Alle radici della Serbia

Belgrado mi ha accolto con la pioggia. Temevo lo stesso caldo torrido che ho lasciato a Roma: l’acqua, perciò, è una fresca e gradita sorpresa, purché non duri per tutto il viaggio. Il pullman davanti all’uscita dell’aeroporto, con 200 Dinari mi lascia alla stazione, e lì, per 1.000 e spicci Dinari prendo il biglietto per Novi Pazar....
Scritto da: Costanzo
alle radici della serbia
Partenza il: 07/08/2008
Ritorno il: 21/08/2008
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Belgrado mi ha accolto con la pioggia. Temevo lo stesso caldo torrido che ho lasciato a Roma: l’acqua, perciò, è una fresca e gradita sorpresa, purché non duri per tutto il viaggio.

Il pullman davanti all’uscita dell’aeroporto, con 200 Dinari mi lascia alla stazione, e lì, per 1.000 e spicci Dinari prendo il biglietto per Novi Pazar. Alle 13h05 si parte. Ci sono 5 ore di viaggio per Novi Pazar: passano lente, accompagnate dalla radio del pullman che diffonde canzoni melodiche e struggenti, intervallate da pezzi dance, tra cui uno degli ultimi successi dell’intramontabile Lepa Brena che qui spopola da più di 20 anni. All’arrivo m’informo, nella scalcinata stazione, sui bus per il Kossovo e vado in albergo. L’hotel Vrbak deve aver conosciuto tempi migliori: dubito che sia stato sempre in queste condizioni. È un edificio mostruoso, a metà strada tra un’astronave e un caravanserraglio, con un non so che di moschea. È oscuro e sembra abbandonato; comunque con 1.200 Dinari (15 €) mi piglio una stanza e passa la paura.

Novi Pazar è una città surreale: la zona nuova è stata vittima di architetti folli che hanno costruito dei mostri, degli azzardi edilizi senza capo né coda; la parte antica, invece, ha case basse coi tetti spioventi di tegole da cui svettano i minareti delle moschee: assomiglia un po’ alla zona della Baščaršijia di Sarajevo.

Alle 8 di sera i muezzin iniziano a chiamare la preghiera, e, quasi in contemporanea, la gente esce di casa: a quest’ora inizia la movida. Le strade si riempiono di giovani, i bar e i ristoranti si animano. Io mi concedo solo una pannocchia lessa presa dalla signora in piazza, faccio un po’ di spesa e vado a nanna.

Gira gente di tutti i tipi a Novi Pazar: donne col velo e ragazzi alla moda, oppure ragazze alla moda ma col velo in tinta. L’atmosfera è più ruspante rispetto a Belgrado: mi sembra di stare in un film italiano anni ’60. In ogni modo, qui non sono molto diversi da noi: siamo noi che in cinquant’anni ci siamo dati un tono; mi sento quasi a casa.

Prima che suoni la sveglia, sono già in piedi. Simile a Roma c’è sicuramente il traffico: fatte le debite proporzioni, calcolando che qui ci vive meno gente, il rumore è più o meno lo stesso. Dopo colazione, mi accordo col portiere per fare un giro delle chiese ortodosse nei paraggi: non ci sono mezzi pubblici che ci arrivino, mi passa a prendere un ragazzo che con la sua macchina mi fa fare un tour. Per prima cosa, andiamo al Monastero di Sopoćani, gioiello dell’architettura del XIII secolo incastonato tra il verde delle alte colline a 14 km dal centro. Ci sono solo io a visitare il complesso; all’interno c’è la Messa: entro ed esco sùbito per non disturbare e perlustro l’esterno del sito. Dopo Sopoćani, si va al monastero delle Colonne di San Giorgio (Djurdjevi Stupovi), costruito nell’XI secolo i cima ad una ripida collina da Stefano Nemanja, il primo grande sovrano serbo. Poi si va alla chiesa di San Pietro (Petrova crkva), una costruzione romanica circondata da un antico cimitero: una bomboniera. Dal ragazzo mi faccio dare un paio di dritte per andare a Priština, parliamo dell’autoproclamata indipendenza del Kossovo e della vita in Italia e i Serbia, della disoccupazione, del caro prezzi. Alla fine, stabiliamo che siamo messi male sia noi che loro, solo che in Serbia hanno una grande voglia di migliorare e grandi progetti per il futuro, da noi tutta questa speranza non la vedo. Il prezzo del giro è di 3.000 Dinari (38 € circa): non è pochissimo, ma ne è veramente valsa la pena.

