Luce, stelle, architettura e contraddizioni

21-03-1994 “Voie 7. Train en provénence de Vevey pour Morges, Nyon, Genève. Départ heures 9.46, voitures de première classe, secteur A, voitures de deuxième classe secteur B et C, voiture restaurant, secteur B”. E’ una fredda mattina di Marzo a Losanna, la mia città universitaria. Ad aspettare il treno siamo in una manciata di...
Scritto da: eloisa_v
luce, stelle, architettura e contraddizioni
Viaggiatori: fino a 6
21-03-1994 “Voie 7. Train en provénence de Vevey pour Morges, Nyon, Genève. Départ heures 9.46, voitures de première classe, secteur A, voitures de deuxième classe secteur B et C, voiture restaurant, secteur B”.

E’ una fredda mattina di Marzo a Losanna, la mia città universitaria. Ad aspettare il treno siamo in una manciata di ragazzi e ragazze. Il vento ci fa incurvare le spalle nei nostri maglioni.

Quest’anno il nostro professore di progettazione in facoltà ci ha proposto una settimana in Siria, ma per chi avesse voluto c’era la possibilità di approfittare della stessa tariffa aerea vantaggiosa anche partendo una settimana prima. Siamo in pochi ad avere accettato di pagare quella misera differenza che ci avrebbe fatto raddoppiare le esperienze d’oriente. Quei pochi sono in partenza e sono li con me alla stazione.

La settimana prossima saremo in 40, ed il viaggio sarà molto diverso. Guardo la compagnia: c’è l’aristocratico Costantin, col suo ciuffo ribelle e la sua risata cristallina. Ha sempre la battuta pronta e si veste sempre alla stessa maniera: camicia con le maniche rimboccate fino al gomito di colore variante dall’azzurro al viola pallido. Molto sicuro di sé, è sempre alla ricerca di una bella donna da conquistare con le maniere da gentiluomo che gli sono proprie e quegli occhialini rotondi che SEMBRANO cadergli per caso sulla punta del naso quando assume quell’aria da furbo “matador”. Poi c’è Thomas, lo spilungone di Friborgo. Biondo scuro, ricciolo sbarazzino, sorriso un poco forzato ed accento quel pizzico troppo tedesco per essere affascinante. Paul lui è un maestro nell’arte del buon vivere. Ha organizzato più lui feste a suon di bottiglie di buon vino e cibo cucinato in grandi quantità che tutti noi messi insieme. Alto, occhio verde vivo ed attento, sorriso aperto e godereccio, appena arriva la primavera e cambiano i venti prende la sua tavola da windsurf e se ne va a Saint-Tropez. Quest’anno però sacrifica il mare per salutare il deserto.

E poi ci siamo noi: Christine, una ragazza così alta che persino io devo alzare il mento di un buon angolo per guardarla negli occhi. L’ho incontrata tanti anni fa, quando entrambe liceali ci siamo ritrovate disperate e sole in una piccola cittadina tedesca ad un corso di lingue a cui i nostri genitori ci avevano bonariamente costretto. Ci siamo unite in nome del divertimento e malgrado l’ambiente e le salsicce la mattina abbiamo passato un mese gradevole insieme. Anni dopo me la sarei ritrovata compagna di corso al primo anno di università.

Béatrice, ragazza bernese orfana di entrambi i genitori, è una ragazza dalla calma impressionante. Gli anni vissuti da sola a badare a suo fratello più piccolo l’hanno trasformata pian piano in una persona forte e sicura. Occhi verdi profondissimi e tristi, ma comunque pieni di voglia di non mollare mai. Per quanto so dalle ultime notizie pervenutami con chissà che soffio di vento, la vita le ha dato ragione.

Poi c’è Magda, un’amica di Béatrice. È una tipica svizzera tedesca: forte come un toro e decisa come un cingolato in guerra. Per fortuna ride spesso, ma io già vedo difficoltà nel suo prossimo incontro con il ciador. Non accetterà la cosa ed andrà a riempire tutti della sua morale preparata e sicuramente convinta, ma certamente poco adatta alla situazione e poco rispettosa del paese che stiamo per raggiungere. E poi ci sono io, la ticinese del gruppo, quella che secondo loro ha il “calore del sud” e parla tanto con le mani. Il volo della Türkish Airlines ci aspetta, siamo un poco circospetti… A dire il vero ci viene addirittura la ridarella quando Magda scopre che sotto la carta stagnola del pranzo di bordo c’è una schifosa salsiccia puzzolente che emana fetori poco raccomandabili…E scoppia in un disperato lamento. Magda, come la maggior parte dei nostri amici d’oltralpe, è vegetariana e ama il cibo biologico ed i germogli freschi sulle verdurine cotte come si deve e condite con lo yogurt. Si è detta pronta a sentirsi male, perché sa che in Siria dovrà dire addio alla verdura, ma lo shock della salsiccia le fa rimandare di qualche ora il suo incontro con la carne.

Paul sghignazza rumorosamente e Béatrice lo guarda con rimprovero, ma poi si addolcisce e si aggiunge al coro. Nessuno di noi mangia, ma almeno ridiamo di gusto nel fumo denso delle sigarette turche.

A Istambul dobbiamo cambiare aereo. La coincidenza partirà solo fra quattro ore. Le ragazze vogliono aspettare all’aeroporto, i ragazzi vogliono vedere Costantinopoli.

E io naturalmente sono con i ragazzi. Fissiamo un appuntamento con le figliole al check – in, passiamo dal controllo bagagli, lasciamo a loro i nostri zaini, cambiamo pochi soldi e ci lanciamo in città. Il tassista guida come un disperato, sono le 5 di sera ed il sole sta calando dietro a questa città che mi sembra fumosa e gialla. Gli odori sono molteplici e non sempre gradevoli e dal finestrino entra molta polvere. Siamo in città. Paul paga il tassì e ci guida. Lui qui ci è già stato, ed ha già ben chiaro dove ci vuole portare e cosa ci vuole mostrare. Dopo un po’ che girovaghiamo, un gruppo di ragazzini, su richiesta di Paul ci accompagna ad un ponte enorme che attraversa una vallata. Sul fondo una superstrada, a quanto ricordo. Il ponte assomiglia ad un acquedotto romano, e nella mia memoria parte da un’altezza di 4 metri sulla strada e se ne va dritto verso ‘altra sponda della piccola valle, mentre il quartiere scende verso il fondo, verso il rumore del traffico. Ci arrampichiamo sui mattoni e le pietre con fatica. Constantin mi da una mano e mi tira su nell’ultimo pezzettino senza appigli. Che fatica, ma siamo sull’acquedotto!!! Naturalmente non c’è parapetto, e l’altezza si fa subito vertiginosa. Camminiamo tranquilli verso il centro della struttura. La strada è decine di metri più in basso. Mi fermo incantata e rimango impietrita. Paul mi stava osservando e sorride compiaciuto “Questo, volevo farti vedere Elo, il tramonto dietro la cupola di Santa Sofia…” Il sole sta calando ormai, e la cupola con il suo minareto riescono a luccicare e risplendere persino in quel vorticare di polveri arancioni e dorate. Tutto ad un tratto il rumore delle automobili cessa, non sento più i bambini che gridano nelle strade, non sento più Constantin che ride ed esclama “Putain de merde!!!” ogni due secondi, non sento più il respiro emozionato di Thomas, non vedo più Paul né il suo sorriso. Vedo solo lei. La regina del mondo.

Non ho mai più avuto l’occasione di vedere Istambul, ma l’immagine di quella sera non sarà facilmente sostituibile da una mia seconda visita ad una città senz’altro molto affascinante.

