Per caso, in Puglia

Syusy e Patrizio a Trani, Ostuni e Castel del Monte
Patrizio Roversi, 07 Nov 2011
per caso, in puglia
Siamo arrivati all’aeroporto di Bari e, con una macchina a noleggio, abbiamo puntato a nord, per coprire i 40 chilometri che separano queste due città pugliesi, che per quasi 250 anni si sono litigate il titolo di “capitale” della regione. E Trani, francamente, è stata una sorpresa. Come tutte le città italiane, innanzitutto bisogna avere il coraggio di sopportare e penetrare l’alone della periferia, segnata, come al solito, dalle ferite dell’edilizia anni 60-70-80. Ma quando si arriva al porto e si comincia a intravedere la Cattedrale e poi il Castello, Trani ti appare una assoluta meraviglia. Il porto è la foce di un fiume che non c’è più, e disegna un semicerchio attorno al quale si svolge la vita più densa della città: d’estate c’è lo struscio, ci sono i locali e i ristoranti, e anche se c’è qualche macchina di troppo (alcune con l’impianto stereo a tutto volume, che respira all’esterno l’ansimare delle note basse), il passeggio è un piacere. Il porto è piccolo, ma “vero”: ci sono barche da diporto e, soprattutto, da pesca. Che io-Patrizio sappia, l’etimologia del nome Trani deriva da “traina”, che è appunto una tecnica di pesca. Invece, io-Syusy credo di più alla leggenda secondo cui il nome Trani deriverebbe da Tirreno, figlio di Diomede, che avrebbe fondato la città ai tempi, appunto, dei Popoli del mare. Ma di Trani ci ha concordemente colpito soprattutto il colore, il bianco rosato del suo tufo, anzi non tufo, ma pietra di Trani ricavata dalle cave locali.

DON MASCIULLO, IL RETTORE

In particolare, la Cattedrale è un capolavoro: un pizzo prezioso e nel contempo maestoso, una colata di panna che, in realtà, è pietra candida che spicca contro il cielo azzurro solcato da nuvole dello stesso colore bianco. Ci siamo arrampicati lungo lo scalone, ma l’ingresso principale era chiuso. Stavamo titubanti davanti all’ingresso laterale quando è uscito Don Giovanni Masciullo, che non ha avuto un attimo di esitazione: “Vi interessa visitare la Cattedrale? Allora venite, avrete come guida il Rettore in persona, cioè il sottoscritto!”. E con grande energia l’anziano e simpaticissimo religioso ci ha trascinato dentro questo esempio meraviglioso di romanico pugliese, tanto leggero da sembrare quasi un gotico. Ci ha mostrato la cripta, e poi l’abside dove lavorano al restauro delle colonne gli scalpellini (per fortuna questa capacità artigianale non si è persa), e poi nella Chiesa vera e propria. Ci ha raccontato la storia di San Nicola Pellegrino (da non confondere con Nicola di Bari il cantante, a sua volta da non confondere con San Nicola di Bari, che in realtà era Babbo Natale e che per di più era turco): questo San Nicola è arrivato a Trani, forse reduce da una Crociata, nel 1099, e qui è morto. Anche lui dichiarato “Santo subito”, ha avuto l’onore di vedersi dedicata la Cattedrale o, meglio, la sua prima parte, quella più antica. A proposito di Crociate: Trani è stata un porto di primaria importanza a quel tempo. La porta dell’Oriente, il porto delle Crociate, uno snodo commerciale incredibile. Grazie anche alla numerosissima comunità ebraica: a Trani, a un certo punto, c’erano ben quattro sinagoghe. Trani era considerata quasi una Repubblica Marinara. Non a caso era piena di fiorentini e veneziani, che la tenevano in massima considerazione. E nel 1063 proprio qui Pietro da Trani ha scritto e raccolto il Codice della marineria, in pratica la base del diritto navale internazionale. Insomma, i tranesi non erano Velistipercaso…