La sveglia era puntata alle 5h00, ma i cani che abbaiano, i tassisti che urlano, i clacson che suonano, un accidente che se li piglia tutti insieme, alle 4 e mezza sono sveglio. Alle 5h30 vado in stazione per prendere il bus delle 6 per Priština, ma, dato l’anticipo, prendo quello delle 5h45. I paesaggi tra Novi Pazar e il Kossovo sono bellissimi: montagne alberate, il fiume che scorre, la nebbia che avvolge tutto alle prime luci dell’alba. Lungo il tragitto ci sono diversi blindati; dopo una curva, su metà carreggiata, è stesa una corda chiodata accanto ad una cavallo di frisia. Arrivati al “confine” i militari della KFOR controllano i passaporti e si entra in Kossovo. Dopo circa un ora sono a Priština. Prendo un taxi fino alla guest-house Velania, mi sistemo e riprendo un taxi per la stazione dei pullman. La guest-house Velania ha il pregio di costare solo 15 € a notte, ma il difetto di trovarsi lontanuccia dal centro: per raggiungerla bisogna per forza prendere il taxi, e non tutti i tassisti mettono il tassametro. In più di notte càpita che manchi la corrente per alcune ore: il gestore accende un generatore in cortile che fa un rumore d’inferno: se si ha una stanza interna bisogna chiudere le finestre. Alle 8h00 parte il bus diretto a Gnjilane che dopo 15 minuti (0,50 €) ferma a Gračanica. Comunicare è un po’ difficoltoso: sono in pochissimi a parlare una lingua straniera, come era anche a Novi Pazar, ma finché si trattava dei Serbi me la cavavo, l’albanese, invece non lo parlo proprio! Per chiedere quale bus prendere, si può spostare in avanti di una sillaba l’accento dei nomi delle località in serbo e più o meno si riesce a dirle in albanese; poi qualche parola l’ho imparata guardando la TV alla guest-house, e per i numeri ci sono le dita, per cui si va avanti. Gračanica è una cittadina abitata da Serbi. Da vedere c’è solo il monastero omonimo, costruito nel XIV secolo da Stefano Dečanski, il sovrano che riunì in un unico impero tutti i territori abitati da Serbi. Il monastero è presidiato da militari svedesi; dentro ci sono alcune monache che lo tengono in ordine. L’interno della chiesa è pieno di affreschi che sono tra i capolavori della pittura medievale serba. Visitato il complesso, raggiungo la fermata del pullman camminando lungo la strada principale di quello che era un fiorente paesino e che oggi è un centro mezzo distrutto in cui tutti i Serbi della zona si sono raggruppati dopo essere scappati dalle violenze degli Albanesi. Il pullman si ferma diffidente, mi carica e torniamo a Priština. Da lì salgo sùbito sul bus per Peć (Peja in albanese). Lungo la strada vedo, sulla destra, lo scheletro una chiesa ortodossa distrutta e, accanto, case bombardate e abbandonate. La chiesa mi sembra una vecchia signora decapitata, accasciata al suolo, con la cupola staccata dal corpo: raccapricciante! Eccoli i segni della guerra! Nel 1999, la popolazione albanese del Kossovo decise di dichiararsi indipendente. Per farlo si ribellò contro i Serbi, uccidendo, stuprando, distruggendo più di 100 tra chiese e monasteri, e bruciando villaggi e case di Serbi. I Serbi allora, stupidamente, risposero allo stesso modo: uccisero, stuprarono, bruciarono moschee e case di Albanesi, e intervenne anche l’esercito jugoslavo. Ma gli Albanesi che avevano commesso le loro prodezze senza che il mondo lo sapesse, viste le brutte, chiamarono aiuto. L’Occidente notò che i Serbi stavano esagerando e bombardarono la Serbia accusandola di fare pulizia etnica. Peccato che i primi ad essere stati ripuliti fossero loro! Infatti oggi, anche dopo che nel 2004 nuovi attacchi contro i Serbi sono stati portati avanti in tutta la Provincia, le truppe NATO sono qui a controllare che i pochi slavi rimasti e quello che resta del loro patrimonio storico non facciano una brutta fine. Arrivato a Peć, prendo un pullman per Djakovica (Gjakova in albanese), che ferma a Dečani (Deçan). Arrivato, chiedo a un tassista di portarmi al monastero distante 4 chilometri. Parla francese e ci accordiamo che, finita la visita, gli telefono e mi torna a prendere. Per entrare bisogna consegnare il passaporto ai soldati italiani che lo sorvegliano: se da dentro dànno il permesso di entrare, ti registrano e puoi passare. Il monastero è un’oasi di tranquillità rispetto al caos frenetico delle città kossovare. La porta della chiesa è chiusa quindi non entro; visito l‘esterno, faccio diverse foto ed esco. Provo a chiamare il taxi, ma i cellulari