A Rimini sulle tracce di Fellini

Viaggio nei luoghi della città, reali quanto onirici, amati e ricordati dal Maestro del cinema italiano
Patrizio Roversi, 10 Dic 2014
a rimini sulle tracce di fellini
Una città la si può visitare in tanti modi, seguendo molti itinerari. Un filo conduttore per conoscere un luogo può essere anche un personaggio, la sua biografia, le sue tracce. Non è certo un’idea nuova, è stata sperimentata tante volte, dalla Londra di Jack lo Squartatore alla Lisbona di Antonio Tabucchi, dalla Barcellona di Manuel Vasquez Montalban alla Ragusa di Montalbano. Io-Patrizio ho girato per la Rimini di Federico Fellini. E vi assicuro che è stata un’esperienza molto interessante. Prima di tutto perché si è trattato di un pretesto per conoscere meglio aspetti poco conosciuti di una città super-turistica di cui si pretende viceversa di conoscere tutto. Poi, seguendo le tracce del Maestro, si scopre il centro storico della città, una parte spesso trascurata a favore di lungomare, bagni e alberghi. Invece la Rimini felliniana – non foss’altro per motivi storici – non ha nulla a che vedere con la sua immagine di divertimentificio. Rimini è – anche – una città “vera”, dove ci stanno i riminesi! Niente a che vedere con le zone balneari, popolate da turisti, che fuori stagione mettono anche un po’ di inquietudine, quando sulle piadine prevalgono le insalate… russe. Dopodiché la Rimini di Fellini è anche un luogo onirico e irreale, un luogo dell’immaginario. Seguendo le tracce biografiche del Fellini, si incontra anche una cittàche-non-c’è, una dimensione “cinematografica” che in parte esiste e in parte è stata ricostruita e re-immaginata da lui.

UNO STRANO RAPPORTO

Prima di tutto bisogna rileggersi quello che Fellini ha scritto del suo rapporto con la città: “Io non ho fatto nella mia vita che girare un film sul mio paese. A Rimini sono nato, in tutti i sensi. Il cinema Fulgor, i sapori della tavola, il vuoto aperto del mare, l’incanto delle donne; tutte le meraviglie per me provengono da qui. Cosa sarei stato senza Rimini? Cosa sarei stato senza i sogni che mi ha regalato? Qui il mare e la terra sono un grande schermo che si accende. Hanno viaggiato in tutto il mondo i miei film, ma forse io non mi sono mai mosso, non sono mai partito. Li ho presi tutti per mano i miei spettatori, li ho accompagnati ad assaggiare i luoghi incantati della mia infanzia. In questo angolo dolce e accogliente di Romagna, dove ancora è possibile imparare a sognare. Un fatto è comunque certo: io a Rimini non torno volentieri. Debbo dirlo, è una forma di blocco. Non riesco a considerare Rimini come un fatto oggettivo. È piuttosto una dimensione della memoria. Quando mi trovo a Rimini vengo aggredito da fantasmi già archiviati, sistemati. Forse questi innocenti fantasmi mi porrebbero, se vi restassi, una imbarazzante muta domanda, alla quale non potrei rispondere con capriole e bugie, mentre bisognerebbe tirar fuori dal proprio paese l’elemento originario, ma senza inganni. Rimini, cos’è? È una dimensione della memoria, una memoria inventata, adulterata, manomessa, su cui ho speculato tanto che è nato in me una sorta di imbarazzo (da La mia Rimini, prefazione di Paolo Fabbri)”.