Stiamo lì imbambolati per almeno una mezz’ora e poi Paul dà il via. Scendiamo dalle pietre (e per fortuna c’è chi mi prende in braccio!!) e ci dirigiamo… dove? Dove andiamo Paul? Lui sogghigna e non svela nulla. Sempre sornione Paul.

Ci addentriamo nella trama fitta della città e ci perdiamo subito in quel labirinto di voci intonaci e colori che si sviluppano in verticale. Vi facciamo strada tra gli asini e le pecore dall’odore pungente e le strade si fanno sempre più strette. Ad un tratto lo spazio scoppia e si apre: una moschea. Una moschea famosa, particolare. Purtroppo non ricordo il nome. Entriamo. Ho un foulard per coprirmi il capo e me lo sistemo come meglio posso. Entriamo scalzi in uno dei luoghi che mi rimarranno impressi nella memoria per tutta la vita: tappeti coloratissimi e morbidi che riempiono il pavimento, pareti decorate di fiori e scritte, gli azzurri ed i bianchi. Ma soprattutto l’illuminazione: nel mezzo della cupola pende un lampadario che non è altro che in enorme serie di cerchi concentrici finissimi che prende tutto il perimetro della cupola stessa. Il lampadario è sospeso a solo 3 metri dal suolo ed è munito di mille e mille lampadine. Hanno ricreato un secondo soffitto di luce all’interno dello spazio verticale della cupola! Un cielo stellato all’interno della volta celeste.

L’oriente e le stelle… Secondo sorriso di Paul che mi scruta con quegli occhi curiosi.

Adesso andiamo a rilassarci! Sbotta.

E via che lo seguiamo di nuovo, fuori per le vie.

Entra in una porta di vetro di un edificio che sembra antico. E che è Paul? Dove siamo? “cara mia, siamo nel bagno turco più antico di Istambul, è di epoca bizantina ed all’interno è tutto in marmo. Qui ci rilassiamo e ci facciamo fare pure un bel massaggio, nudi e felici!!!” “no, aspetta, che vuol dire nudi e felici?” “ma no dai, tu di là tra le donne, noi di qua con gli omoni! E che credevi? Siamo in un paese islamico !!!!” Eh già che stupida. Meno male. Li saluto e mi dirigo verso l’ala delle donne. È tutto un poco sporchino devo dire, ma non me ne cruccio. Mi spoglio e prendo l’asciugamano duro e ruvido che mi tende una signora seria e truce da dietro un banco in legno tutto consumato e foderato in plastica autocollante rossa. Me lo avvolgo attorno alla vita ed entro…

Mi accoglie uno spazio ottagonale con al centro un pulpito ottagonale . Le pareti, il pulpito ed il pavimento sono in marmo grigio. Nelle pareti sono scavate delle nicchie dove scorre dell’acqua… gelata!!! La stanza è avvolta nel calore umido dei bagni e la temperatura è davvero altissima. Alzo lo sguardo. La cupola intonacata di bianco è piena di piccoli oblò chiusi da una bolla di vetro. Ancora una volta, un finto cielo stellato. Certo che gli orientali e le stelle… Mi avvio verso il pulpito in marmo e mi sdraio: la pietra è caldissima. Sicuramente un sistema di aria o acqua calda scorre sotto al sasso ed il calore crea il vapore della stanza. Mi son quasi addormentata sul mio ruvidissimo asciugamano steso sul marmo grigio quando fa il suo ingresso una matrona felliniana di enormi proporzioni. Indossa un paio di mutandine in pizzo nero che compaiono e scompaiono nel grasso ad ogni passo. I seni enormi traboccano da un reggiseno anch’esso in pizzo nero, visibilmente troppo piccolo e dalle spalline ormai completamente prive di sostegno ed elasticità. Sembra uno straccio di stoffa buttato sulle spalle a coprire l’enorme movimento dei seni che ballonzolano con sismico ritmo di grassi sobbalzi.

I capelli, radi e neri sono raccolti in una crocchia disordinata, le sopracciglia si toccano nel centro della fronte, sopra a due occhi che scrutano, acuti come spilli. Mi guarda e comincia: “HIIIILIIIILLLLILIIIIILLLIIILILIIIIIIIIIIII” madre santissima! E perché urla adesso? Sembrano gli urli di guerra delle palestinesi! E lei ripete l’urlo con maggiore foga allungando quel collo da tartaruga e tirando fuori la lingua ad emettere un suono acutissimo che fa tremare le pareti.

E poi si avvicina. Oddio, non dirmi che è ora del massaggio…???????? È tardi. Se volevo scappare ora non posso più: le sue mani mi hanno afferrato le spalle e le sue dita affondano nei muscoli… doloooorrreeeee!!!! Stringo i denti e tento di rilassarmi… ormai al punto che sono!!!! Fellini prende in mano una saponetta ed inizia ad insaponarmi. Inizia dalle spalle e poi scende, massaggiando con furore. Insapona il sedere e mi sento arrossire ma resto immobile ed alquanto imbarazzata, le gambe i piedi e poi su le cosce, di nuovo i glutei (ma perché da una donna, dico io????), di nuovo la schiena. Ora le braccia. Me le scuote e me le insapona mi stropiccia le dita mi tira le braccia e le gira e le scrolla tanto che ho l’impressione che presto la clavicola cederà e il mio braccio resterà in mano a LEI, la montagna.

Mentre mi massaggia urla. Dopo due minuti entrano altre matrone e urlano tutte insieme. Le pareti sembrano assorbire parte delle vibrazioni in un fischio. Arrivano delle graciline spagnole che subito vengono date in pasto ad altre matrone urlanti. Non sanno che fare neppure loro e mi guardano, supplicando silenziosamente aiuto. Gli sguardi si incrociano e loro capiscono che non posso salvarle, siamo tutte prigioniere del massaggio. Cominciamo a ridere, ma di nascosto. Non le posso guardare o scoppiamo a ridere tutte e tre. Sarebbe pericoloso…

LEI mi da uno sberlotto sul sedere. È il segnale che devo girarmi? Si. E ricomincia ad insaponare tutti i cm quadrati del mio corpo. Sento su di me lo sguardo angosciato delle due spagnole che mi osservano per prepararsi a ciò che le attende. I miei seni ed il mio ventre vengono schiacciati e stropicciati. Non so se è più grande l’imbarazzo, il dolore o il solletico… Tra me e me grido “nooo la pancia noooo, soffro il solleticooooo”.

Nulla da fare, non un fazzoletto del mio corpo viene risparmiato. E non è mica finita qui! Lei mi fa un gesto brusco. Devo seguirla. Ma dove? Mi alzo, dolorante. Lei si siede su di una minuscola sedia che cigola disperata e sparisce sotto alla mole di grasso. Allarga le gambe e mi fa un gesto perentorio verso il pavimento con il suo pingue indice destro. Sembra dire: “seduta qui e mosca!” obbedisco. Mi siedo per terra. Mi sento afferrare per i lati della testa e stringere tra le sue mani, mi avvicina alla sua pancia. Che succede? Vedo lo sguardo delle spagnole che si allarga in uno sguardo terrificato. Dio mio che succede? Scchhhhhhhhccciiiaaaafffffff, mamma. Mi manca il respiro. Una secchiellata di acqua fredda. Ma che dico fredda?! Gelata!!! Ancora non capisco quanti spilli mi stanno pungendo la testa ed il corpo e se continueranno a pungermi vita natural durante, che LEI mi afferra la testa e me la incastra tra i suoi enormi seni. Le figure delle spagnole sono scomparse dietro la massa di grasso, peli neri occasionali e tracce di pizzo nero slabbrato. Le mani di LEI insaponano la mia testa, si infilano nelle orecchie per pulire anche quelle (!!!) e mi sfregano il cuoio capelluto con tanta forza che tutto l’ambiente circostante sparisce dietro all’andirivieni degli enormi seni che mi soffocano.

