che termina in un punto panoramico sul lake Powell. Alle ore 11.30 torniamo a Page dove, presso l’agenzia Antelope Canyon tours, abbiamo prenotato il tour del Canyon omonimo per $32 a testa. Tale Canyon non fa parte del circuito dei parchi nazionali (l’Annual Pass non vale), ma è gestito da alcune agenzie private di Navajo che organizzano quotidianamente escursioni guidate. Con enormi jeep siamo condotti all’entrata di questo stretto e breve Canyon, scoperto casualmente da una bambina che portava al pascolo delle pecore. Il Canyon si percorre a piedi per l’intera lunghezza, ammirandone le pareti interne levigate dagli agenti atmosferici che formano movimenti ondulati e cavità dall’intenso colore arancione. Il tour delle 11.30 è il più gettonato in quanto a quell’ora i raggi del sole penetrano perpendicolarmente all’interno del canyon, creando giochi di luce ed ombre indescrivibili. L’alta concentrazione di turisti comporta qualche difficoltà negli spostamenti soprattutto quando le guide lanciano, nei coni di luce che filtrano nel canyon, della sabbia rossa raccolta con delle pale sul fondo del canyon per creare effetti “magici” immortalati da decine di turisti-fotografi. Il tour dura circa 1 ora e 45 minuti.

Nel pomeriggio partenza verso il Grand Canyon National Park (south rim), attraverso il Painted Desert. E’ necessario scegliere anticipatamente quale versante (sud o nord) del Grand Canyon visitare perché la distanza tra i due è considerevole. Noi optiamo, come la maggioranza dei turisti, per la visita del South Rim. Entrati nel parco, sostiamo in due punti panoramici per ammirare uno dei paesaggi più conosciuti d’America poi, data l’ora tarda, tralasciamo il resto dell’esplorazione al giorno seguente. Pernottiamo a Tusayan, piccolo centro appena fuori dell’entrata sud-est del parco. Motel, ristoranti e qualche negozio rendono piacevole la sosta in questa località. Dopo aver pronunciato diversi “no grazie” alla richiesta di $110-170 per una camera, troviamo in fondo al paese il Seven Mile Lodge dove una simpatica vecchietta ci mette a disposizione due enormi king size room per $80 ognuna (incluse tasse). Ottima cena al Yipee.Ei-io!!, locale con arredamento in stile western e camerieri con cappelli da cow-boy. Il tutto accompagnato da una pastosa birra prodotta in loco, la Grand Canyon Rattlesnake Beer.

20 Giugno 2009 La giornata inizia con il piede sbagliato: colazione scarsa e costosa (3 colazioni a $30) al Cafè Tusayan e tempo nuvoloso con minaccia di pioggia. Non è certamente il tempo indicato per ammirare il Grand Canyon…E meno male che sulla guida c’è scritto che al Grand Canyon le precipitazioni atmosferiche sono una rarità…Ti pareva capitasse proprio a noi di imbattersi nell’eccezione che conferma la regola! Optiamo per posticipare al giorno seguente la visita al parco e ci mettiamo in marcia verso la Petrified Forest National Park, quasi al confine orientale con il New Mexico. 160 miglia e 2 ore e mezzo dopo ci troviamo proiettati in un paesaggio con vestigia del tardo Triassico: una moltitudine di alberi pietrificati, risalenti a circa 225 milioni di anni fa, riposa stanca per il peso degli anni adagiata su un dolce paesaggio collinare. Nella parte settentrionale del parco (che ha due entrate, una sud e una a nord) il paesaggio è dominato dal Painted desert, un susseguirsi di ondulate colline policrome. Tornati a Tusayan entriamo nel Grand Canyon per ammirare il tramonto da Napaje Point, nonostante alcune nuvole all’orizzonte. Lo spettacolo offerto dal tramonto all’interno del canyon è assolutamente imperdibile. Cena allo “Spaghetti western” dove, con curiosità ma anche tanto scetticismo, assaggiamo un calice di Wood bridge Chardonnay, un vino rosso californiano che si rivela di ottima qualità. 21 Giugno 2009 E’ finalmente il giorno dedicato al Grand Canyon. Alle 7.30 siamo dentro al parco e come prima tappa ci concentriamo sulla zona ovest dove il traffico alle auto è vietato (per evitare congestione di traffico e inquinamento) e l’unico mezzo alternativo a quattro ruote per spostarsi è un bus navetta gratuito che ferma in ogni punto panoramico. Percorriamo a piedi la prima parte del percorso, 4 km di sentiero pianeggiante lungo il rim, per poi usufruire della navetta per raggiungere gli altri punti panoramici. Per evitare lunghe attese alle fermate e bus sovraffollati, è preferibile esplorare questa area del parco la mattina presto.