UNA CITTÀ “FANTASTICA”

Quindi per Fellini Rimini è il luogo della memoria, di una sua dimensione personale passata, di un se stesso che non c’è più e con cui non vorrebbe più confrontarsi, eppure lo porta dentro, come porta dentro per sempre la città stessa. Un rapporto psicosadomaso molto interessante! E non bisogna avere il genio di Fellini per riconoscersi almeno un poco in questo rapporto con i luoghi della propria infanzia. Io – che sono “fuggito” dalla mia bella Patria di Provincia (Mantova) a 18 anni – credo di capirlo benissimo. Quindi la doverosa premessa è che tracciare un itinerario felliniano proprio a Rimini è una cosa molto sottile e complessa: Fellini a Rimini ci è nato e vissuto fino ai suoi 19 anni, cioè tutta l’infanzia e la giovinezza, poi se n’è andato. Questa città ha rappresentato per lui l’oggetto della sua creatività, ispirandolo in tutti i sensi. Nonostante questo, però, Fellini non ha mai girato a Rimini neanche un metro di pellicola. Si è ispirato sì a Rimini, ma in maniera estremamente libera e fantasiosa…

IL BORGO DI SAN GIULIANO

L’itinerario felliniano a Rimini diventa interessante proprio perché si possono vedere delle cose vere che hanno dato adito a prodotti di totale fantasia, al contrario di quello che capita di fare quando, ad esempio, si va a Disneyland o in luoghi simili, dove vedi luoghi assolutamente finti, ma ricostruiti come se fossero squisitamente veri. Potrei consigliare di partire dal Borgo San Giuliano. Io ho cominciato proprio da qui, in particolare dalla piazza della chiesa di San Giuliano, perché rappresenta l’identità della città.

San Giuliano è un Borgo al di là del canale, anzi è “il Borgo” per antonomasia, dal punto di vista dei riminesi. È (era) abitato da pescatori, lavoratori, artigiani e operai. Qui viveva gente povera che ha sempre avuto, però, una fortissima identità. Chi abita qui si fregia del titolo esclusivo di “borghigiano”. Il Borgo ha sempre rappresentato il senso di ribellione, di solidarietà e, appunto, l’identità di Rimini. Tra l’altro, è il luogo che attualmente celebra di più Fellini, perché ospita una serie di murales ispirati ai suoi film.

Io nel mio itinerario felliniano ho avuto due guide letteralmente straordinarie: Beppe Ricci, che era archivista della Fondazione Fellini, e Paolo Fabbri, già direttore della Fondazione stessa (che purtroppo temo non sia più attiva e anzi sia in liquidazione). In loro compagnia, frequentando appunto la Fondazione, ho “ripassato” dei filmati in cui Fellini parla della provincia riminese raccontando cose che, secondo me, sono valide per tutta la provincia italiana. Fellini, infatti, dice che chi è nato in provincia si sente un po’ depauperato, costretto in un ruolo marginale, compresso. Ma sarebbe proprio questa compressione a stimolare la fantasia… Ecco allora che il provinciale, l’intellettuale nato in provincia, diventa molto creativo e quando va nella metropoli (come nel caso di Fellini a Roma) riesce a far esplodere questa sua potenzialità. Una lezione fondamentale, perché non riguarda solo la creatività, ma anche l’economia: la provincia è da sempre l’energia del nostro Paese, e da questo punto di vista il parere di Fellini è estremamente interessante.

DAL PONTE DI TIBERIO AL FULGOR

Dopo il Borgo ho poi attraversato il Ponte di Tiberio, reperto storico della città, un grande ponte di pietra d’Istria. È detto di Tiberio, ma in realtà è stato cominciato da Augusto e solo più tardi terminato da Tiberio, ma la cosa importante è che segna l’inizio della via Emilia. Si passa quindi davanti alla Chiesa dei Servi, raccontata da Fellini nei suoi ricordi d’infanzia. Una chiesa freddissima, buia, che faceva paura ai ragazzi… Memorabile l’episodio in cui Bedassi – detto “quel patacca di Tarzan” – per scommessa avrebbe detto: “Se mi date 10 lire, un chilo di lupini e due salsicce, io mi nascondo nella chiesa e ci passo la notte”. Pare che il sacrestano la mattina abbia sentito un raglio venire dal confessionale: si trattava di Bedassi, che si era addormentato e russava! Svegliato all’improvviso, avrebbe detto: “Ma’, el cafelat!”, mamma il caffelatte, perché durante la notte aveva dormito tranquillamente, non aveva fatto una piega e credeva di essere a casa sua.