italiani non funzionano bene in Kossovo. Dipende dalle compagnie che dànno la connessione, con qualcuna si riesce ad essere attivi, con altre si è isolati anche se ci sono le tacche dell’antenna. Un soldato mi presta il suo con tessera kossovara: dopo 40 minuti il tassista arriva e mi riporta in centro. Nel frattempo che aspetto, alcuni tedeschi visitano il monastero, rimanendo all’interno per molto tempo: forse la chiesa era aperta, sono stato troppo discreto, peccato. Dečani è un po’ la culla della Nazione serba che si può dire sia nata qui. La Serbia senza il Kossovo sarebbe come l’Italia senza Roma: perderlo è come perdere il cuore, le radici, il seme della propria civiltà. Ritorno a Peć: vorrei visitare il Patriarcato, ma un po’ la stanchezza, un po’ il fatto che non so dove sia e dovrei andarci con un altro taxi, un po’ l’ora tarda (i bus terminano le corse presto) lascio stare. Torno a Priština. Faccio una piccola spesa e poi vado in camera: lì ceno e accendo la TV. Un po’ di notizie, poi dànno un film con Boldi e De Sica alla TV albanese, in italiano con sottotitoli. È qui che imparo qualche parola: sì, no, cazzo, figlio di puttana: chi l’ha detto che i film di Boldi e De Sica non sono istruttivi? Sottotitolati lo sono! L’indomani, Prizren, nel Sud del Kossovo: 4 €, 90 minuti circa, col bus che, come quelli del giorno prima, ci rallegra con le ultime hit della musica albanese, tra cui spiccano i brani di Ermal Fejzullahu che in pochi giorni so quasi a memoria. Dalla stazione mi incammino per il centro, gironzolo, poi decido di visitare la chiesa della Madonna di Leviš, un altro dei siti ortodossi protetti dall’UNESCO e dalla KFOR. Salgo su un taxi e chiedo di portarmici. Il tassista non parla inglese. Non capisce. Gli faccio leggere il nome dalla guida: no! Però vede la figura di una moschea e va lì. Bella la moschea, ma la Madonna di Leviš? Glielo chiedo in serbo:”chiesa ortodossa serba della Vergine Leviška?”. Niente! Non sa proprio cosa sia. Però capisce “chiesa” e mi porta davanti ad una chiesetta bombardata e circondata da filo spinato. Gli dico che no, non ci siamo proprio «Portami alla moschea bella di prima, va’ e la chiudiamo così!». Tre euri e scendo dal taxi. Il centro di Prizren è rimasto un po’ come un tempo con le case basse, l’hammam, la moschea di Sinan Pascià e la cattedrale ortodossa bombardata pure lei, protetta dai soldati e in via di ricostruzione. Nelle strade intorno alla moschea, ai piani terreni, ci sono locali e bar. L’atmosfera è festaiola: Prizren è una bella sorpresa. Bus e torno a Priština. Come a Novi Pazar, anche qui gli architetti si sono sfidati a chi facesse la cacata più grossa. Secondo me, ha vinto quello che ha realizzato la biblioteca universitaria, ma anche quello del palazzo che ora ospita la KFOR non lo distanzia di molto. Priština non ha che qualche moschea e qualche casetta intorno al bazar che sappiano di storia; il resto è un susseguirsi di caseggiati enormi nello stile del socialismo reale, altri in stile periferia degradata, tipo quartiere Zen a Palermo o Corviale a Roma, casette in stile abusivo e qualche palazzo più recente in vetro che ha una sua pur minima dignità. Verso la periferia e lungo le arterie di comunicazione con le altre città, invece, è tutto un fiorire di nuove case, tutte villette, tutte belline, tutte col tetto spiovente, segno che quando un privato può scegliere, la casa se la fa costruire bella. E qui sono in parecchi che lavorano in Germania, Belgio o Svizzera e che l’estate tornano a trovare i parenti e a vedere a che punto è la nuova casetta. Voglio passare a Kosovska Mitrovica: un’oretta e 1,50€ e ci sono. La città è il simbolo delle divisioni etniche da queste parti: per metà è albanese, per metà, roccaforte serba. Le due zone sono divise dal fiume Ibar attraversato da un ponte, ovviamente piantonato. Il bus ferma nella parte albanese: per arrivare al ponte bisogna percorrere il lungo viale verso Nord, attraverso negozi che vendono di tutto, musica ad alto volume, un via vai di gente e veicoli: un allegro trambusto. Oltre il ponte, una città spettrale, vuota, buia, sinistra, zitta. Negozi chiusi, bar silenziosi. Anche le bandiere serbe appese ovunque stanno ferme, di là sventolavano. Mio Dio che tristezza! Qui si respira un’aria di paura, di sconforto, di abbandono e di rabbia. Torno di là, rivado a Priština, passeggio per i viali del centro e rincaso. Stasera niente film in italiano, ho sonno, buonanotte.

