Singapore: what a wonderful world

Il futuro è già qui
Scritto da: Kingsize
Partenza il: 23/04/2012
Ritorno il: 12/05/2012
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
Un sorso appena, ed è stato uno tsunami sensoriale. L’amaro del gin tonic, che la hostess del volo LH 704 Singapore-Monaco mi aveva porto con un sorriso connivente, mi ha proiettato in un atrio immaginario di luci, specchi e cristalli, e il suo aroma squisito lo ha popolato di doppiopetti neri, colletti bianchi e inchini da Ottocento. È stato allora che ho capito tutto: Sir Thomas Stamford Raffles, i cinesi, la loro vita barbina, i dritti e i rovesci della storia e la promozione stupefacente di Singapore da terzo mondo a faro di prosperità ed esempio da imitare. Anzi, inimitabile. Si soffre ancora, naturalmente, ma solo perché questa è stata voluta dagli dèi come una valle di lacrime. Se fosse per l’illuminata dirigenza singaporiana, qui tutti sarebbero felici: avrebbero qualcosa per cui affrettarsi la mattina, qualcuno da incontrare in un centro commerciale durante il giorno, e qualche ritrovo favorito dove rilassarsi la sera. Nel sottile ma pervasivo stile orientale, lo stato, con mano sicura e inderogabile, guida la vita dei cittadini. Immigrati da poche generazioni, il 75% sono cinesi, il resto indiani con carnagione da marrone nero a marrone mattone, autoctoni malesi e i vari incroci: una popolazione giovane, dalle radici ancora visibili e così composita che ancora non mi capacito del perché i gialli non digrignino i denti davanti ai marroncini, questi non facciano altrettanto con quelli più scuri, mentre i pochi bianchi ancora sogghignano arricciando con sussiego le vocali del loro english. Singapore è un mosaico misterico.

Singapore è un astro fulgente nella costellazione delle umane espressioni e rende di colpo obsoleto tutto il resto del mondo. New York e i suoi grattacieli déco innalzati da operai da cartolina in bianco e nero, Londra e il suo granito disdegnoso, Roma e le sue strade larghe abbastanza per un cocchio sono luoghi del passato che perpetuano abitudini e gesti obsoleti. E – inconveniente ben più pernicioso – tramandano pensieri bloccati. La cura è Singapore. La stazione del metrò è solo un altro piano del grande magazzino. La scala mobile mi vomita in Orchard Road, e per una buona mezz’ora sono Alice nel paese delle meraviglie. E’ sera e tutte le luci sono accese. Neon multicolori disegnano tratteggi lampeggianti su un palazzo di vetro qua, un massiccio castello di porfido là ospita il gotha delle griffe mondiali, mentre più avanti giganteschi alberi di metallo reggono la tettoia d’un altro centro commerciale, riparando il mastodontico ingresso della sua fermata della metropolitana e, al di là della strada, gente entra ed esce da un gigantesco cono di cristallo e di luce. Forse è tutto finto, ma forse tutto è vero e sono io che sono fuori dallo zeitgeist e risiedo in un oscuro medioevo. Quel che a me pare il futuro, questa fiumana di gente lo vive nel presente.

Anni luce separano questo trionfo di luci e di colori dallo sparuto villaggio di pescatori che Stamford Raffles, perspicace emissario di sua maestà Giorgio IV, trovò qui nel 1819, trasfigurandone per sempre le sorti. A Singapore Raffles è ineludibile: c’è la statua, l’ospedale, il mitico albergo – uno dei migliori del mondo –, la marina, l’istituzione educativa. Il suo nome viene sfoggiato in ogni occasione importante, come per le feste si riesuma il servizio d’argento, eredità della nonna contessa. E’ la versione moderna del culto degli antenati, radicato presso i cinesi di qui, gli Hokkien, che dedicano alcuni dei loro templi agli antepassati, registrandone su tavolette i nomi, i coniugi, i figli, le date. Ornati dagli svolazzi del corsivo Garamond e nobilitati da un nome inglese, alcuni marchi riportano alla plebe d’oggi l’aura d’un impero che è ormai mitologia. Ma sotto l’esplosione d’una fabbrica di colori che è la città moderna, si scorgono ancora le linee-guida del passato: l’assegnazione ai vari gruppi etnici di specifiche aree di residenza e di specifiche attività, correlate alla provenienza e alle tradizioni di ciascuno. I Sikh, ad esempio, furono portati dall’India per la loro alta statura, il forte senso del dovere e la lealtà incorruttibile, per assicurare l’ordine pubblico al nascente porto.