Scchhhhhhhhccciiiaaaafffffff, altra secchiellata di acqua fredda.

È finita. LEI mi da una sberla sul capo e mi indica il mio asciugamano che mi aspetta sul masso caldo. Guardo l’orologio. Ho mezz’ora di tempo prima di raggiungere i maschioni. Avranno anche loro vissuto questa cosa? Maledetto Paul, questa me la paghi!!!! Mi rialzo con fatica e con molte smorfie mi dirigo verso l’asciugamano, mi lascio cadere pesantemente e, mentre le due spagnole vengono sberlottate come pasta per la pizza, mi addormento come un sasso.

Quando esco li trovo li tutti nell’atrio, ancora avvolti in mille asciugamani morbidi, muniti di extra asciugamano che fa da turbante, a sorseggiare un the zuccherato. A loro hanno pure dato le ciabatte! Ed hanno avuto un massaggiatore bravissimo e tenero come un agnello. Ognuno in una stanzetta con teli profumati ed asciugamani a profusione…

Ecco. Sono entrata in un mondo dove l’uomo è re.

Arrivo a Damasco. È notte. L’albergo lo troviamo subito.

La prima giornata nella capitale è una sorpresa continua. Decidiamo da subito di fare colazione a base di succhi di frutta spremuti nei numerosissimi chioschetti per le strade. Poi scopriamo i dolci a base di miele, pistacchi, pasta fillo, e miele. Ecco la nostra colazione per i prossimi 7 giorni almeno!!!! Siamo ancora tutti e sette insieme. Domani i ragazzi se ne andranno in Giordania. Hanno l’intenzione di visitare Petra a dorso di cammello ed arrivarci piano piano, trascorrendo intere giornate con i cammellieri. Un poco li invidio ma noi abbiamo deciso di scoprire la Siria.

Ci addentriamo nel Suk, il mercato arabo. “Perdersi in una città non vuol dire nulla, ma smarrirsi in essa è una cosa da imparare” Il centro di Damasco è un labirinto di stradine strette strette ed altissime. Il centro del centro è il mercato. Comincia in una piazza enorme. Ci si inoltra nelle viuzze. A questo punto le stradine vengono semplicemente coperte con una tettoia di lamiera che lascia penetrare poca luce. Le lame di luce scendono a tagliare l’atmosfera intrisa di polvere di spezie e pigmenti di blu cobalto e colpiscono teli di seta svolazzanti, datteri, tappeti e gioielli in argento. Le botteghe si susseguono le une alle altre e sono così piccoline che sembra di essere ritornati nel medioevo e nelle favole delle mille e una notte. La luce e l’ombra si susseguono senza ritmo e logica, sorprendendoci di continuo. La luce può cadere indistintamente su di un mercante come su di un pezzo di muro azzurro di una bottega di spezie. Camminiamo col naso per aria osservando i fili di luce che scendono a colpire un naso, un baffo, un pezzo di stoffa, una nuvola di polvere di cardamomo.

Questa è l’immagine che più mi è rimasta impressa di Damasco. Il mercato coperto e le sue luci. Ma anche la piazza enorme, i boulevard dei quartieri nuovi larghi e pieni di palme alte e floride, le stradine piene di fango della periferia dove i bambini corrono tra le pozzanghere ed i vecchi ti invitano a giocare a domino e a fumare un narghilè con loro.

Più di una volta ci siamo sedute ad un piccolo tavolino di latta a tre gambe ed abbiamo sfidato vecchietti sdentati che ad ogni mossa gridavano felici “ahaaaaaa!!!!” ed afferrato un elemento numerato lo sbattevano con gioia e violenza sulla superficie metallica.

Poi si fumava felici un narghilè e si beveva the, o meglio “ciai”, il loro delizioso infuso di menta e zucchero.

E naturalmente, l’emozione primaria della città vecchia la si prova quando, camminando tra le budella del mercato coperto, si apre sulla destra una porta luminosa. La gente entra ed esce da li. Li seguiamo???? Appena giri l’angolo ti prende l’emozione della grande “Mosquée des Omeyyades”. Ad accoglierti, una piazza perfettamente liscia e brillante di pietra con una fontana al centro, contornata da fila e fila di colonne dove volano centinaia di uccelli. E dal minareto comincia la melodia del muetzin che lancia i suoi urli nostalcici di invito al raccoglimento.

“La bellezza che attraverso l’anima si trasmette alle mani dell’artista proviene da quella bellezza che sovrasta le anime, cui l’anima mia sospira giorno e notte.” (Agostino) E a me sembra che tutti i discorsi su quale sia il “giusto” Dio siano proprio delle grandi insulsaggini, specialmente quando ci si trova dinnanzi a tanta grazia ed eleganza frutto di indubbia civiltà. Mai come allora mi è parso che le differenze siano solo dovute al fatto che a creare tanta bellezza siano state nel mondo mani di artisti diversi, con diverse sensibilità e priorità e canoni di estetica distinti.

Terzo giorno a Damasco. Ricordo essere andata poco fuori città a visitare delle rovine su di un piccolo mezzo pubblico ridicolo. Era un autobus pubblico vetusto, dalla linea arrotondata e foderato da stoffe rosse imbottite e pieno di frangette che penzolavano allegre sul parabrezza. Nell’autoradio, a tutto volume, una voce femminile rotonda e piena cantava canzoni arabe con convinzione. E con altrettante convinzione le faceva eco il conducente, bardato di tutto punto con il suo foulard bianco e nero come quello di Arafat, tenuto da un anello di stoffa nera.

Mi ero da poco accorta di avere dimenticato una fede da portare all’anulare corretto per mascherare un palese matrimonio. E adesso non avevo scampo. Dovevo assolutamente procurarmene una. Era troppo pericoloso girare senza. Non per l’aggressività della gente, ma bensì per l’insistenza tipica araba con cui questa gente affronta qualcosa di entusiasmante. Ed una ragazza occidentale è sempre materia di entusiasmo.

Ci addentriamo nel mercato e compro un anellino fine e discreto. Una vera piccola fede. Magda si incarica di contrattare per me. Lei adora queste cose, mentre io le odio con tutta me stessa. Ed infatti, pago un terzo del prezzo iniziale. Si poteva sicuro fare meglio, a parere suo, ma avevamo fretta. Le ragazze vorrebbero provare l’ebbrezza dell’hammam, il bagno turco. Siamo alla ricerca di un hammam aperto anche alle donne. Ma sembra che in Siria non esista hammam aperto anche alle donne. Qui un hammam è appannaggio del mondo maschile. Le donne ne sono escluse.

Magda non ci vuole credere ed è scandalizzata (e te pareva!). Per convincerla che è la verità, fermo delle ragazze per strada. Parlano un po’ d’inglese. Una di loro ha una carnagione molto scura e degli occhi molto verdi. Sembra meticcia, ma non riesco a capire che razza di mescolanza etnica sia. Non porta il ciador. La ragazza che sta con lei invece lo porta. Ma porta quello semplice, che passa dietro le orecchie e lascia il viso libero. In Siria, ci spiegano, vivono molte etnie e religioni diverse, e non tutti portano il ciador. Qui cristiani e musulmani hanno sempre convissuto in assoluta tranquillità con tutte le altre minoranze. Rimango sorpresa, lo avevo notato che molta gente era senza ciador, ma non mi ero chiesta il perché.

Le ragazze ci confermano che le donne non vanno ai bagni!! “Ma cosa dite!!! Le donne al bagno????” e scoppiano in una fragorosa risata.

