Poesia andalusa, Cordoba e Siviglia

"Escondida en su concha vive la perla y al fondo de los mares bajan por ella… No olvides nunca que lo que mucho vale mucho se busca." (nascosta nella sua conchiglia vive la perla e fino sul fondo del mare si tuffano per lei… non dimenticare mai che ciò che vale molto per molto tempo lo si cerca) È il testo di un flamenco e parla...
Scritto da: eloisa_v
poesia andalusa, cordoba e siviglia
Partenza il: 07/06/2007
Ritorno il: 10/06/2007
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
“Escondida en su concha vive la perla y al fondo de los mares bajan por ella… No olvides nunca que lo que mucho vale mucho se busca.” (nascosta nella sua conchiglia vive la perla e fino sul fondo del mare si tuffano per lei… non dimenticare mai che ciò che vale molto per molto tempo lo si cerca) È il testo di un flamenco e parla di mare, di gioie e di cose preziose, di ricerca, di luce, di fatica.

L’Andalusia è flamenco, anche se a primo acchito parrebbe una enorme banalità; parrebbe riduttivo. E invece la parola flamenco, ora che l’ho sfiorata, per me significa ottomani, gitani, spagnoli, calore, sudore, fatica, mondi sconosciuti, luci, fiori, patii, chitarre, bar, caldo.

Molto caldo.

Mentre passeggio per le viuzze di Cordoba, immersa nel bianco della calce e dell’acciottolato, penso al caldo che fa. Siamo ad inizio giugno, a casa mia piove. Le case di Cordoba sono piene di suoni: gente che canta, canarini a cui scoppia il petto e che saltellando continuano a cantare in piccole gabbie posate sui davanzali ornate di azulejos, piastrelle colorate che qui ornano tutto; poi c’è il suono dell’acqua, miraggio nel caldo, che zampilla nelle fontane onnipresenti in ogni patio andaluso che si rispetti; attorno alle fontane par di sentire respirare le piante.

Le bungawilee sono enormi, spuntano dai muri all’improvviso con quel loro colore viola vivido e si tuffano dentro a vie e patii giocando con il bianco delle pareti, quasi a schernirlo della sua banalità.

Quanta musica.

C’e una radio; un canarino risponde, una chitarra fa eco ad entrambi. E poi, solo il rumore di una Fontana ed il silenzio della via laterale che decido di imboccare.

A Cordoba non ti perdi; è semplice: le vie accaldate sono quelle che tagliano il centro da sud a nord, dal fiume e dalla Mezquita su fino ai giardini Colòn; non vi è traccia di ombra da sud a nord. Le vie ombreggiate sono quelle che portano da est a ovest, dalle mura cittadine alla Plaza della Corredera. Naturalmente camminando conviene risalire da sud a nord come un serpente, strisciando nell’ombra delle calles che percorrono i quartieri vecchi da est a ovest, sfuggendo al picchiare del sole impietoso delle vie dirette.

In fondo le vie dirette non sono mai state le mie favorite. Preferisco arrivare piano piano alle cose, passando da vie laterali.

Sono ore che passeggio tra le vie, calando piano verso sud, avvicinandomi al fiume. Mi fermo spesso con la scusa di mangiare un boccone (sono partita da casa alle due di mattina ed ora sono le 12.00, la fame non è un’opinione), di provarmi una maglietta, di chiacchierare con un negoziante o un barista della qualità del jamón o ancora di bermi una birra. Ma il centro cittadino ed il suo quartiere ebraico non sono molto grandi. So che presto arriverò al fiume; presto la vedrò apparire con le sue mura decorate, gialle, mostruose e possenti come muscoli di dinosauro. La Mezquita è là dietro. Da anni la sogno, la accarezzo con il pensiero. Mi hanno raccontato di 1013 colonne visigote che giocano a trasformarsi in tronchi d’albero e che archi gialli e rossi creano un effetto di luci e forme ipnotiche. Voglio gustarmi l’approccio, mi voglio nascondere, annusare l’aria, sentire la sua presenza prima di vederla. L’aumentare delle baracchine di venditori di scarpe da flamenco a pois, ventagli, monili, borse in cuoio mi fa capire che mi ci sto pericolosamente avvicinando. Cadrò tra le sue fauci all’improvviso. Mi preparo… sbircio dietro l’angolo… Eccola.