Il punto di scambio che la corona britannica desiderava, per rivaleggiare cogli altri europei che da tempo realizzavano cospicui profitti col commercio delle spezie e di articoli esotici dall’Oriente, si aggiungeva a Penang, Selangor e Malacca, le altre tradizionali fermate lungo una rotta trafficata ormai da secoli dai portoghesi prima e dagli olandesi poi. Il panorama politico ed economico che la regione presenta è frutto delle politiche coloniali: quella inglese, pragmatica e stringente, ha imposto, ovunque sia arrivata, un ordine e una pulizia di comportamento che fanno ormai parte del subconscio collettivo della popolazione; quella olandese, meno accorta, ha creato un’Indonesia fiacca. Da Sumatra gli indonesiani volano low-cost per andare a curarsi in Malesia, e indonesiane sono a Singapore le domestiche, quelle che spesso cadono dai piani alti mentre puliscono i vetri delle finestre o mettono i panni ad asciugare. Poco male, visto che sono considerate una forma di vita inferiore. Ora tocca agli indonesiani essere i pariah, ma così in passato erano considerati anche gli immigrati cinesi. Adesso i loro nipoti, ben nutriti, stipano le metropolitane nelle ore di punta e mangiano a tutte le ore negli onnipresenti centri di ristorazione, sciamando come uno stormo di storni che non si ferma mai, ciascuno colla propria storia, tutti portando nel sangue i sacrifici, i fatti o i misfatti dell’antenato che, nuovo capostipite, arrivò in questa lontana terra promessa per sfuggire alla povertà, alla guerra civile o alla corruzione del proprio villaggio, offrendo se stesso ad un mondo nuovo in cambio di una vita nuova. Che, a giudicare dai resoconti e dalle ricostruzioni del Chinese Heritage Centre e di Images of Singapore, il nuovo museo di Sentosa, deve essere stata altrettanto penosa della precedente: i nuovi arrivati venivano monopolizzati dalle confraternite sorte per la salvaguardia dei vari gruppi etnici, le quali, se da una parte facilitavano il loro inserimento nella comunità, dall’altra ne determinavano l’occupazione, esigendo il pizzo per la protezione offerta. Le foto in seppia e i cortometraggi d’epoca sono affollati di risciò trainati da uomini smunti e scalzi, forse quegli stessi che poi si vedono abbandonati su tavolati, intenti a fumare. Vite condotte allo stremo, a cui altro sollievo non s’offriva che l’oblio della pipa d’oppio o gli incontri con le prostitute. I già magri guadagni evaporavano e molti erano condannati alla rovina fisica dall’assuefazione e dalla sifilide. Le condizioni di vita di questi schiavi, stipati in angusti spazi divisi da tramezzi di tavole di legno, stringono il cuore, ma il peggio arrivò dopo, con le sofferenze inflitte, senza distinzione di razza, durante l’invasione giapponese del 1942-45. Era stato detto che nulla potesse succedere a Singapore, ma la protezione inglese fallì e l’efficacia delle tattiche nipponiche sorprese ogni difesa, che si rivelò inutile e spaesata. L’idea giapponese di onore, lealtà e obbedienza è totale e cieca, e l’ordine era di conquistare, distruggere, uccidere. Il sangue è duro da lavare, e forse per questo, nell’affascinante e mastodontico Asian Civilizations Museum, che espone stupendi artefatti da tutta l’Asia, non c’è traccia del Giappone. E anche le vicende presentate in altri musei sono edulcorate, mancando significative sezioni.

Avvincente per gli adulti è la lezione di storia impartita dal Museo Nazionale: immagini e oggetti sono numerati e il visitatore ne ascolta il racconto digitandone il codice su un palmare fornito all’ingresso. L’intento dei curatori è creare un’esperienza audiovisuale che ricrei il momento storico anche partendo da oggetti d’uso quotidiano. Images of Singapore persegue il medesimo obiettivo servendosi di un gran numero di diorami a grandezza naturale ed è rivolto ai ragazzi. Il Museo Peranakan presenta i volti, gli ambienti, le storie, gli oggetti e gli abiti di questo particolare segmento della popolazione, formatosi con i matrimoni dei commercianti cinesi, indiani, filippini ed ebrei con le donne malesi del luogo. Molto caratteristici i loro lavori con le perline (che non assomigliano alle veneziane: sono piccolissime, squadrate e provenivano dalla Cecoslovacchia).