Sveglia alle 6, stazione, bus per Skopje, Macedonia; da lì, dopo un rapido giro, pullman per Ohrid: partenza alle 14. Il bus ha l’aria condizionata che funziona a modo suo; in più, non so perché, il sole anche quando cambiamo direzione sta sempre dalla parte mia. Dopo tre ore arrivo, sudato, a Ohrid, ridente cittadina sul lago omonimo. Rapido giro, cenetta a base di polpetta di pecora e torno in albergo. L’indomani visito tutto il centro storico, cominciando dalla fortezza di Re Samuele a scendere verso il lago. Ci sono diverse chiese ortodosse circondate dalle antiche dimore dai balconi in legno: il monastero più bello è quello di San Giovanni Kaneo, su uno spuntone di roccia a picco sull’acqua. Non pranzo, giro, cammino, visito la chiesa cattolica e chiacchiero con Padre Stefano, il missionario gesuita croato che mi racconta dei rapporti tra le fedi in questa terra multireligiosa; ceno con gulash e peperoni arrostiti, poi hotel. Il giorno dopo, nel pomeriggio, avrei dovuto farmi tre ore e 300 Denari per Skopje, tre ore di attesa e altre 9/10 ore e 1.300 Denari per Tirana. Invece tento la via più breve: di mattina 30 minuti e 40 Denari per Struga, 500 metri a piedi, un’ora e mezza di attesa, 6 ore di bus e 500 Denari per Tirana: molto più conveniente. Il pullman è una sauna maleodorante. L’aria condizionata è peggio di quella per Ohrid: alcuni bocchettoni sono otturati, quello sulla mia poltrona è chiuso da un giornale appallottolato; col consenso del mio vicino finlandese lo stappo e proseguiamo. Anche stavolta il sole sta sempre contro il mio finestrino, pure dopo le curve a gomito: il mistero continua. Il caldo è assurdo: una signora si sente male ed un’altra è lì lì per farlo. Alle sette di sera sono a Tirana, Albania. Vicino alla stazione vedo l’insegna di un hotel, la signora se la cava in Italiano: 15 € a notte per una stanza mezza diroccata, ma pulita col TV del 15/18 che prende solo un canale albanese e uno montenegrino. Opto per ascoltare le notizie in montenegrino, poi giro rapido di sera per il centro, cenetta in camera e nana. La mattina si visita Tirana: la piazza Skanderbeg con la moschea di Et’hem Bey e il Palazzo della Cultura. Di séguito, tour senza meta in una città cadente e bollente. Tirana non ha quelli edifici assurdi di Priština, ma nemmeno le casette antiche di Prizren o Ohrid. Se togliamo la piazza Skanderbeg dove si affacciano anche alcuni edifici italiani degli anni ’30, a Tirana ci sono solo casermoni popolari, qualche palazzo in marmo bianco socialista e quelli in stile ecomostro. Qua e là stanno sorgendo alcune palazzine più graziose e qualche megaedificio di vetro. Molte case, per diminuire lo squallore, hanno le facciate multicolori a tinte forti: quanto meno dànno allegria al paesaggio, altrimenti deprimente. C’è da dire, però, una cosa: gli Albanesi fanno degli sformati di carne o formaggio da premio Nobel. Passo il pomeriggio a zonzo e trovo riparo dalla calura sotto gli alberi del parco, dove trascorro un paio d’ore a far niente e un’oretta a chiacchierare con Gérard, un Francese che vive a Londra e sta facendo anche lui un giro in solitaria per queste lande. Alle 20 parte il bus con il climatizzatore in ordine, per Skopje (20€). Alle 5h30 arriviamo e alle 7h45 si parte per Niš, Serbia (680 Denari macedoni). Niš ha un lungo passato alle spalle. L’Imperatore Costantino ci si fece costruire casa, i cui resti si possono visitare nel sito di Mediana, a pochi chilometri dal centro. Nel Medioevo fu un importante crocevia di commerci ed eventi storici. Dopo la conquista turca, il declino. Solo alla fine del XIX secolo, con l’indipendenza, furono costruiti gli edifici del centro: eleganti palazzine liberty alcune delle quali sopravvivono ancor oggi soffocate dagli orrendi