CINQUANTA METRI POSSONO ESSERE LUNGHI…

Poi Don Giovanni ci ha intimato di arrampicarci in cima al campanile, da dove si gode una vista meravigliosa del mare e, soprattutto, della città. E qui ci siamo accorti di essere a due passi dal Castello… In realtà, il tragitto fra la Cattedrale e il Castello è di circa 50 metri, ma prima abbiamo fatto un giro lungo: abbiamo fatto un salto a visitare anche la Chiesa dei Templari, poi abbiamo mangiato un boccone alla Locanda Pesevenghi sul porto, quindi ci siamo presentati al Castello. Bellissimo, restauratissimo, ora sede di eventi culturali (incontri, mostre), tra cui i famosi Dialoghi, cioè una serie di manifestazioni dedicate alla letteratura, alla musica, alle buone letture. Siamo stati fortunati: quando siamo arrivati Nichi Vendola stava parlando, in modo appassionato, di Mediterraneo. E il Castello era in gran spolvero: pieno di bella gente. Come doveva esser stato il giorno del matrimonio di Manfredi, il figlio prediletto di Federico II, che ha fatto costruire il castello attorno al 1233. A proposito di Federico II: se la Puglia è – oggi – quella che è (cioè una regione viva, al centro del Mediterraneo e al centro del rapporto con l’Oriente), lo deve anche a Federico II, un personaggio molto interessante. È deciso, domani sfatiamo un altro tabù, realizziamo un altro desiderio: vedere finalmente Castel del Monte.

IL GIOIELLO DI FEDERICO

Come itinerario – lo ammettiamo – non è stato il massimo della razionalità, ma da Trani siamo andati verso Andria e Castel del Monte che per me-Syusy (e anche per l’Unesco, che lo ha dichiarato patrimonio dell’Umanità) è un posto assai speciale. Si arriva fino alla base della collina, dove si deve lasciare l’auto, poi con lo stesso prezzo del parcheggio si prende l’autobus-navetta che ti porta in cima. Non si fa, appunto, nessuna fatica, ma ugualmente all’arrivo ti viene l’affanno, perché la vista del Castello è emozionante. Si staglia sul cielo, con le sue forme strane. E davanti, ha tutta la pianura del Tavoliere, con in fondo l’ombra del Gargano: un panorama mozzafiato (anzi, puzza fiato se, come noi, avete mangiato orecchiette con l’aglio). La prima cosa che ti colpisce, ancora una volta, è il colore: è fatto di calcare, marmo bianco e breccia corallina. Poi la forma: la fa da padrone l’ottagono. La pianta delle mura, infatti, è ottagonale. A ogni spigolo corrisponde una torretta, a sua volta ottagonale. Ottagonale è anche la pianta del cortile interno, dove pare ci fosse una fontana… ottagonale. I capitelli sono ornati da otto foglie di acanto, pianta legata ai luoghi sacri. La porta è orientata secondo il sorgere del sole, in modo che l’8 aprile e l’8 ottobre il sole che entra colpisca un determinato bassorilievo del cortile. E poi – sorpresa! – una volta arrivati all’ultima camera non si può proseguire e concludere il giro ma, proprio come il moto apparente del sole che al solstizio sembra “tornare indietro”, bisogna tornare sui propri passi. E via ottimizzando, di otto in otto. Ma perché tutto questo ottimismo? E a cosa serviva questa strana fortezza-non-fortezza, questo palazzonon-palazzo? Perché le scale a chiocciola che portano al secondo piano hanno 44 gradini, e la colonna in cui sono incastrati ha un diametro di 22 centimetri? E chi era questo Federico II che costruiva castelli di qua e di là come se fossero villette a schiera, e si divertiva a riempirli di segni e simboli?

SOVRANO GIROVAGO

Federico II era essenzialmente un Turistapercaso, cioè uno che viaggiava molto, forse troppo. Aveva un sacco di regni in cui apriva seconde case: dalla Germania alla Puglia fino alla Sicilia, passando per la Terra Santa. Rimasto orfano a quattro anni, è stato un bimbo molto abbandonato ma molto ricercato: tutti lo volevano adottare, perché era il nipote del Barbarossa. Morale: ha cambiato spesso protettori e, quindi, precettori. Ne ha avuti di tutti i tipi, un Papa e anche un Imam. Poi ha avuto una vita piena di contraddizioni: all’inizio è stato protetto dalla Chiesa, poi è stato scomunicato più di una volta. Addirittura lo hanno accusato di eresia, di epicureismo: è stato definito l’Anticristo. In realtà, era un eclettico molto curioso e credeva nella Ragione, più che in una Religione. Infatti, quando – dopo avere a lungo tergiversato – nel 1227 è finalmente partito per la Terra Santa alla testa di una crociata, invece di combattere ha fatto amicizia col sultano Al Malik e col re d’Egitto. E, per aver vinto senza spargimento di sangue, è stato scomunicato con ignominia dal bellicosissimo Papa Gregorio XI. Con la scusa che doveva badare a tutti i suoi regni così diversi e lontani, ha imparato molte lingue, ha sapientemente contaminato il volgare siculo col provenzale, ha fatto tradurre un sacco di testi dall’arabo, ha importato in Italia il gotico tedesco e l’ha perfezionato con l’architettura orientale. Ha scritto un trattato di falconeria, perché era un naturalista, ha inventato lo zoo (a Palermo) e il sonetto, ha fondato l’Università di Napoli e la Scuola di Medicina di Salerno. Era amico del filosofo Scoto, del matematico Fibonacci, dell’astrologo Bonatti, del tuttologo arabo Teodoro e dell’enciclopedico ebreo Cohen. Insomma, bazzicava l’algebra, la filosofia, la medicina, il diritto, l’architettura, la linguistica, la biologia, l’astronomia e le scienze. Il tutto in salsa poliglotta e multiculturale. Per forza che era antipatico ai papi!