L’entrata principale mi attende, mi invita. Resisto. Le vie dirette non sono sempre le migliori. Non oggi. Penso a mio padre e mi commuovo un poco. A lui piaceva tanto l’idea di archi e ritmi di luci ed ombre che regolano questo capolavoro di architettura. Ne parlavamo ogni tanto. Almeno, lui me ne parlava. Una delle ultime volte che mi ha raccontato della Mezquita è stato leggendomi un testo che aveva scritto sotto ad un sole greco, mentre le palme ed il vento gli scuotevano le idee nella testa. Ora quel testo, assieme ad alcuni altri è qui con me. Il mio babbo invece se l’è portato via il vento. Ho bisogno di parlargli perché mi manca; venire qui è una maniera come un’altra per parlare con lui. So che è qui, Stonehenge è troppo lontana e fa ancora freddo lassù. Amava Stonehenge ma non amava il freddo, il babbo. Gli piacevano le camicie di lino leggere e le maglie a righe come i marinai; i sandali ed i pantaloni larghi che si divertiva a tirare su fin sopra la pancia per farci ridere quando eravamo piccole.

Sono sicura che è qui.

Prendo la via laterale che scende sulla destra delle mura. Le porte sono color dell’oro e sono piene di borchie regolari che fanno ballare la luce dorata su tutta la porta. Poi mano a mano che la strada scende, lo zoccolo si alza, e con un gioco di scale ballerine impone la potenza di un’orizzontale contro il cielo. Pare che all’entrata dell’Alhambra a Granada ci sia una scritta che dica “Nessun altro conquistatore all’infuori di Dio”. Mi sembra una frase appropriata anche per la Mezquita. Eppure un conquistatore ci ha provato: la cattedrale barocca spunta da sopra il muro di cinta come una torta di crema in un campo di fiori in un giorno caldissimo.

Fa sempre più caldo. Mi arrendo, ma solo in parte: entro nel cortile, il patio degli aranci. Non credere Mezquita, non cederò oggi ai tuoi veli. Non così in fretta.

Sono sorpresa dal delicato gioco di geometrie, di livelli che si alzano ed abbassano con un ritmo vitale: quello dell’acqua e del sistema d’irrigazione del gran numero di aranci che spuntano dall’acciottolato. Il sistema di canali, quasi fossero le vene di un corpo umano, si snoda regolarmente da un arancio all’altro, portando la vita.

Il patio non è regolato da un unico asse di simmetria. Questo fatto lo rende un patio verticale per eccellenza. È diviso in tre parti. Il tre, l’uno, il cielo. L’armonia.

Un matrimonio. Le signore, civettuole quanto basta e truccate troppo corrono sui tacchi con eleganza mentre i tacchi litigano con passione tra i ciottoli subdoli e lisci dall’usura di mille scarpe fedeli. Le risa si fondono con le spiegazioni di una guida francese. Gli aranci sono da addebitare alla regina, e non al califfo ottomano. Lui amava le palme, ma ne aveva piantate solo tre. Ci deve essere un motivo del perché le moschee non hanno mai riempito i loro patii scintillanti. Sarà per dare importanza alla fontana per le abluzioni al centro? Sarà per ricordare che siamo osservati e che non ci sono luoghi dove nascondersi alla propria coscienza in un luogo sacro? O sarà come diceva papà: “è là, nella corte della moschea, che possiamo contemplare la bellezza del cielo, preparando gli occhi alla luce tenue dell’interno” ? E chissà. La prossima volta che incontro un arabo glielo chiedo.