edifici di epoca socialista e dai cartelloni pubblicitari, e in gran parte lasciati lì a scrostarsi. Dormo all’hotel Ambassador, un tempo orgoglio del progresso della città: un palazzone di 15 piani nella piazza centrale, un albergo un po’ fumé, trasandato come tante cose qui in Serbia. Lunedì visito per bene la città: c’è poco da vedere e in più i musei e i luoghi storici sono chiusi. Vado al campo di concentramento nazista della CK di cui visito solo il cortile col permesso del custode; poi vado alla Torre dei Cranii, un regalino dei Turchi che l’hanno costruita con mattoni e teschi di Serbi uccisi. Vedo la chiesa dei Santi Costantino ed Elena, Patroni della città, di recente costruzione e non ancora finita, e la Cattedrale. C’è poi la Fortezza, una grande fortificazione ora trasformata in parco pubblico. Davanti all’entrata c’è una cappellina circolare: un monumento commemorativo dei morti sotto le bombe della NATO nel ’99. L’indomani di mattina si parte per Novi Sad, il capoluogo della Provincia della Vojvodina. Novi Sad è stata turca per molto meno tempo rispetto al resto della Serbia: nel 1687 gli Austriaci la liberarono, e la città rinacque. Qui sembra di stare in Austria: la grande piazza centrale ospita bassi edifici settecenteschi, l’imponente cattedrale cattolica in stile neogotico, il Municipio e il massiccio hotel Vojvodina il più antico albergo in città. Raggiungo a piedi il centro. Passo la prima notte in un ostello reperito al volo e prenoto la seconda all’hotel Vojvodina che concede più privacy rispetto ad una camerata. Dopo aver seguìto invano i cartelli che ìndicano l’ufficio del turismo, decido di lasciar perdere e muovermi a naso. Gironzolo per le vie del centro, fiancheggiate dai begli edifici settecenteschi, e arrivo al Danubio. Salgo sul ponte e dall’altra parte vedo la fortezza di Petrovaradin. Volevo chiedere all’ufficio del turismo come arrivarci, ma, avendola trovata da me, la raggiungo. M’inerpico per la strada che porta alla sommità della fortezza e da lì mi godo il panorama di Novi Pazar e dei suoi ponti sul fiume distrutti dalla NATO e ricostruiti da poco. Il villaggio di Petrovaradin, ai piedi della rocca, risale al ‘700 ed ha belle casette basse col tetto spiovente e le facciate decorate di stucchi: saranno secoli che non le ritinteggiano, ma il loro fascino è intatto. Torno all’ostello, doccia ed esco di nuovo. Le strade di sera sono piene di gente che siede nei locali. Mangio in una tavola calda dove preparano un cibo fenomenale a prezzi bassissimi. L’indomani mi trasferisco al Vojvodina prestissimo di mattina, raggiungo la stazione e prendo un bus per Sremski Karlovci. Lì, con l’aiuto dell’addetta all’ufficio turistico, contratto con un tassista un piccolo tour per la Fruška Gora, una catena collinosa fiancheggiata dal Danubio, dove nei secoli scorsi furono costruiti 35 monasteri, 6 dei quali, nel ’99, bombardati dagli USA che, evidentemente, cercavano tra i monaci pericolosi criminali. Il tassista vuole 1.000 Dinari per ogni monastero: decido di visitarne due: quello di Krušedol e quello di Grgeteg. Al ritorno, passo un po’ di tempo per le strade antiche di Sremski Karlovci, nel suo mercato, tra le sue chiese barocche. Il giorno dopo è il momento di andare a Belgrado: un’oretta di pullman ed eccomi alla stazione degli autobus, caotica, frenetica come la ricordavo. L’albergo dove ho dormito l’anno passato è tutto pieno: peccato, era comodo pernottare in centro; vado all’hotel Astoria, vicino alla stazione. Belgrado me la sono lasciata per ultima un po’ perché è più comodo tornare da qui all’aeroporto, un po’ per dedicarle tre giorni pieni senza fretta e girarmela con calma, ripercorrendo le strade che l’anno scorso me ne hanno fatto innamorare, e scoprirla meglio.

