Dove finisce la terra

Domenico P. Pirondini DOVE FINISCE LA TERRA (viaggio in Portogallo) pirondinidomenico@libero.it 28-04-02 domenica Cara Alitalia, grazie di cuore, grazie per avermi dato i brividi dell’attesa della mia bicicletta, di avermi riempito il cuore di speranza quando vedevo socchiudersi la porta dei bagagli “fuori misura”, grazie per lo sconforto e...
Scritto da: Domenico Pirondini
dove finisce la terra
Partenza il: 28/04/2002
Ritorno il: 05/05/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Domenico P. Pirondini DOVE FINISCE LA TERRA (viaggio in Portogallo) pirondinidomenico@libero.It 28-04-02 domenica Cara Alitalia, grazie di cuore, grazie per avermi dato i brividi dell’attesa della mia bicicletta, di avermi riempito il cuore di speranza quando vedevo socchiudersi la porta dei bagagli “fuori misura”, grazie per lo sconforto e la delusione di quando ho preso atto che l’amata non era neanche stata imbarcata sul volo Roma-Lisbona. E poi riscoprire un sentimento dimenticato come l’invidia per quei giovani che stavano montando le loro biciclette, scherzosi, felici e pronti per il viaggio. In questo aeroporto che inesorabilmente si sta svuotando io rimango ancora lì, caparbio tra il personale delle pulizie, irriducibile nella speranza che da un momento all’altro possa spuntare qualcuno che mi dica: “Mister Pirondini, ci scusi, ecco la sua bicicletta, era rimasta nel fondo dell’aereo, buon viaggio in Portogallo”.

Mesi di preparazione del percorso, dettagli dei chilometri, ansia di essere comunque puntuale nel rispettare le tappe prefissate, e poi niente, disarmato, come un fesso, con un impiegata ai reclami per i bagagli smarriti che non sa cosa dirti.

Eppure mi piace adattarmi. Superato il primo momento di fastidio comincio gli esercizi di tolleranza. Mi sforzo di farmi piacere anche i contrattempi, mi amalgamo alla situazione, cerco di tirare fuori il meglio.

Il cervello gira veloce, modifica i piani senza pregiudizi, li trasforma di 360°; dinnanzi ad una situazione imprevista questo viaggiatore sa trovare la soluzione migliore. Dovevo andare a Evora nell’Alentejo? Va bene, non ci vado più, vado nell’Estremadura, dalla parte opposta. Dovevo visitare Fatima e Tomar? O.K., chi se ne frega, mi faccio l’Atlantico in su e in giù.

Grande viaggiatore, che carattere, che splendida capacità decisionale che ho! Io non ti amo Alitalia, veramente, per tutto quello che mi hai fatto passare anche prima. Ti ricordi le coincidenze perse, i ritardi astronomici, il viaggio Napoli-Genova durato dalle 16,30 alle 4 del mattino del giorno dopo? Mai una volta che sia andata bene, per caso, mai una volta che ho sorriso nel vedere i tuoi colori. Cerca di capirmi.

Sono un viaggiatore in bicicletta, per cui ho bisogno della mia bicicletta, la curo, le voglio bene, non me ne frega niente di nessun posto se non sono con lei. Prova a togliere l’automobile a Saramago o a Llamazares e vedrai che cavolo scrivono.

********************* Comunque sono qui a Lisbona, praticamente l’ho gia’ girata tutta, e in verita’ sto cercando di capire se sto provando emozioni. No, non la sto sentendo, la gente mi e’ indifferente e anche camminando per le sue vie migliori non vibro come so io. Forse salire sul tram “28” mi ha affascinato con quel percorso tutto saliscendi e quelle curve secche che ti fanno perdere l’equilibrio. Guardo con noia quello che mi sta intorno, sto solo cercando di far passare il tempo.

Non ho un itinerario prefissato, cose che voglio vedere, per cui entro nella Cattedrale Patriarcale visto che e’ lì davanti a me con la sua facciata chiusa tra due torri massicce. Assomiglia un po’ a quella che sto costruendo in miniatura e allora tanto vale che sfrutti la cultura acquisita con i fascicoli delle edizioni Del Prado. Passeggio nel deambulatorio gotico e sono affascinato, entrando in una cappella, dai sarcofagi con le statue giacenti di un cavaliere e della moglie. Stanno dormendo, sereni e austeri ed io posso accarezzarli con la mano; per la miseria, sto accarezzando due tipi che sono vissuti nel XIV secolo! Lui si chiamava Lopo Fernandes Pacheco ed era un cavaliere della corte di D. Alfonso IV.

Pago 2 euro ed entro nel chiostro, che e’ tutto transennato, perche’ nel perimetro interno hanno scavato per riportare alla luce i reperti di antichi insediamenti. Eta’ del ferro, quattro pietre di una strada romanica, pezzetto di muro di casa araba, cisterna dell’acqua di non so quando. Non sono questi i chiostri che vado cercando, lo so, voglio quelli medioevali, semplici, squadrati, con il loro bel giardino nel centro.

Va bene, la cattedrale l’ho vista, archiviata, mi rituffo nel centro storico che comunque non risale a prima del 1755, anno del terremoto. A Lisbona le costruzioni sono tutte datate dopo quel terremoto; nella centrale rua Augusta trovo anche il tempo per farmi fare nel terzo inferiore della gamba destra un tatuaggio con l’ennhe’. Si, un uccello con un becco lunghissimo in procinto di spiccare il volo.

Oggi e’ domenica e non c’è molto traffico automobilistico, nè persone per strada; questa e’ una citta’ che da’ l’impressione di avere spazio, non c’è ressa da nessuna parte, magari la gente alla domenica se ne va al mare.

Ti colpisce questa gente, non bella per la verità, con tratti somatici molto pronunciati e poi ci sono molti africani, mulatti e ti rendi conto che il favoloso passato coloniale e’ tutto condensato nei portoghesi di oggi.

E’ una mescolanza genetica frutto di una antica storia di incontri violenti di popoli molto diversi.

Scopro che non sono stato un portoghese nelle mie vite precedenti.

Era un vezzo questo, che mi aveva messo in testa una mia amica, chissà cosa le passava per la mente, comunque ci avevo creduto e mi vedevo su una nave alla ricerca di nuovi mondi. Avrei potuto descrivere la mia armatura, i miei capelli al vento e soprattutto l’aria fiera con lo sguardo fisso in un punto lontano. Su una di quelle spiagge dell’Atlantico, mi chiedevo se oltre l’oceano c’era una qualche terra con forme di vita diverse dalla nostra. Mi affascinava l’idea, qualche attimo prima di addormentarmi, che io, uomo della bassa padana, abituato a stare con i piedi sempre su qualcosa di solido, potessi essere stato un marinaio, un giramondo, meglio ancora un avventuriero senza paura.

E’ ora di cena, l’appetito c’è, si tratta solo di scegliere un buon ristorante.

Rimango nei dintorni dell’albergo, nella zona adiacente Piazza D. Pedro IV casomai a pancia piena volessi andare subito a dormire. Sono l’unico cliente seduto al tavolo, gli altri avventori sono tutti stipati al bancone del bar e mangiano spuntini. Maledizione, ho un cameriere anziano tutto per me, peraltro del genere ossequioso. Mi gira intorno, si inchina, cammina come una papera e non perde una mossa di quello che faccio. Dio, ti prego, fa che non mi chieda se va tutto bene.