Scopriamo che sono sorelle (!!!!), e qui non sappiamo proprio più che pensare. Le vogliamo invitare in un bar per un ciai con noi. La loro espressione cambia subito e si fa terrorizzata: no! Una donna ad un bar no! Cosa penserebbe la gente? No, il bar non è per una donna!!! Vedo Magda irrigidirsi e le do una gomitata. Perdìo, siamo ospiti qui! Che non mi faccia una scenata nel bel mezzo del suk di Damasco! Per carità! Non riusciamo a capire il perché di questo rifiuto. Le salutiamo. Dopo due minuti sentiamo dei passi che corrono, ci voltiamo e le vediamo tornare indietro. “magari hanno combiato idea” mi dico. E sorrido a Magda. “vedi che l’agressività tua non serve?”. Ma vengo colta di sorpresa di nuovo: “vi va di venire a cena a casa nostra? Date al tassista questo indirizzo. Stasera alle otto, abitiamo al terzo piano, e il nostro nome è marcato qui. Ci venite?” La ragazza meticcia mi guarda piena di curiosità e speranza.

Le ragazze ed io ci lanciamo un’occhiata.

Ma certo che ci veniamo!!!! E perché no? La sera siamo un po’ preoccupate da questa avventura imprevista. Ci vestiamo e prendiamo i fiori. Usciamo e fermiamo il taxi. Mostriamo il bigliettino. Il tassista sembra tranquillo. Come tutti in tutta la Siria ha un’immagine del Re appiccicata sul cruscotto ed una immagine del principe primogenito morto in un incidente d’auto incollata sul vetro posteriore. Pare che quando il principe morì, un anno prima, tutte le donne del paese si siano lanciate in un pianto ininterrotto per intere giornate, prostrandosi a terra disperate. Ed ancora adesso tutta la Siria è in lutto, le immagini del morto sono dappertutto, … come le immagini del Re, del resto.

Siamo arrivate. Saliamo le scale strette e scopriamo un appartamentino minuscolo curato da una donna, un medico. È divorziata ed è a capo di un piccolo partito femminile che tende alla rivalutazione della donna nella società siriana del giorno d’oggi!!!!! Parla francese, la signora. Se ne ricorda un pochino dalla sua infanzia, quando ancora la Siria era colonia francese.

Alla televisione un uomo piange in arabo e si dispera. “Che trasmissione è questa?” chiedo alla signora.

“Ah, nulla. Oggi è martedì. È il giorno delle scuse. Quell’uomo ha ucciso un tassista due mesi fa. È stato condannato a morte. Domani lo fucilano in piazza, e oggi chiede perdono al suo Dio e alla famiglia del morto. Ogni martedì un condannato recita le sue ultime parole di scusa.” Rimango di sasso. Nessuna di noi parla. Fisso una gelatina verde kermit trasparente che dovrebbe essere il dolce e non riesco a respirare. Che dire? Non riesco a sollevare lo sguardo. Sento la voce del condannato che ormai è un mugolio soffocato dai singhiozzi. Ogni tanto si sente la parola “Allah”.

Ma che mondo è questo? E che ci faccio io qui? I fiori del divano tutto ad un tratto mi sembrano smunti, e la mia gelatina dolce uno scherzo lasciato a tremolare vicino alla gelatina rossa per Christine.

La signora se ne accorge. E ci credo! Tutto ad un tratto 4 ragazze, da ciarliere e vivaci, si sono trasformate in quattro statue immobili che deglutiscono a vuoto e fissano le gelatine chimiche posate sul tavolino del salotto!!!!! Si alza e spegne il televisore. Ci racconta della sua vita tribolata e incredibile per un paese come quello. Lei si è sposata prima con un Senegalese ed è nata la loro bambina. La ragazza meticcia che non avevo saputo riconoscere quale siriana. Poi il senegalese scappa per tornare al suo paese. Lei resta sola e si risposa. L’autorità glielo permette in quanto un marito di colore non è considerato un marito “vero”. Fortunatamente può tenere la bambina con se. Nasce la seconda bambina. Il marito voleva un maschio e perciò inizia a picchiarla tutti i giorni.

Visto che lei è medico e guadagna abbastanza per vivere (raro per una donna) non ci pensa due volte e chiede il divorzio. Che qui equivale ad essere ripudiata. A lei non importa. Ha pochi amici, ma ha organizzato questo partito di donne che lottano per un mondo migliore.

Ora nessuno la picchia più e le sue figlie possono andare a scuola e un giorno vedranno il mondo; anche se è difficile ottenere il permesso per uscire dai confini siriani e viaggiare: qui la gente non è libera di movimento. La pace nel paese è garantita dalla severità del re. Ce ne torniamo a casa come cani bastonati ma con la speranza nel cuore per il futuro delle due ragazze incontrate nel suk di Damasco. Béatrice manderà loro delle cartoline per anni. Me la ricordo ancora sotto Natale venire a farmi firmare un bigliettino per la famiglia di Damasco. Mandava sempre cioccolata e cartoline di località sempre diverse perché le ragazze vedessero immagini nuove, come ci avevano chiesto. Credo lo faccia ancora, ogni anno. Ne sono sicura.

Il giorno dopo siamo in partenza per Homs e Hama. Queste due città sorgono in una lunga vallata verde e coltivata che scorre tra Damasco e Aleppo. La campagna attorno a Hama è meravigliosa e verde. A Hama rimaniamo meravigliate dagli enormi mulini ad acqua. Le ruote sono enormi e girano come macchine fatate, come nel regno del più folle Don Quichotte. Qui vicino pare ci sia una città da visitare. Si chiama Aphamia. Ma nessuna di noi riesce a capire cosa ci sia da vedere lì. I bus nemmeno si fermano se non glielo chiedi. Prendiamo un trabiccolo piccolissimo e partiamo tra la solita musica araba e le frangette sul parabrezza. L’automezzo ci lascia a bordo della strada. Nulla. Non si vede nulla. In cima alla collina c’è una cittadina arroccata. Quella è Aphamia? Incamminiamoci, per arrivare in cima ci metteremo 20 minuti, no? Andiamo a vedere che c’è! A metà strada una frotta di bambini ci assale offrendoci finti “veri reperti archeologici” tipo uova di pietra intagliate con maestria che paiono antichi monili greco-romani. Ma cosa c’entrano i romani? Non dovremmo trovarli più a est e più a nord? Ma se ci pensi bene… : guardati intorno Christine, questo era il paradiso. Grano e acqua. Perché non qui? Siamo sulle strade carovaniere più battute dell’antichità!! Ed infatti, tra l’erba si riconosce uno scavo a semicerchio. Un teatro romano! Ah ma si vede poco. Vuoi dire che siamo venute sin qui per questo? Con tutti questi bambini insistenti che non ci lasciano in pace un momento? Sono delusa ed arrabbiata. Non voglio più vedere questi bambini che strappano la maglia e infilano le mani lestissime nelle tasche! Distolgo lo sguardo dal suolo chiudendo gli occhi e sbotto con un “leave me alone!!!!” non ci credo… ho gridato con un bimbo. Andiamo bene…! Riapro gli occhi… Mah… ragazze, quello cos’è? RAGAZZE!!! QUELLO COSA DIAVOLO E’?????? Vedete anche voi quello che vedo io o stamane il succo d’arancia era drogato? No, anche loro stanno sgranando gli occhi come tre kermit e rimaniamo li basite ed immobili. I bambini sono spariti. Là, dietro la collina spuntano da dietro l’erba alta un metro, una, due, tre, trenta colonne corinzie di un decumano lungo 2 chilometri!!!!!! Un’intera città romana molto bene conservata la cui parte più incredibile è appunto il decumano chilometrico con la maggior parte delle sue colonne ancora in piedi. Ci sentiamo un po’ come Schliemann alla scoperta della città di Troia.