MURI PARLANTI

Quindi Castel del Monte è la sintesi di tutte le sue sfaccettature culturali. È un Palazzo che racconta, è un’architettura che serve per comunicare. Ma cosa dice? La forma generale dell’edificio è una corona, quindi racconta la potenza di chi l’ha costruito. È, infatti, il castello corona che sta sulla testa dell’iconografia dell’Italia. L’ombra del castello, nei vari momenti dell’anno, segna una sorta di orologio astrale. Il cortile centrale ha la forma del pozzo e simboleggia, dunque, la conoscenza. Le cinque cisterne dell’acqua, che corrispondono perfettamente ai cinque camini, rappresentano l’unione fra acqua e fuoco. Il percorso nelle varie sale è il simbolo di un processo di conoscenza. E, infine, l’ottagono sta tra il quadrato (che rappresenta la terra) e il cerchio (che rappresenta il cielo): quindi, significa l’unione di terra e cielo. Eccetera… Ecco perché non è né un palazzo dove si potesse abitare né, tantomeno, una fortezza: Castel del Monte è un Tempio al Sapere, costruito da un grande viaggiatore molto curioso. Ma il rapporto fra Federico-l’Imperatore e Federico-il-turista non finisce qui. Purtroppo, infatti, Federico II finì la sua vita per colpa di una crisi (mortale) di tipica diarrea del turista: è morto nel 1250, a 56 anni, di dissenteria, mentre si trovava a Castel Fiorentino. E pensare che un astrologo glielo aveva predetto: “Morirai sub flore!”, morirai in un luogo chiamato fiore: Federico, infatti, non era mai andato a Firenze (Florentia), ma ha finito per inciampare in un paesino di cui ignorava il nome…

OSTUNI, IN UN TRULLO

Dopodiché il girovagare “a caso” per la Puglia ci ha portato a Ostuni, con la scusa di andare a trovare una coppia di amici, in un trullo. Il trullo – si sa – è la tipica costruzione a forma di cono, costruita dai contadini meridionali e ora molto amata dai turisti nordici, che ne fanno incetta (anni fa costavano poco, adesso molto). I trulli possono essere filologici (cioè tradizionali, molto spartani) oppure filocomodi (cioè rifatti e lussuosi), ma sono comunque molto tipici. E anche molto belli e molto razionali: i materiali di cui son fatti e la forma, li rendono freschi, ecologici e vivibilissimi. A Ostuni ce n’è un sacco, e Ostuni stessa è un gran luogo di villeggiatura, perché è bellissima (la “città bianca”), perché sta in una terra meravigliosa (terra scura, fertilissima, piena di uliveti) e soprattutto collocata strategicamente in mezzo fra l’Adriatico e lo Ionio: in base al vento e al mare, uno sceglie dove andare a fare il bagno. Da queste parti, poi, ci si può illudere di trovare ancora “un altro mondo” e un modo alternativo di campare. La vita costa poco (al mercato dell’usato del sabato trovi magliette e pantaloni a un euro), ci sono ancora ristoranti e trattorie “tipici”, cioè veri. E qualcuno sostiene che ci siano ancora spiaggette semideserte, col chiosco che ti frigge il pesce… Noi, in realtà, abbiamo cenato a Ceglie, nella trattoria Il Capitolo, dove abbiamo capitolato davanti a una tavola imbandita con infiniti antipasti, orecchiette e pesce, pagato a caro prezzo in termini digestivi (viste le quantità) ma a poco prezzo in termini economici. Dopodiché io-Syusy, anche a Ostuni, ho trovato pane per i miei denti e per i miei interessi storici…