-“Tutto bene, Signore ?” 29-30-02 lunedì Tutte le volte che guardavo in fotografia la torre di Belem mi venivano in mente le favole con il castello e la sua corte. Ora sono davanti a lei, con l’acqua del fiume Tago intorno, le navi mercantili che passano e un deficiente sul prato che grida numeri facendo ginnastica. Mi sento proiettato su un altro pianeta. Non ho assunto sostanze stupefacenti, ma che in questa splendida giornata di sole mi trovi in questo posto mi lascia incredulo.

Sullo sfondo a oriente ho il ponte “25 aprile”, mentre su quello a occidente intravedo l’oceano.

Sono arrivato qui con il tram numero “15”, l’electrico, che parte dalla piazza Figueras; con un biglietto da due euro e trenta posso girare sui mezzi pubblici tutto il giorno e così mescolarmi alla gente di tutti i giorni. Posso sedermi vicino a loro, entrare in contatto quasi fisico, ascoltare i loro dialoghi anche se non capirli. La lingua portoghese parlata e’ dura nei suoni, incomprensibile, anche se a tratti riconosci parole molto simili alle nostre.

Le ragazze giovani sono generalmente bruttine, basse di statura e difficilmente sorridono. E’ vero che probabilmente stanno andando al lavoro o a scuola per cui non e’ che ci sia molto da ridere, ma la sensazione e’ di una malinconia profonda, antica. Mi rendo conto di essere severo, magari ingiusto, pero’ oggi vedo e sento questo e sarò ben contento nel corso del viaggio di ricredermi.

*************************** Ieri lo Sporting di Lisbona ha vinto il campionato di calcio e alla sera nella piazza D. Pedro IV i tifosi hanno fatto un casino indiavolato. Ho potuto dormire solo poche ore, ma in effetti pensavo alla bicicletta, sperando di non avere altri contrattempi. Telefono a Carla all’aeroporto e ringraziando Dio mi conferma che il mio cavallo d’acciaio è già li che mi aspetta. A proposito, chi è Carla? Ma è l’impiegata dell’ufficio bagagli smarriti, e devo dire che è stata molto dolce con me.

Non mi rimane altro che andare alla fermata del bus shuttle già vestito da ciclista, tutto pronto come si suole dire per l’uso, ma per adesso, in questo contesto, sono un po’ ridicolo.

Dopo mezz’ora di attesa mi rendo conto che qualcosa non funziona e ho l’occasione di imparare una parola nuova di portoghese: SCIOPERO! Va bene, potevo prendere un taxi, ma che viaggiatore sono se davanti a un piccolo problema spendo una cifra sconsiderata per risolverlo? E’ semplice, devo solo aspettare che lo sciopero finisca, nel frattempo vado al ristorante a mangiare e perchè no, bere quel Matheus rosé fresco che mi fa scrivere.

E’ vero che non ho ancora pedalato un metro, ma mi sto lasciando cullare dal tempo di chi se ne frega, dal piacere si stare con me stesso e credimi è un gran bel piacere. Sono un po’ anomalo vestito così da ciclista in questo ristorante, ma anche questo è un altro bel chi se ne frega.

Stamattina ho ricevuto la tua telefonata e mi ha fatto piacere. Hai presente la ciliegina sulla torta? Non me l’aspettavo, pensavo che non ci saremmo sentiti per un po’. L’ho sempre detto che sei imprevedile, ho rinunciato a fare calcoli, prendo quello che viene, nel bene o nel male. Troverò il modo di parlarne senza fare grandi casini, altrimenti che senso ha essere andati a fare il viaggiatore in Portogallo e non avere lasciato un amore disperato a casa. Disperato…, non esageriamo, un po’ ti è dispiaciuto vedermi andare via, ma hai le risorse per fartene una ragione, le giuste distrazioni e preoccupazioni per darmi il peso che merito.

Sto aspettando il “91”, il bus shuttle appunto, in mezzo a questa comunità africana che sembra passare tutto il giorno sulle panchine che circondano la piazza. Sono tenace, non prenderò il taxi, ho il biglietto valido tutto il giorno e lo sfrutterò fino in fondo.

Che giornata di luce incredibile, c’è anche un venticello che ti accarezza la pelle; sono le due e un quarto del pomeriggio e autobus non se ne vedono.

E io scrivo, cavolo se scrivo. Ora è Lisbona che gira intorno a me, che mi passa davanti.

Sono sull’aerobus, Dio come godo, non ho perso la pazienza, sono calmo dentro, siamo a + 21°, il sole splende e tra poco potrò finalmente iniziare il viaggio.

All’aeroporto non mi rimane che montare la bicicletta, assicurare le sacche laterali e dirigermi verso il primo distributore di benzina per gonfiare le gomme. Devo evitare il centro di Lisbona, ma verso quale città mi devo dirigere? A est o a ovest? Ma chi se ne frega, me ne vado verso il mare, a Cascais, e da dove mi trovo il raccordo anulare è la strada più diretta. Capisco di avere schiacciato una merda dal suono dei clacson dei camion che mi passano a due centimetri, dal gesticolare furioso degli automobilisti che in sostanza vuol dire “NO”, ma l’ho detto prima, io sono tenace, per cui proseguo imperterrito, superando uscita dopo uscita, fino a sfidare il martirio di un eventuale blocco della polizia.

Ora però basta, non ne posso più, ho già percorso 15 Km., esco a Queluz e da lì la domanda monotona alla gente è “Dov’è il mare ?”.

Strada strana, sali di colpo e scendi altrettanto di colpo, non ci sono vie di mezzo. E poi finalmente la strada sul mare, verso Cascais. Anche qui l’automobilista è nervoso, ti suona, fa cenni di stizza, non ti sopporta proprio come ciclista e io incomincio a rompermi le balle. Portoghesi, mi state sulle balle! Brutti e rompicoglioni.

Da queste parti è tutto nuovo; attraverso quartieri appena costruiti, sembra a caso perché la strada si adegua a loro e non viceversa. Non c’è segnaletica e mi sento come uno appena uscito di casa che si sta facendo un giretto aspettando l’ora di cena. Percepisco la frenesia nel costruire, come un risveglio da un lungo letargo e a essere sincero non mi dispiace questa edilizia certamente popolare ma di buon gusto. Questa è gente che sta crescendo velocemente, lo vedi, lo senti, questa è gente che sta andando avanti, e incomincio a capire perché è così nervosa.

A Cascais non ci sono molti Hotel aperti in questo periodo, sto girando da un ora e non ho ancora deciso. Volevo un quattro stelle, me lo merito, volevo farla fuori dal secchio, ma mi devo accontentare di questo tre stelle sul mare. Per cenare scelgo un posto dove si sono specializzati in pollo arrosto e devo dire che ho fatto centro. Difficilmente riuscirò a ritrovare posti simili anche se il “frango” è una specialità del Portogallo. Una birra, due birre, va bene, sta arrivando l’oblio, l’interspazio, la sostanza del sentimento che provo per te. Tutte le scorie, gli orgogli, il principio se ne sono andati a quel paese, ora rimango io, solo io, e la dolcezza delle tue mani sul mio corpo.

30-04-02 Martedì E’ solo l’una del pomeriggio e ci sarebbe da scrivere per un mese.

Stamattina sono partito di buon umore e percorro una pista ciclabile lunga almeno 10 Km. Costeggio l’oceano e ad un certo punto il vento contrario e’ così forte che procedo con difficoltà. Mi fermo varie volte a guardare questo mare che fa apparire il nostro Mediterraneo come un lago. L’impeto delle onde è così forte che scava nella roccia cunicoli e caverne da sembrare un gruviera. Ma il vento trasporta anche la sabbia e dietro una curva la strada letteralmente sparisce, lasciando un inquietante panorama di dune. Sono stanco di fare l’equilibrista, devo capire la cosa migliore da fare, e cioè se aspettare che il bulldozer liberi l’asfalto, oppure se solcare il mare di sabbia spingendo la bicicletta oltre l’ostacolo.

