San Pietroburgo: suggestioni d’inverno

An Pietroburgo: suggestioni d’inverno 20-24 febbraio 2009 Venerdì 20 febbraio: Bologna – San Pietroburgo. Partiamo in sei, quattro donne e due uomini: Teresa, Maria Grazia, Cristiana, Giovanni, Gabriele ed io. Abbiamo approfittato dell’Offerta primavera della Lufthansa: il viaggio andata /ritorno più quattro notti in albergo a quattro...
Scritto da: Irene Bologna
san pietroburgo: suggestioni d'inverno
Partenza il: 20/02/2009
Ritorno il: 24/02/2009
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
An Pietroburgo: suggestioni d’inverno 20-24 febbraio 2009 Venerdì 20 febbraio: Bologna – San Pietroburgo.

Partiamo in sei, quattro donne e due uomini: Teresa, Maria Grazia, Cristiana, Giovanni, Gabriele ed io.

Abbiamo approfittato dell’Offerta primavera della Lufthansa: il viaggio andata /ritorno più quattro notti in albergo a quattro stelle (Petro Palace Hotel) a 280 € a testa. A questo abbiamo dovuto aggiungere, 85 € per il visto d’ingresso; 55 € per stipulare una seconda assicurazione sanitaria, visto che all’Ambasciata, per rilasciare il visto, non andava più bene la Compagnia assicuratrice del pacchetto; 23,50 il minivan per 6 persone da e per l’aeroporto; 38,50 € per l’escursione a Puskin; 34 € di ingressi (compreso l’Ermitage, prenotato on line da Bologna); 105 € per colazioni, cene e spuntini vari, per un totale di € 621 a testa.

Partiamo alle 7 del mattino, via Monaco. Sorvoliamo campi e boschi innevati, laghi e fiumi ghiacciati; un’Europa per me inedita, sotto la neve e il ghiaccio. Passiamo sopra Riga, poi rientriamo nelle nuvole e comincia la lunga discesa su San Pietroburgo. Un’hostess distribuisce i fogli del permesso di soggiorno che dobbiamo presentare allo sbarco, assieme a passaporto e visto; per fortuna, perché abbiamo qualche problema a compilarli. Se avessimo dovuto farlo in aeroporto, in fila! Anche a San Pietroburgo nevica un poco. Passiamo i controlli, ritiriamo i bagagli e ci dirigiamo all’uscita senza problemi, perché l’aeroporto – pur essendo quello internazionale – è davvero piccolo.

Troviamo ad attenderci l’autista del pulmino che ci porterà in albergo e cominciamo a prendere contatto con la “santa terra russa”.

Siamo in ritardo di più di due ore; nonostante le due ore di differenza del fuso orario, è già il tramonto, ma ci si vede ancora. Percorriamo un breve tratto di campagna, poi entriamo nella periferia della città: vie molto larghe, casermoni, semafori che segnano il tempo che resta, segnali e cartelli in cirillico… Imbocchiamo la Prospettiva di Mosca, la più lunga via di San Pietroburgo (più di dieci km). Attraversiamo la piazza della Vittoria, che ha al centro un enorme anello di granito: si tratta del monumento in memoria della resistenza della città durante l’assedio delle truppe tedesche. Passando notiamo l’alto obelisco al centro e i gruppi bronzei che si trovano ai suoi piedi e ai quattro punti cardinali. Attraversiamo un’altra piazza – la piazza di Mosca -, la più vasta della città, con l’enorme statua di Lenin, che indica “il futuro” con il braccio teso; passiamo poi di fianco ad un enorme arco trionfale – la Porta di Mosca – composto da un architrave retto da dodici altissime colonne doriche (25 m!), fuse in ghisa.

Imponente e “schiacciante”. Vediamo un’enorme stazione di metropolitana, grande come una stazione ferroviaria; e poi…Cupole a cipolla e campanili; e un’interminabile teoria di palazzi, del ’900 e dell’800. Infine, improvvisamente, la comparsa di imponenti cupole dorate e l’aprirsi di una grande piazza con al centro la statua bronzea di un cavaliere ci fanno comprendere di essere arrivati in piazza Sant’Isacco, a due passi dall’albergo.

Sbrigate con qualche leggero contrattempo le operazioni di registrazione alla reception, prendiamo possesso delle camere e ci diamo appuntamento per una mezz’ora dopo.

L’albergo è all’interno di un grande palazzo ottocentesco, appositamente ristrutturato. I corridoi sono labirintici; la nostra stanza è piccolina ma pulita e l’arredamento è quasi nuovo. E poi, quel tocco di gentilezza del cioccolatino sul lembo ripiegato delle coperte, che si ripeterà ogni sera! Nella hall, divani finto rococò e un inserviente che con lo spazzolone continuamente pulisce le tracce di neve lasciate sul marmo da chi entra.

Riunitici, usciamo per il nostro primo giro di approccio alla città.

Ci lasciamo attirare dalle immense cupole dorate della cattedrale di sant’Isacco, che spuntano sopra i tetti al termine della via, e percorriamo la Malaja Morksaja Ulitsa (Piccola Via del Mare) in quella direzione. La strada in cui per cinque giorni abiteremo si trova sull’isola dell’Ammiragliato, nel cuore del centro; vi hanno vissuto personaggi di rilievo ed artisti, come Gogol’, Dostoevskij e Čajkovskij, che vi morì. Ci si sente proprio nel cuore di San Pietroburgo! Naturalmente, come è normale qui, si tratta di una via molto larga, fiancheggiata da alti palazzi più o meno riccamente ornati.

Procediamo con cautela sul marciapiede, infarinato di neve sopra frequenti placche di ghiaccio. Nevica blandamente.

Rimaniamo con il naso all’aria a contemplare l’imponenza della cattedrale (ce ne sono altre tre!); dorate cupole e colonne, frontoni e rilievi dorati: tutto suggerisce un desiderio di grandezza e di splendore.

Percorriamo un lato della piazza e ritorniamo indietro nella direzione del Palazzo d’Inverno; alla nostra sinistra i giardini e l’altissima guglia dorata dell’Ammiragliato, svettante sopra gli alberi. Oggi (è venerdì sera) c’è poco traffico e poca gente in giro; non abbiamo problemi ad attraversare le due Prospettive che incrociamo. Stasera non possiamo farci un’idea di come possa essere veloce e pericoloso il traffico anche in pieno centro.

Ci colpisce un particolare banale: il diametro dei pluviali che scendono a terra! Rispetto a quelli di casa nostra è davvero strabiliante! Calcoliamo che sarà almeno di 25 cm e ci chiediamo come sarà girare per le strade quando sono in piena funzione. Non scaricano, infatti, in condutture sotterranee, ma direttamente sui marciapiedi; adesso sono intasati di ghiaccioli pendenti; al di sotto si allungano sul selciato insidiose, bitorzolute lingue di ghiaccio.

Il profilarsi dell’altissima colonna di Alessandro ci riporta a pensieri meno prosaici.

Un poco alla volta si apre davanti a noi l’immenso emiciclo della Piazza del Palazzo e, di lato, la lunga fuga della facciata principale.

È una visione un po’fiabesca: nella luce rosata delle lampade, attraversata da farfalline di neve, si innalzano le bianche colonne dell’immenso palazzo imperiale, con i loro capitelli dorati; sovrapposte a pareti verdi come la malachite dei gioielli. Sull’altro lato, il semicerchio armonioso dei palazzi dello Stato Maggiore e del Ministero degli Esteri; uniforme per architettura e colore è interrotto solo dall’Arco di Trionfo che dà accesso alla piazza, sormontato da un gruppo bronzeo.

Avanziamo pian piano, posando con precauzione i piedi sul velo di ghiaccio e sulla neve che ricoprono il selciato. Di lato, sopra la massa scura degli alberi, si innalzano le cupole dorate di sant’Isacco e la guglia dell’Ammiragliato. Rimaniamo un poco in contemplazione, poi imbocchiamo l’Arco e ci dirigiamo verso la Prospettiva Nevskij. La risaliamo brevemente fino al fiume Mojka; largo, completamente ghiacciato e ricoperto di neve. Ci sono delle orme sulla neve: qualcuno ha passeggiato là sotto. Diamo un’occhiata alle prospettive che si aprono dal ponte e ci soffermiamo a guardare il palazzo dei ricchissimi baroni Stroganov, che si affaccia sia sul fiume che sulla Prospettiva. Siamo diretti proprio all’interno del palazzo, perché ho letto che al piano terreno c’è un ristorante con un buffet molto ricco, a prezzi contenuti. Il ristorante c’è e si presenta come molto elegante, ma a spaventarci sono i menù di cibi esotici (cinese ecc), di cui non abbiamo voglia. Dopo tutto siamo in piedi da moltissime ore ed abbiamo mangiato solo quello che ci hanno dato sugli aerei. Piantiamo così in asso i camerieri e ci mettiamo a cercare qualcosa di più adatto.

Ritorniamo nella direzione dell’albergo, percorrendo la via parallela, la Bolshaja Morskaja Ulitsa (Grande Via del Mare), dove, stando alle guide, dovrebbero esserci diversi ristoranti. Vediamo palazzi aristocratici, alberghi di lusso, bar, ma niente ristoranti. La via, però, oltre ad essere molto larga è anche più lunga di come appaia sulla carta; è praticamente deserta e alquanto scivolosa. Anche se la neve che cade è molto rada, è tanto asciutta da formare in fretta uno strato sopra il ghiaccio sottostante. Ci rendiamo conto che le vie che incrociano le grandi Prospettive non hanno i marciapiedi molto puliti, per cui ogni tanto preferiamo camminare in mezzo alla strada. Alla fine troviamo un ristorante dal tema “marittimo”: il bancone è la ricostruzione della fiancata di un veliero e dal soffitto pendono alberi le sartie.