“È magia; un gioco tra l’occhio che crede vedere e il cervello che crede capire. (…) Questo inno al cielo si arricchisce di un virtuosismo che fa pensare a Bach, all’arte della fuga.” Leggo le parole di papà appoggiata ad una colonna e mi gusto la magia. Sopra di me le 800 colonne rimaste intatte mi parlano di lui ma anche di Bach, ed infine delle differenze di visione del mondo tra i cattolici e gli islamici; mi parlano delle luci e delle ombre costruite da intelligenze grandi e fortunate. Mi accuccio per terra, per gustarmi il contatto con il suolo ed alzare la testa tra gli alberi di pietra gialli e rossi. Un poliziotto dalla voce troppo acuta e troppo alta gracchia e mi invita nemmeno troppo gentilmente a sedermi su di un banco barocco. Avrei voluto fargli notare che sono stati i viziati come lui ad introdurre le sedie nelle chiese, ma ne faccio a meno e me ne vado su di uno scomodo legno barocco.

Torno a guardare il cielo. Sono sicura. La moschea originale doveva essere buia. Le lampade a soffitto illuminavano colonne ed archi ma non il soffitto. La luce era concentrata nei due luoghi di preghiera: gli unici luoghi dove il soffitto fosse in pietra decorata di stucchi. Il resto doveva essere formato da semplici tavolati in legno. Un soffitto nero e 1013 alberi che invitano a perdersi, a crescere in quella foresta di poesia e di bellezza. Doveva per forza essere così.

“Tutte le religioni indicano una via, guarda meglio” mi dice il mio “zio” Roberto attraverso un sms in risposta al mio messaggio che gli comunicava la mia sorpresa ad osservare quanto l’islam invece di arricchirsi di assi di simmetria orizzontali come l’occidente, privilegiasse l’asse verticale, il contatto cielo-terra. Certo che la direzione orizzontale c’è, ma è molto più discreta, gli rispondo io. La differenza è stupefacente passando davanti alla cattedrale barocca, dentro la quale perdersi non è ammesso. Lo sguardo è accompagnato all’altare, e non è possibile camminare o guardare in maniera libera.

Le due culture qui fanno scintille. Pare di assistere ad un combattimento tra luci e concetti opposti. Uno costruisce, l’altro “corregge” , quindi distrugge. Il risultato è un ballo frenetico.

Come per magia però poesia del bosco di pietra coronato da doppi archi ballerini vince su tutto. Resiste. Con la fierezza dello sguardo di una tigre e con il cipiglio di due baffi che non ammettono repliche.

Mi accorgo ora che vi sono due modi di percorrere questi spazi come vi sono due modi di percorrere la città di Cordoba: le vie dirette e sicure per chi vuole la sicurezza e le vie magiche dove è lecito perdersi, quelle diagonali, nell’ombra, dove gli archi si rivelano per quello che sono: rami di pietra che sostengono il cielo.

Ma siccome nei viaggi non vi è solo la fame intellettuale ritorno a vagare per la città alla ricerca di un luogo dove comperare del prosciutto. Ma mica uno qualunque: sto cercando il jabugo, o il bellota, insomma il pata negra. Amo questi maiali nutriti a castagne o ghiande e coccolati perché diano alla luce cosce così buone da fare andare in visibilio ogni papilla del mio palato.

Una signora ha dei pacchi. Paiono sporte da mercato. È uscita da quella via.

Un’altra. Sorride sotto al peso delle sporte. Ricambio il “buenos dias” e attraverso la porta da dove lei è appena uscita… meraviglia. Sono piombata in un mercato coperto. Il mercato di pesce fresco, insaccati, formaggi, frutta, verdura, olive e pane della Plaza de la Corredera. Mi piace molto guardare i pesci. Da un Baccalà il mio sguardo scorre sul nome dei signori che hanno il banco vicino “Hermanos Soriano”. Dietro la cornice di legno un gatto mi osserva: il signor Soriano. Di felino non ha solo il nome ed i baffi. A dire il vero i prosciutti paiono il suo regno. Vedo il simbolo delle tre ghiande e un cartello che dice “se envasa en vacìo”. Sotto vuoto? È il mio uomo. D’altronde i felini non mi hanno mai tradito.