La magnifica e sconfinata visuale offerta dai punti panoramici disseminati lungo la strada è, per lo più, la stessa lungo tutto il south rim. Il Grand Canyon non concede la varietà di paesaggio che si incontra in molti altri parchi nazionali e la quasi totalità di escursioni che offre può essere affrontata solo da persone esperte e adeguatamente attrezzate (è necessaria una registrazione prima di effettuare la discesa nel canyon). Dopo una pausa pranzo in un’area picnic e altre vedute del Grand Canyon, a metà pomeriggio ci mettiamo in viaggio in direzione Kingman, sulla strada per Las Vegas. Da Seligman a Kingman percorriamo la Route 66, la mitica “strada madre” che attraversava gli Stati Uniti da costa a costa e di cui ora rimangono solo brevi tratti. A Seligman ci fermiamo al Black cat, bar ritrovo degli harleysti, e in alcuni negozi bizzarri pieni di gadget ed oggetti celebrativi della Route 66. Uno di questi negozi si caratterizza per una serie di manichini sulla facciata e un’auto d’epoca davanti all’ingresso. Altra sosta obbligatoria è in località Hackberry, appena oltre la cittadina di Valentine, dove lungo la strada si incontra un negozio-museo interamente dedicato alla Route 66. All’esterno vecchi cartelli, pompe di benzina e un’auto di lusso richiamano l’attenzione dei turisti e curiosi in transito; all’interno souvenir di ogni genere si mescolano ad oggetti originali anni ‘50/’60 che “raccontano” la storia del luogo e della famosa strada. Accanto al negozio si trova una sorta di “cimitero” di auto d’epoca, ormai in stato di abbandono, circondate da rigogliose piante grasse.