Qui i siriani corrono in motocicletta con il loro foulard bianco e nero svolazzante sulla strada romana pavimentata, accendono fuochi per il pic nic la sera, e gli innamorati passeggiano tra le colonne o si nascondono dai parenti tra le mura delle case o delle antiche botteghe. Un vecchietto passa col suo carretto trainato dai buoi.

È un’emozione grande scoprire un luogo di cui non immagini l’esistenza.

E vedere delle rovine vissute quasi fossero parte integrante della propria città, un parco di svaghi… beh, tutto questo ha qualcosa di affascinante davvero.

Passiamo ad Aphamia tutta la giornata. Non è un luogo che dimenticheremo facilmente.

È ora di tornare fino a Damasco, da qui via torneremo con la scuola, su su fino ad Aleppo. Allora perché non gustarci in anteprima le rovine di Palmyra, nel deserto, e da li continuare sino al mitico fiume Eufrate, dove potremo ammirare le rovine della città della regina di Saba? Che eccitazione! L’Eufrate! Si ragazze, dai! Partiamo! Torniamo a Damasco solo per cambiare autobus. Decidiamo di muoverci sempre con piccoli mezzi pubblici, anche molto più convenienti delle corriere. Sono piccoli furgoncini collettivi, di quelli che partono quando sono pieni a scoppiare. Spesso mi ritrovo a parlare con ragazzi giovani e curiosi.

Mi scambiano sempre per israeliana. Dicono che la carnagione scura e gli occhi tendenti al verde sono tipici delle ragazze israeliane. A volte si rivolgono a me in arabo, e non so se è per provocazione verso Israele. Quando è loro chiaro da dove vengo, sgranano gli occhi e cominciano a domandare tante cose. Mi ha stupito quel ragazzo che mi ha chiesto di descrivergli secondo per secondo come fosse la mia vita con “mio marito”. “Una giornata qualunque, ti prego, raccontamela”.

“Ma prima di sposarvi vivevate insieme? Davvero? E potevate pure baciarvi e toccarvi? DAVVERO????? Che meraviglia. La mia fidanzata ed io dobbiamo scappare e nasconderci e baciarci di fretta dietro ad un muro prima che i parenti ci vedano… e poi che fate? VIAGGIATE????? Mamma mia, qui noi giovani dobbiamo proprio cambiare questa cribbio di cultura maschilista del cavolo!!!” Ci sono rimasta secca. Non me l’aspettavo proprio. Ma allora forse c’è davvero speranza! Invece un’altra volta un uomo che non ha creduto alla mia fede voleva assolutamente parlare con mio padre, perché tutto serio, avrebbe dato lui 150 cammelli per me. Io, scherzando e ridendo gli ho detto “Ma come?! Così pochi?! Ah ma mio padre sicuro non ci sta” Ho capito però subito che lui non scherzava e che aveva quasi voglia di darmi una sberla. Inutile dire che mi son fatta subito seria! Gli ho detto gentilmente che mio marito aveva la precedenza assoluta sulla mia persona e che aveva pagato una dote speciale ed era un uomo potente. Allora si è allontanato scuro in viso.

Puuuuffffffff…

Palmyra è una cittadina araba. Un agglomerato disordinato di mille casettine piccole piccole perse nel deserto.

Li vicino c’è un insieme di rovine incredibili: dalla città romana incredibilmente ben conservata, con resti di architetture romane mescolate ad architetture ottomane che fanno restare allibiti. Accanto alla città romana, un insieme di torri funerarie di estrema bellezza spuntano dalla sabbia color ocra e si stagliano contro il cielo di un blu profondo. Palmyra era un oasi visitata soprattutto dai nomadi. Poi, le legioni romane prendono possesso dell’oasi e fanno di quel luogo ricco di risorse una città sontuosa. Palmyra si trova giusto all’incrocio delle strade carovaniere che attraversano il deserto giornalmente. Non ricordo esattamente come fu che, con l’altalenarsi di Parti, Romani e Sassanidi e chissà chi altro Palmyra perse la sua autorità e la sua potenza. Fatto sta che ancora oggi, vedere spuntare le sue pietre dalla sabbia del deserto provoca non poche emozioni.

E non poche emozioni ha provocato in noi la vista, a Palmyra paese, di un ristorante libanese. Da quasi una settimana non mangiavamo altro che pollo, pane arabo, humus e basta. Non una verdura. Solo un paio di falafel ogni tanto. A me questa cucina proprio non piace. Sento salire la febbre. Conosco il mio corpo: dopo una settimana di cibo così aggressivo come questo, con molti grassi e niente verdura, beh, lui reagisce e non accetta oltre. So che il suo limite di sopportazione è messo a dura prova in questi giorni. Il ristorante libanese ci appare come un miraggio: mangiamo cuscus con la verdura!!!! E insalata!!!! Che meraviglia. Sisi, rischiamo con l’insalata e faffan… se non è lavata bene! Non resisto più!! La mattina dopo io sono al bagno per due ore. Il mio corpo è scoppiato e necessita Imodium. Ho un poco di febbre. Ma Magda…Lei si è pappata pure due scodelle di riso e latte fatto budino (bleah, mai piaciuto risoelatte) … e ora vomita, caca e febbricita alquanto. Le do una delle mie polveri anti disidratazione e un’aspirina. Tutto sembra passato, allora usciamo. Oggi ci aspetta un caravan serrail. Domani uno diverso.

La costruzione in pieno deserto è davvero affascinante: quattro muri altissimi a strisce di due colori diversi. Fuori dalle mura ci attende il custode nel suo abito lungo, azzurro e svolazzante. Dopo la visita ci invita ad entrare nella stanza dove solitamente solo gli uomini sono autorizzati a fare il loro ingrasso: il salotto dove si beve e si fuma. Ci togliamo le scarpe e ci ingobbiamo per entrare nella stanzetta angusta coperta di tappeti. Il custode, con gentilezza estrema e tata dolcezza ci offre uno stupendo narghilè riempito di tabacco dolce e molto caffè arricchito di cardamomo.

Il giorno seguente è caratterizzato da un’avventura incredibile. Decidiamo di affittare un taxi con taxista annesso e di pagargli la benzina necessaria perché ci porti nel mezzo del deserto, dove giacciono le rovine imponenti di un enorme caravan serrail, uno di quei luoghi dove le carovane di cammelli si fermavano a riposare. Si trattava di quattro mura che rinchiudevano sorgenti d’acqua fresca, giardini fioriti e soprattutto alberi da frutto. Nel mezzo di questo paradiso i carovanieri trovavano stalle e camere dove riposarsi, all’ombra di molte palme da dattero. Una volta esauritasi l’acqua questi luoghi venivano abbandonati. Partiamo. Il tassista ha preso insieme anche tre figli suoi che hanno tra i 5 ed i 9 anni. Ci spiega che oggi vanno a mangiare da alcuni parenti che hanno la casa li vicino. Capiamo subito che se non fosse per noi che gli paghiamo la benzina, per loro sarebbe troppo costoso andare a trovare i famigliari.

I bambini ci insegnano quattro parole d’arabo e ridiamo come matti, comunicando a gesti e smorfie.

Il tassista corre veloce tra gli arbusti del deserto. Ma come fa ad orientarsi? Non esiste una strada, nemmeno un punto di riferimento qualsiasi, non un albero, non una collina. Ma c’è il sole. Probabilmente quello gli basta. Il sole.