Per stare in tema russo ordiniamo una zuppa di funghi e per stare in tema marittimo del salmone. In complesso buoni, anche se i finferli e i pezzi di porcino hanno un po’ troppo spazio per nuotare nel brodo. Nel locale c’è poca gente, ma una fanciulla suona e canta in fondo alla sala, a tutto volume. Facciamo un poco fatica a sentirci tra di noi; Gabriele e Maria Grazia hanno un’aria un poco afflitta. Vedremo poi che la musica nei locali è una costante, che non abbiamo molto apprezzato.

Alla fine torniamo in albergo percorrendo, delle tre Prospettive che si irradiano dall’Ammiragliato, quella centrale. Davanti a noi l’alta e sottile guglia dorata, sul suo parallelepipedo traforato di colonne. Poi a nanna. Siamo davvero cotti.

Sabato 21 febbraio. Prospettiva Nevski, museo dell’Ermitage e Lungo Neva del Palazzo.

Non è facile trovare la sala in cui servono la prima colazione, in questo albergo labirintico, ma alla fine ce la facciamo. C’è molta più gente di quanto mi aspettassi in questo periodo dell’anno: oltre all’italiano, sentiamo parlare inglese e tedesco. Ci rinfranchiamo notando che molte coppie hanno l’aria di essere un bel po’ più anziane di noi; abbiamo ancora (forse) un lungo futuro! Quest’oggi è dedicato alla visita del museo dell’Ermitage; dal momento però che apre alle 10,30, abbiamo in programma di vedere la cattedrale di Nostra Signora di Kazan e il tratto della Prospettiva Nevskij che ad essa conduce.

Anche stamattina cade un pulviscolo di neve, ma i marciapiedi della Prospettiva sono già stati puliti. Riattraversiamo il fiume Mojka e, alla luce del mattino, osserviamo meglio il palazzo Stroganov, fratellino minore del Palazzo d’Inverno. L’architetto, infatti, è lo stesso; ritorna il motivo delle bianche colonne sul fondo colorato della facciata (qui è rosa pallido) e i motivi decorativi barocchi intorno alle finestre. Elegante e raffinato. Poco oltre si apre l’ampio spazio di una piazza, che dà respiro alla larga mole della cattedrale di Nostra Signora di Kazan. Fa un po’ effetto ritrovare qui il colonnato di San Pietro! C’è però qualcosa che stona nel mantenere fino in fondo la definizione di “copia di San Pietro” per questa chiesa; dopo un po’ mi rendo conto che si tratta del frontone dorato della cattedrale, che riprende non San Pietro, ma il Pantheon. Il complesso, di granito rosa, appare, a differenza dei monumenti romani, alquanto scuro. La cosa è accentuata dalla luce di questa mattina, che appare fioca. Non si tratta solo dell’effetto delle nuvole e della neve; ci renderemo conto che l’alba, a queste latitudini, è molto lunga e che il sole ci mette ore a salire sopra l’orizzonte. All’interno la cattedrale manifesta tutta la sua vastità ariosa ed elegante; notevole il diametro della cupola, che ancora una volta richiama le dimensioni del Pantheon. Al di sotto, una grande tavola sorregge pacchi e pacchettini sormontati da una candela accesa; ipotizziamo che si tratti di offerte per i poveri. Enorme e scintillante l’alta iconostasi d’argento, su cui è posta, sul lato sinistro come le compete, l’icona della Madonna. Si tratta della copia di una delle due icone più venerate dai russi: questa e la Madonna di Vladimir; l’originale è andato perduto durante la rivoluzione. Ci meraviglia che, pur essendo una mattina di giorno feriale, ci siano tante persone che desiderano accostarsi all’immagine. Ci mettiamo in fila anche noi e facciamo il breve percorso. Su un lato, di fianco all’iconostasi, un giovane in abito talare canta un qualche Ufficio divino, fra l’indifferenza di tutti. Una donna con un fazzoletto in testa continuamente passa in mezzo alla fila per togliere dal pavimento le gocce di cera che cadano dalle candele in mano ai fedeli. Completiamo il giro della chiesa, osservando varie icone davanti alle quali maggiormente si soffermano i devoti; notiamo la tomba del generale Kutuzov, vincitore di Napoleone, ornata con bandiere catturate al nemico.

Dopo aver acquistato riproduzioni dell’icona della Madonna di Kazan, usciamo e ci soffermiamo sull’adiacente ponte che valica il canale Griboedov. In fondo alla larga prospettiva che si apre davanti a noi, sporge sul canale la Chiesa della Resurrezione, più spesso indicata come Chiesa del Salvatore sul sangue versato. Si tratta di una chiesa eretta alla fine dell’800 nel luogo dove fu assassinato lo zar Alessandro II. Nella luce ancora pallida del mattino la sua mole composita appare scura; in alto si ergono le numerose cupole a cipolla, dorate o decorate di maioliche azzurre o verdi. L’insieme è molto suggestivo; altri turisti, come noi, non perdono l’occasione di fare fotografie. C’è in giro, infatti, qualche turista; ma non c’è in generale molto traffico. La cosa mi stupisce un poco, dal momento che siamo sulla strada forse più famosa di tutta la Russia. Anche dei banchetti che dovrebbero vendere tour fuori città non v’è traccia. Capiremo più tardi che la vita cittadina si anima solo dopo le 11.

Proseguiamo ancora un poco, fino a raggiungere la chiesa cattolica di Santa Caterina, per controllare gli orari delle Messe, poi invertiamo il senso di marcia perché si avvicina l’ora di apertura del museo.

All’angolo con il canale Griboedov notiamo l’elegante palazzo che fu sede della filiale pietroburghese della Singer, oggi grande libreria a più piani, detta Casa del libro; in vetrina espone anche eleganti souvenir. Proseguiamo passando davanti alla chiesa luterana dei santi Pietro e Paolo, e infine imbocchiamo la breve, curvilinea strada che conduce alla Piazza del Palazzo d’Inverno.

Accedervi oggi, passando sotto il profondo Arco di Trionfo, mi fa un po’ l’effetto di entrare nell’orchestra di un teatro romano dal tunnel centrale sotto le gradinate. Di fronte, lo splendido proscenio del Palazzo. Alle spalle, l’immenso emiciclo scandito da bianche colonne. Ma nessun teatro romano ha mai neanche lontanamente raggiunto le dimensioni di questa piazza! Alla luce del giorno possiamo apprezzare meglio i colori degli edifici che la circondano: bianche le colonne, d’oro i capitelli, verdi le superfici piane del Palazzo d’Inverno. In alto, una lunga teoria di statue; in mezzo ad esse, uomini con imbracature di sicurezza spazzano via la neve dai tetti.

Avanziamo pian piano; la neve è stata ammassata dagli spazzaneve in mucchi che alcuni camion stanno portando via. Alla nostra sinistra la piazza si congiunge con i giardini dell’Ammiragliato e più oltre con l’altra immensa piazza dei Decabristi, dando vita ad un’area vastissima, su cui svettano la guglia dell’Ammiragliato e le cupole dorate della cattedrale di sant’Isacco. Chissà se, per un russo, abituato a vivere in spazi sterminati e poco popolati, l’idea di “vastità degli spazi” è diversa da quella che abbiamo noi, nati in un paese sostanzialmente montuoso, dagli orizzonti brevi, e con una densità di popolazione tra le più alte in Europa. Resta il fatto che questi spazi, queste scenografie, mi sembrano immensi.

Sulla piazza, oltre a un gruppetto in costume settecentesco che si fa fotografare con i turisti, ci sono diverse persone che si dirigono verso la cancellata dell’ingresso centrale. Decidiamo di seguire il flusso generale, passando sotto l’altissimo monolite di granito rosa che sorregge la statua di Alessandro, in veste di angelo.

Passando di fianco alla splendida cancellata che chiude la luce dell’arco d’ingresso, entriamo nel cortile interno, alberato; i rami spogli permettono di cogliere bene il quadrilatero degli edifici, che riproducono la facciata esterna; solo il verde delle pareti è più spento. Anche qui, in alto, le statue si susseguono sui tetti. Un piccolo spazzaneve gira continuamente in tondo, mantenendo pulito il passaggio perimetrale.

Entriamo nell’edificio sul lato opposto all’entrata e veniamo catturati da una signora che parla italiano e si spaccia per una funzionaria del museo. Ci conduce quasi a forza alla biglietteria dove dovremo mostrare i voucher e acquistare l’ingresso per il Tesoro; poi ci propone di farci da guida all’interno. Rifiutiamo, provocando un gesto di stizza. Parla abbastanza bene l’italiano e probabilmente è una persona colta, ma il puzzo che emana parla di una lunga astinenza dall’acqua e di un degrado che fa pena.