Pernottamento a Kingman, presso un EconoLodge con piscina ($65) e cena al Jb’s Restaurants dove abbiamo gustato uno dei migliori pasti per qualità e prezzo. Da notare che la guida Lonely Planet descriveva Kingman come “una fatiscente vestigia del passato” con “motel malandati e cartelloni pubblicitari privi di gusto”. Tali affermazioni, per quanto abbiamo visto, sono del tutto prive di fondamento o per lo meno ancorate ad un tempo che fu. Le numerose strutture ricettive incontrate appartengono, per la maggior parte, a grosse catene alberghiere e hanno un aspetto tutt’altro che trasandato. 22 Giugno 2009 Imboccata la strada 93 in direzione nord, varchiamo il confine tra Arizona e Nevada nei pressi della Hoover Dam, l’imponente diga alta 217 metri che sbarra il corso del fiume Colorado per produrre energia elettrica per Las Vegas e per le altre città della zona. Giunti a Las Vegas impieghiamo del tempo per raggiungere in auto la strip e, in particolare, il Caesars Palace. L’imperioso albergo da noi scelto, che tenta di riprodurre i fasti dell’età classica con marmoree commistioni greco-romane e anacronismi in salsa americana (vedi la riproduzione del David di Michelangelo!), si colloca nella parte mediana del lungo viale (strip) dove si svolge la vita più sfrenata della città e sul quale si affacciano gli alberghi più lussuosi e pazzeschi di Las Vegas. Scegliamo, da un catalogo con foto mostratoci alla reception, una camera deluxe per $185. Per una notte vogliamo “esagerare” e concederci un po’ di lusso. Lasciata l’auto all’addetto del parcheggio gratuito sotterraneo annesso all’hotel (self-parking valet) ed esplorato il nostro albergo, ci lanciamo alla scoperta della Sin City d’America. L’attrazione principale di Las Vegas è rappresentata, oltre che dagli innumerevoli casinò, dai sensazionali alberghi che per le loro dimensioni e per la loro originale stravaganza architettonica non hanno paragoni nel mondo. Data tale complessità e ampiezza delle strutture, non sempre è facile orientarsi all’interno degli alberghi, molti dei quali sono collegati internamente uno all’altro attraverso lunghi corridoi e tapis-roulant. I casinò occupano sempre una posizione centrale in ogni albergo e sono pensati sia per soddisfare le esigenze dei giocatori più esperti che per catturare l’attenzione di chi non ha dimestichezza con il gioco d’azzardo. Pensierosi giocatori di poker seduti intorno ai tavoli, l’eterno girare delle roulettes, le pile di fiches cariche di angosciosi sogni di vittoria, impeccabili croupiers con i loro black jack, le nevrotiche luci intermittenti delle onnipresenti slot machines: ecco, signori e signore, lo scenario-tipo del grande circo di Las Vegas. Ad ogni ora del giorno e della notte vecchi e giovani, uomini e donne, abbienti e meno abbienti, con la sigaretta in bocca e il bicchiere in mano, tentano la fortuna nei mille casinò sparsi per la città. Inutile dire che i nostri miseri tentativi con la sorte, ed in particolare con le slot machines, sono andati miseramente a vuoto! Avvolti dai 40°C che soffocano la città, raggiungiamo il vicino Bellagio costeggiando l’immenso specchio d’acqua prospiciente spesso immortalato anche nelle pellicole cinematografiche. Quotidianamente il lago (ogni 30 minuti dalle ore 15 alle ore 19 e ogni 15 minuti dalle ore 19 alle ore 24) si anima con fontane che a tempo di musica creano giochi d’acqua sensazionali. Da pelle d’oca lo spettacolo al quale abbiamo assistito alle ore 18 quando le voci di Bocelli e Celine Dion hanno accompagnato le evoluzioni delle fontane. Suggestiva anche l’esibizione notturna quando le luci amplificano l’effetto creato dall’acqua. Da visitare anche l’interno del Bellagio con l’ampia hall con soffitto decorato da un vitreo tralcio floreale e la zona con piante e pappagalli che colpisce per i suoi effetti cromatici contrastanti.

Il New York New York propone all’esterno una riproduzione di alcuni monumenti simbolo della città omonima (quali la statua della libertà, il ponte di Brooklyn e l’Empire State Building) mentre l’interno proietta il turista nell’atmosfera delle vie cittadine. Montagne russe da brividi si sviluppano internamente ed esternamente all’albergo. Tappe successive sono lo pseudo-medievale Excalibur, tanto grazioso fuori quanto deludente dentro, il Luxor con la maestosa piramide di vetro nero che accoglie statue egizie e migliaia di camere e il Mandala Bay con la sorprendente eleganza dei suoi interni. Nell’MGM Grand, che con le sue oltre 5000 camere è l’albergo più grande del mondo, assistiamo ad uno spettacolo alquanto triste: una enorme teca di vetro nella hall, ribattezzata “lion habitat”, ospita un leone e una leonessa ai quali viene offerta della carne da alcuni inservienti per la gioia dei turisti accalcati nei pressi delle vetrate. Molto più suggestive le vie parigine del Paris-Las Vegas, con tanto di Opéra, torre Eiffel e arco di trionfo, e il giardino tropicale del Flamingo che tra piante, cascate e laghetti accoglie fenicotteri rosa e altre specie di volatili. Imperdibile lo spettacolo che ha luogo ogni ora e mezzo presso il Treasure Island (dalle 19 alle 24) con la rappresentazione di una battaglia navale tra pirati e formose sirene: gli effetti scenografici con tanto di fuochi d’artificio, tuffi e balli si amalgamano perfettamente con l’atmosfera festaiola di Las Vegas. Ad un deludente Tropicana si contrappone lo sfarzoso The Venetian che sbalordisce per la cura dei dettagli nella rappresentazione dell’ambiente veneziano. Con tanto di gondole e gondolieri in attesa di turisti nei canali. Sfiniti torniamo al Caesars e dopo una cena a buffet presso il Cafè Lago riusciamo nuovamente per vedere la strip by night: uno scintillio martellante di luci e una frenesia senza sosta. Las Vegas è una città spettacolo dove tutto è amplificato, a tratti eccessivo, che però merita una visita. Una incursione, seppur breve, nella città del gioco d’azzardo aiuta a spezzare la routine delle escursioni nei parchi. D’altronde se, come dicono alcuni, l’America non è questa si può obiettare che l’America è anche questa.