Dall’auto di piccola cilindrata che si ferma nel senso contrario al mio, scendono marito e moglie, forse, e come succede in questi casi ci si scambiano i soliti convenevoli. Sono italiani e provengono da Oporto, l’auto è a noleggio e sono incuriositi dal mio modo di viaggiare, soprattutto perché queste cose le fanno i giovani e di me si può dire tutto tranne che sono un ragazzetto. Eppure, al di la del fatto che sono coetaneo di quei due signori, sento che tra noi c’è un solco, con lui ancora di più, e gli occhi di lei sono eloquenti. Io mi entusiasmo, racconto, sono felice, riesco per un attimo a farla sognare, la sto imbarcando nel mio mondo, la faccio sospettare di vivere con un vegetale, rendendo lacerante il paragone tra questi due cervi maschi. Sono questi i momenti dove sento che sto rubando il tempo, dove riesco ad annullare di colpo il 50% degli anni che mi sono scivolati addosso.

L’età certo, quella anagrafica, un vero pregiudizio, peggio di quello razziale, religioso, ma che ha il grande vantaggio di essere un numero. Hai voglia di raccontartela, il tempo comincia a fare il conto alla rovescia. Io li guardo i ragazzi e giuro che non mi è mai venuta l’invidia, anzi il contrario.

In questo momento mi sento come un equilibrista sul filo d’acciaio, sono sospeso un attimo al centro della traversata, sto calibrando meglio il bilancere, tra un po’ devo finire lo spettacolo, devo andare avanti, sull’altra piattaforma.

Ora basta però, non viaggio con una comoda autovettura a benzina, è il sangue che mi circola nelle vene che fa girare le ruote della mia bicicletta. E al peggio non c’è mai fine perché, mentre salgo sulla Sierra de Sintra, il vento continua ad essere contrario al punto che in certi tratti non procedo che a piccoli centimetri. C’è da innervosirsi, ma io sono un viaggiatore e prendo quello che viene. Quantomeno cerco di ripetermelo cento volte perché coerentemente al mio carattere dovrei prendere la bici e buttarla nel dirupo e aspettare un pulman che mi riporti all’aeroporto di Lisbona. Fanculo il vento! Voglio andare a Cabo do Roca e finalmente una freccia me lo indica. Si scende dalla Sierra e dopo 3 Km. Si piomba letteralmente su faro; eccolo il punto d’Europa più occidentale sull’oceano, ecco il Capo Terminus dei latini, finalmente la grande emozione che mi prende, quella della grande impresa. “Aqui…Onde a terra se acaba e o mar comeca” come scrisse Camoes.

Ovviamente il ritorno è salita schietta, la strada è quella di prima, devo riprendere la direzione per Sintra, navigando in un parco naturale di eucalipti.

Sul vento non ho capito una cosa: quando è forte non c’è dubbio perché la mia fatica corrisponde all’inclinazione delle cime degli alberi, ma che vento è quando tutto intorno a me non muove una foglia e io lo sento nelle orecchie e nelle gambe che non girano. Ho l’impressione di avere il vento solo intorno a me, contro di me.

Eccola la discesa, vado al mare, vado alla spiaggia, alla Praia Grande, mi metto in costume. Per mangiare trovo un buco dove una ventina di muratori stanno facendo la pausa pranzo. Ci sono dei piccoli tavoli da quattro persone e il ristoratore mi indica un posto libero a fianco di un colosso da cento chili. Bisogna immaginarmi vestito con la tutina da ciclista in mezzo a gente che lavora sul serio per costruire case. Insomma quello che ci differenzia non è il nostro vestiario, ma sono le nostre mani che stanno facendo in quel momento la stessa cosa. Non posso fare a meno di provare disagio, perchè quelle mani nodose, deformate, parlano una lingua universale. Rimango in silenzio, occhi bassi sul pollo arrosto, sentendomi come non mai corpo estraneo.

Spendo 5 euro, birra e caffè compresi, torno al mio ruolo, alla mia bicicletta e sono sazio, intimamente soddisfatto dei miei privilegi, pronto a distendermi sulla sabbia per ricevere la giusta dose di sole, per cominciare una abbronzatura che sia il marchio indelebile della vita all’aria aperta. Quando tornero’ a casa tu mi vedrai bellissimo, non potrai fare a meno di amarmi, finalmente non resisterai piu’ al mio fascino.

La spiaggia è deserta, grande, ed io mi dirigo verso il suo centro, per avere la sensazione di occuparla tutta, per rompere la monotonia di un paesaggio che non contempla essere umani.

L’oceano fa un rumore sordo, continuo, è come quello di un grande fiume che scende a valle.

Ho la sensazione di avere esagerato con il sole, devo trovare una farmacia per comprare la crema idratante. A Colares, famosa per il vino profumato, acquisto la Nivea, scelta per il colore e la forma della scatola e perché è quella che costa meno. Nella farmacia ho l’occasione di osservare i clienti in attesa del loro turno, con le loro belle ricette in mano, sono anziani e il nome dei farmaci prescritti li conosco. Ma mi intenerisco quando vedo il farmacista staccare la fustella dalla scatoletta e incollarla alla ricetta con una striscia di nastro adesivo. Roba d’altri tempi.

La strada per Sintra è in leggera salita e costeggio ciò che rimane dei binari della ferrovia sui quali un pittoresco trenino portava la gente fino alla famosa residenza estiva dei sovrani portoghesi. Ci sarebbero diverse cose da vedere ma preferisco continuare la strada per il Castelo dos Mouros, costruito nel secolo VIII e più volte rifatto. Sono tre Km. Di salita con i suoi bei tornanti secchi, immersi in un bosco che non lascia passare la luce. Arrivo sulla cima con la lingua tra i raggi, sudato come una bestia, deciso a visitare questa costruzione con la dovuta calma.

Comincio con il rito del cambio vestiti, generalmente officiato come un fatto privato, ma che nella maggioranza dei casi avviene sempre davanti a qualcuno. Non sono un esibizionista, lo giuro, però mi dà un certo piacere mostrare la mia buona organizzazione. Da una sacca esce una maglietta pulita, mentre quella inzuppata di sudore scompare nel cellophane dell’altra sacca, indosso i pantaloni da trekking e il gilet da esploratore, mi pettino velocemente e sono pronto, trasformato, soddisfatto di me.

Ora sono un turista, acquisto il biglietto ed entro nel passato, tocco e cammino su pietre millenarie, i miei occhi sono quelli di una vedetta araba che guardano lontano, con apprensione, un nemico che si avvicina o forse con noia, un orizzonte sempre uguale nei giorni che passano uguali.

Le mura del castello circondano ininterrottamente la collina e salendo sulle torri si può godere di un panorama mozzafiato sulla Sierra. La giornata è splendida, io sto bene, la fatica dei 64 Km. Percorsi oggi si sta lentamente dissipando nel languore della sera. Sessantaquattro chilometri di deviazioni e strade sbagliate.

E’ indispensabile rivedere l’itinerario. I cartelli segnaletici stradali sono pochi, non mi aiutano, non ci sono ogni tanto i numeri delle strade per confortarmi e dirmi che sono sulla strada giusta. Non mi sento a mio agio quando pedalo nell’incertezza della direzione presa. Sbagliare significa perdere tempo e moltiplicare per due la fatica. Il tempo, soprattutto è questo che mi manca, non ne ho abbastanza per lasciarmi andare, per godere fino in fondo la situazione attuale. Un giorno diventerò un viaggiatore vero, farò solo questo, fino a schiantarmi il cuore in qualche posto sconosciuto, abbattendomi sul margine di una strada, scomposto nello stupore dell’evento inaspettato, come un gatto imprudente schiacciato da un auto.