Poco più avanti, lungo Corso Augusto, c’è il Cinema Fulgor, che quando l’ho visto io era in ristrutturazione, ma comunque è un luogo importante di pellegrinaggio: qui Fellini dice d’aver visto il suo primo film, sulle ginocchia del suo babbo. Era Maciste all’Inferno. Lo cita in Roma. E qui avrebbe cercato di farsi la Gradisca (lo racconta in Amarcord).

DA PIAZZA SIGISMONDO A PIAZZA CAVOUR

Dopodiché siamo arrivati nella Piazza di Castel Sismondo. In realtà dovrebbe chiamarsi Sigismondo, perché è stata costruita da Sigismondo Pandolfo Malatesta a metà del Quattrocento. Anche questo è un luogo molto felliniano. A parte il fatto che merita una visita perché è sede di una fondazione, Fellini lo ha inserito nel suo film sui clown: c’è una scena in cui proprio davanti al piazzale del castello viene montato il circo! Si tratta di un momento importante della vita del regista, che avrebbe deciso di lavorare nel mondo dello spettacolo proprio perché innamorato del circo. Poi ho proseguito verso Piazza Cavour. È una delle più importanti e belle di Rimini, la piazza del comune, dei palazzi, delle grandi statue. Fellini ne ha parlato e l’ha rappresentata in moltissimi dei suoi film. L’ha ricostruita a Cinecittà: io ricordo soprattutto la scena del pavone sulla fontana, sotto la neve, in Amarcord. A un turista che ci passa oggi, consiglierei comunque di aguzzare lo sguardo: la tabaccaia e l’avvocato di Fellini non ci sono più, ma i tipi umani e la comunicativa dei romagnoli, la loro capacità di interpretare delle tipologie e dei personaggi è assolutamente intatta. Si può dire che Fellini abbia fatto – antropologicamente parlando – copia dal vero e che il contatto con i romagnoli sia rimasto per lui sempre molto forte. Si può anche dire che la tappa più significativa dell’itinerario felliniano a Rimini siano i riminesi stessi!

IL LATO B DELLA VITTORIA

Poi non si può non andare in Piazza Ferrari, dove si trova il monumento dedicato ai caduti riminesi della Grande Guerra. Si tratta di un monumento realizzato negli anni Venti e inaugurato da Re Vittorio Emanuele III. È un luogo incredibile, perché in realtà – duole dirlo, con tutto il rispetto per i caduti – il dato saliente di questo monumento è che si vede il fondoschiena di una donna. È un enorme culo, là in alto, e Fellini lo cita in Amarcord. La singolarità è che mentre per altre cose la ricostruzione cinematografica di Fellini è stata molto libera, il sedere del monumento di Piazza Ferrari è proprio identico! Ha aggiunto, credo, solo un paio d’ali sulla schiena. Questo è il luogo in cui il Fellini adolescente andava a esercitarsi nelle sue prime manovre di carattere sessual-solipsistico… Rimini è anche questo. L’ironia, l’iperbole, il grottesco.

PATACCA!