23 Giugno 2009 Breve girata mattutina per le vie di una Las Vegas ancora un po’ assonnata poi partenza per Beatty, minuscolo paese alle porte della Death Valley. Prendiamo due camere al Stagecoach Motel&Casinò ($62 a camera), il cui ristorante interno aperto 24 ore, il Rita’s Cafè, e una piscina con jacuzzi rendono il soggiorno piacevole. Desiderosi di visitare una città fantasma ci fermiamo a Rhyolite, sulla strada che da Beatty conduce alla Death Valley. Sorta agli inizi del ‘900, dopo due decenni di prosperità che videro la nascita di ben 50 saloon, la cittadina ebbe un rapido declino che l’ha condotta al totale stato di abbandono odierno. Tra i pochi edifici ancora in piedi, regna una grande desolazione interrotta solo da numerosi cartelli che segnalano il pericolo di serpenti. Varcando il confine con la California, entriamo nella Death Valley National Park e fin da subito capiamo quali ostilità ci aspettano. Il solito gabbiotto dentro al quale il ranger ci accoglie all’ingresso di ogni parco nazionale è qui sostituito da una biglietteria automatica. In questo punto la strada si biforca e un cartello toponomastico dà il benvenuto in quest’area infernale: Devil’s gate. Una distesa di sale a perdita d’occhio luccica all’orizzonte, antico ricordo del lago che copriva il fondo della valle prosciugatosi milioni di anni fa. Costeggiando dorate dune di sabbia (Sand Dunes), percorriamo la strada che conduce a Stovepipe Wells, mentre un vento caldo ci investe e la temperatura sfiora i 107°F (41,5°C). A Stovepipe c’è un piccolo ristoro dove ci dissetiamo scambiando due chiacchiere con dei ragazzi italiani incontrati sul posto. Non dimenticatevi mai di portare con voi nella valle acqua in abbondanza; sono consigliati 4 litri al giorno per persona. Tornati al motel ci rilassiamo con un rigenerante bagno in piscina.