Iniziamo così la visita; cerchiamo in un primo tempo di seguire le indicazioni della guida del Touring per il percorso breve, ma non sempre ci riusciamo. Rimarremo nelle sale del museo fino alla chiusura, alle 18, riuscendo a vedere parte del pianterreno e quasi tutto il primo piano; gli altri due piani…Sappiamo che esistono! Mi dispiace non aver visto le ricche raccolte degli Impressionisti e di Matisse, esposte al secondo piano; abbiamo visto solo i capolavori trafugati in Germania dal’Armata rossa e mai (finora) restituiti: Renoir e Manet, Cézanne e Gauguin…Il resto…Sarà per un’altra volta! Dell’Ermitage, che dire? Abbiamo camminato per ore, sempre immersi nella bellezza, alla luce bianca di neve che entra dalle vetrate o in quella calda delle lampade.

È come se il pensiero di Pietro il Grande, di far conoscere al popolo la bellezza dell’arte, abbia davvero preso corpo in questi edifici; il suo ideale, ereditato e condiviso dai suoi successori, ha creato – così mi è sembrato – non tanto una rappresentazione del potere, quanto piuttosto un “tempio alla bellezza”. E forse lo ha avvertito in qualche modo così anche il popolo. Se i bolscevichi, prendendo il potere proprio in questo Palazzo, non lo hanno distrutto, vuol forse dire che non è sembrato semplicemente il simbolo di un potere tirannico da abbattere, ma qualcosa di più e diverso. Se nel 1944, in una città semidistrutta dall’assedio e decimata, ci si è preoccupati subito di riaprire e restaurare il museo, vuol forse dire che non lo si è sentito come una secondaria reliquia del passato, ma come un’essenziale “bellezza”, che appartiene al popolo russo e all’umanità.

Dono di zar che non hanno esitati ad uccidere figli, mogli, mariti, padri, migliaia di sudditi… Innamorati, tuttavia, della bellezza. Ciò dimostra che non necessariamente amore per la bellezza e per la bontà, negli esseri umani, vanno insieme. Solo in Dio. Mentre al Louvre gli ambienti sono prevalentemente i “contenitori” delle opere esposte, qui i Palazzi sono anch’essi protagonisti e parlano la lingua della bellezza. Le scenografie grandiose degli scaloni, i saloni di rappresentanza, le stanze degli appartamenti privati, le sale progettate per custodire le raccolte…; ambienti vasti e meno vasti, armoniosi e luminosi…; il bianco di marmi e stucchi e la luce dell’oro, dei bronzi e dei cristalli; il verde della malachite e del diaspro e il blu dei lapislazzuli; l’azzurro, l’arancio, il rosso, il verde, il giallo delle decorazioni dipinte sulle volte; la trasparenza della tartaruga sulle porte…; gli intarsi colorati dei parquet; gli arredi di gusto squisito, la raffinatezza luminosa ed ariosa del Padiglione e l’eleganza ricercata e grandiosa dell’Orologio del Pavone… …La vista sull’emiciclo della piazza e sugli alberi innevati del cortile. E, vastissimo, il panorama sulla Neva: alberi spogli in primo piano, uno stretto canale di acque scure che scorrono piano piano, neve e ghiaccio; la guglia altissima e sottile della cattedrale dei santi Pietro e Paolo sopra le mura della Fortezza, sull’opposta, lontanissima riva; più vicino i ponti; il frontone neoclassico della Borsa ed il rosso delle colonne rostrate… Passiamo di sala in sala, divisi spesso tra la necessità di andare oltre, per vedere l’essenziale, e il desiderio di soffermarci per ammirare con calma ciò che comunque gli occhi mettono a fuoco.

La splendida raccolta dei Rembrandt: l’espressione degli sguardi e delle mani dei ritratti; la luce e le ombre drammatiche della deposizione dalla Croce; la grazia e la “verità” della donna che si prova gli orecchini; la drammaticità del sacrificio di Abramo; la tenerezza sollecita e trepida della giovanissima Madonna che dondola la culla del Bambino addormentato. Il Figlio prodigo: del padre l’emozione e l’amore accogliente; del figlio la rappresentazione del corpo quasi riarso e dei piedi consunti nel lungo e sterile vagare lontano…

L’eleganza perfetta dei corpi del Canova ed il ritmo o la staticità aerea dei suoi gruppi…Amore e Psiche racchiusi e conclusi nell’arco delle braccia di lei e di lui … La dolcezza estatica dell’Assunta poco più che fanciulla di Murillo; il sorriso e lo sguardo d’intesa del Fanciullo con il cane, sempre di Murillo, e la gioia festosa della Colazione di Velázquez. Perché anche i poveri possono provare emozioni, degne di essere rappresentate.

La bellezza raccolta dei Santi Pietro e Paolo di El Greco, i loro sguardi che sembrano cogliere il mondo e l’infinito.

I quadri di Tiziano: il Cristo re dell’universo, la Danae, il ritratto di giovane dama… Le due Madonne di Leonardo: l’intimità giocosa che racchiude Madre e Figlio della Madonna Benois; la contemplazione estatica della Madonna Litta ed il rosso dell’abito ed il blu del mantello di lei, che vibrano sulla tela come un canto altissimo (ma quali pigmenti avrà mai usato per ottenere dei colori così?).

La collezione di Madonne dolci e serene: quelle di Raffaello, degli italiani, dei fiamminghi… La statua di Falconet, raffigurante l’Inverno, rappresentato non come uno sterile vecchio rinsecchito, ma come una splendida giovinetta seduta, che allarga un lembo del mantello per custodire e proteggere un cespuglio fiorito. Colta passando per una sala esclusa da quelle in cui soffermarsi. Così come un’altra statua di Falconet, di Cupido bambino, che con un sorriso birichino e l’indice alle labbra, medita i tiri che farà ai poveri mortali.

Splendide collezioni di cammei, di tabacchiere ornate di smalti e pietre preziose, di scatole “porta mosche” (ma che saranno mai? Solo dopo ho saputo che sono scatoline porta nei!)… Servizi di argenteria, centri tavola e bacili, reliquiari e croci: opere di scultura, oltre che di oreficeria.

E poi, lo splendore della raccolta d’oreficeria di Sciti e Sarmati. Quei diademi femminili finemente cesellati, posati sopra una striscia di capelli pettinati con la scriminatura centrale, anch’essi d’oro! E i mazzolini di fiori, e i pettini, e gli animali, e le decorazioni delle armi, e le maschere sepolcrali… E ancora le armi ingioiellate che vengono da Samarcanda e dalla Cina. Avevamo avuto un assaggio dell’oreficeria degli Sciti al museo di Budapest, ma questa raccolta lascia a corto di aggettivi. La raffinatezza, ricchezza ed abbondanza di questi oggetti d’oro mi costringono a rivedere le mie idee sulla vita dei popoli nomadi, anche se fatico a coniugare tanta opulenza con la vita sotto le tende, sui carri e sul dorso dei cavalli. Mah, forse dovrei studiarne qualcosa, per capire almeno un po’.

Alla chiusura usciamo alquanto frastornati: troppa bellezza, troppe cose, troppo caldo, troppo…Piedi calzati, troppo tutto per una giornata sola! Ma verrà il tempo della sistemazione, che farà emergere quello che davvero ha toccato le nostre emozioni.

Cerchiamo di rinfrescarci le idee, facendo due passi davanti al Piccolo e al Vecchio Ermitage, e a quello Nuovo, con i suoi giganteschi Atlanti di granito scuro, fino al Palazzo di Marmo. Ma due passi si fa per dire; con le dimensioni che ci sono qui, “due passi” sono da Gatto con gli stivali delle sette leghe! Passiamo oltre il canale d’Inverno, proseguendo fino al Palazzo di Marmo; alla nostra destra si apre il Campo di Marte, ma c’è ormai poca luce, e si indovina solo un grande spazio alberato. La neve cade un poco più fitta rispetto alla mattina e, quando si alza la brezza, i cristalli pungono il viso.

Raggiungiamo la Neva all’altezza del ponte che collega questa riva all’isola Petrograd e rimaniamo, affascinati, a guardare il panorama che si spalanca davanti ai nostri occhi. Qui la Neva, da cui poco più a monte si è già distaccato un ramo secondario, è larga quasi un chilometro; le costruzioni sulle isole prospicienti e la stessa cattedrale dei santi Pietro e Paolo appaiono come sagome grigie disegnate oltre la foschia del fiume e il velo della neve che cade. Fa eccezione l’oro della guglia e delle cupole della cattedrale. Alla nostra sinistra, molto più lontano di quanto non appaia sulla carta, l’isola Vasil’evskij divide la Neva in due bracci, che raggiungono poco più avanti il Baltico. In fondo, a sinistra, si vedono contro l’orizzonte le gru del porto. Sembra un susseguirsi di quadri di Impressionisti, nelle sfumature dei bianchi e dei grigi. Restiamo in contemplazione, cercando di ignorare il rombo del traffico intenso e veloce che sfreccia dietro di noi.

Poco alla volta si accendono le luci e creano nuove suggestioni. Percorriamo il Lungo Neva ritornando verso la Prospettiva Nevskij, passando accanto alle facciate sul fiume degli Ermitage e del Palazzo d’Inverno, soffermandoci ogni tanto affascinati a guardare.