L’albergo di Sintra lo scelgo nel centro, tanto è vero che si chiama Hotel Central ed è una sorpresa, piacevole per la tipologia della camera. Già la chiave è un catenaccio che gira nella toppa con un rumore sordo ma deciso e aperta la porta ti ritrovi in un ambiente semplice ma raffinato. Il pavimento in legno scricchiola sotto i miei passi e le tende bianche coprono due finestre ampie che danno su Praca da Repubblica. Il letto è alto, in ferro battuto ed ha un copriletto lavorato all’uncinetto; il lampadario manda una luce fioca, da poche candele, accarezezza l’ambiente con discrezione, mi rilassa se mai ne avessi bisogno.

Steso sul letto ora sono veramente solo, in pace, non ho bisogno di niente e di nessuno; posso riflettere, pensare, sognare, posso addormentarmi così vestito, lasciandomi cullare dalle voci della gente che frequenta la piazza.

L’appetito è un padrone severo, non vuole sentire ragioni, non apprezza le dolcezze del cuore per cui malvolentieri obbedisco e vado nel ristorante più vicino, senza fare tante storie. Il vino è buono, devo dire che è come me lo aspettavo. Morbido in bocca e veloce nel darti dolcezza, come quella che ho provato nel sentirti anche oggi. Sono sereno con te, in questo momento perlomeno, distante anche emotivamente, come se fossi sceso da una giostra. Era questo lo scopo del viaggio? E’ così veloce l’effetto della lontananza o è solo l’effetto del vino? Ti voglio bene, mi sto commuovendo al ricordo dei nostri baci. Una storia bellissima, una storia d’amore che solo tu leggerai. Mi piace il tuo odore di quando mi respiri in bocca, mi piace la tua pelle che scorre tra le mie dita. Amo quegli occhi che parlano mille lingue, amo la loro sofferenza e la loro strafottenza, la perversione e la tenerezza che mi fa sentire al centro del mondo.

E’ un amore senza futuro, disperato, ed io sono qui per ucciderlo. Non ti chiedo il permesso per farlo, non chiedo il tuo parere, tu non me lo daresti mai, devo fare tutto da solo, come al solito, costruire e distruggere.

01/05/02 mercoledì festa del lavoro Signore, ti prego, quando ritornerò indietro, a Lisbona, non cambiare la direzione del vento. Dammelo contro adesso, mi incazzo un po’, ma come per tutte le cose, dopo il sacrificio dammi il piacere.

Non si può girare questo paese con la bicicletta, perlomeno io non ho più la testa per farlo. Ho deciso di andare a Mafra, non fosse altro che per le due stelle della guida accanto al suo nome.

Sono nel centro della regione dell’Estremadura, zona con infiniti sali e scendi, vale a dire un ora per salire e un minuto per scendere.

E mentre attraverso un ponte, il mio sguardo è attratto da un altro ponticello più in basso, a schiena d’asino, sicuramente romanico. Poco più in là un immagine d’altri tempi: una donna inginocchiata sulla riva del torrente che sta lavando i panni. Sono fermo, incantato dalla scena, proiettato a un tempo indefinito, in un posto indefinito, a osservare un gesto che si ripete immutato dalle origini dell’umanità. Mi vengono in mente le donne pellerossa, nepalesi, cinesi, mi viene in mente mia nonna con le sue ginocchia ingigantite e deformate dal contatto quotidiano con la dura pietra dei lavatoi lungo il canale della bonifica.

Andare a Mafra e’ stato sciocco, e’ il solito errore del turista che si lascia condizionare. Il Convento (Palacio Nacional) e’ chiuso, ma non lo avrei visitato comunque.

Ritorno al mare, me ne vado al mare ad Ericeira, e perfeziono le ustioni di ieri sulla spiaggia.

Entrare in una cittadina sconosciuta è sempre un esperienza eccitante. E’ un punto di arrivo, puoi incominciare a sorprenderti con indolenza. La gente ti guarda, si chiede da dove mai arrivi, diciamo che in quei momenti stai facendo la passerella. Pedali pigro, non fatichi, ti stai godendo il successo.

Ericeira mi prende lentamente, stradina dopo stradina, con le sue case di pescatori bianche bordate di blu, arricchite da azuleios che evocano scene di barche sulla spiaggia o sul mare. Ericeira è a piombo sul mare e tutto di lei parla di pesca.

Due giovani turiste inglesi mi sorridono e fotografano mentre sto facendo il bucato in un lavatoio del settecento che è un opera d’arte; cerco di togliere l’odore del sudore alle magliette della pelle utilizzando una saponetta profumata e per un attimo sono tentato di attaccare bottone. Ma chi me lo fa fare, sono in vacanza, ho altre cose in testa.

Scendo alla spiaggia per stare un po’ in costume, ma il vento è così forte che mi devo riparare tra le rocce. Non è piacevole stare come in trincea, con la sabbia che ti penetra ovunque e il sole che non ti scalda. Consulto la cartina stradale e decido di proseguire per Santa Cruz. E’ un nome che mi suona bene, mi richiama il Messico e a conti fatti è distante i chilometri giusti per fermarmici a dormire. Quando arrivo, l’inconveniente è che ci sono solo due alberghi, e uno affitta camere solo per i fine settimana mentre l’altro lo stanno ristrutturando. Santa Cruz è una fregatura, sono seccato, a questo punto sono obbligato a proseguire e la prima cittadina utile è ad almeno 25 Km.

Pedalo e cerco con gli occhi l’insegna di un Hotel, non si sa mai, qualcuno potrbbe avere avuto l’idea di costruire un albergo su questa costa deserta.

Mi ritrovo a Porto Novo all’improvviso, dopo una curva, scoprendo un insenatura e alcune costruzioni sulla foce di un torrente le cui acque provenienti da Vimeiro dicono siano sante.

Una delle costruzioni fa Residencial e Restaurant per cui ho risolto il mio problema. Il gestore è un tipo simpatico, molto disponibile e mi porta subito a vedere la camera che in effetti è accogliente. Cena a base di carne cotta alla griglia e una bella bottiglia di vino tinto Terra del Rey.

Ho fatto 78 Km., mi sono arrabbiato con tutto quel vento contrario, ma ora entro in un’altra dimensione, ho i piedi sotto un tavolo, il vino lavora, la gente che affollava il locale se ne sta andando a casa lasciandomi solo e contento con me stesso.

Fuori c’è ancora una bella luce, esco per fare due passi, ho il sole orizzontale agli occhi, il vento amico sul viso, sento la colonna sonora del mare, e perchè no, maledizione, ci sono anche i gabbiani con il loro verso. Come farò a ritornare normale dopo queste emozioni, se mai sono stato normale.

Mi avventuro fino alla punta del promontorio, voglio vedere cosa c’è dall’altra parte, cercando di non perdere di vista la marea che sta salendo velocemente. Mormoro “se tu fossi qui…” Che ne dici, mano nella mano? Ci abbracceremmo fino a farci male e a toglierci il respiro oppure rideremmo per quell’onda anomala che mi ha completamente bagnato, perché se beccava te non ci sarebbe stato tanto da ridere. Avremmo fatto l’amore, magari lì, sulle rocce butterate dalla spuma del mare, avremmo gridato il nostro amore, tanto non ci avrebbe né visto e né sentito nessuno. Bei testimoni. Il signor sole palla di fuoco, il signor mare o meglio la signora mer dei francesi con le sue mille onde che si rincorrono e poi lui, il signor vento, perverso nello stuzzicarti la pelle quando ne hai veramente bisogno.