Dopo una buona ora di viaggio vediamo spuntare le mura delle rovine. Il deserto, spostandosi ha portato terra e sabbia all’interno delle mura imponenti, fagocitando cupoloni diroccati e muraglioni possenti. Il posto è incantevole e commuove per la sua imponenza e dignità di mostro ferito. Pare un drago moribondo. Ci aggiriamo per le pietre ed ascoltiamo il vento che soffia tra le crepe dei muri spessi almeno un metro.

Dopo un paio d’ore sentiamo la voce del tassista. Ci sta invitando a pranzo con loro.

Ragazze, ricordiamoci: 1- salutare senza dare la mano 2- evitare il contatto fisico 3- accettare il ciai o qualsiasi cosa con la mano sinistra (la destra è quella usata per l’igiene intima, e quindi sarebbe estremamente offensivo accettare cibo o bevande con la mano destra) 4- non guardare gli uomini negli occhi 5- lavarsi prima di entrare in casa alla fontana che sicuramente ci sarà 6- … cos’altro? Ah si, controllarsi a vicenda che nessuno faccia gaffes.

Dopo questo promemoria ci avviamo a piedi nel il deserto. La casina è quella la sul fondo. Appaiono quattro mura intonacate e dipinte di grigio. La pittura corre anche sui pavimenti e sui soffitti, rendendo tutto liscio e lucido. Nel centro del patio è piantato un singolo albero che pare un piccolo tamarindo. Ho un ricordo delizioso di quella casina.

Il muro esterno si piega verso il deserto a formare una panchina coperta di tappeti. Gli uomini ci accolgono e ci fanno sedere. Ci offrono del ciai. Io per non sbagliarmi metto la mia mano destra sotto la coscia, così se mi ci siedo sopra almeno non mi verrà spontaneo di tenderla verso il bicchiere che mi verrà offerto. Dopo una buona fumata gli uomini ci invitano alla fontana e poi a tavola. Le donne non si vedono. Sicuramente mangeranno i resti del nostro pasto quando noi avremo finito. Nella stanza buia c’è un enorme tavolone. Ci sediamo tutti intorno. Nel mezzo del tavolaccio in legno massiccio fa la sua bella figura un enorme vassoio in metallo carico di un cibo puzzolentissimo: carne di montone antico di qualche secolo (l’animale doveva essere alquanto vetusto…) tagliata a fettine e fatta cuocere con una tonnellata e mezzo di strutto (di montone?) e uova…

Arriva il pane arabo. I bambini ci offrono la coca cola araba perché sanno che i turisti non bevono acqua del pozzo come loro. Che gentili! Ho una sete pazzesca, ma so quanto costa loro una coca cola, e quindi cerco di bere il meno possibile. “Ricorda. Il pane lo si spezza con le due mani, ma poi lo si prende nella mano sinistra e lo si immerge in quella cosa là di montone e a mo di pinza si prende la carne tra il pane e lo si porta alla bocca…” ahhhhh ahhhha che puzza. Come faccio a metterlo in bocca? Magda pure lei non sembra farcela. Christine chiude gli occhi e li strizza forte, poi ingurgita. Vedo che si fa paonazza. Gli arabi ci scrutano. Devo mangiare o non sarà per niente gentile. A me. Glump. Un sapore acido che sa di selvatico e di vecchio e rancido mi invade la bocca. È un insieme di cose estremamente grasse ed acide. La puzza si sprigiona in bocca e risale dalle narici ampliando il tremendo sapore della vivanda. Ho capito. Prima devo respirare, poi prendere taaaaanto pane e poooco intruglio, e poi masticare in apnea. Deglutire e bere subito un sorso di coca, ed a quel punto posso espirare, ma con la bocca. Il gusto verrà ampliato con l’espirazione, ma in maniera meno imponente ed aggressiva, e la coca mitigherà la disgrazia. Effettivamente va meglio, e vedo che ben presto le mie compagne di avventura mi imitano con fare un poco sollevato.

Finito il pranzo si ritorna sulla panchina a bere ciai e a fumare. Arriva anche il caffè al cardamomo per cui Magda va tanto entusiasta. A me a dire il vero non piace molto, è così denso e speziato che mi dà la nausea. Ma almeno caccia via la nausea dell’antico montone acido e selvatico.

Vediamo le donne che spuntano da dietro un angolo. Di nascosto faccio loro un cenno di saluto e sorrido quando gli uomini non mi vedono. Rispondono al saluto coprendosi la bocca e ridendo sommessamente. Sono vestite di mille colori, soprattutto rosso e giallo. Magda naturalmente non sa resistere e chiede di ringraziare le donne per avere cucinato. Le do un calcione. Sono veramente incazzata. Ma perché non porta rispetto per questa gente del deserto che ci ha appena offerto la sua unica coca cola? Ma allora è stupida forte! Ho deciso: è stupida. Ma non lo vede che si sono offesi? Il tassista si rivolge a Magda ed è effettivamente arrabbiatissimo: “Cosa crede lei signorina, chi è che paga per il montone?” Sì, ho deciso che è deficiente. Me l’aspettavo da lei, prima o poi avrebbe cominciato a discutere polemicamente,…Ma doveva farlo qui?! E con questa gente che ci ospita? Oddio, non posso crederci. Qui urge rimediare.

Subito cerco di regolare il tiro spiegando che “Era così buono che i nostri mariti sarebbero stati davvero onorati di poter offrire ai loro ospiti un tale banchetto, e che la mia “amica” (dio quanto l’ho odiata!) voleva solo esprimere la sua gratitudine in un modo un pochino impacciato, sperando di poter imparare la ricetta dalle loro mogli e figlie”. L’autista traduce ed io fisso Magda con sguardo in fiamme: “si tu essayes de me contredire c’est toi qui va rester ici avec eux toute la nuit perdue dans le désert pour leur avoir manqué de respect! Mon Dieu, tu est vraiment insupportable parfois!” per fortuna è così sorpresa della mia violenta reazione che non osa contraddirmi. Strano, un cingolato in guerra che si ferma di botto…

Christine e Béa la fulminano a loro volta e le dicono due parole incazzate soffiate tra i denti del tipo “Non è il momento di insegnare che la donna è pari dell’uomo. Sappiamo che hai ragione, ma porta rispetto e non aggredire chi ti ospita in seno alla sua cultura.” Vedendo la reazione decisa di noi tre la famiglia semi-nomade ritorna a sorridere. E meno male! Il montone non viene assimilato e/o accettato dal nostro organismo. La mattina dopo Magda ha una febbre da cavallo, io non sono da meno e tutte e 4 vomitiamo alla grande.

Lasciamo la sporca e spoglia stanza d’albergo senza provare troppa malinconia: l’albergo di Palmyra ci è costata pochissimo, ma non era certo un 5 stelle! Passeremo la notte in corriera. Un autobus grande e comodo che attraverserà il deserto di notte e ci porterà a Delr ez-Zur, sulle sponde dell’Eufrate.

Vogliamo goderci il tramonto sul deserto, ma appena salite il conducente passa e chiude tutte le tende. Non è permesso tenere la tenda aperta o non si vedrà bene il film. Oddio, c’è pure una televisione! Ma che film daranno? Ci viene consegnato un bicchiere di acqua salata che sa forte di cloro. Bevo di un sol sorso perché il conducente mi controlla con aria truce per ritirare il bicchiere e dare da bere al vicino. “bevi e non rompere!” pare dirmi con quel suo sguardo da generale in pensione… “bevo, bevo bevo… aspetta, ööööhhh che carattere!” è la mia risposta silenziosa.