Ci risvegliamo dal nostro incanto quando ci accorgiamo che l’ora della Messa si è avvicinata in maniera preoccupante. Percorriamo così a passo di carica il tratto di Prospettiva Nevskij che ci separa dalla chiesa, ma ora il passeggio è molto intenso, e arriviamo in ritardo. All’uscita sono ormai le otto di sera ed il passeggio adesso è intenso. Si notano anche delle coppie molto eleganti; lui in pelliccia e colbacco d’astrakan, lei in visone lungo fino ai piedi, con cappuccio o ricco colbacco. La maggior parte, però, indossa come noi dei piumini; parecchi giovani sono a capo scoperto, incuranti della neve. Ci sono in giro molti militari; le divise sono simili come foggia, ma diverse per il colore. San Pietroburgo è ancora sede dell’Accademia navale; i cadetti che si incontrano sembrano ancora dei bambini. Si vedono tipi fisici molto diversi: persone snelle, con lineamenti minuti e regolari molto belli; fisici più tarchiati con visi larghi dagli zigomi alti; volti asiatici che evocano steppe e deserti, iurte e cammelli… Siamo stanchi, per cui ci dirigiamo in albergo, dove ceneremo.

Entriamo nel ristorante passando sotto un orso bruno impagliato, che mostra zanne ed artigli. A. M. Ha già sperimentato, passando sotto (ma non abbastanza sotto) alle zampe dell’altro che sta ritto sulla strada, davanti alla porta, che gli artigli sono davvero affilati. Il locale è abbastanza affollato e una piccola orchestrina suona, per fortuna ad intervalli. Ad un certo punto compare tra i tavoli un uomo travestito da orso. Dietro di noi sentiamo parlare italiano.

Proviamo ad ordinare cibi russi: quasi tutti prendiamo il borsc, una zuppa nazionale di rape rosse, cavoli, patate, cipolle e panna acida. Non male.

Siccome abbiamo voglia di carne, su mio improvvido suggerimento ordiniamo il bue alla Stroganov, che la guida del Touring definisce “bistecca”. Ci portano un cestino di pasta di crêpe (elegante, non c’è che dire) ripieno di striscioline di carne mista a funghi, il tutto annegato in una salsa. Non è male, ma, aspettandoci una bisteccona, che delusione! Alla fine, sempre su mio ancor più improvvido suggerimento, ordiniamo come dolce i bliny, che la famigerata guida del Touring definisce come “frittelle di pasta lievitata” e la guida del National Geographic come “focaccine ripiene”, dolce tipico del giovedì grasso. Ci portano cinque (dicansi cinque) crêpes vuote, ripiegate in quattro, accompagnate (sempre sullo stesso piatto) da cinque ciotoline contenti marmellate, miele, caramello, panna acida ecc. Lo spazio in cui manovrare è molto ristretto, per cui alla fine mando a ramengo il savoir faire (chissà cosa prescriverebbe in questi casi?) e ritaglio brandelli di crêpe che immergo a turno nelle ciotoline. I miei compagni di viaggio (ad eccezione di quelli più furbi che non hanno ordinato questo dolce) hanno i miei stessi problemi.

Finiamo di cenare verso le undici, perché a Pietroburgo i tempi d’attesa nei ristoranti sono calcolati in ere geologiche. I panini caldi con piattini di burro che portano all’inizio, per ingannare l’attesa, sono buoni, ma aumentano pericolosamente il numero delle calorie ingurgitate, perché, vista la fame al termine di una giornata di onesto lavoro da turisti e la lunghezza dell’attesa, li facciamo fuori tutti e dobbiamo ordinare poi dell’altro pane.

Alla fine, alquanto appesantiti, ci auguriamo la buona notte ed andiamo a letto. Ma prima mi faccio un bicchiere di bicarbonato.

Domenica 22 febbraio. Lavra Nevskij, Prospettiva Nevskij, Puskin (Tsarskoe Selo) e Palazzo di Caterina.

Giovanni e Gabriele riescono a farsi capire dalla fanciulla dell’albergo addetta ai servizi turistici, e prenotano un tour alla reggia di campagna di Tsarskoe Selo per il pomeriggio. Un pulmino con autista e guida parlante italiano verrà a prenderci in albergo alle 14. Siamo contenti, perché ci tenevamo tutti.

A cuor leggero riaggiustiamo il programma della giornata e decidiamo di andare alla Lavra Nevskij. Con il termine Lavra nella Russia Imperiale, come ai giorni nostri, sono chiamati i più grandi e i più importanti monasteri della Chiesa ortodossa, sedi di un Metropolita. Se ho ben capito, ai tempi di Pietro I erano tre; fondando la nuova capitale decise di dotarla di una quarta Lavra, che rivaleggiasse con quelle già esistenti per splendore ed importanza. La dedicò all’eroe nazionale principe Nevskij, canonizzato dalla Chiesa Ortodossa.

Raggiungiamo la Prospettiva Nevskij per cercare una fermata di autobus che ci porti all’altra estremità della Prospettiva stessa. Stamane non nevica e i marciapiedi sono perfettamente puliti.

Risaliamo fino alla cattedrale di Kazan e ci infiliamo in un autobus con il numero che, secondo le ricerche che avevo fatto a Bologna, dovrebbe essere quello giusto. Per scrupolo ci informiamo come possiamo dalla bigliettaia che è a bordo; capisce dove siamo diretti e ci fa intendere che abbiamo sbagliato. Scendiamo al volo da questo scassatissimo autobus tutto arrugginito e prendiamo un filobus modernissimo, dopo aver decifrato la scritta in cirillico che indica la Lavra. A bordo, provoco un piccolo incidente con il bigliettaio, perché faccio confusione con il valore del rublo; poi la cosa si chiarisce e possiamo metterci tranquilli a guardare fuori dai finestrini.

Scendiamo in una grande piazza (potrebbe essere altrimenti?), al centro della quale c’è da pochi anni un monumento al principe liberatore; sul lato opposto un enorme albergo del regime, di metallo e vetro. Di fronte si vede il lungo ponte che valica la Neva, che qui si ripiega in un profondo meandro. Le nuvole si stanno aprendo e compaiono tratti di azzurro. Dietro gli alberi spogli della Lavra, una striscia di cielo si illumina e si tinge d’oro pallido e di un rosa ramato. Come sono lunghe le albe a questa latitudine, e diversi i colori! Dei paesi che ho visitato, mi è rimasto anche il ricordo dei cieli e delle nubi, e della luce che li caratterizza.

La Lavra è racchiusa da un muro tinto di giallo; vi si accede passando sotto un portale. Procediamo tra alti muri, sulla neve. Alcuni mendicanti sono accoccolati a terra e chiedono l’elemosina (a proposito di mendicanti: li abbiamo visti solo all’ingresso delle chiese).

Siamo già nel recinto sacro; quando tento di affacciarmi in uno dei due cimiteri che fiancheggiano la via (dovrebbe essere il più antico di San Pietroburgo, voluto da Pietro il Grande per le grandi personalità dello Stato) dalla porta sul lato opposto esce una donna che mi sgrida fieramente. Non capisco se è proibito entrare o fotografare; faccio una via di mezzo e scatto una fotografia rimanendo sulla soglia. Non provoco grida indignate. Forse bisogna pagare un biglietto d’ingresso, visto che qui sono sepolti tutti, da Quarenghi a Lomonasov, da Dostoevskij a Čajkovskij, Rubinstein, Stravinskij ecc.

Giungiamo ad un fiumiciattolo, attraversato da un ampio ponte, sul quale si allineano vari edifici. A sinistra sono dipinti di rosso, con le modanature delle finestre e le lesene bianche; a destra l’architettura è simile, ma i colori sono il giallo, dorato dalle luci dell’alba (sono le dieci passate!), e il bianco. Entriamo nel recinto interno passando sotto un arco, ornato, sul fronte esterno, da un mosaico del Pantocrator, su quello interno della Vergine. Qui è senza alcun dubbio severamente vietato fotografare.

Proseguiamo cercando di capire la pianta del complesso. Si vedono innumerevoli cupole; non sono riuscita a capire quante chiese ci siano all’interno di questo monastero.

Individuiamo comunque la cattedrale della Trinità, che si differenzia dalle altre per la sua mole e le due torri gemelle ai lati della facciata. È stata voluta da Caterina II e naturalmente si distingue per lo stile classico. Oggi è domenica e all’interno si sta celebrando la Liturgia. Rimaniamo un poco, guardando il vasto interno riccamente decorato di marmi, poi attraversiamo lo spiazzo di fronte alla cattedrale, occupato da tombe di soldati o di caduti durante l’assedio dell’ultima guerra mondiale. Tutt’intorno alti alberi innevati; di fronte il lungo edificio barocco del palazzo del Metropolita e delle celle dei monaci. Pace e silenzio; gracchiare di corvi e scricchiolio di neve calpestata.

Terminata la visita decidiamo di percorre a piedi i 4,5 km della Prospettiva.

Man mano che ci si avvicina al mezzogiorno il traffico si fa più intenso; i mezzi pubblici (autobus, filobus e minibus) sono molto frequenti; molti i taxi bianchi e le macchine private. Il parco macchine non è antiquato come in Ungheria; si vedono molte Volkswagen e BMW. In giro c’è molta Polizia; vediamo che spesso fermano le automobili, senza tanti riguardi.

Incontriamo molti soldati; forse sono in libera uscita e si preparano per la festa delle Forze Armate che ci sarà domani.

Dopo la piazza della stazione inizia il tratto più monumentale della Prospettiva. I palazzi si susseguono imponenti: colonne e frontoni, statue e modanature scolpite; marmi e facciate colorate di rosso o di verde e decorazioni barocche.