Ti è tornato l’appetito? Ma quale appetito, io ho solo fame di te, ho ancora voglia di te, sete dei tuoi baci che mi lasciano confuso peggio del più costoso rosso lusitano. Il sole se ne sta andando e il mio naso paonazzo è qui che mi ripete di andare in albergo, che è meglio.

Valeva il viaggio, tutto questo valeva il viaggio.

02/05/02 giovedì Mi sono svegliato bene, nella solitudine di questo posto. Faccio le cose con calma, tenuto conto che probabilmente tutti stanno ancora dormendo, compresi i proprietari. Dalla finestra vedo un cielo molto nuvoloso che mi conferma la pioggia che ho sentito stanotte battere su una tettoia in plastica. Però voglio uscire, qui è tutto chiuso a chiave, vuoi vedere che mi hanno sequestrato? Incomincio a premere tutti i pulsanti che vedo in giro, compresi quelli delle luci, quando finalmente compare una signora in vestaglia che tutta assonnata mi apre la saracinesca verso l’esterno.

Cazzo, sono le nove! Per la colazione devo aspettare il furgone del pane. Sono io che metto in movimento questo posto, sono l’unico ospite, però è anche vero che devo andare a fare un po’ di Km., non posso bighellonare come un gatto che ha davanti a sé una giornata di nulla.

Il conto totale e’ di 32 euro, incredibile, cena, stanza, colazione e anche un po’ di affetto. Fuori pioviggina, il proprietario della locanda cerca di convincermi a rimanere li’ al caldo per tutto il giorno.

Indosso la mantellina e parto, risalgo la sierra ma sento di avere un’altra consapevolezza; so cosa mi aspetta e ormai sono un viaggiatore. Il vento mi lascia in pace e sulla sierra il percorso è pressochè in piano. La direzione è quella giusta: Peniche.

Anche qui orgia di nuove costruzioni, non ho mai visto niente di simile. Decido di dirigermi subito verso il Cabo Carvoeiro, lo costeggio e incomincio a capire tutto: sono qui, piccola merda nell’universo. Ma anche arrogante, me lo merito, oggi il mio vestito è quello della festa.

Cerchiamo di capirci, il posto è deserto, il cielo è plumbeo, pioviggina, il vento è velluto tra i capelli, il rumore del mare mi accarezza il cervello, cosa mai posso desiderare di più in questo momento? Ora capisco anche che raccontare queste cose può farti cadere nel melodrammatico, ma cosa posso farci se questa è la realtà? Tutte le menate che avevo a casa sono svanite nel nulla e d’altra parte lo scopo del viaggio era questo; ora non mi rimane altro che crogiolarmi in sensazioni positive, godermela pedalando lento, curioso di ogni anfratto che il mare ha scavato nei millenni. Posso dire che sono felice? Posso dire che ho scoperto la medicina che cura i circoli viziosi della mente, riportando le cose alla loro giusta dimensione? Prima di visitare la “Fortaleza” vado a mangiare un po’ di pesce, voglio avere tempo per questa fortezza eretta nel XVI secolo da Filippo Terzi che divenne carcere per prigionieri politici durante la dittatura di Salazar. Secondo me bisogna avere sedato tutti gli stimoli primordiali per potere calarsi con il necessario distacco in un luogo di sofferenza. Se uno deve andare in bagno, diventa irrequieto, superficiale e non vede l’ora di farlo.

Appena si apre il portone, spingo la bicicletta sul ponte sopra il fossato, entro nello spiazzo principale e mi fermo al centro, immobile, cercando di ascoltare antiche voci. So cosa sono gli spazi chiusi, delimitati da mura, ci sono stato, non mi e’ difficile immaginare. La privazione della liberta’ di muoversi e’ peggiore della morte, e’ una tortura senza limiti, che non smette mai.

Dall’entrata principale stanno arrivando gruppi di scolaresche, vocianti, gioiose, in effetti sdramatizzanti. E’ ora di andarmene, l’archivio storico, le fotografie, gli scritti e quant’altro non mi interessano, non voglio rigirare il coltello nella piaga.

E poi tutto succede così all’improvviso, come uno schiaffo che non ti aspetti; mentre sto uscendo un guardiano mi grida improperi, mi gesticola contro e capisco che è la bicicletta l’imputata. Non dovevo entrare nella fortezza con la bicicletta, sono un terribile fuorilegge se c’è proporzione con la cattiveria che quell’uomo in divisa mi riversa addosso. Va bene, ho capito, sto uscendo, ma se nessuno all’entrata mi ha detto della bicicletta cosa ci posso fare ora? Si calmi signor guardiano, si calmi pezzo di merda che non sei altro, tu non mi devi trattare così, io ti salto al collo se non la smetti.

Da un gruppo di ragazzi che si erano fermati per osservare la scena esce una persona anziana, sugli ottantanni, distinto, che si dirige verso me. Mi chiede cosa succede, capisce al volo e con poche parole sistema il guardiano. Ha un modo molto dolce di parlare, quasi rassegnato ed io non posso che rimanerne affascinato. Ed è così che ascolto la sua storia di oppositore politico ai tempi di Salazar, di 17 anni passati proprio in questa prigione, tra un evasione e l’altra, delle torture subite.

Gli chiedo che emozioni provi a ritornare come guida per le scolaresche in questo posto, e lui mi risponde:”Niente, non provo niente. Allora sapevo i rischi che prendevo per la mia attività di comunista. Quando mi torturavano l’unica preoccupazione era di non dargli la soddisfazione di vedere la mia faccia che soffriva”.

Guardo il distintivo del partito comunista portoghese appuntato sul risvolto della sua giacca, esibito con orgoglio, guardo questo uomo con la U maiuscola sopravissuto alla dittatura fascista e per assurdo negli ultimi anni spettatore del crollo dei regimi comunisti. Non ha mai rinnegato la sua ideologia, meno che meno adesso. Mi spiega che i regimi dittatoriali sono destinati a morire, sempre, di qualunque colore essi siano; quello che non morirà mai è la speranza di un mondo migliore, senza sopraffazioni, dove tutti gli uomini abbiano uguale dignità di vita.

Mi rimetto in marcia, sono diretto a Obidos che la guida mi segna con un bel due stelle. Mi sento leggero, dentro e fuori, controllo più volte di non aver perso le borse per strada. Canto, saluto la gente, e quando sto per arrivare alla meta, sento un languorino, una voglia di pedalare ancora. Alla mia sinistra vedo un cartello che indica per Sobral do Lagore, intravedo salita e mi ci butto a capofitto. Uno zero assoluto, Sobral è la rappresentazione del paese più povero del mondo. Casette squadrate, praticamente cubi lasciati in disordine qua e la da un bambino capriccioso e soprattuto l’assenza di abitanti.

Vado ad una fontana per riempire la borraccia e seduto sul bordo della vasca c’è un anziano che mi sta guardando torvo.

“Buongiorno signore”. La risposta è stato un suono strano, un suono indecifrabile, gutturale.

Nell’aprire il rubinetto qualche schizzo d’acqua lo colpisce alla schiena, non si muove, è una statua di gesso, ma io voglio parlare con lui, voglio stabilire un contatto, se no che cavolo son venuto a fare fino a qui.

“Mi scusi signore”. Silenzio, solo silenzio, mentre dalle catapecchie circostanti incomincia a uscire gente.