Grazie ai miei accompagnatori, ho avuto il privilegio di infilarmi anche nel cortile di Palazzo Ripa. Potete comunque passarci almeno davanti. Qui Fellini ha abitato per alcuni anni. Il babbo faceva il commerciante di generi alimentari e la famiglia era abbastanza benestante. Fellini racconta alcuni episodi della sua vita da bambino, come quella volta che si è messo per terra davanti a casa, appena dentro all’androne vicino le scale, fingendosi morto perché voleva attrarre l’attenzione e sconvolgere i suoi familiari. Racconta questo episodio tre diverse volte: due nel 1941, in due racconti scritti sulla rivista Marc’Aurelio, e un’altra volta 20 anni dopo durante un’intervista. E tutt’e tre le volte dà versioni completamente diverse fra loro! La prima volta sostiene che il padre, vedendolo, sarebbe morto di paura, perché lui era tutto sporco di inchiostro rosso-sangue; lo avrebbe poi preso e portato al piano di sopra, dove anche la madre vedendolo sarebbe a sua volta svenuta dalla paura. Nella seconda, invece, il babbo è sostituito dallo zio, che si sarebbe spaventato, mentre nella terza sempre lo zio, guardandolo steso lì per terra, gli avrebbe dato un calcio nel sedere dicendogli: –“Dai, patacca, vai a lavarti”. E lui da allora lo avrebbe odiato per sempre, perché non era caduto nel suo tranello. È proprio in queste occasioni che Fellini fa un discorso proprio sui ricordi. Pare che molti fossero totalmente inventati, smentiti dalla madre stessa che gli ricordava, ad esempio, come ad andare in collegio fosse stato il fratello e non lui… Ma cosa cambia? Il mio amico Martino Ragusa, psichiatra, che ho interpellato per capire quale fosse la sindrome di Fellini in questo caso, mi dice che… non è niente di che! L’infanzia è il luogo magico in cui tutto si può aggiustare per combattere la depressione: in realtà Fellini ha ricostruito a uso e consumo la sua infanzia. Non c’è niente di male, è una cosa che agli artisti si può perdonare.

IL MIRACOLO DELLA MULA E I SEDERI CICLISTICI

Davanti alla Cappella dei Paolotti (anche questa ricostruita a Cinecittà) Fellini ha ambientato alcune scene memorabili, e narrato episodi “storici”. L’episodio è quello di Sant’Antonio, sfidato da un miscredente: “Se tu farai in modo che la mia mula preferisca la tua ostia consacrata a della buona biada, io crederò!”. Allora chiude la mula nella stalla senza cibo né acqua per quattro giorni, poi la libera. E fuori dalla stalla la aspettano Sant’Antonio da una parte con l’ostia e dall’altra l’eretico con la biada: ma la mula preferisce l’ostia e l’eretico allora diventa credente. Fellini comunque ambienta davanti alla Cappella la scena in cui una serie di contadine e pescivendole salgono in bicicletta, accomodando i loro corposi deretani sulle selle con movimenti sensuali… Dopo son passato davanti alla sede della Cassa di Risparmio, perché ai tempi era il Liceo frequentato da Fellini.

Un’altra tappa obbligata è ovviamente il Grand Hotel. Io – lo confesso – in occasione di un lavoro son riuscito anche una volta a passarci una notte e a farci colazione! Ma come itinerario felliniano anche una passeggiatina nel Giardino e una sbirciata nella Hall sono sufficienti per ricordarsi della visione di questo luogo, simbolo delle trasgressioni dei Vitelloni o dell’Harem del Califfo. Purtroppo viene in mente che è anche il luogo in cui Fellini fu colpito dall’emorragia cerebrale.

LE CASE

Della casa a Palazzo Ripa ho già accennato; la casa natale sarebbe in Via Dardanelli 10. Dico sarebbe perché da allora è stata cambiata la numerazione, per cui l’identificazione del luogo in cui Fellini è nato, un po’ per caso, dopo che la sua famiglia era arrivata da pochissimo a Rimini, non è certa.

Più interessante invece è andare verso la stazione, in Via Dante al 9: c’è la sua casa e poi quella della Bianchina, la sua prima fidanzatina, che Fellini – secondo la tradizione – raggiungeva calandosi dalla finestra… L’ultima casa di Fellini a Rimini è la tomba al cimitero, con il monumento di Arnaldo Pomodoro. Fellini è qui, con Giulietta Masina e col loro bimbo, Pier Federico, che è vissuto solo pochi giorni. Io però non ci sono stato: era troppo triste finire questo itinerario così.