Chiacchierando con il signor Soriano, che indaga sulla mia provenienza ed il mio strano accento, lo osservo. Ha impugnato con maestria un coltello lungo e fine con cui accarezza la coscia di maiale grassa al punto giunto, rosso scura, ricavandone fette meravigliosamente perfette.

Una parte me la dovrà affettare a macchina poiché è arrivato all’osso. Mi va bene: due tagli, due sapori. Sorride mentre mette via l’osso. Se io fossi il gatto che è lui, scommetto che stasera quell’osso di jamón me lo spolperei con calma soriana.

Indovinando la mia golosità (per altro non molto nascosta) si illumina e mi schizza una piantina della città. Il suo amico Don Manolo gestisce una taverna poco lontano. Però dica che la mando io eh, cerchi Don Manolo! Lo saluto e lo ringrazio. Che bell’incontro.

La taverna è molto bella. Si chiama Salinas. Don Manolo mi serve un piatto che credo ricorderò per molto tempo: arance a dadi cosparse di baccalà crudo affumicato o marinato, cipolle crude a fettine e olio d’oliva. Un sogno.

Il treno passa tra gli aranceti, i campi di patate piene di lavoratori piegati in due impegnati nella raccolta, camion con tele svolazzanti, girasoli, castelli e fortezze che spuntano da colline imbiancate da casette ardenti. Un giorno prenderò un’auto in affitto e percorrerò l’Andalusia con calma.

Siviglia mi ha accolto con sospetto. A momenti si apre, a momenti mi rifiuta. Le città sono capricciose, non avete mai avuto questa impressione? Io si. “A volte si sono scontrose, o semplicemente han voglia di far la pipì”, come canta Conte. Bisogna abbassare la cresta, seguire i loro capricci e allora se gli va, si lasciano scoprire, ricambiano uno sguardo. Nel mio unico giorno a Siviglia ho avuto a che fare con una città che mi teneva il broncio, quasi fosse offesa che avessi dedicato due intere giornate a Cordoba ed una sola a lei, la gitana madre della Carmen di Bizet. Carattere difficile.

Le ho promesso di tornare. Alla fine mi ha inzuppato con un temporale violento. Soddisfatta nel vedermi fracida si è calmata, ha lasciato uscire la luna e mi ha permesso di assistere ad uno spettacolo di flamenco illuminato dalla luce gitana e bianca della falce.

Il mio viaggio ha avuto inizio con un libro sul flamenco che mi ha accompagnato per due interi giorni e, chiuso il libro, si è concluso con un ballo ed un canto.

La danza e la musica riassumevano perfettamente le sensazioni e le emozioni di questi tre giorni: gli echi di battiti di mani, il tacatacatacata dei tacchi, le corde di una chitarra, il sudore e la fatica nella ricerca di un ritmo, di una architettura, della voce di mio padre, di una poesia, del duende.

Consigli ed indirizzi: Volo: Ryanair bergamo orio al serio – Siviglia. 115.- Euro Bus aeroporto – Stazione Santa Justa, 2 Euro, 10 minuti Treno alta velocità Siviglia – Cordoba 13,85 Euro, 45 minuti Treno espresso Cordoba – Siviglia, 7.85 Euro, 1 ora e mezza Notti: Cordoba: Hostal Luis de Gongola, Horno de la Trinidad 7 hospedaheriagongora@hotmail.Com, 30 Euro la singola con bagno privato. Pulito, tranquillo, centrale, ragazze giovani e gentilissime alla reception. Un buon indirizzo. Mi è parso molto carino da fuori pure il “hostal andalusì”, in pieno quartiere ebraico.