Capisco che me ne devo andare, che è meglio che me ne vada, per la mia salute.

Questo è il Portogallo che mi fa sballare.

Gente dura, inaccessibile al dialogo, anche perché un cretino con i pantaloncini attillati a mezza gamba e una maglietta multicolore con duecento scritte compresa “Gino e Nina parrucchieri”, che credibilità può avere su gente che si è guadagnata ogni giorno di vita con il sangue e il sudore.

Vedo Obidos lontana, con le sue belle mura fortificate. E’ la stessa visuale che doveva avere un cavaliere quando vi si avvicinava. Ora io cerco di fare la stessa cosa con la bicicletta. Voglio arrivare ad Obidos per un sentiero sterrato, cerco di improvvisare un itinerario che si sta rivelando improbabile. Provo più volte stradine che non portano a nulla, devo desistere, ritorno sulla strada principale e smettiamola di fare il bambino.

Obidos è una cartolina, già quando ti avvicini capisci che non rimarrai deluso. Entri dalla porta principale e ti ritrovi nel pieno medioevo. In Italia ne abbiamo a decine di queste cartoline, ma io sono in Portogallo e sono innocentemente sbalordito dalle viuzze perfettamente lastricate, con case a un piano ornate da buganvillee e gerani. Obidos è finta e mi piace da impazzire.

Non me ne vergogno, a Venezia mi compro la gondolina, a S. Marino la balestrina, a Parigi la tour Eiffel e avanti fino al cappello di paglia che mi sono comprato a Panama.

Cammino con la bicicletta a fianco, cara la mia bicicletta, timida e silenziosa e mi dirigo verso il punto centrale della cittadina e cioè verso il Pelourino o la cattedrale se si preferisce.

Il Pelourino è sempre situato nel centro della piazza principale, è semplicemente un palo, molte volte elaborato artisticamente, con un suo stile in base all’epoca, e la sua funzione era quella di essere una gogna. Una colonna infame. I condannati vi venivano legati oppure giustiziati per impiccagione; tutta la gente doveva vedere il castigo del delinquente dal momento che, prima o poi, era inevitabile che passasse per il centro del paese.

Gira e rigira davanti al Pelourino ci passo più volte, sto cercando un negozio di artigianato locale per fare qualche regalo. Non so bene ancora cosa, le T-shirt non mi appagano completamente e poi devo tenere alto il tenore e il prestigio dei miei pensierini.

Finalmente una bottega che mi ispira, una gioielleria, “O Tresouro”, in questo negozio risolverò tutti i miei problemi, definitivamente.

Guardo le vetrinette, orecchini, braccialetti, collanine, anelli, oro, argento, ci siamo, è proprio il posto giusto. La commessa è una splendida ragazza dai capelli lunghi e neri, anche lei si chiama Carla ed è pronta ad aiutarmi nella scelta. Di più, sta diventando mia complice, non è invadente, mi lascio conquistare piano piano dalla sua risata e dal suo naturale modo di fare. Si prova gli oggetti che di volta in volta scelgo, si mette gli orecchini raccogliendo i capelli dietro la nuca e inclinando un po’ la testa prima da un lato e poi dall’altro. Dio come è bella.

-“ Senti Carla, quegli orecchini tienili tu, lasciateli indosso, te li regalo, ti stanno troppo bene”.

-“ Non posso accettarli, sei molto gentile, mi piace fare questo lavoro, soprattutto quando incontro clienti come te”.

-“ Carla, ora dobbiamo fare diversi pacchettini, devo essere in grado di sapere cosa c’è dentro da un qualche segno esterno”.

-“ Va bene, con la penna metteremo un segno sul fiocchetto, una iniziale…”.

-“ Ma si vede, si capisce che è un segno convenzionale, preferisco di no, sarei smascherato subito”.

-“ Idea, li metto in scatole di forma diversa, quadrata, rotonda, quadrata grande… semplice no? Orecchini scatola rotonda, braccialetto scatola quadrata grande, altro braccialetto scatola quadrata piccola”.

-“ Fantastico, è semplice, non sono mica un coglione, è impossibile sbagliarsi!”.

E via con i pacchetti, mani veloci, abili, sorrisini compiaciuti, mi sono tolto un bel peso.

-“ Carla, mi potresti consigliare un albergo qui a Obidos?”.

-“ Ci sarebbe la Pousada do Castelo, l’Albergaria Josepa, ci sarebbero sistemazioni più economiche, vediamo un po’ sul depliant, dunque dunque, … potrei ospitarti a casa mia”.

Carla è una ragazza splendida, lo ripeto , originaria di Evora nell’Alto Alentejo e da lì fuggita un anno fa da un marito violento. Carla dopo una ennesima lite e un po’ di botte di troppo, una mattina ha preso i suoi quattro stracci per arrivare fino a qui, mettendo in gioco il suo futuro e lasciandosi alle spalle una vita vuota senza speranza.

Carla è una donna coraggiosa, fiera, piena di voglia di vivere, allegra e pulita, tanto onesta da non temere il giudizio di nessuno. Carla mi ospita a casa sua ed io accetto volentieri perché i suoi occhi sono sinceri.

Rimaniamo d’accordo di vederci alla chiusura del negozio, per andare a cena, nel frattempo io continuo il mio giro turistico. Faccio anche il giro di ronda sulle mura, ho il tempo per potermi godere tutto con calma. Poi rivedrò lei, tra un ora andremo a cena insieme, e… un momento, non posso rimanere vestito così, comincio a sentire l’aria fresca, devo trovare un posto appartato per cambiarmi e rendermi presentabile.

Con calma, i capelli sono abbastanza puliti, mi annuso le ascelle e in effetti qualcosa si sente, tiro fuori il deodorante e argino l’inconveniente e adesso di corsa in un negozio di abbigliamento per comprare qualcosa di carino.

Siamo a posto, io e la bicicletta siamo puntuali davanti al negozio di Carla, abbiamo il sorriso da canaglia, si, anche la bicicletta , e tutti e tre ce ne andiamo al ristorante.

Ci raccontiamo un mare di cose, io gli racconto di lei, lei mi racconta di lui, ma chi se ne frega di loro, adesso, ora, siamo noi due, ad annusarci, a scoprirci, ad incuriosirci di ogni parola, proiettati fuori dal tempo e dallo spazio.

Ci incamminiamo verso casa, nel silenzio della notte e delle tremule luci dei lampioni, ascoltiamo i nostri passi sul selciato e il ronzio confortante dei mozzi delle ruote, non c’e’ bisogno di dire una parola, stiamo bene cosi’, in pace con Dio e con gli uomini.

La casa di Carla e’ molto piccola, direi essenziale, lascio la bicicletta nel cortiletto intonacato di bianco e dò uno sguardo al contachilometri: oggi ho fatto 77 Km., ma non li sento nelle gambe, oggi valeva veramente la pena di vivere.

03-05-02 venerdì Mi sveglio che è già tardi. Troppo tardi per un viaggiatore.

Partire diventa impellente, pedalare diventa necessario, potrei prendere qualsiasi direzione, non sto a speculare su questi dettagli, comunque sia la freccia indica Alcobaca. C’è un monastero da vedere, qualcosa di grosso e importante, da valere addirittura il viaggio.

I chilometri scorrono facili e progressivamente riacquisto un po’ di serenità; c’è un magone da digerire, mica facile, dopo avere toccato il cielo con un dito.