Oltre alle atmosfere alla Blade Runner, nell’isola ci sono altre realtà e la varietà di situazioni arricchisce enormemente l’esperienza di questo viaggio. Geylang, ad esempio, è un quartiere coinvolgente che continua la tradizione, tutta cinese, dei negozi specializzati. Non è la Cina, non scimmiotta Hong Kong e non somiglia né alla Thailandia né al Laos o alla Cambogia. È l’emporio della città, dove tutto costa ancora due soldi, dove i negozi sono a conduzione familiare e occupano le tipiche shophouse a due soli piani. Scodelle di riso siedono su vassoi di plastica o su foglie di banano, accompagnando carne e verdure in ristoranti informali, popolati a qualsiasi ora da avventori altrettanto informali. Riflessologia plantare, negozi di articoli da bagno, di tubi di plastica, di pentole si rincorrono sotto il porticato che ripara dal solleone e dalla pioggia e, come da noi, non si è mai lontani da un tempietto. Il turista curioso s’affaccia, esitante, per una sbirciata alle immagini sacre, invariabilmente circondate da un ingiustificato tripudio di rosso e d’oro, mentre il vecchio custode, indifferente, continua ad ascoltare la radio: molto informale anche la religione, qui. Sebbene più curati, gli indiani condividono coi cinesi il gusto per immagini coloratissime, e statuette e scenette dai testi sacri siedono appollaiate sul tetto del sancta sanctorum, sui muri di cinta e, in gloria, sul gopuram, l’entrata monumentale al tempio. Solo i musulmani – ce ne sono anche qui, non tanti come a Kuala Lumpur, ma non è raro incontrare una donna colla testa coperta dal hijab –, solo a loro è proibito creare rappresentazioni del naturale, ma si rifanno indorando le cupole a cipolla delle moschee e dei minareti e l’accesso alla Moschea Sultan, a Little India, è bellissimo: un breve viale pedonale fiancheggiato da palme e shophouse semplici od ornate, sotto i portici delle quali si accalcano i negozi di tessuti degli indiani e quello di un fotografo che mi vuole vendere un manicotto di plastica trasparente per usare la mia Canon anche quando piove. A sud del Singapore River, Chinatown ancora ritiene un’aria da quartiere. La smania rinnovatrice vi ha avuto libero sfogo nel 2007 con la costruzione d’un monumentale tempio dove si conserva una reliquia di Buddha, ma è stata fermata prima di distruggere i fotogenici vicoli del vicinato, che ospitano fornitissimi negozi di utensili da cucina o di oggetti di carta che, nel giorno dei morti, vengono bruciati affinché la loro essenza arrivi ai destinatari nell’altro mondo. Il parco della collina Ann Siang trasuda una storia commovente di immigrati, templi e taverne, e il vicino tempio indù Sri Mariamman è un ritaglio di vera India con officianti discinti, pasciuti e pelosi e fedeli religiosamente compresi. Mentre i marmi della city specchiano ragazzotti rampanti in giacca di rappresentanza, allontanandosi abbastanza dai grattacieli del centro si trovano i tranquilli quartieri residenziali con le ariose villette con giardino di chi ha realizzato il sogno americano. E una menzione specialissima merita l’incredibile, entusiasmante e sconvolgente “Transformers: The Ride”, la nuova attrazione 3D degli Universal Studios, che da sola merita il viaggio.

Ma gli schiavi ci sono ancora. Li si può vedere, sporchi e sdruciti, lavorare la sera nei molti cantieri, a tessere le interiora di una bestia che sarà poi una strada o un grattacielo. Sono i moderni esponenti dell’antica classe dei diseredati, fornitori di mano d’opera non pagata e in passato venduti addirittura come schiavi. Pare vergognarsene, la bella Singapore, e li nasconde bene, ma non sono i soli ad essere sfruttati: la gente che sonnecchia, esausta, sul metrò, denuncia che anche per altri il giorno di lavoro è troppo lungo. I padroni del presente, dal canto loro, non possono permettere che il loro dominio venga messo in pericolo dal popolo da cui così studiosamente stanno traendo vantaggi personali e che potrebbe scendere in piazza se venisse a conoscenza delle decisioni prese e degli accordi stipulati dalla classe che ha democraticamente eletto a lavorare per il benessere e progresso comune. E’ palese che la libertà d’espressione a Singapore è argomento tabù. Io, però, rinuncerei volentieri alla libertà di trovare uno sciopero in città un giorno sì un giorno no, alla libertà di lottare col traffico deviato a causa di cortei, manifestazioni e proteste a scadenza plurisettimanale e alla libertà di veder insediarsi una classe politica incompetente e profittatrice dopo ogni giro di elezioni, se vedessi il mio tenore di vita migliorare anno dopo anno, se potessi fruire di un sistema di trasporti pubblici rapido e capillare, se gli spazi pubblici fossero curati e mantenuti, se il comune promuovesse iniziative culturali gratuite, se sentissi che la mia città sta a cuore a chicchessia che la governi. Tutti potremmo concordare che il bene supremo è quello comune, il cui perseguimento è la raison d’être della politica,e se questo è il prezzo da pagare…