Giungiamo al fiume Fontanka, attraversato da un lungo ponte ornato dai quattro gruppi bronzei dei “Domatori di cavalli”; di fianco si allungano i lungofiume, fiancheggiati da teorie di eleganti palazzi. Notevole, di fronte, il lungo porticato della Balaustra del ponte, confinante con il palazzo Aničkov.

Subito dopo si apre la piazza Ostrovskij; un giardino alberato dominato dalla grande statua di Caterina II. Gente a passeggio; un bimbetto gioca sulla neve, sorvegliato dai genitori. Fa da sfondo alla piazza e alla statua di Caterina la facciata neoclassica del Teatro Aleksandrinskij, teatro di prosa realizzato dall’architetto italiano Carlo Rossi: di fronte alla facciata posteriore inizia la breve Ulica Rossi, considerata una delle vie più belle di San Pietroburgo. È fiancheggiata da due lunghissimi palazzi uguali, che riproducono il tema della facciata del teatro, che le fa da sfondo. È senz’altro molto elegante, ma mi è sembrata fredda.

Ho sempre creduto di non amare molto il barocco, ma mi accorgo di apprezzare di più il barocco pietroburghese che il neoclassico tanto amato da Caterina; mi sembra senz’anima.

Comincia a cadere di nuovo qualche fiocco di neve leggera.

Proseguiamo lungo la Prospettiva, dopo essere passati davanti ai banchetti degli organizzatori dei tour dentro e fuori città, reclamizzati a gran voce. Ecco dov’erano! Ma, per vederli, bisognava aspettare mezzogiorno! Il passeggio si fa sempre più intenso, le vetrine più eleganti. Ci sono negozi soprattutto di abbigliamento, che espongono tutte le grandi firme, in gran parte italiane; negozi di arredamento e suppellettili, anch’essi eleganti; e oreficerie. I prezzi, anche degli abiti non firmati, sono cari.

Fiancheggiamo un lungo edificio a doppio ordine di portici, che riconosciamo come un centro commerciale che risale all’800. Non rinunciamo a dare un’occhiata alle vetrine, che espongono di tutto, ripromettendoci di tornare per fare i nostri acquisti. Di fronte, bianca e azzurra, la piccola chiesa armena di Santa Caterina.

Ripassiamo per il tratto che abbiamo già percorso più volte e torniamo in albergo, per uno spuntino prima di partire per Puskin.

Ci fa da guida una signora di nome Alina, di mezz’età. È una bella signora elegante e ben tenuta; i suoi tratti hanno qualcosa di orientale.

Fino a Pulkovo ripercorriamo la strada che abbiamo fatto all’arrivo; Alina ci illustra quello che avevamo visto senza saperlo allora definire.

Dopo gli aeroporti, le abitazioni si diradano e giungiamo in piena campagna. Distese innevate, da cui spuntano degli stecchi. Mi domando se siano i residui di coltivazioni estive, ma Alina ci dice che qui il terreno è molto sabbioso e si possono coltivare a stento degli ortaggi. Eh già, a queste latitudini possono crescere solo piante con il ciclo vegetativo molto breve. Ci informa che è più conveniente importare anche le verdure; carichi di frutta ed ortaggi giungono dalla Spagna in Olanda dove, insieme ai fiori tanto amati dai russi, vengono imbarcati sulle navi per raggiungere attraverso il Baltico il porto di San Pietroburgo.

All’orizzonte cominciano a profilarsi le colline che sorgono a sud della città; hanno un’altezza massima di 75 m, che sembra già qualcosa in mezzo a questo paesaggio piatto e desolato.

Alina ci racconta che qui venne fermata l’avanzata tedesca; da queste alture i cannoni hanno bombardato la città per 900 giorni. Su un dosso vediamo il monumento che celebra la resistenza della città e il valore dei caduti.

Il paesaggio si fa più ameno; accanto alla strada boschetti di abeti e di latifoglie innevate.

Temevo che le strade fossero in cattivo stato; sono invece pulite ed il traffico è scarso. Giungiamo in breve a Puskin, una cittadina abbastanza grande della cintura di San Pietroburgo. Il nome che porta oggi è recente ed è stato dato in onore del poeta che qui studiò e soggiornò a lungo.

Il suo nome “storico” è Tsarskoe Selo, che significa “il villaggio degli zar”.

Palazzi e case sorgono tra gli alberi; si notano anche alcune vecchie case in legno. Entriamo per una porta che si rifà a suggestioni egizie, passiamo vicino al palazzo estivo donato da Caterina al nipote preferito Alessandro, e infine ci fermiamo per proseguire a piedi.

Saliamo un breve pendio tra gli alberi e giungiamo sull’angolo della lunghissima facciata del palazzo (300 m circa). Alina ci ha avvertito che è stato quasi tutto rifatto, perché fu bombardato dai tedeschi in ritirata. Ma è una ricostruzione del tutto fedele e sono state usate le tecniche e i materiali dell’originale; possiamo così fingere che sia tutto autentico.

Percorriamo il lungo passaggio che conduce all’ingresso; a destra, su un breve terrapieno innevato, si allunga la prospettiva del palazzo. Fin quasi a perdersi nella neve che cade; a sinistra il declivio del parco.

Mi sembra quasi più elegante del Palazzo d’Inverno; il “modello” è lo stesso, ma questa facciata appare più mossa e varia di quella: colonne, balconi e telamoni creano sporgenze che ne interrompono l’uniformità modulare. Equilibrata ed elegante l’alternanza del turchese sulle pareti, del bianco nelle colonne, dell’oro di decorazioni e statue, dell’argento sui tetti. Mentre Alina compera i biglietti, ci soffermiamo ad ammirare collane ed altri gioielli d’ambra in vendita nell’ingresso, resistendo più o meno eroicamente alle tentazioni. I mariti non hannoa nessuna tentazione cui resistere, ahinoi! Prima di iniziare la visita, dobbiamo spogliarci dei piumini ed indossare delle specie di soprascarpe di plastica (come quelle che si mettono dal dentista), per non rovinare i parquet. Anche qui, come negli interni dell’Ermitage, fa molto caldo. Alina ci dice che d’estate, quando c’è molta gente, bisogna accelerare i tempi di visita dei gruppi, per evitare che qualcuno si senta male. Ci sono molti visitatori anche oggi: quando passano gruppi abbastanza numerosi, bisogna mettersi da parte. Quando preparavamo il viaggio pensavo che forse non ci sarebbe stato in giro nessuno, così fuori stagione, ma sono stata smentita. Non so quanto turismo ci sia in estate, ma adesso non manca di sicuro.

Saliamo lo scalone d’onore; pareti e stucchi sono bianchi; unica nota di colore i vasi cinesi e giapponesi posati su apposite mensole, blu e verdi, come i piatti e i due orologi incassati nel muro. Elegante ed estremamente raffinato.

Entriamo poi nel sala da ballo e non tratteniamo esclamazioni di stupore: è un immenso salone (860 mq) che prende tutta la larghezza del palazzo; le pareti sono traforate da un duplice ordine di finestroni e rivestite di specchi che simulano altre finestre ed altre porte; il tutto risplende dell’oro di decorazioni che si inerpicano lungo le superfici lisce e si addensano intorno alle finestre e alle porte, riflesse e moltiplicate dagli specchi. Stupefacente.

Quattro altissime stufe rivestite di azzurre maioliche di Delft ai lati corti, tra le porte.

Attraversiamo poi una lunga teoria di sale da pranzo e salotti, anch’essi rivestiti di decorazioni rococò d’oro, sopra tappezzerie di seta. Grandi stufe in ceramica di Delft, arredi eleganti, mobili intarsiati, tavole imbandite, porcellane esposte nelle vetrine, orologi, statue e vasi, ritratti degli zar e delle zarine… Giungiamo così al famoso studio d’ambra, che è proibito fotografare. La luce è bassa e soffusa.

L’insieme è ricchissimo, ma mi delude un poco. Avevo immaginato pareti con misteriose trasparenze che riflettono la luce, invece l’ambra è sì lucida, ma opaca. Lasciamo queste sale, ornate secondo il gusto dell’imperatrice Elisabetta, e raggiungiamo l’ala voluta da Caterina, neoclassica. Le decorazioni si fanno più sobrie e più varie; straordinaria la tappezzeria originale di una delle ultime sale, di seta ricamata con immagini di pavoni, fagiani ed altri uccelli, fiori…; alcuni pavimenti di parquet policromo.

Da alcune finestre si vede il cancello dorato da cui d’estate entrano i turisti, e gli alberi del parco su cui cade quieta la neve.

Usciamo infine nel giardino e, sempre sotto la neve, scendiamo nel parco. Si sente il canto di alcune cince ed il gracchiare dei corvi.

Lasciamo alla nostra destra il Palazzo d’agata (non visitabile) così chiamato perché le sue stanze sono rivestite di diaspro ed agata degli Urali, e la Galleria ionica, bianca ed aerea, ornata di statue; passiamo oltre il padiglione dei bagni e quello bianco e turchese della Grotta ed attraversiamo un laghetto ghiacciato, in mezzo al quale sorgono altri padiglioni. Dalla scarpata della riva alcuni bambini scendono con lo slittino. Continua a cadere la neve.

È un insieme un poco fiabesco, uno spettacolo diverso da quello offerto dalle nostre montagne d’inverno.

Qui il paesaggio è molto più aperto; i rami spogli delle latifoglie permettono di vedere lontano. E poi, avete mai passeggiato in un bosco alpino tra padiglioni barocchi e statue? Immaginavo di trovare, in Russia, un alto spessore di neve; con mio stupore, invece, arriva appena al ginocchio. Eppure, qui, in campagna, non la portano certo via con i camion. Non so se questo sia un anno straordinariamente poco nevoso, o se è normale così.