24 Giugno 2009 Cappello in testa, crema solare e acqua fresca a portata di mano affrontiamo nuovamente la valle della morte. Sosta all’Harmony Borax works, raffineria in disuso di borato di sodio estratto a fine ‘800 nella valle da manovalanza cinese; quindi ci spostiamo allo splendido Zabriskie Point dove il terreno “rugoso” con sfumature gialle, beige e marroni per la presenza di calanchi composti da sedimenti di origine lacustre, ricorda tanto un’immensa torta-gelato. Presso Dante’s view si ammira dall’alto la sconfinata distesa salata sottostante, per poi discendere attraverso una strada ripida e a tratti tortuosa fino al fondovalle dove, a Badwater, si trova il punto più basso degli Stati Uniti continentali (86 metri sotto il livello del mare). Percorriamo l’Artists Drive che ha il suo punto più spettacolare nell’Artist Palette, una tavolozza di colori spalmati su dolci rilievi collinari frutto di lapilli e ceneri depositatesi a seguito di un’antica attività vulcanica. Tappa successiva è Furnace Creek che con il suo palmeto e i suoi punti ristoro ci appare come una vera e propria oasi nel deserto. Ci rifocilliamo a volontà nel buffet vicino all’ingresso, dove apprezziamo la formula che offre ad un prezzo forfetario ($17) cibo e soft drinks senza limiti. Dei nebulizzatori d’acqua all’esterno del locale ci forniscono il refrigerio necessario per affrontare il lungo tragitto in auto che ci separa dall’uscita del parco. La temperatura raggiunge i 120°F (49°C!), l’afa è soffocante ma i numerosi saliscendi della strada sconsigliano comunque l’uso dell’aria condizionata. Estenuati giungiamo ormai a sera a Palmdale, a circa 90 miglia da Los Angeles, dove prenotiamo due camere per due notti all’EZ-8 Motel ad un prezzo davvero conveniente. Cena al Camille’s, ristorante prospiciente al motel, al cui interno una connessione internet wi-fi ci consente di aggiornarci su quanto avviene in Italia. 25 Giugno 2009 Los Angeles eccoci! Con questo motto ci immettiamo sull’autostrada in direzione della metropoli californiana. Quando ormai ci apprestiamo ad entrare in città, inghiottiti dal traffico che intasa (a qualunque ora del giorno!) le 6 corsie del tratto autostradale, si accende una spia sul cruscotto della nostra auto che ci costringe ad imboccare la prima uscita. La fortuna ci assiste e, in prossimità dell’uscita, troviamo un benzinaio con assistenza meccanica: la spia segnala semplicemente la necessità di fare il tagliando periodico all’auto, quindi tiriamo un sospiro di sollievo e ci rimettiamo in marcia. Lentamente percorriamo le vie di Beverly Hills dove sontuose ville con giardini perfettamente curati fanno bella mostra di sé lungo tranquilli viali alberati. Sosta a Rodeo Drive, la via delle boutique d’alta moda e del lusso, quindi ci trasferiamo ad Hollywood per una camminata lungo il boulevard omonimo. Lasciare l’auto in zona in un parcheggio a pagamento può riservare amare sorprese: se la sosta è breve (20-30 minuti) il prezzo è contenuto, oltre tale soglia scatta una tariffa forfetaria carissima (nel nostro caso $17!) a prescindere dalle ore di sosta. Osservando tizi strampalati vestiti da celebrità (Merylin Monroe, Charlie Chaplin, Gene Simmons), da personaggi cinematografici (Jack Sparrow, Jason) o da supereroi (Uomo Ragno, Batman) in attesa di scatti fotografici, “calpestiamo” la Walk of Fame prestando attenzione ai nomi che finiscono inevitabilmente sotto le nostre suole. Nello spazio antistante al teatro cinese facciamo l’incontro con le impronte di mani e piedi di decine di artisti, parte delle quali è però coperta da alcune strutture e attrezzature in allestimento per un evento serale. Una enorme galleria commerciale cattura un po’ del nostro tempo prima di trasferirsi a Santa Monica, nella zona di Venice. Pranzo a base dei tipici Coconut Shrimps (gamberi fritti cosparsi di scaglie di cocco, accompagnati da una salsa di ananas) digeriti grazie ad una passeggiata lungo la spiaggia, una location spesso immortalata nei telefilm americani: palme, torrette dei bagnini, ciclisti, skateboarders e surfisti in riposo con le loro tavole.