LA DONNA DI OSTUNI

Abbiamo preso appuntamento con Donato, che ci ha gentilmente accompagnato in visita al Parco archeologico naturale di Santa Maria d’Agnano, che è, prima di tutto, un luogo ameno e gradevole da un punto di vista paesaggistico: un’oasi naturalistica di 13 ettari, che sta ai piedi della Murgia, sulla strada che da Ostuni porta verso Fasano. Qui, nel 1991, l’archeologo Donato Coppola ha fatto una scoperta importantissima: in una grotta ha trovato lo scheletro di una donna incinta, di 28.000 anni fa. L’hanno chiamata Ostuni-1, o meglio la Donna di Ostuni o, per dirla ancor più chiara, la Madre di Ostuni. Perché questo scheletro-mummia è davvero particolare, e conferma che – come dico io-Syusy – “Dio è nato donna”. Ha, infatti, delle caratteristiche speciali. È morta a circa 20 anni. Era incinta di 8 mesi, ma non è morta di parto né di gestosi: forse di gotta, perché aveva nelle ossa un altissimo tasso di proteine. Era altissima, per quei tempi: più di 1,70. Come ha sottolineato Donato, la nostra preziosa guida, non è stata inumata in modo “normale”, cioè in posizione fetale (come usava), ma con un braccio sotto la testa e l’altro a proteggere il ventre, come se avessero voluto tramandare l’immagine di una bella addormentata, non di una morta. Aveva il teschio (molto sviluppato) dipinto di ocra rossa (simbolo del sacro) e, soprattutto, ornato da un copricapo fatto con 600 conchiglie traforate, oltre che un bracciale, sempre di preziose conchiglie. E questa è la prova che si trattava di una sacerdotessa o di una regina, comunque di una donna nobile e speciale. A quel tempo la conchiglia era simbolo di ricchezza e nobiltà. Io-Syusy non ho potuto fare a meno di collegare questo fatto a un altro simbolo storico della Dea madre: la Venere di Willendorf, la statuetta ritrovata molto lontano, in Austria, anche lei adornata da un copricapo di conchiglie uguale a questo della donna di Ostuni. A questo punto è sempre più difficile credere che nella cosiddetta preistoria non ci fosse una cultura comune che veniva trasmessa con scambi e contatti.

IL CULTO DELLA DEA MADRE

Evidentemente in Europa, 25-30mila anni fa, si muovevano gruppi nomadi, che già condividevano rapporti culturali, commerci e tradizioni. Anche vicino a Savona ho visto la mummia di un giovane principe, ornata nello stesso modo, ritrovata in un’altra grotta. A proposito di grotte: nel Paleolitico non erano come ce le tramanda la storia scritta nei nostri sussidiari scolastici, e cioè spoglie e primitive. Le grotte erano luoghi di culto, scelte in base alla posizione geografica e strategica, sicuramente con un alto senso estetico, e avevano un profondo significato religioso. Ne ho avuto la prova in Terra del Fuoco e Patagonia (la famosa Grotta del Milodonte) e anche in Australia. Guarda caso questa grotta di Ostuni, grazie alla Madre che vi era sepolta, è diventata, nei secoli, un luogo di culto alla Dea. Sempre “per caso”, pulendo un masso squadrato, una giovane ricercatrice si è accorta che lì accanto ci sono i resti di un tempio dei Messapi, gli antichi colonizzatori della Puglia, il popolo pre-greco che faceva parte dei Popoli del mare. E il tempio, poi, pare sia stato dedicato – guarda caso – a Demetra. E non basta: la cosa stupefacente è che in fondo alla grotta della Donna di Ostuni c’è… una Madonna con bambino! Cioè l’affresco di una natività, che risale al 1600: segno tangibile dell’evoluzione di un culto alla Madre, che si è mantenuto e sincretizzato nei secoli, declinato secondo le varie religioni. Fuori dalla grotta – per gli appassionati di botanica – ci sono alcune rare piantine di Campanula Verticola, che invano hanno tentato di trapiantare: cresce soltanto lì, abbarbicata alla roccia. E più in là ci sono foglie di acanto: da sempre la pianta sacra, ornamento dei templi. Sempre a proposito del Parco di Santamaria d’Agnano: oltre alla Grotta della Dea, oltre al Tempio Messapico (che potrebbe risalire al 1.200 a.C.), oltre all’affresco seicentesco della Madonna, ci sono graffiti paleolitici molto interessanti, che rappresentano “il pettine”, cioè un disegno che si ritrova spesso, fatto di tanti segni verticali, attraversati da un unico segno orizzontale, che probabilmente è, a sua volta, un simbolo femminile. PS: Ma non è che magari sono stati fatti da un galeotto, rinchiuso nella grotta? Io-Patrizio vorrei, appunto, fare un’annotazione: in realtà, vicino alla Donna, nella grotta di Ostuni, hanno trovato anche lo scheletro di un uomo, vecchio di 30.000 anni, cioè 2.000 più di lei. Ma lui non se lo fila nessuno…