Senegal: africa autentica

Il Senegal può essere il posto giusto per iniziare a conoscere il continente africano, situato tra le terre desertiche del nord e le foreste tropicali del sud, è un paese di grandi tradizioni culturali, che offre un'immagine di Africa autentica ma anche accessibile e facile da visitare. Noi, con una sola settimana a disposizione, abbiamo deciso...
Scritto da: Alessia Carboni
senegal: africa autentica
Partenza il: 27/12/2007
Ritorno il: 04/01/2008
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
Il Senegal può essere il posto giusto per iniziare a conoscere il continente africano, situato tra le terre desertiche del nord e le foreste tropicali del sud, è un paese di grandi tradizioni culturali, che offre un’immagine di Africa autentica ma anche accessibile e facile da visitare.

Noi, con una sola settimana a disposizione, abbiamo deciso di iniziare dalla parte Nord del Senegal. Siamo partiti in tre da Roma, la notte del 27 dicembre con la TAP e dopo aver fatto scalo a Lisbona siamo arrivati alle 3 di mattina a Dakar. Per fortuna sapevamo già dove andare, perché da Roma avevamo prenotato alcune notti al Novotel, decisi a trascorrere almeno due giorni nella capitale, però non avevamo previsto alcun tipo di trasferimento… Quando ecco apparire magicamente all’uscita dell’areoporto un cartello con su scritto Novotel… Dopo due secondi netti siamo già sul pulmino, destinazione albergo, ad improvvisare le nostre prime parole in francese (due di noi parlano inglese ed uno francese: sarà la nostra salvezza per tutto il viaggio!). Sul pulmino ci siamo solo noi tre, il nostro primo amico senegalese sa poco o nulla del Novotel ma soltanto dopo mezz’ora di viaggio quando cominciamo ad incanalarci in viette buie, deserte e non asfaltate inizia a sorgerci qualche dubbio sulla nostra reale destinazione… E quando già ci immaginavamo in una strada senza uscita, derubati e abbandonati… Ecco apparire dal nulla la non piccola struttura del nostro albergo. Dispiaciuti e pentiti per i nostri cattivi pensieri, regaliamo una mancia all’autista e ripartiamo da zero… Non prima però di una bella dormita! Sarà stata la stanchezza o il piacevole silenzio della nostra stanza ma la mattina seguente non ci siamo svegliati in tempo nemmeno per la colazione (strano, non è da noi). Comunque tiriamo fuori abiti leggeri, scarpe comode, che sono anche le uniche che abbiamo, e partiamo, un pò affamati, alla conquista di Dakar! Non facciamo nemmeno tre passi fuori dall’albergo che uno, due, tre, quattro ragazzi senegalesi ci si affiancano, iniziano a chiacchierare, a farci domande, a scherzare, ad offrirci gite, visite, bazar, ottimi affari e quant’altro… Giuro che noi abbiamo cercato in tutti i modi di liberarcene ma, per selezione naturale, uno di loro ha resistito e alla fine ce lo siamo portato con noi per tutto il soggiorno a Dakar. Perciò tanto vale che ve lo presenti: si chiama Monmà, è alto, sui venticinque anni circa, con una moglie parigina ed un amore smodato per vestiti ed oggetti firmati. Con Monmà è stato più divertente ed anche più semplice visitare Dakar. Ci facciamo subito aiutare a trovare una pasticceria che ci aveva incuriosito sulla guida e gustiamo una deliziosa colazione a Le Metissacana, in un patio verdeggiante, nel cuore della città. E così con le energie necessarie ed un clima a dir poco perfetto iniziamo a girovagare per l’animato e coloratissimo quartiere della Medina, tra banchi di verdura e negozietti di artigianato. Passiamo e ripassiamo per piazza dell’Indipendenza, visitiamo un piccolo centro di produzione di oggetti in legno, iniziamo insomma ad entrare in contatto con la gente del posto, con l’incredibile bellezza delle donne senegalesi, con gli sguardi curiosi dei bambini, con alcune loro quotidiane abitudini come il rito del tè alla menta, il banchetto che vende caffè fumante 24 ore su 24, la preghiera tutti rivolti a La Mecca, il bastoncino che si strofinano tutto il giorno sui denti per mantenerli bianchi.