Arrivo al monastero che sono le undici del mattino e la prima cosa è quella di trovare un posto appartato per cambiarmi vestiti. Questo vuol dire che per alcuni secondi rimango comunque nudo, in pieno giorno e nei pressi di una piazza abbastanza affollata. Chiedo ad una vecchina che vende gelati di dare una occhiata alla bicicletta mentre visiterò il Mosteiro de Santa Maria ed ecco un pulmann di italiani, forzati dei viaggi organizzati, che scende come uno stormo di anatre in primavera.

Sono in mezzo a loro, dentro di loro, mi aggrego come una piccola goccia di mercurio vicino ad una piu’ grande, faccio gia’ parte di loro e parlo con due signore come se ci conoscessimo da tempo. La tecnica di entrare nelle comitive e’ essenziale quando si vuole visitare un monumento storico, perche’ usufruisci della loro guida che ne sa veramente molto. Non devi fare la fatica di leggere il tuo libriccino e poi alzare gli occhi per verificare la corrispondenza, ti basta ascoltare la voce e guardare comodo comodo.

Intanto questo monastero, dichiarato dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’Umanità, è il migliore esempio di architettura cistercense in Europa. La chiesa ha un portale gotico e facciata barocca, e all’interno le tre navate sono lunghe 106 metri e alte 20 metri. E’ uno spettacolo camminare nella grande navata centrale, contare le dodici colonne con nervatura centrale, fino ai due bracci del transetto dove sono posizionate le tombe di D. Pedro I e Dona Inés de Castro. Una di fronte all’altra. Sì, perché quando i due amanti risorgeranno potranno guardarsi negli occhi. Sono due sarcofagi stupendi, in calcare bianco, realizzati nella seconda metà del XIV secolo in stile gotico fiammeggiante.

E’ l’ennesima storia di un grande amore impossibile, tipo Romeo e Giulietta, Lancillotto e Ginevra, ma sul mio nervo scoperto ha un effetto devastante. Voglio sapere tutto di questi due, la loro storia e prego la guida di raccontarmela. Capisco che c’è una certa fretta nell’aria, questo gruppo deve correre in più posti, ma una storia d’amore vale una pausa di riflessione.

D. Pedro I, primogenito di Alfonso IV, sposa Costanza di Castiglia per la solita ragione di stato. Come spesso succede però si innamora di un’altra donna, di Ines de Castro appunto, gentildonna spagnola e dama d’onore della moglie. La relazione viene alla luce, è scandalo, per cui Ines viene rispedita in Spagna.

Ma Costanza muore dando alla luce il terzo figlio e D. Pedro I ormai libero, fa rientrare in Portogallo il suo grande amore mai dimenticato. Sarebbe fantastico per i due, ma sempre per le solite ragioni di stato, sospetti, intrighi tra Spagna e Portogallo, dei sicari su ordine del re Alfonso IV, uccidono Ines.

Queste cose sono rappresentate secondo lo schema medievale tipico della “ruota della fortuna” sul pannello di testa del sarcofago di D. Pedro I, e tra queste 18 figure scolpite vedo quella che ritrae il sicario mentre stacca la testa di Ines. ( Devo dire per inciso che molte teste di queste statuine sono state staccate come souvenir dalle truppe napoleoniche che hanno bivaccato in questa chiesa).

Due anni dopo, alla morte del padre, D. Pedro I sale al trono e impone la riesumazione della salma di Ines per dichiararla ufficialmente sua moglie e costringere l’intera corte a renderle omaggio. Tanto è vero che nella realizzazione del sarcofago di Ines, lei vi è distesa con la corona di regina sul capo. Non solo, ma la tomba poggia su sculture di animali con la testa che riproduce il volto dei sicari, e nel pannello di testa c’è la raffigurazione del Giudizio Universale con i due amanti finalmente felici in Paradiso. Questo voleva che fosse rappresentato D. Pedro I, perché contrariamente alla morale cattolica, secondo lui Dio non può punire coloro che si amano veramente, anche se illegalmente.

Siamo rimasti soli, noi tre, io, Ines e Pedro, le anatre sono emigrate nel chiostro, non è il caso che resuscitiate adesso, mi basta che ci mettiate una parola buona con il Nostro Signore, oppure in alternativa che mi diate una mano a venirne fuori bene. Mi spiego, io non sono un eroe, non voglio soffrire più di tanto per amore e poi francamente non ne ho più voglia.

Devo riunirmi allo stormo, mi hanno adottato, già qualcuna sta chiamando per sollecitarmi a raggiungerla.- “Sior ciclista, cosa la fa li impalato come un mona, la venga a veder che bea la sala capitolare”.

E così visito il refettorio, la cucina con il suo enorme camino, il dormitorio, tutto straordinariamente ben conservato. Questi frati erano una vera forza. In questa zona originariamente paludosa sono riusciti a costruire un capolavoro, pietra su pietra; hanno bonificato, arato, piantato alberi da frutta fino a farla diventare una delle terre più ricche di tutto il Portogallo. Ricchezza ortofrutticola di cui la gente gode ancora oggi.

La visita è terminata, siamo fuori sul sagrato, devo salutare le mie amiche che non si capacitano di perdermi. Vogliono che vada con loro a Batalha a vedere l’altro monastero, la bicicletta la carichiamo sul pulmann e poi stasera tutti a cena insieme.

Mie care amiche, ma l’avete notata la mia faccia da canaglia, i miei pantaloncini da pirata, la bandana da zingaro, vi sembro il tipo che cerca soluzioni comode? Avventure spicciole? Porgo un euro alla vecchina dei gelati, salgo sulla bicicletta e in piedi sui pedali, oscillando con grazia il sedere, mi allontano senza guardare indietro. Ho una fame da lupo, sono pieno di me per il mio successo con la gente, per cui oggi cercherò il migliore ristorante di Alcobaca per premiarmi.

Si chiama “Celeiro dos frades”, il ristorante appunto, ed è una meraviglia.

Pesce, voglio del gran pesce, ma intanto che aspetto voglio del vino blanco, fresco, voglio essere felice, so che tra poco sarò felice. Mi piace la parola “voglio”, una volta la vivevo clandestinamente come una sozzeria vergognosa, anche per la tiritera che l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re. Ora che sono uno spregiudicato godo a dirla: voglio, voglio, ti voglio.

Quando si va in bicicletta con le borse ai lati della ruota posteriore bisogna essere prudenti; l’equilibrio non è facile per cui è necessario non lasciarsi prendere dall’euforia e soprattutto essere sobri.

Uscendo da Alcobaca per fare ritorno a Obidos non avevo nessuna delle condizioni di cui sopra e sbandando su un rettilineo sono finito in un fosso.

Poco male, una borsa malconcia ma soprattutto la sensazione di essere un coglione.

Vicino alla grande igreja do Senhor Jesus de Pedra, fuori le mura di Obidos, c’è un piccolo mercato che avevo già visto animarsi al mattino e stavolta dopo aver dato un occhiata a questa chiesa a pianta centrale del 1747, decido di fare due passi tra la gente. Tutto facile, perché da una roulotte che funge da bar alcuni “avventori” gia ubriachi cominciano a indirizzarmi scherzi, risate, insomma le solite cose che un branco fa quando vede un capro espiatorio.

Va bene ragazzi, ridiamo, prendetemi in giro, forza con le vostre volgarità, pago da bere a tutti. Con soli sei euro provo una volta di più che sono capace di sopportare gli imbecilli. Il viaggiatore deve superare queste prove, deve allenarsi a incontrare chiunque senza battere ciglio.

La meta per oggi è Torre Vedras, quando vi arrivo ho fatto in tutto 107 Km.

04/05/02 sabato Stamattina vado via alla grande, strada tranquilla, sali e scendi assolutamente pedalabili.