La presenza di questa cortina fumogena in politica è evidente, tuttavia Singapore è probabilmente balzata in serie A proprio grazie a una persona con una visione chiara e la determinazione e l’appoggio per materializzarla. Può anche esser stata questione di fortuna, di situazioni contingenti e irripetibili: le ascese e i rovesci da queste parti sono comuni come le maree. Fatto sta, quando c’era lui, caro lei, i treni viaggiavano in orario e tutto funzionava – e anche se adesso lui ha lasciato la scena politica, s’è assicurato che i successori provvedano tale e quale come prima. “Lui” è Lee Kuan Yew, primo ministro dal 1959 al 1990. Tutto merito di Mr. Yew? O dell’impegno comune di cinque milioni di singaporiani? O della fortuna sfacciata di trovarsi al posto giusto – in mezzo tra Oriente e Occidente – al momento giusto – adesso che il sol dell’Occidente sta per tramontare e quello dell’Avvenire comincia già a tingere il cielo dell’est d’un’alba rosata? O si tratta dei movimenti epocali di interi imperi, la gente dell’occidente ormai avvezza al lusso e incapace di impegno, di umiltà e di ideali, la cui presenza invece riempie qui le strade e forse anche il cuore delle persone? Cos’è, cos’è che ci differenzia, perché qui c’è l’anelito della speranza, perché qui domani sarà meglio di oggi mentre, al momento di rimettere piede in Europa, l’ordine dell’aeroporto di Monaco mi ha sgomentato come l’ordine delle lapidi d’un cimitero? Hanno ragione quelli che invitano i giovani a emigrare, a farsi la propria vita in un paese colle ali spiegate: in Europa non si può che andare a fondo. Alla lezione di cucina cinese che ho voluto concedermi – “Rosola il sale innanzitutto!” è stato l’insegnamento più importante – era presente un ragazzo da Londra, a Singapore per un rendez-vous colla fidanzata, una filippina che per accorciare le distanze si è trasferita qui. Mi commentava che a Londra la situazione è difficile, mentre a Singapore ci sono aperture per i giovani: probabilmente faranno famiglia qui.

Così, di nuovo, come nell’Ottocento, Singapore veste il manto di terra promessa, attraendo genti da Oriente e da Occidente. Allora, l’appello era: “Ciascuno per sé e Dio per tutti”. Adesso sembra essere: “Insieme siamo una forza”. E il giuramento di ogni singaporiano è di ricercare l’unione con gli altri per così raggiungere la prosperità, la pace e quindi la felicità. Questa dichiarazione d’intenti non è nuova ma, evidentemente, non avendo avuto molto successo, nonostante secoli di sforzi, nel nuovo continente, ha cercato sostenitori in uno dei vecchi. Chi ha costruito questi grattacieli, chi ha organizzato questa baia così fotogenica, chi ha piantato in tutta la città centri commerciali in grado di soddisfare ogni esigenza con una sola visita? Dopo il disastro di Chernobyl, la civiltà post-industriale nella quale viviamo si è resa conto che il progresso non può essere inteso solo come crescita inarrestabile. Dopo la caduta del muro di Berlino, il nuovo capitalismo è sempre più informato all’ecologia, che si è imposta come la nuova etica. Chi ha ideato e mantiene un giardino botanico così curato e piacevole che davvero pare i Campi Elisi? E uno zoo senza sbarre dove gli animali si godono un pezzetto del loro vero habitat? Chi ha conservato uno scampolo di foresta pluviale all’interno della propria città? Chi ha un’isola – Sentosa – tutta dedicata al divertimento, con spiagge, parchi a tema, acquario, musei, attrazioni e spettacoli? E un porto tra i più attivi del mondo? Non sono forse loro, i Singaporiani, ad aver costruito la città ideale?