Rientriamo a San Pietroburgo percorrendo, una volta scesi dalle colline, un superstrada nuova. Qui il paesaggio è ancora più desolato; lande innevate su cui sorgono baracche che Alina definisce ricoveri per gli attrezzi degli ortolani…Ma alcune hanno le tendine alle finestre. Casermoni e raccordi di autostrade.

Rientrati in città passiamo per il lungofiume della Mojka, sul quale sorge il palazzo dei principi Jusupov, una delle casate più ricche dell’impero. Alina dice che i suoi interni sono ricchissimi.

In questo palazzo i congiurati avvelenarono il monaco Rasputin, ma dovettero anche sparargli e infine annegarlo nel fiume.

Prima di rientrare in albergo Alina ci porta in un ristorante vicino, dove cucinano la carne alla griglia. Prenotiamo un tavolo, ma quando torniamo ci siamo solo noi.

Si chiama ristorante dei Cacciatori; le pareti sono ornate di pelli e di animali imbalsamati. Dietro a Giovanni è appesa la pelliccia di un tasso; sopra le teste di Teresa e Maria Grazia pende una lince imbalsamata…Un insieme un poco macabro.

Aspettiamo come al solito un tempo infinito, ma mangiamo della buona carne ai ferri, anche se il “filetto” di maiale si rivelerà essere delle costine.

All’uscita un ubriaco cerca di trattenere Giovanni e Gabriele per farsi accendere; ci sganciamo e raggiungiamo l’albergo.

Ha smesso di nevicare.

Lunedì 23 febbraio. L’isola Vasil’evskij e la piazza della Borsa. La Fortezza: Convento dello Smol’ny. Cattedrale di sant’Isacco. Teatro Mariinskij. Cattedrale di san Nicola: Canale Gribaedov e cattedrale di san Nicola.

La mattina si annuncia serena, ma fredda. Alina, che è venuta a prenderci per accompagnarci alla Fortezza, ci comunica che ci sono 10 gradi sotto zero. Sono stata davvero improvvida, alleggerendo il mio vestiario: ieri avevo sudato, ma oggi avrò un po’ freddo. Non sono stata l’unica a fare quest’errore. Mal comune, però, non è mezzo gaudio! Attraversiamo i giardini dell’Ammiragliato: un’ area attrezzata per giochi di bambini innalza le sue strutture colorate sullo sfondo della facciata imponente di sant’Isacco; la cupola dorata traspare tra i rami spogli. Giungiamo nella piazza dei Decabristi: vuota e ricoperta di neve, sembra immensa. Quante volte ho usato aggettivi simili e quante altre li userò! Ma per San Pietroburgo non si può fare altrimenti.

Al centro, isolata, sorge la grande statua bronzea di Pietro il Grande, a cavallo; sotto gli zoccoli, un serpente calpestato simboleggia la potenza navale svedese, vinta per sempre. I primi raggi del sole che sorge fanno da aureola alla statua in controluce. Riflessi di rame sulla foschia dell’orizzonte.

Sull’altra riva della Neva si allinea la prospettiva di splendidi palazzi, contro il cielo che comincia a colorarsi d’azzurro. Il grande palazzo neoclassico dell’Accademia di Belle Arti, con il suo lungo colonnato e la scura cupoletta centrale; i padiglioni dell’Università; l’Accademia delle Scienze, dalla forma di un grande tempio classico; il lungo palazzo barocco, verde e bianco, del Museo di Antropologia, con l’alta torre rastremata che ospita l’Osservatorio astronomico; più oltre spunta una delle due rosse colonne rostrate. Ancora più a destra, tra i lampioni del lungo Neva si vedono svettare all’orizzonte la guglia e le cupole d’oro della cattedrale di San Pietro e Paolo, accese dal sole dell’alba. La luce soffusa e radente, che sfuma le ombre e addolcisce i contorni, crea un effetto di grande suggestione. Le facciate si riflettono nelle acque d’argento brunito del canale aperto nel ghiaccio. Alina ci spiega che ogni notte un rompighiaccio risale il fiume, creando un canale di acque libere, per garantirne il deflusso ed evitare guai all’epoca del disgelo. Mi chiedo quanto possa costare mantenere un servizio del genere per 150 notti all’anno, più o meno.

Aggiunge poi che, anche se è freddo, si sente già la primavera, perché gli uccelli cantano; si ode infatti il canto di alcune cince. Pensare però alla primavera…, con -10! Seguendo il lungofiume raggiungiamo il Palazzo d’Inverno; il sole ancora sotto l’orizzonte tinge di rame liquido il velo di ghiaccio sull’asfalto.

Imbocchiamo il ponte del Palazzo, che valica la Grande Neva, il più largo dei due bracci che qui si formano, e raggiungiamo l’isola Vasil’evskij. Al centro del ponte, Alina ci aveva mostrato la giunzione delle due sezioni che lo formano, e che di notte, dopo il disgelo, si alzano per lasciar passare le navi. Ci sono 621 ponti, in questa città, e molti di essi sono mobili, per garantire la navigazione sui corsi d’acqua. Raggiunta la piazza della Borsa (una costruzione neoclassica non molto emozionante), ci fermiamo sulla punta dell’isola, guardando il panorama davanti a noi: l’immensa distesa ghiacciata ed innevata della Neva, i ponti che la valicano e il lungofiume del Palazzo. Alina ci fa notare, tra le costruzioni che lontano chiudono l’orizzonte, una più alta delle altre. Ci dice che era noto come il palazzo più alto della Russia. La guardiamo un po’ stupiti: aggiunge allora che era il più alto perché da lì si vedeva benissimo la Siberia. Era la sede del KGB! Passiamo sotto le famose colonne rostrate (in origine erano segnali per la navigazione), che non ci sembrano proprio niente di speciale, e giungiamo sulla riva della Piccola Neva, il ramo più stretto. Con stupore notiamo sul fiume due uomini accovacciati che stanno pescando da buchi aperti nel ghiaccio. Giovanni dà voce al pensiero di tutti commentando: “Che voglia!”. Ma forse è perché nessuno di noi capisce la passione della pesca! Percorriamo il ponte sulla Piccola Neva, osservando un grande veliero ormeggiato accanto alla riva, che ospita uno dei ristoranti più cari della città, poi facciamo sosta, su proposta della nostra guida, in un locale dove servono il caffè e vendono souvenir. Paghiamo il nostro tributo acquistando dei magneti a forma di piccole matriosche di legno dipinto e pubblicazioni sull’Ermitage.

Raggiungiamo infine l’isola della Fortezza e percorriamo la sua riva meridionale, costeggiando i bastioni. Purtroppo il sole è ancora nascosto dietro gli edifici della riva opposta, che restano in controluce: si indovina appena il verde del Palazzo d’Inverno e si riconoscono le cupole dorate della chiesa della Resurrezione. Dietro di noi la punta dell’isola Vasil’evskij, con i suoi edifici, sembra già lontana. Sulla Neva ghiacciata, un uomo scivola veloce con gli sci da fondo.

Entriamo nella Fortezza passando attraverso la Porta della Neva, quella da cui uscivano i condannati a morte. Sotto il profondo voltone di granito, una targa mostra i livelli raggiunti dalle piene più disastrose: forse vale davvero la pena di spendere per il rompighiaccio, per garantire il deflusso delle acque! Forte il contrasto tra la penombra del voltone e le cupole dorate della cattedrale, alte e rotonde contro il cielo azzurro. La chiesa, vista da qui, tesa verso la guglia del campanile che si leva altissima e splendente come l’albero di una nave, appare molto elegante. Non lo è certo di meno osservata dalla spianata antistante: quattro piani rastremati convergono nell’altissima, sottile freccia che sovrasta il campanile. Suggestivo il contrasto fra il giallo e l’oro della chiesa, il rosso dei bastioni e il bianco della neve che ricopre la piazza e i tetti.

Entriamo nella cattedrale, che appare subito diversa da quelle viste finora, più “occidentale”: la pianta basilicale, il pulpito, l’iconostasi che non esclude alla vista la parte absidale, le pitture in stile realistico che la ornano, al posto delle consuete icone; tutto ciò parla un linguaggio diverso. Alina conferma che la volle così Pietro I, secondo la sua politica di occidentalizzazione della Russia. Mi colpisce l’iconostasi di legno dorato: ha una forma strana; al centro si incurva verso il basso, come se volesse scomparire. Di fronte ad essa, sul lato destro, contro una colonna, l’alto baldacchino di velluto rosso ornato dall’aquila imperiale d’argento, dal quale lo zar assisteva alla Messa. In piedi, anche lui, come tutti gli altri. Nelle chiese ortodosse russe, infatti, non c’è posto a sedere per nessuno, nemmeno per gli imperatori.

Entrando nella Fortezza, Alina ci aveva fatto notare il bastione dei cannoni, avvisandoci che a mezzogiorno sparano un colpo; siamo però così intenti a guardarci intorno che, quando accade, sobbalziamo.