Dakar è una città caotica, a tratti elegante, con una vivace vita di strada e una animata vita notturna ma con una possibile via di fuga: un posto calmo e meditativo che non ci siamo lasciati di certo sfuggire. Perciò decidiamo di trascorrere il pomeriggio sull’Ile de Gorée, un’incantevole e minuscola isola coloniale, dai colori pastello, a soli quindici minuti di traghetto da Dakar. Sull’isola si respira una calma particolare e una atmosfera di pace, non ci sono strade asfaltate né automobili ma splendide buganvilee rampicanti e ovunque si percepisce il suo passato storico non solo nella famosa casa degli schiavi. Ci perdiamo, sempre in compagnia di Monmà, nelle viuzze strette, scopriamo un delizioso presepio africano, pranziamo con pesce alla griglia e riso, ci godiamo i minuti finali di una accanita partita di calcio, finita ai rigori, in un terreno di gioco surreale con un baobab nel bel mezzo del centrocampo. Verso le 6 ci imbarchiamo di nuovo sul traghetto per ritornare verso l’albergo e rimaniamo perplessi e stupiti quando Monmà ci invita per cena a casa sua. Cerchiamo di divagare, di addurre scuse plausibili ma Monmà è irreversibile, ci tiene proprio ad averci da lui… Con un bel pò di incoscienza e tanta, tanta fiducia nel prossimo ci ritroviamo verso le 9 di sera in una modesta casetta senegalese di città, in un quartiere a noi sconosciuto, lontano dall’albergo, in una via buia e deserta, con un pensiero costante nella nostra mente: “Che Dio, Allah o chi per lui, ce la mandi buona”. Monmà ci presenta sua zia, sua sorella e ci fa accomodare nel salotto “buono”, una minuscola stanzetta dall’arredamento particolarmente kitch nella quale erano riusciti a far entrare un divano, quattro poltrone, un tavolinetto di legno con sopra un centrino e un vaso di fiori finti, un baldacchino dorato con al centro una televisione e una decina di cornici con foto di famiglia. Ci accomodiamo sulle poltrone disposte in cerchio, Monmà ci sintonizza la tv su un film tipo “Lo squalo” e poi sparisce, per ripresentarsi dopo un pò con la cena… Ci sistema un tavolinetto basso davanti alle poltrone con tre forchette, tre canovacci e del pane e, con l’aiuto della zia, ci porta una bottiglia di plastica con dentro un’incerta bevanda dal colore rosa intenso e dall’odore di frutta e un piatto ovale di ignota carne grassa e fumante adagiata su un letto di insalata. Ci fa un mezzo sorriso e sparisce di nuovo. A questo punto non sapevamo più se ridere o piangere, si era creata una situazione a dir poco surreale, non potevamo più tirarci indietro, dovevamo mangiare, bere e sperare nel meglio… Fino a quando non ci siamo resi conto di essere anche in compagnia di qualcun’altro… Un topolino di campagna ha fatto improvvisamente capolino da sotto il divano e ha cominciato a correre da un lato all’altro del “salotto”. Abbiamo iniziato così a ridere, forse per non piangere, e abbiamo terminato la nostra assurda cena! Dopo un po’ ecco tornare anche Monmà, che nel frattempo ne aveva approfittato per farsi una doccia, e senza troppe futili chiacchiere ci fa accomodare nella sua stanza per passare, prima, alla visione delle foto di famiglia e poi al rituale del tè. Con un fornelletto a gas, seduto sul suo letto, ci prepara un delizioso tè alla menta e vaniglia, versandolo e riversandolo una ventina di volte nei bicchierini, prima di servircelo. E quando ormai siamo sciolti e rilassati, Monmà tira fuori il vero motivo di tutto il suo invito… Le sue opere d’arte, dei disegni di donne africane, naturalmente da venderci, che, dopo un’estenuante contrattazione, ci siamo dovuti naturalmente comprare. Comunque alla fine ci è andata bene così: due quadretti africani in cambio di una guida a nostra disposizione per due giorni con tanto di cena “tipica”. Quella sera ci siamo congedati da Monmà verso mezzanotte e mezza (non ci speravamo più) con un appuntamento già stabilito per la mattina successiva.

E così il giorno dopo eccoci di nuovo in compagnia del nostro amico, questa volta però abbiamo affittato anche una macchina per raggiungere il Lago Rosa. Partiamo alle 10, tutti contenti, ma non avevamo messo in conto quel che era successo il giorno prima: la morte dell’attuale Marabut, una delle più amate guide spirituali del Senegal. Dakar è completamente bloccata, il traffico in tilt, le strade intasate, tutti che cercano di raggiungere non so quale posto per andare a portare un ultimo saluto al Marabut… Insomma un viaggio allucinante ma alla fine riusciamo a raggiungere la nostra meta.