È sorprendente che siano stati i cinesi a calare le geometrie perfette e la pulizia metafisica di Piero della Francesca nel XXI secolo. All’uscita da un museo o da un centro commerciale pare addirittura che il creatore dell’universo abbia fatto un torto a tanta industriosità, rivelandosi incapace di fornir di meglio d’una temperatura compresa tra 23 e 31 °C, con un’umidità tra il 70 e l’80%. La gente suda, suda come noi: non ci si abitua, è un clima che prosciuga le forze. Non sorprende allora che i centri commerciali siano il vero luogo della vita: quella vita che da noi, un tempo, amava concentrarsi nelle piazze, che prendeva il fresco lungo lo struscio, qui fluisce da un piano all’altro di scatole magiche che contengono di tutto, dai veri Rolex al balsamo toccasana della Tigre, dall’importatore di sgargianti e costosissimi cristalli cinesi alla vecchina che sgombra e pulisce i tavoli della zona ristorazione. Dentro e fuori la metropolitana, si segue il filo d’Arianna dell’aria condizionata. Mentre noi chiedevamo allo specchio chi fosse la più bella del reame, decidevamo che “Bulgari” è più chic scritto con una “v” e partivamo, a cavallo d’un caval, per contrastare l’invasione dei barbari McDonald’s, a Singapore si costruiva un’Area Centrale d’Affari che nulla ha da invidiare a Wall Street e, a completare l’affaccio sullo Stretto, l’albergo forse più memorabile del mondo: un segnaposto di tre colonne da 55 piani sulle quali appoggia una terrazza con belvedere, bar e piscine. Questo è il vero primo mondo, e il futuro che la fantasia non ci basta ad immaginare qui è già routine. E tutto marcia. E’ mantenuto. La scala mobile che qualche ora fa non funzionava adesso va, vedi? E’ forse la composizione multirazziale della popolazione ad aver dato loro un alto senso civico? L’impressione di ordine, di libertà, di piacevolezza delle strade è anche data dal fatto che non ci sono graffiti sui muri e sui marciapiedi sono assenti le macchie da gomma americana, famosamente messa fuorilegge nel 1992. Le stazioni della metropolitana brillano per pulizia ed efficienza, ognuna è dotata di bagno pubblico – un sollievo per il turista che gira tutto il giorno –, che è pulito quanto quello di casa tua. All’entrata delle stazioni un monitor a LED indica la destinazione e i minuti mancanti all’arrivo del prossimo treno. Non ci sono fannulloni, ubriachi, musicisti ambulanti o mendicanti. E’ un altro mondo, uno a cui noi incivili ci adeguiamo con piacere perché ha tutto quel che farebbe migliore il nostro, e che da noi non siamo in grado di attuare. Non abbiamo non dico il buon gusto – sarebbe chiedere troppo alla truppa – ma neanche la sensibilità sociale per non imbrattare i muri delle nostre case, per non insozzare i nostri spazi pubblici; un pernicioso menefreghismo ci ha convinto che quel “pubblico” a cui appartengono tante strutture, i parchi, le risorse culturali, in realtà non siamo noi, perché siamo sempre e solo stati un assembramento di “io”, mai un “noi”. E abbiamo quel che ci meritiamo.

L’euforia di un viaggio a Singapore è il risultato di un grafico in ascesa, l’entusiasmante successo di un paese giovane, un’età dell’oro da apprezzare adesso, prima che Singapore si accorga di quanto abbia sorpassato i vecchi mastodonti della tarda civiltà industriale, inizi a compiacersi e si sieda. Con i frequenti, improvvisi e intensi acquazzoni tropicali, la giungla se ne approprierebbe in men che non si dica. Forse è destinata ad essere la Angkor Wat del ventottesimo secolo, ma adesso questa meraviglia è spudoratamente seducente e alla portata di tutti. Peccato che, quando la hostess offrirà il gin tonic durante il volo di rientro, tutto il puzzle della logica occidentale si ricomporrà nella mente dell’inconsapevole viaggiatore e Singapore tornerà ad essere il futuro chimerico che non gli apparterrà mai.

Ogni sera, raccolti alla statua del Merlion, simbolo della città, mezzo leone e mezzo sirena, o magari reduci da uno dei teatri della futuristica Esplanade, i turisti si beano alle note di Louis Armstrong che accompagnano uno spettacolino di musica, laser e proiezioni sull’acqua a Marina Bay: “And I think to myself: What a wonderful world”. Nello stupore della notte spalancata sul mare, Singapore si specchia nello scenario dei colori e dei grattacieli della baia e va incontro alla notte con un ineffabile, compiaciuto sorriso.



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