La cattedrale è anche il mausoleo dei Romanov. Alina ci spiega che quelli che vediamo sono dei cenotafi, perché, secondo la chiesa ortodossa, i defunti vanno sepolti in terra. Le tombe si trovano nel sottosuolo, sotto i rispettivi cenotafi. I semplici parallelepipedi di marmo bianco sono tutti uguali, con l’eccezione di quello di Pietro I, che si distingue per i fiori freschi, portati “dalle nazioni, perché Pietro è ancora molto amato per quello che ha fatto per la Russia” (citazione da Alina); e quelli di Alessandro II, in diaspro verde, e di sua moglie, in rodonite degli Urali. Non sapevo neanche che esistesse una pietra così (sembra un nome da fumetto di Superman!); è traslucida, con screpolature ripiene di venature nerastre; sembra quasi alabastro rosa, un po’ sporco. Accanto alla porta d’ingresso, in una cappella, sono racchiuse le tombe dei Romanov fucilati nel 1917 ad Ekaterinburg. Alina ci racconta che, all’inizio dell’era Gorbaciov, per due anni l’insegnamento della storia fu sospeso nelle scuole e nelle Università russe, per riscrivere i libri, senza tacere quello che fino a quel momento era proibito dire. Fra le cose nascoste, c’era anche il destino dei corpi dell’ultimo zar e della sua famiglia. Nel 1990 furono ritrovati ed identificati attraverso l’esame del Dna i resti dello zar, della zarina e di tre dei loro cinque figli: Olga, Tatiana e Anastasia; nel 2007, nelle vicinanze del ritrovamento del 90, furono rinvenuti i resti, identificati anch’essi dall’esame del DNA, di Maria e Alexej, come fu annunciato l’anno scorso.

Nella cappella ci sono molti fiori; i membri della famiglia imperiale sono infatti stati beatificati come martiri dalla chiesa russa.

Usciamo dalla Fortezza passando sotto la Porta di San Pietro, ornata dall’aquila bicipite con la corona imperiale, sormontata da un bassorilievo in legno, raffigurante, in alto, Dio Signore degli eserciti, e sotto, la caduta di Simon Mago. Raggiungiamo il ponte di San Giovanni e notiamo in basso alcuni pali di legno: su di uno di essi c’è la statuetta di una lepre. Mi ricordo allora di aver letto che il nome originario di quest’isola – la più piccola del delta della Neva – era Isola delle lepri.

Raggiunta la sponda dell’isola Petrograd, ci fermiamo per congedarci da Alina e cercare l’autobus che ci porterà dalla parte opposta della grande ansa disegnata dalla Neva nell’attraversare la città; siamo diretti al monastero dello Smol’nyi. Davanti a noi, sopra gli alberi della piazza, spunta la grande cupola di maiolica turchese della vicina moschea ottocentesca.

Alina sale con noi su un minibus, poi, mostratoci ad un certo punto il Castello degli Ingegneri accanto al quale transitiamo, scende e ci abbandona alla nostra iniziativa, dopo aver chiesto all’autista di farci scendere allo Smol’nyi. Lo vediamo profilarsi da lontano, bianco ed azzurro come un’immensa scultura di zucchero filato.

Il convento è formato da un grande quadrilatero aperto su un lato; al centro si innalza la chiesa principale, la cattedrale della Resurrezione, bianca e turchese: il complesso delle torri che si elevano al centro dà quasi l’impressione di una seconda chiesa costruita sopra un’altra più larga. In cima a tutto, cinque grandi cupole dorate. Suggerisce l’idea di forza ed eleganza, e punta al cielo di cui riflette i colori. Molto bello e fiabesco. Mi rendo però conto che questa mia descrizione non dà ragione della bellezza della chiesa e di tutto l’insieme, anch’esso nello stesso stile barocco, bianco ed azzurro.

Questo convento fu fondato per volere delle imperatrici Elisabetta e Caterina, come collegio per le fanciulle aristocratiche e casa di riposo per vedove nobili. Qui le bambine venivano educate curando sia gli studi sia le attività sportive, come la scherma; studiarvi divenne prestigioso. Nella scuola, nel 1917, si insediò il Comitato Rivoluzionario e da qui Lenin guidò la Rivoluzione d’Ottobre: ancora un momento fondante il regime sovietico legato ad uno dei luoghi più belli di San Pietroburgo! Purtroppo la cattedrale non è visitabile all’interno; notiamo che sullo spiazzo antistante stanno preparando dei tavoli. Ipotizziamo che si stiano preparando a qualche cerimonia, visto che oggi è festa nazionale, Festa delle Forze Armate.

Comincia ora l’avventura per trovare il mezzo pubblico che ci riporti all’albergo: l’autobus di cui ho l’indicazione del numero non passa mai, anche se di autobus e filobus ne passano tanti. Provo ad interpellare qualche autista, indicando la meta che mi sembra quella più nota, fra quelle vicine all’albergo: la Kazanskij Sobor, ma non ho nessun successo. Teresa viene a darmi man forte, ma non combina nulla neanche lei. Alla fine Gabriele alza gli occhi al di sopra del fumo della pipa e riesce a decifrare, fra le scritte in cirillico dei tabelloni, il nome della nostra strada, e il numero del filobus. È uno dei più frequenti, per cui ci infiliamo nel primo che arriva e, comodamente seduti e al caldo (anche troppo), guardiamo sfilare le vie del lungo percorso che ci attende.

Un’oretta di riposo in camera, poi di nuovo in strada, ma questa volta ci siamo messi i vestiti giusti, visto che tra non molto il sole comincerà il suo lungo tramonto.

Iniziamo dalla cattedrale di sant’Isacco, oggi trasformata in museo con orari di visita abbastanza ristretti. Nonostante sia la più grandiosa e sontuosa chiesa di San Pietroburgo, non ci ha emozionato. Marmi, oro, bronzo, rivestimenti di malachite e lapislazzuli fanno nel complesso un insieme cerimoniale e freddo. Attira la mia attenzione giusto la bella vetrata della Resurrezione, dietro l’altar maggiore, forse perché le vetrate mi piacciono molto.

Attraversiamo la piazza di Sant’Isacco, unita a quella dei Decabristi a formare un’immensa spianata; la statua a Nicola I fa da contrappunto a quella di Pietro I. Sullo sfondo, il frontone neoclassico del Palazzo Mariinskij, sede del municipio, dietro al ponte Blu che valica la Mojka. Sotto il ponte uno scolo d’acqua ha creato una piccola pozza sgelata nella quale nuotano alcuni germani reali; intorno, sulla neve, si affollano gabbiani e piccioni. Non deve essere facile per gli uccelli trovare da bere, d’inverno! Percorriamo il lungo Mojka, diretti ad ovest, facendo attenzione a non scivolare, perché i marciapiedi qui non sono puliti; liberano dalla neve solo la Prospettiva Nevskij e i dintorni del Palazzo, oltre a qualche altro tratto di vie su cui affacciano esercizi commerciali (molto pochi, in verità).

Largo il fiume, larghi i lungofiumi: la prospettiva che si allunga davanti a noi è imponente e conserva le tracce dell’antica eleganza. Alcuni palazzi nobiliari sono stati trasformati in alberghi, altri si preparano a diventarlo e sono in ristrutturazione; altri ancora mostrano i segni di un lungo degrado. Il palazzo Jusupov, appena restaurato, nasconde dietro la relativa semplicità della lunga facciata la ricchezza principesca degli interni.

Ad una svolta del fiume, compare il sole che comincia a calare dietro le nubi leggere, creando suggestivi effetti di luce sulla neve delle rive, sul ghiaccio del fiume, sugli alberi dei giardini…Nella sua lenta discesa, accompagnerà, apparendo e scomparendo, la nostra lunga passeggiata fra fiumi e canali.

Svoltiamo infine nei pressi della piazza su cui sorge il teatro Mariinskij, sede dell’omonimo, famoso corpo di ballo, conosciuto anche con il nome di balletto Kirov.

È molto elegante; per la sua forma, però, chissà perché, mi sembra un grande disco volante color salvia, atterrato in mezzo al traffico e alla neve. Poco oltre sorge la cattedrale di San Nicola, di cui intravvediamo le cupole dorate fra gli alberi del giardino che la circonda. IL’ingresso è a lato del campanile che, isolato, fa da sentinella all’ingresso del complesso. Abbiamo notato che tutta l’area di pertinenza delle chiese ortodosse russe è considerata spazio sacro, e la gente si segna appena varcato il cancello. Sulla neve Cristiana nota anche qui, come alla Lavra Nevskij, numerose, piccole monetine da un copeco o due. Ce ne sono tante e ne raccogliamo qualcuna per ricordo. Facciamo l’ipotesi che vengano gettate sugli sposi a scopo augurale, come facciamo noi con il riso.

Dentro la chiesa è in corso una liturgia; un cordone impedisce di andare oltre l’atrio. Per dire la verità, la gente lo solleva tranquillamente e passa oltre, ma noi, non intendendo partecipare ad una liturgia che non comprendiamo, rimaniamo diligentemente al di qua, limitandoci ad osservare le icone che si trovano in questa zona. Alcune donne si danno da fare a pulire continuamente il pavimento dalle tracce di neve portata da chi entra e, con la punta della scarpa, cercano di togliere le gocce di cera che cadono dalle candele portate in mano. Non riusciamo a vedere neanche la chiesa superiore, aperta solo qualche mezza giornata alla settimana, come ci spiega una “sagrestana” che parla inglese.