Siviglia: Hostal Zahira, Calle San Eloy 43 42 Euro la singola con bagno. Abbastanza pulito, tranquillo, ma un po’ lasciato andare. Non un cattivo indirizzo. Centralissimo.

Pasti Naturalmente in Spagna, regina è la tapa. Ho incontrato diversi posticini e taverne, ecco i nomi di quelle che mi son piaciute di più: Cordoba: Taverna Salinas, Tundidores 3 (piccola stradine vicino alla Plaza de la Corredera), www.Tabernasalinas.Com La strafamosa Casa Pepe de la juderia, Calle Romero 1, molto vicino alla Mezquita. Camerieri calorosi e festanti. Melanzane fritte con melassa sono la specialità. Curiosa esperienza ma fritto un po’ pesante. Ottime le croquetas.

Mi è parsa bella anche la Taverna Góngora, San Zoila, dietro Plaza Capuchinas e San Miguel. Purtroppo quando ci sono passata davanti ero più che sazia, ma l’interno era uno di quelli giusti ed era zeppo di gente del luogo. Sempre un ottimo segno.

Siviglia: Taverna Se villana El Patio, Calle San Eloy. Enorme scelta di ottime tapas e grande quantità di bocadillos (panini).

La Antigua bodeguita, Plaza del Salvador 6. Due budelli piccoli ed angusti in una casa medioevale che traboccano di prosciutti e camerieri indaffaratissimi che non smettono di correre. Qui si sta in piedi, se ci riesci visto che attorno alle due del pomeriggio tutta la città sembra riversarsi qui. Bellissimo ambiente.

Confiterìa La Campana, Calle Campano 1, all’angolo con Sierpes e Martin Villa. Bel locale tutto specchi e stucchi. Vale la visita ma i pasticcini beh non mi hanno entusiasmato.

Bello l’ambiente in Mesón del Moro, vicino alla Casa de la Memoria (vedi Flamenco qui sotto). Stradina stretta piena di bar a tapas e tavolini all’aperto.

Attività: Teterias maroquinas. Ce ne sono varie. A Cordoba e a Siviglia ci sono hammam (banios arabes) ancora perfettamente funzionanti. Io non lo sapevo, ma avessi avuto il costume da bagno con me non mi sarei privata di un bagno termale con massaggio di aromaterapia nelle ore più calde della giornata. Sono locali bellissimi. A Cordoba c’è un bagno molto bello vicino alla Mezquita ed uno in Calle Carlos Rubio, a Siviglia in Calle Aire, dove trovate anche una teteria per un buon the marocchino di yerba buona, una sorta di menta-melissa.

La visita della Mezquita costa 7.50 Euro. Non so se sia ancora valevole l’entrata gratuita la domenica per la messa. Io ho preferito visitarla la sera e rimanere fino all’ora di chiusura sperando in un minuto di silenzio che non c’è stato.

La cattedrale di Siviglia non vale molto in fatto di qualità architettonica e il suo biglietto di entrata è straordinariamente caro per quello che offre: 7.50 Euro per vedere una brutta portantina che si suppone contenga i resti di Colombo e del figlio e per salire sulla torre. Deludente.

Flamenco: Ho seguito un consiglio trovato su di un itinerario pubblicato, ed ho scelto di rivolgermi alla Casa de la Memoria, Calle Ximenez Inciso 28, tel 954560670, memoria@terra.Es. Un bel patio Andaluso e tre musicisti. Flamenco tradizionale senza fronzoli e nacchere, bella acustica, bel posto, bella esperienza.

Ho trovato per un colpo di fortuna un posto allo spettacolo delle 22.30. Cercate di prenotare il giorno prima se potete e premunitevi di arrivare davanti alla porta presto, verso le 22-22.15, o vi troverete in fondo alla fila. Il che significa entrare per ultimi e doversi accontentare delle sedie nelle ultime file. Non ci sta molta gente nel patio, ma non potere guardare i piedi della ballerina è un peccato.

Costo dello spettacolo, 13 Euro.



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