Appena il tempo di rinfrescarmi al volo, e mi butto in giro per la città: m’inerpico per raggiungere il centro e gironzolo senza meta nella zona di Terazije, nella Piazza della Repubblica, in via Knez Mihailova fino al parco Kalemegdan. Torno in hotel per un’oretta e poi parto per l’Ada Ciganlija, l’isola al centro del fiume Sava frequentata dai Belgradesi per i suoi boschi e le sue spiagge: lì passo l’intero pomeriggio e mi concedo un bagnetto nel fiume. L’indomani si va a Zemun, la cittadella fortificata sul Danubio a pochi chilometri dal centro. Visito la Torre del millennio in cima alla collina, mi godo un caffè sotto i platani sulla riva del fiume, e m’infilo nel mercato. Che belli i mercati in Serbia! Si respira l’aria di quando ero piccolo, di quando i macellai mettevano la carne appesa ai ganci, e si vendevano tutte quelle cose che ora è un’impresa trovare, come le interiora, i durelli e le zampette di pollo: roba secondo me buonissima, ma poco nobile per un popolo come il nostro che mangia solo cibo griffato, o, comunque, dall’aspetto meno proletario. Davanti al banco di un salumiere, mi cade l’occhio su un cesto di vimini pieno di cosetti strani: sul cartello c’è scritto in cirillico ‘čvarci’. Non ho la minima idea di cosa siano, ma ne compro un etto. Assomigliano vagamente ai ciccioli di maiale, e, assaggiandoli, in effetti, hanno lo stesso sapore: buonissimi! Torno a Belgrado e vado a visitare il possente tempio di San Sava, la grande chiesa in costruzione che svetta imponente oltre piazza Slavija: all’interno i lavori sono andati avanti dall’anno scorso, ci sono nuovi affreschi nell’abside ed è stata allestita una cappella aperta al culto nella navata sinistra. Poi visito la chiesa di S. Marco, i suoi giardini e i dintorni del Parlamento, la lunga strada su cui si affacciano gli edifici del governo, alcuni dei quali hanno ancora i segni della bombe e sono lì con gli squarci in bella vista. Ceno in strada e passo un’oretta al parco Kalemegdan ascoltando un gruppo vocale montenegrino che si esibisce in un repertorio di musica sacra: una serata alternativa! L’indomani si va a Skadarlija, la via bohémienne, il quartiere Dorćol con la chiesa di Aleksandr Njevskij, e il mercato dove faccio acquisti (Ma perché la frutta in Serbia è dolce e a Roma sa d’acqua?), faccio un giro turistico della città comodamente seduto sul tram n. 2; passo a Kosančićev Venac, il quartiere più antico della città, a picco sulla Sava, con le sue stradine acciottolate e la Cattedrale ortodossa. Il giorno seguente, escursione a Smederevo, una città a pochi chilometri da Belgrado famosa per l’imponente fortezza medievale oggi trasformata in parco pubblico; nel pomeriggio, visita al parco Topčider e al monastero di Rakovica. È l’ultima sera a Belgrado e la festeggio con una cena a base di zuppa di vitello e ćevapi con cipolla fresca in un ristorante del centro, vicino alla zona pedonale. Dopo cena, puntatina a Novi Beograd, al di là della Sava per vedere che aria tira alla Festa della birra: è l’ultima serata di una tre giorni di musica dal vivo e birra a fiumi; è pieno di ragazzi che ballano, cantano, bevono, sono allegri e ti coinvolgono. Quando le gambe chiedono pietà, faccio dietrofront e torno in albergo: buona notte; domani si parte, ho già nostalgia! Belgrado mi saluta con la pioggia. Chissà, magari piange perché vado via. È una scemenza questa, lo so, ma io sono triste di andarmene, mi fa piacere pensare che lo sia anche questa Terra che mi ha conquistato.

Corre l’anno 2008. Questo è il secondo di fila che vengo qui; credo che prima che tornerò in Serbia ne passerà più di qualcuno. Quando ripasserò, spero di trovarla ancóra così accogliente; spero di trovarla, però, più bella, coi segni delle bombe ormai cancellati, con meno polvere e ragnatele. E, chissà, magari, spero di ritrovarla col suo Kossovo ancóra attaccato a lei: con le sue radici intatte, coi suoi popoli pacificati e concordi. Do vidjenja, Srbijo!



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