Riprendiamo il nostro itinerario, tornando indietro lungo il canale Griboedov, di cui tagliamo le anse più profonde, perché le distanze, a San Pietroburgo, sono molto più lunghe di quanto non appaiano sulla carta. Vediamo così una San Pietroburgo diversa: le case sono più modeste; i palazzi hanno visto tempi migliori. Non ci sono praticamente negozi, e quelli che ci sono hanno un aspetto modestissimo, come forse da noi nei paesi più poveri degli anni ’50. In giro non c’è quasi nessuno: l’impressione è di squallore. Sui marciapiedi, ogni tanto, si aprono delle griglie circolari da cui escono sbuffi di vapore caldo e, talvolta, odori assai sgradevoli. Chissà cosa sono.

Cammina, cammina, ritorniamo nei pressi della Prospettiva Nevskij; da lontano, guardando lungo il canale, riconosciamo le cupole della Cattedrale di Nostra Signora di Kazan e quelle inconfondibili della chiesa del Salvatore sul sangue versato; ma vediamo anche il retro degli elegantissimi palazzi che si affacciano sulla via principale: muri scrostati, fili pendenti, condizionatori appesi da tutte le parti…Un orrore. Oltrepassato l’elegante ponte dei Grifoni dalle ali dorate, riconosciamo il retro del centro commerciale sulla Prospettiva e ci infiliamo dentro, per comperare con calma i ricordini da portare a casa. Riesco a trovare due colbacchi per i nipoti, un ciondolo d’ambra per la Betta e dei magneti a forma di balalaika; mentre Gabriele compra del tabacco, guardo con Teresa e Maria Grazia i vasetti di caviale: quello nero costa una follia; quello rosso…Mah! Alla fine non ne facciamo nulla.

Ceniamo in albergo, dopo un’attesa così lunga da farmi venire voglia di tornare in camera e di accontentarmi di due pacchetti di cracker. Non riusciamo proprio a capacitarci di questi tempi così lunghi, che abbiamo riscontrato dappertutto; anche ammesso che scongelino gli ingredienti dopo aver ricevuto le ordinazioni, due ore per cuocere sei pezzi di salmone con un po’ di riso sono davvero troppe. Forse sono rimasti ai ritmi da dipendente statale del regime sovietico! Martedì 24. Chiesa della Resurrezione o del Salvatore sul Sangue versato. Piazza e Palazzo Mihajlovskij. Giretto d’addio. San Pietroburgo-Bologna.

Ripercorriamo il tratto della Prospettiva Nevskij che ormai sta diventandoci familiare e svoltiamo lungo il canale Griboedov, diretti alla chiesa del Salvatore sul sangue versato. È stata costruita secondo lo stile tipico delle chiese moscovite: per noi è un’esperienza senza precedenti.

Man mano che ci avviciniamo, vediamo che la sua forma è molto più complessa e fantasiosa di quanto non appaia da lontano: torri e torrette; cupole a cipolla e cuspidi; frontoni e lunette; croci dorate contro il cielo lattiginoso; merletti d’oro che si innalzano sul colmo dei tetti o pendenti dai frontoni. Le poche pareti lisce sono suddivise da cornici di pietra in tanti rettangoli che contengono mosaici multicolori; mosaici nelle lunette e nelle nicchie. Alcune cupole sono dorate; altre, come le cuspidi, sono rivestite di maioliche colorate, prevalentemente azzurre, blu e bianche; sulle cupole a cipolla elementi a punti di diamante formano strisce diagonali bianche sul turchese del fondo. Non c’è nessuna parte che non sia rivestita di mosaici o maioliche, o decorata in qualche altro modo.

L’insieme avrebbe potuto essere tremendamente kitsch, (dopo aver letto la descrizione, mi aspettavo qualcosa del genere); è invece…Bello e stupefacente.

Entriamo all’interno per un passaggio abbastanza buio; ci fanno indossare, anche qui, soprascarpe di plastica, per non sporcare i pavimenti e i tappeti che li proteggono.

Nella penombra si profila un baldacchino di pietra scura che ricopre il punto del selciato su cui fu ucciso lo zar, ma gli occhi vengono attratti dalla luce che proviene da sinistra e che fa emergere i mosaici delle colonne. Ci rendiamo conto che tutta la chiesa è completamente rivestita di mosaici: angeli, santi e sante della tradizione ortodossa stanno ritti sulle colonne quadrate; le storie dell’Antico Testamento e la vita di Gesù sono raccontate su pareti, volte, pennacchi… I tre angeli alle querce di Mambre, Isacco che giace abbandonato sulla pira sacrificale come Cristo deposto dalla croce; Giacobbe profondamente addormentato, vegliato da una scala di angeli che si inarca verso il cielo; il roveto ardente da cui emerge la Madonna, roveto mistico… Una splendida natività , attraversata da un lungo raggio d’oro, occupa quasi tutta la parte inferiore di una parete, e poi la Visitazione, il sogno di Giuseppe, il Battesimo nel Giordano, i miracoli e le parabole, la Passione e la Crocifissione… Su un piedritto dell’arco davanti all’iconostasi di marmo finemente scolpito, Maria ascolta Gabriele che, librandosi in alto dalla parte opposta, le annuncia l’impensabile. Sull’arco a fronte, il Giudizio universale. I mosaici pieni di luce dorata della Resurrezione, dell’Ascensione, del Pantocrator, della Dormizione di Maria… Fra un quadro e l’altro, cornici di fiori, prevalentemente su fondo turchese. Anche qui l’effetto generale avrebbe potuto essere di un sovraccarico schiacciante e noioso; è invece equilibrato, arioso e luminoso. Belle le rappresentazioni dei volti e delle espressioni; il volto di Cristo suggerisce sempre forza, dolcezza, autorità divina…Splendidi i colori e i loro accostamenti. Facciamo più volte il giro della chiesa, cercando di individuare i soggetti delle scene, scambiandoci osservazioni, opinioni ed impressioni. Cerchiamo di decifrare le scritte che talvolta accompagnano le immagini, ma non riusciamo a capire il significato delle tre lettere che, con ordine a volte diverso, sono sull’aureola di Cristo, anche perché mescolano caratteri greci e cirillici. Giunti a Bologna faremo una ricerca: sono le lettere greche OΩN , che possono essere tradotte con “l’ Essente”, ”Colui che è sempre stato, è e sarà”, con evidente collegamento al Nome. Sembra che sia caratteristico delle icone russe.

Facciamo fatica a staccarci da questa splendida “bibbia illustrata”; ci ripromettiamo di continuare la visita a casa, acquistando un CD con le foto della chiesa.

Usciti, passiamo accanto alla ricchissima cancellata del Palazzo Mihajlovskij, sede del Museo Russo. Oggi, purtroppo, è chiuso. Mi ero concentrata sulla chiusura di lunedì dei musei e mi è sfuggito che questo chiude, invece, il martedì. Ci perdiamo i quattro Rublev che contiene.

Avanziamo nella piazza alberata; ammirando la grande facciata neoclassica del palazzo; in mezzo al giardino la statua di Puskin e alcuni ragazzini che si divertono a scivolare sulle placche di ghiaccio. Continua a nevicare, e le spalle dei nostri piumini cominciano a ricoprirsi di bianco.

Visto che ci sono avanzati i rubli tenuti da parte per il museo, decidiamo di andarli a spendere tornando nella Casa del libro; acquistiamo qualche altra pubblicazione in italiano, cartoline, uova tipo Fabergé e campanelle di porcellana. Gabriele preferisce rimanere fuori, a fumare la pipa sotto la neve, per evitare il surriscaldamento dell’interno.

Dopo esserci fermati un poco più oltre, a rifocillarci con un’ottima, cremosa cioccolata calda e una sostanziosa fetta di torta, comodamente seduti su morbidi divanetti e poltroncine, iniziamo il giro d’addio alla città.

Passando sotto l’Arco di Trionfo, entriamo di nuovo nella piazza del Palazzo, contemplandone per l’ultima volta la bellezza un po’ magica, resa ancora più suggestiva dal velo della neve che cade. Entriamo nel cortile interno e guardiamo le finestre dietro le quali sono custoditi tanti tesori. Percorriamo il lungo Neva, con lo sguardo che vaga sui palazzi della riva opposta… Dopo la sosta al bar ci sono rimasti ancora dei rubli, per cui decidiamo di ritornare sulla Prospettiva, alla Casa del Libro, per spenderli tutti. Poi, ci attende il pulmino che dall’albergo ci porterà all’aeroporto.

Diamo l’addio a San Pietroburgo ripercorrendo per la quarta volta la lunghissima Prospettiva di Mosca, che ci ha accolto all’arrivo. All’aeroporto subiamo severissimi controlli: dobbiamo levarci le scarpe, subiamo un’ispezione “corporale” a braccia e gambe larghe; mi fanno aprire una delle valige e guardano a lungo con sospetto la bomboletta dello smacchiatore.

La partenza avviene con forte ritardo; questo ci permette di guardarci intorno e non avere più dubbi sulle dimensioni ridotte e sullo squallore di questo aeroporto. Aspettiamo a lungo in uno stanzone surriscaldato, che paragoniamo concordi alle sale d’aspetto della Mutua del dopoguerra (per chi se le ricorda!).

A Francoforte, noi passeggeri in arrivo dalla Russia subiamo un’altra severa ispezione che aggrava il ritardo con cui siamo arrivati; quando infine riusciamo a salire a bordo (attesi e chiamati), l’aereo chiude i portelli ed inizia a rullare.

Poco più di un’ora dopo, le luci di Bologna ci danno il bentornato a casa.



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