Attraverso il complesso sistema autostradale di Los Angeles e dopo nuove code ci spostiamo a Downtown. Il centro città, suddiviso in enormi quartieri, è troppo vasto per essere girato a piedi; noi decidiamo di fare quattro passi nella zona del Civic Center che non ci ha affatto esaltato. Los Angeles la ricorderemo soprattutto per le dimensioni e per…Il traffico! Ma nonostante questo non ci pentiamo affatto di averci trascorso una giornata, in particolare per la curiosità di vedere “dal vivo” alcune delle località più chiacchierate ed immortalate sui media di tutto il mondo. 26 Giugno 2009 Un ottimo caffè moka e una fetta di cheesecake ci danno la carica per affrontare la Sequoia National Forest. Entriamo da sud attraverso la strada 198 che inizialmente sale rapidamente per poi addentrarsi nella foresta di sequoie. Attraversato in auto il Tunnel Log, una “galleria naturale” formata dal tronco caduto di una sequoia, scattiamo un po’ di foto ad Auto Log, una sequoia caduta nel lontano 1917, le cui mastodontiche radici (6,5 metri di diametro) svettano lungo la strada. L’attrazione principale del parco è The General Sherman Tree. Questa meraviglia della natura, protetta da un recinto ligneo dalle insidie dell’uomo, da 2200 anni prospera incrementando di anno in anno le proprie dimensioni da guinness dei primati: un peso stimato in 1256 tonnellate e un volume di 1487 m3. L’imponente tronco rossastro, che alla base ha una circonferenza di 31 metri, sostiene rami così imponenti che con il loro diametro potrebbero comodamente ospitare un letto matrimoniale. Infinitamente piccoli al cospetto del General Sherman e delle altre sequoie circostanti, ci godiamo l’atmosfera di serenità che si respira camminando tra questi giganti. Nella parte settentrionale la Sequoia NF si fonde con il Kings Canyon (formano un unico parco naturale) al cui interno è visibile il General Grant Tree, un’altra sequoia dalle dimensioni davvero ragguardevoli. Nei pressi del General Grant è possibile percorrere il tronco di una sequoia caduta, in tutta la sua lunghezza, camminando comodamente in posizione eretta al suo interno. La scelta del luogo per pernottare ricade sulla cittadina di Oakhurst, appena fuori del parco. E’ venerdì sera, i motel sono pieni a causa dei numerosi villeggianti che nel week-end si spostano dalle città nel parco ed i prezzi tutt’altro che economici. Dopo numerosi tentativi andati a vuoto, quando ormai sono passate le 21, accettiamo la proposta del Best Western che per $219 ci offre una “house”. Si tratta di una vera e propria casa indipendente, con giardino sul davanti, composta da cucina, salotto, due bagni, 3 camere da letto e veranda sul retro. 27 Giugno 2009 In programma è ormai rimasto un ultimo parco da visitare: lo Yosemite National Park. L’esplorazione di questo parco, che richiama migliaia di turisti per le bellezze naturali che nasconde al suo interno, ha inizio con il Glacier Point da dove si ha una vista mozzafiato sulla valle sottostante e sulle montagne circostanti. La lunga strada che conduce al Glacier costeggia paesaggi seducenti come quella da noi definita la “piccola valle incantata”, in cui il pungente odore degli abeti, un prato verde smeraldo costellato da piccoli fiori viola e un timido laghetto si fondono in un unico armonioso insieme.