Il Lago Rosa o Lago Retba merita una visita, non tanto per il lago in sè, una laguna di acqua rosata per l’alta concentrazione di sale che consente di galleggiare con estrema facilità, ma per il paesaggio tutto intorno al lago, molto suggestivo: per le saline dove uomini e donne si dedicano animatamente alla raccolta del sale e per le dune di sabbia finissima che dal lago arrivano fino al mare, punto di arrivo anche della famosa Rally Parigi-Dakar. E così dopo le innumerevoli foto fatte alla gente della salina e la faticosa passeggiata sulle dune ci buttiamo, con cautela ma con enorme soddisfazione, nelle fredde acque dell’oceano. La sera, invece, non so ancora come, riusciamo astutamente ad aggirare il secondo invito di Monmà e a provare il ristorante Keur N’deye, caldamente consigliato dalla Lonely Planet, dove gustiamo specialità senegalesi preparate con cura, e devo ammettere che non ho più mangiato così bene per tutto il resto del viaggio. La mattina dopo, il 30 dicembre, per paura di trovare il caos del giorno prima, partiamo prestissimo, con un amico di Monmà, lasciamo Dakar, il nostro inseparabile amico, per raggiungere Saly e i bungalow di Les Bougainvillées: una sistemazione spartana ma confortevole, immersa in un grande giardino a pochi metri dal mare, un posto semplice e più familiare rispetto ai classici resort.

Saly si trova a circa 80 chilometri a sud di Dakar, è una località di mare molto turistica, con belle spiagge, palme, decine di alberghi, locali, negozi di souvenir, una volta arrivati qui il rischio è di dimenticare quasi di essere in Africa… Ma c’è un modo per evitarlo, basta uscire dal villaggio turistico e l’Africa vera è lì a due passi con decine e decine di bambini pronti ad accoglierti.

Perciò nei giorni successivi siamo abili ad alternare momenti di relax in spiaggia con vere e proprie immersioni nell’atmosfera locale. La parte settentrionale della cittadina, Saly-Niakhniakhale, è ancora un posto autentico, dove il “teranga”, la calda ospitalità senegalese, si respira intensamente. Conosciamo il capo saggio del villaggio, che ci ospita nella sua capanna, ci offre del tè, giochiamo con i bambini, chiacchieriamo con gli adulti, con alcuni di loro, a bordo di un carretto trainato da un cavallo, visitiamo la cittadina di Mbour, a 5 chilometri da Saly. A Mbour, importante centro ittico, visitiamo uno dei più grandi mercati di pesce del Senegal. Arriviamo sulla spiaggia al tramonto quando centinaia di imbarcazioni di legno colorato tornano dalla pesca scaricando cassette e cassette di pesce. C’è tutto il villaggio ad aspettare il ritorno dei pescatori: uomini pronti a dividere, vendere, congelare se necessario il pesce, e le donne nei lori vestiti colorati e con i bambini legati sulla schiena pronte a pulirlo e a prepararlo sui banchi del mercato. Insomma un mondo coloratissimo, vivace, affascinante che è Africa autentica.

Qualche giorno dopo visitiamo un altro mercato, sempre a qualche chilometro da Saly, a Le Brousse, altrettanto caratteristico, dove uomini dai turbanti colorati portano a vendere asini, capre, mucche e cavalli; sono diversi dai senegalesi che abitano la costa, hanno un aspetto più rude, visi segnati dal vento, sembrano venire da lontano, dal deserto, mercanti veri dall’aria arabeggiante. In una distesa arida e polverosa, ogni mercoledì mattina si svolge questo raduno di uomini ed animali, dove qualcuno è impegnato nel concludere buoni affari, qualcun’altro va lì semplicemente per chiacchierare, scambiare opinioni… Un posto incredibile! Lungo la strada del ritorno, tra le immense foreste di baobab ci fermiamo per visitarne uno in particolare, uno immenso, il più grande del Senegal, vero o meno era grande davvero ed attraverso un buco entriamo nel tronco. Trovo che i baobab siano degli alberi fantastici, un simbolo inconfondibile dell’Africa, e quando perdono le foglie e i loro enormi frutti, i rami deformi, simili a radici, mi ricordano la testa di un ragazzo senegalese dai rasta impazziti; molte culture tradizionali credono che il baobab avesse fatto arrabbiare una divinità e che questa, per la rabbia, lo avesse sradicato e ripiantato nel terreno a testa in giù, mi piace molto immaginarli così. Anche la notte di capodanno è stato un momento africano indimenticabile, dopo aver mangiato, anche male, nel nostro albergo siamo scappati da una serata che si stava prospettando allucinante con tanto di tombolone, cappellini, trombette e balli in liscio, e siamo andati sulla spiaggia, sotto le stelle, ad aspettare la mezzanotte con i bambini senegalesi, incantati dai fuochi d’artificio al ritmo delle percussioni.

E così la nostra settimana è finita, ci sarebbero altre mille cose e luoghi da vedere in Senegal ma per il momento ci accontentiamo, felici di riportarci nel cuore un pezzetto d’Africa ed emozionati di avere provato, anche se per poco, quello che chiamano mal d’Africa.

Alessia Carboni



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