Partiamo. Parte anche il film: dunque, film in lingua originale mandarino sottotitolato in arabo. Nnamo bbene!!! La trama: 20 cinesi vestiti di kimoni strani e dipinti in viso come all’opera cinese (viso bianco-porcellana e gote rosa-rosse, rossetto e mascara) si sfidano alle arti marziali nel cortile di una casa… cinese. Alla fine muoiono tutti. Ogni attacco e scena del film è girata al rallentatore ed i movimenti sono volutamente ampliati ed esagerati da un’eccezionale serie di “effetti speciali” . Ogni movimento è accompagnato da versi gutturali ed urla… anch’esse rallentate al ritmo del salto.

Naturalmente ci scappa da ridere, ma siamo le uniche donne a bordo e non osiamo cipire. Per distrarmi ficco la testa sotto la tenda e guardo fuori il tramonto che infuoca il deserto. Uno spettacolo.

Dormo già da un bel po’ quando Christine mi da una gomitata impaurita. Apro gli occhi. Siamo ferme nel mezzo del nulla. C’è un silenzio da deserto impressionante. Sul bus stanno fermi a gambe divaricate quattro soldati in tuta verde caki e tengono stretta tra le mani una mitragliatrice che ha tutta l’aria di essere più che carica. Ma chi sono? Bisbiglio la domanda a Christine. Lei mi risponde titubante in un sussurro “ Béa dice che sono soldati che controllano la frontiera con l’Irak. Credo che ci siamo passati troppo vicino, o qualcosa del genere.

I soldati ci guardano ma non sembrano occuparsi di noi. “turiste?” mi chiede uno. Gli rispondo di si, e lui ordina al suo collega di lasciar perdere i nostri zaini. Perquisiscono il bagaglio di ciascun viaggiatore controllando che nessuno si muova.

Scendono e noi ripartiamo.

L’Eufrate! Eccolo il fiume mitico! Fa impressione. È una lunghissima striscia di acqua verde smeraldo largalarga che si snoda tra le rocce e la sabbia di un deserto ocra quasi privo di vegetazione. Scendiamo dall’autobus e ci incamminiamo per l vie di questo posto strano. Delr ez-Zur è una cittadina piccola abbarbicata sulla sponda sinistra dell’Eufrate e mi ha lasciato tanti ricordi contrastanti.

Innanzitutto l’albergo: stiamo camminando tra le strade della cittadina, guardandoci intorno per trovare una sistemazione per la notte. Camminiamo sul lungofiume, sporco ma bellissimo ugualmente per la qualità della luce e dei colori. Béa guarda verso l’alto e sbotta in un “guardate! Un albergo con i balconcini che danno sul fiume!!!”. Saliamo e chiediamo una stanza. L’albergo è piccolissimo e si sviluppa attorno ad un grande e larghissimo corridoio centrale che finisce con una grande finestra da cui entra una luce accecante. Il resto del corridoio e della reception è immerso della penombra. L’albergo è gestito da due vecchiettini sdentati vestiti di bianco che ci saltellano intorno eccitatissimi e tentano ad ogni momento di baciarci e di toccarci il sedere. A noi scappa da ridere. Ci fanno tenerezza a tal punto che quando ci consegnano la stanza migliore, ad una ad una gli stampiamo un bacio sulla guancia e loro se ne rimangono lì basiti per un quarto d’ora sulla porta ad osservarci disfare i bagagli. Ci guardiamo intorno. Ci hanno dato una camera sul fiume, certo, ma i letti non sono stati cambiati mai nel corso dell’ultimo anno di gestione. Si vede che qui non si usa cambiare le lenzuola o sbattere il materasso fine e duro una volta ogni tanto. Le lenzuola (un tempo bianche) sono ora di un colore marrone non bene identificato. Colore la cui tinta si intensifica al centro del materasso, seguendo linee di corpi umani sudati. I materassi sono duri ed al centro si fanno finissimi. La rete metallica che sostiene le brande ha anch’essa ceduto al centro, di modo che una volta sdraiati si è quasi avvolti nel fetore del giaciglio vetusto e unto.

Ci guardiamo disperate. Forse qui non ci basteranno le nostre fodere di piumone dove ogni sera ci infiliamo a mo’ di sacco a pelo leggero per contrastare il manco di igiene. Adoperiamo gli asciugamani (questi puliti) che ci hanno fornito i vecchietti per foderare almeno il cuscino e una parte del materasso e siamo pronte per uscire a spasso.

Il mercato della città è una sinfonia di odori di carne in putrefazione, verdura che cuoce sotto al sole coperta da nugoli di mosche e teste di bue private della pelle ed esposte al sole. I teschi degli animali appaiono in tutta la loro terrificante verità di muscoli a vista ed occhi fuori dalle orbite. Un teschio coperto di muscoli e privo di pelle fa un effetto tragico ed infernale e fa pensare ai primi studi sull’anatomia umana. Scappiamo dal mercato poiché l’aria è irrespirabile e le mosche sono migliaia.

La sera ci rechiamo a due a due a fare la doccia. I motivi sono tanti: 1- L’albergo si è riempito di giocatori di pallone adolescenti con gli ormoni in subbuglio.

2- I vecchierelli sono sempre all’erta con le loro manine svelte 3- La doccia è un locale chiuso e grande. Al centro del soffitto pende una doccia grande che scarica una notevole quantità d’acqua. È un bellissimo locale, ma la porta non si chiude ed ha pure un buco visibilissimo da dove sicuramente i vecchietti spiano le nudità al bagno.

È inutile: da quando siamo arrivati in questa città non facciamo che scoprire cose straordinarie, forti e ridicole. Abbiamo riso moltissimo, anche se siamo rimaste scioccate dal mercato.

Il giorno dopo la visita alle rovine della città della regina di Saba è deludente per quanto riguarda le rovine stesse, ma mi gonfiano il cuore di gioia la bellezza del paesaggio, la potenza della luce e la nitidezza dei colori.

Vorremmo continuare a risalire il fiume, ma purtroppo dobbiamo tornare a Damasco e raggiungere la scuola. Sono arrivati ieri e domani si lascia la capitale tutti e 40 per una sana gita in pullmann che non ci ispira nulla di particolarmente eccitante.

A Damasco ritroviamo Paul, Constantin e Thomas distrutti ma felici. Camminare e sedersi è un problema, visto che i cammelli hanno messo a dura prova le loro capacità motorie e la muscolatura delle loro natiche in particolare. Ma Petra li ha sconvolti ed ammaliati con la sua bellezza straordinaria. Le loro storie ci divertono e ci affascinano.

Le visite guidate dal nostro brillante professore ci illuminano sulla cultura e l’architettura di questi luoghi. È come vedere le cose alla tua maniera, e poi indossare un paio di occhiali e vederla una seconda volta arricchita in chiarezza e poesia. Più di una volta mi ritrovo a bisbigliare con alcuni compagni di viaggio della fortuna immensa che abbiamo avuto a incrociare sulla nostra strada didattica Patrick Berger. Il viaggio prosegue tranquillo tra alberghi molto migliori di quelli della settimana precedente, ma che in ogni modo non sono risparmiati da scarafaggi di molteplici forme e dimensioni. La cosa crea disgusto tra le nostre compagne di corso. Ogni tanto si sente un gridolino schifato provenire da una delle stanze vicine. Gli fa seguito di solito un deciso “pppaaaaaffff” di ciabatta.

“La arquitectura àrabe consiguiò proporcionarle a la luz, la dulzura y la voluptuosidad que adquiere la luz, en una boca entreabierta de mujer.” (Girondo) Le opere di architettura che mi hanno più impressionato sono sicuramente : 1- il “crack des chevaliers” : fortezza-castello-cittadella costruita dai crociati del XII secolo 2- la cittadella di Aleppo. Sulla cima della collina su cui è costruita c’era poi uno spazio chiuso e perfettamente quadrato. Mura altissime e all’interno 4 piante, una per ogni angolo. Uno spazio così bene equilibrato e proporzionato da far venire la pelle d’oca.