Addentratisi nella Yosemite Valley facciamo l’escursione alla cascata Bridalveil Fall, quindi è ora di pranzare: allestiamo il nostro picnic lungo le rive del fiume Merced, in un placido paesaggio da cui non si vorrebbe mai andarsene. Al termine del pranzo, una simpatica e numerosa famigliola americana si avvicina per offrirci un quarto del loro cocomero. Sorpresi accettiamo, dopo una iniziale titubanza, e gustiamo le rinfrescanti fette di anguria. Ci voleva proprio! Il viaggio prosegue in direzione della Lower Yosemite Fall poi abbandoniamo il parco attraverso l’uscita occidentale, tralasciando la zona del Tioga Pass.

Un modesto Inn a Manteca, sulla strada verso San Francisco, ci dà alloggio per la notte. Cena da Applebee’s, frequentato locale cittadino nel quale è possibile gustare abbondanti piatti tipici a base di carne ai ferri e gamberi (steak&shrimps).

28 Giugno 2009 Giornata di avvicinamento a San Francisco in previsione della partenza per l’Italia. Dando un’occhiata sulla carta geografica individuiamo nella località costiera di Pacifica una buona meta per trascorrere in tranquillità l’ultimo giorno di vacanza. Ma durante il tragitto verso Pacifica ecco l’imprevisto: attraversando il ponte Treasure Island ci appare in tutto il suo splendore la skyline di San Francisco, una città che ci è rimasta nel cuore. Senza titubanze, il programma stabilito viene stravolto ed in un attimo siamo già sulla rampa della prima uscita verso la città. Ci troviamo a Soma, nel cuore della città, e ci fermiamo al Vagabond Inn, sulla 9th street, con parcheggio interno e camere confortevoli ($90 a notte). Il Civic Center è a due passi e la voglia di visitarlo non manca; ma la zona del South Market non è delle migliori, loschi individui si aggirano per le strade, il Civic Center è invaso da una folla incredibile che festeggia la giornata conclusiva del gay pride e le strade sono paralizzate dal traffico. Desistiamo dall’intento e ci trasferiamo sulla Great Highway, la strada che corre lungo la costa a sud del Golden Gate Park. Ci concediamo un rilassante pranzo al Beach Chalet Park, ristorante di qualità con ampia vista sull’oceano. L’attesa di 30 minuti per ottenere un tavolo libero è ampiamente ripagata da squisiti piatti di pasta e da uno scenografico dolce di cioccolata. Il vento freddo che proviene dall’oceano prende il sopravvento sul caldo sole estivo, quindi abbandoniamo la spiaggia per una passeggiata all’interno del Golden Gate Park. L’enorme polmone verde della città colpisce per l’accuratezza e la pulizia nonostante sia un luogo molto frequentato, soprattutto nei week-end, dai chi è in cerca di un luogo tranquillo dove leggere o consumare un picnic. Costeggiamo la riva dello Stowe lake tra anatre, tartarughe acquatiche e simpatiche talpe che fanno capolino dalle loro tane. Dopo la visita al giardino botanico e una passeggiata nei pressi dell’Accademia delle Scienze, riprendiamo l’auto per dirigerci ad Alamo Square, l’elegante piazza con i palazzi vittoriani che creano un netto contrasto con i moderni grattacieli che si stagliano sullo sfondo. All’imbrunire immancabile passeggiata a Fisherman’s Warf con annesso shopping e sosta a Bourdin, una panetteria bistrot i cui fornai lavorano “in vetrina” creando vere e proprie opere d’arte di panetteria. Scarsamente illuminato si rivela il Golden Gate in versione notturna. 29 Giugno 2009 Siamo alla fine della vacanza e, riconsegnata l’auto all’aeroporto, ci attende solamente un lungo viaggio di ritorno (arrivo in Italia il 30 Giugno alle ore 16.00 circa). SUGGERIMENTI…STRADALI In molti incroci regolati da semafori la svolta a destra, se non diversamente indicato dalla segnaletica stradale, è consentita anche con il rosso dando la precedenza alle auto in transito. In caso di parcheggio in strade in pendenza (sia in salita che discesa) è necessario lasciare le ruote dell’auto girate verso il marciapiede, pena una multa salata in caso di controllo degli organi di polizia. Prestate attenzione ai limiti di velocità, che variano dalle 25 alle 75 miglia orarie a seconda dei tratti stradali, in quanto i controlli sulle strade sono frequenti anche nelle zone che sembrano apparentemente sperdute. La velocità è controllata, oltre che dai laser in dotazione alle pattuglie stradali, anche da radar ed aeroplani. Non rispettare la distanza di sicurezza è interpretata come una volontà di sorpassare. Se non c’è questa intenzione è preferibile mantenersi ad una distanza adeguata dall’auto che precede. Sulle strade statunitensi è severamente proibito abbagliare per chiedere strada, tipica usanza diffusa in Italia. In caso di violazione le multe sono salate; sarebbe auspicabile che ciò avvenisse anche da noi. IL VIAGGIO IN SINTESI Sintetizzando in numeri questo viaggio possiamo contare 22 giorni di durata totale, 9 stati attraversati, 10 parchi nazionali esplorati, 2 riserve Indiane visitate, 14 pernottamenti in motel/alberghi differenti, 159 galloni (pari a 602,61 litri) di benzina consumati, 5311 miglia percorse corrispondenti a 8497 km. Ma se questi numeri danno solo una vaga idea dell’ampiezza del nostro tour e, perché no, della fatica che esso implica, non suggeriscono neanche minimamente le forti sensazioni emotive che tale viaggio riesce a suscitare. I cambiamenti di paesaggio, clima e temperature, il crogiolo etnico e culturale, la dimensione “big” di ogni cosa, la vastità a perdita d’occhio e l’idea di infinito, il forte senso di appartenenza alla nazione, la convivenza di bellezze naturali e creazioni del genio umano, la quiete e la follia, l’organizzazione meticolosa di ogni realtà piccola o grande, i modesti motel o i resort di lusso, la contiguità tra gioco d’azzardo e pura devozione religiosa: tutto contribuisce a rendere gli Stati Uniti un paese dalle infinite sfaccettature che, difficilmente, possono essere tratteggiate dai segni di una scrittura.

I mille colori della terra, i trucks in continuo movimento, le strade che sembrano non finire mai, San Francisco con la sua la baia spazzata dalla brezza e le sue 43 dolci colline, i panini al granchio e gli hamburger con le salse, i mormoni e le slot machines, le onnipresenti stars and stripes, l’ombra delle sequoie secolari e l’inospitale deserto, la solitudine dei paesi fantasma e il caos delle strade di Los Angeles, il silenzio di Canyonlands e il delirio di Las Vegas sono esperienze che devono essere vissute in prima persona. E vi sentirete spesso ripetere…Have a nice stay!



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