3- alcune moschee di Aleppo, oltre a quella di Damasco, insuperabile.

4- un manicomio, risalente al medioevo costruito in maniera tanto precisa e forte da creare un’angoscia terribile. Corridoi strettissimi ed alti almeno 5 metri, celle di reclusione con una semplice finestrella minuscola, alcuni patii minuscoli, e tutto il resto una miriade di corridoi posti come un labirinto. Se venivi rinchiuso sano… li dentro sicuro impazzivi.

E sicuramente, il bagno turco di Aleppo.

Magda ancora non si era rassegnata: voleva il bagno turco. Cerca cerca lo abbiamo trovato. Ci dicono che un vecchio stabilimento ancora dedica un giorno della settimana alle donne.

Quel giorno è oggi.

Partiamo alla scoperta dello stabilimento. Non ci posso credere: davanti a noi si erge una costruzione che sembra uscire direttamente dal libro delle mille e una notte. L’entrata è ricoperta di piastrelle colorate e sembra l’entrata di una moschea, con tutti i bassorilievi e le decorazioni del caso.

Entriamo. L’interno non può che continuare a meravigliarci: una grande cupola protegge l’atrio di entrata che funge pure da spogliatoio. Lo spazio è ottagonale. Si entra nel centro e tutto d’intorno vi sono gradinate cosparse di tappeti dove la gente si spoglia.

Paghiamo il servizio completo e ci spogliamo. Pare ci sia pure la piscina!!!! Ci viene consegnato un asciugamano (anche questo duro e ruvido) e veniamo scortate nella piscina. Beh…La piscina non viene usata da almeno 5 anni buoni, direi. Solo che non hanno mai cambiato l’acqua! Nella piscina galleggiano una grande quantità di alghe putrefatte e puzzolenti. Un peccato perché l’architettura è splendida. La piscina è triangolare e decorata da piastrelle antiche di mille fogge e colori. Una meraviglia, ma entrarci è escluso. La padrona esige che facciamo il bagno. “Avete pagato, ora entrate!” “NO!” è la secca risposta di noi tutte. La padrona è arrabbiatissima. Decide di chiuderci nella sauna finlandese (compresa nel prezzo). Ci spinge dentro e chiude la porta. La sauna, rivestita in legno è riempita di asciugamani stesi ad asciugare. Per parlarci e guardarci negli occhi dobbiamo spostare almeno 3 asciugamani alla volta. Vogliamo uscire, ma la padrona ci ha chiuso dentro. Il caldo è sempre più insopportabile. Bussiamo energicamente alla porta fino a quando si decidono ad aprirci e ci accompagnano controvoglia nella stanza del bagno turco.

Le sorprese non sono finite. La stanza è un gioiello dell’architettura e della decorazione. Le proporzioni della sala sono deliziose e ci soffermiamo ad osservare ogni minimo dettaglio di canaletta di evacuazione delle acque scavata nel marmo. Ma tutto ad un tratto ci è chiaro perché la padrona non ci voleva lì adesso. La sala si riempie di donne con i loro bambini. E questa è un’ottima occasione per parlare e venire in contatto con le donne del paese. E la cosa non è mai ben vista dal governo.

Le donne hanno portato il picnic e mangiano e bevono nella sala piena di vapore. Le canalette ora evacuano non solo l’acqua, ma pure escrementi di bambini, insalata e resti di pane.

La sala è un groviglio di corpi e canti e urla e danze e carne sudata che si muove con gioia. Le donne hanno portato dei tamburelli e suonano e cantano. Le loro voci si spandono per la sala. L’effetto è quasi ipnotizzante. Ma arriva la capa con le sue aiutanti per il massaggio. Ci fanno sdraiare ad una ad una nelle nicchie che si aprono attorno allo spazio centrale e con un guanto di crine ci sfregano il corpo dal collo alle piante dei piedi, con forza e determinazione. La solita sberla ad indicare quando ti devi girare o quando il massaggio è terminato.

Chi mandano a farsi massaggiare per prima? Ma me naturalmente!!! Vado. Tanto prima o poi mi dovrò far massacrare. Mi massacrano. Esco dalla nicchia e mi viene consegnato un secondo asciugamano pulito. Me lo avvolgo intorno alla vita e mi aggiungo al gruppo delle donne che cantano. Mi siedo e le osservo. Loro, vedendomi arrivare cominciano a suonare più forte. Mi guardano e ridono. Una donna viene e mi prende le mani. Mi invita ad alzarmi. Le donne si mettono in cerchio attorno a me con i loro bambini che ridono e scherzano, bevono dai seni delle madri e giocano con i loro corpi finalmente scoperti. Stanno tutti attorno a me e mi chiedono di ballare.

BALLARE IO? O signore. Non sono mai stata una ballerina. Adoro guardare i corpi che si muovono con naturalezza. Li guardo da sempre con una punta di invidia poiché il mio corpo mi è sempre parso rigido. Faccio loro segno che non so come si balla. Allora una donna si alza, mi toglie l’asciugamano e mi guida in una danza bellissima, dove sono quasi solo le braccia che si muovono, seguite dallo sguardo e dalle anche. Provo a seguire, e mi sento un poco ridicola così nuda tra le piastrelle ed i marmi, avvolta dal vapore e dal suono di tamburelli di quel luogo magico e strano. Le donne cantano. Arriva Christine e anche lei è invitata a ballare con noi. Ridiamo come matte.

Appena però tutte anche tutte le altre sono state massaggiate siamo invitate ad uscire subito. Il giro è finito. Vogliamo restare! Che regola è mai questa? Non c’è mica un limite di orario! Ma si, non vi è nulla da fare. La padrona antipaticissima ci spinge fuori e ci obbliga a lasciare quel luogo fatto di vapore, di corpi e di suoni.

Peccato, stavo già cominciando a muovermi quasi come la mia maestra di ballo…! Fuori il sole è secco e caldo, e l’aria è piena di polvere.

Siamo state imbrogliate ed abbiamo pagato una cifra astronomica per questo bagno, ma il ricordo della stanza piena di donne e bambini, il suono dei tamburi e le arabe senza veli che si muovono con gioia ed il sorriso sulle labbra… queste sono immagini da custodire come un tesoro dentro al cuore. Le loro risate ed i loro canti tornano ancora a farmi compagnia di tanto in tanto quando vedo delle architetture simili, zeppe di marmi e piastrelle colorate, con le loro geometrie ottagonali. Ed allora penso ad Aleppo, e a questa vacanza in Siria che sa pure un poco di Turchia. Due settimane piene di sorprese dove abbiamo incontrato gente nomade, gente cristiana, musulmana, bianca, nera, giovane e vecchia. Abbiamo bevuto e fumato con loro per strada o sedute scalze su morbidi tappeti colorati nel mezzo del deserto. Ci siamo smarrite in architetture generose di spazi aperti e lucidi puntellati di colonne, abbiamo rimirato le stelle d’oriente nel deserto, abbiamo gustato i datteri grossi e dolci che riempiono la bocca di morbidezza e dolcezza di nettare di palma. Abbiamo comperato pepe, polvere di cardamomo e anice, spezie di vario tipo e sete colorate che ancora conservo.

Tutto sommato, un ricordo di poesia che si scontra con la sensazione di oppressione. Un’immagine di bellezza che si scontra con la difficoltà di comunicare. “L’armonia del cosmo è effetto di tensioni contrastanti, come quella dell’arco e della lira.” (Eraclito?)



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