Ho deciso di affrontare Lisbona dal sud per cui attraverserò la foce del Tago a Vilafranca de Xira.

Piombo letteralmenente su Alverca do Ribatejo, dall’alto perché ero sulle colline e finalmente costeggio il fiume sulle cui sponde si affacciano una serie continua di attività industriali. E’ l’ora di pranzo e noto un certo movimento di operai che vanno nelle trattorie dei dintorni, convenzionate evidentemente e l’istinto mi dice di entrare in una di queste.

E’ un locale molto spartano, essenziale, con tavolini piccoli e non c’è il menu; c’è affollamento ma un posticino per me il padrone riesce a trovarlo. Quella che probabilmente è la moglie mi chiede se la zuppa di polpo va bene, io dimostro entusiasmo sfregandomi le mani, e in men che non si dica mi viene riempito il piatto con il mestolo. Ci mangio anche il pane perché ho fame e quando ho ripulito il piatto la signora di prima insiste per darmi un’altra razione. Mezzo litro di vino bianco, la macedonia e il caffè, tutto per cinque euro e se volevo, anche il grappino della casa.

Non vorrei che sorgesse il dubbio che io cerchi questi posti per risparmiare, però non nascondo che provo piacere quando mi rendo conto che con poco si può vivere. Sento che in questa maniera potrei andare avanti per degli anni.

A Vilafranca de Xira attraverso il lungo ponte sul Tago e sfocio in una pianura sterminata con risaie, allevamenti di bovini e poi boschi di querce, eucalipti e soprattutto un vento a favore che ti fa fare 20 Km. In un batter d’occhi.

Sui grandi tralicci dell’elettricità vedo le cicogne, tre nidi per traliccio e non posso non fermarmi per fotografarle. Davanti a me una cicogna volteggia cercando qualcosa da mangiare negli acquitrini; è bello vederla assecondare il vento, con il becco dritto in avanti e le zampe altrettanto tese all’indietro. Poi allarga le ali e morbidamente plana sull’acqua.

Il Tago nel suo estuario ha un colore limaccioso, non è bello a vedersi anche se ti trasmette un non so che di vitale. Sai che la gente che vive qui è legata a quell’acqua per la propria sopravvivenza, sai che in quelle casupole ormai abbandonate sugli acquitrini le persone hanno fatto una vita dura, bestiale. Il fascino è proprio in questo: cento, duecento o anche cinquecento anni fa c’erano degli omini che vivevano qui con le loro barchette e che i loro occhi vedevano quello che vedo adesso io.

Cerco posti come questo, sono sempre più rari, si costruisce su tutto, su qualsiasi bel posto che attira l’emozione della gente.

Arrivo ad Algocete, famosa per aver dato i natali al re Manuel I, e il mio contachilometri segna 103. Ho tutto il tempo per girarla in lungo e in largo questa cittadina di pescatori, con le sue case basse e i balconcini in ferro battuto. Trovo un bel Hotel che si affaccia sul fiume e riesco persino a fare il bucato. All’ora di cena non mi rimane che andare alla ricerca di un ristorante all’altezza del mio appetito ed è come sempre per caso che entro in quello che alla fine mi darà grande soddisfazione.

Il gestore è un grande, ci mette amore nel suo lavoro. Quando qualcuno entra nel suo piccolissimo corridoio, scuote la testa, fa vedere che ci sono dei problemi, dimostra dubbi sulla possibilità di accogliere il cliente. Guarda smarrito i tavoli, è proprio desolato, comunque alla fine dà un orario. Quando sono entrato io il locale era vuoto e lui ha allargato le braccia disperato dicendomi che non sapeva come sistemarmi e che tornassi alle venti.

Questo ristoratore pone problemi anche sul menu che scegli, vuole scegliere lui; ha fatto crescere in me uno stato d’ansia, una sensazione di essere di troppo in quel locale, ma poi finalmente ti conquista. Non scherza, è sempre serio, ma sa quello che fa. Tu sei in sua balia , tutti qui dentro siamo in sua balia. Siamo dei fortunati perché intanto siamo seduti ad un tavolo e a questo punto può sommergerci con le sue prelibatezze.

Lavora il pesce nel forno a legna con cura maniacale, sgambetta da un tavolo all’altro portando il risultato di una cottura perfetta. Io non ho mai amato il pesce, ma Dio come è buono questo pesce. Sarà di fiume o di mare, non me ne intendo, me ne ha fatto vedere uno grosso ma poi me ne ha serviti due più piccoli. Chissà cosa gli ha fatto cambiare idea.

Bevo vino verde naturalmente, una brocca fresca e poi ancora un’altra e a questo punto sono in orbita.

Problema: come faccio a ritornare all’Hotel in bicicletta che sono ubriaco fradicio? E’ in questa circostanza che ho avuto il tempo di elaborare una mia considerazione sui portoghesi e che qui di seguito cercherò di esporre nel modo più comprensibile possibile.

Parto dai tratti somatici degli uomini: bassi, braccia corte, faccia quadrata.

Da quelli delle donne: basse, braccia corte, faccia quadrata, cosce grosse, culo basso ed enorme. Dunque questi non sono portoghesi ma meticci. I portoghesi hanno apparentemente conquistato le popolazioni indios delle americhe, appare evidente che sono i nativi di quelle terre ad avere prevalso nelle generazioni successive se il risultato è quello che vedo oggi.

Non è vero che gli atzechi, i maya, sono civiltà scomparse, quantomeno la civiltà magari è anche scomparsa ma le popolazioni certamente no. Sono i portoghesi ad essere scomparsi.

La stessa cosa vale anche per me che in effetti non sono un italiano ma un visigote e il mio vero antenato è Attila.

05-05-02 domenica Alcocete – Lisbona Km. 40 Quando sono sceso nella hall dell’hotel, guardandomi in uno specchio mi sono voluto un bene incredibile; faccia riposata, elegante nella mia divisa preferita ho pensato che oggi niente avrebbe potuto resistermi.

Faccio una colazione abbondante, con metodo, leggo le prime pagine dei giornali e vado in garage a prendere la bici. Lei è lì, appoggiata al muro, e quando mi avvicino mi intenerisco. Non mi ha mai tradito, è sempre stata efficiente e ormai do per scontato che saremo inseparabili.

C’è molta umidità nell’aria, i chilometri da fare sono pochi e soprattutto pregusto l’idea di rivedere Lisbona. E’ come quando fai l’amore con una ragazza la prima volta, sai che non è stato fantastico perché non ci si conosceva bene, ma sai anche che la seconda volta sarà molto meglio.

Devo prendere il traghetto a Barreiro, non conosco gli orari delle partenze, per cui cerco di pedalare veloce per mettermi avanti con il lavoro.

Deve essere piovuto da poco, la strada è bagnata e facendo una curva per entrare nel terminal, scivolo sulle strisce segnaletiche dell’asfalto, cadendo pesantemente a terra.

Madonna che male! E’ per pudore che mi rialzo con indifferenza, stringendo i denti e cercando di zoppicare il meno possibile. C’è gente che ha visto la scena, qualcuno ride, certe soddisfazioni preferisco non darle.

Alla biglietteria pago un euro per me e 6 euro per la bicicletta; è giusto, non faccio una piega.

Il mondo che popola questi traghetti è un mondo di pendolari, gente che va al lavoro a Lisbona o ne torna, da una sponda all’altra del fiume, in silenzio perché non sento il vociare festaiolo di chi è lì per piacere. Chiedo ad un uomo di colore di farmi una foto e così incominciamo a conversare, mi dice che è del Ghanda, piccolo stato centroafricano di 2.000.000 di abitanti. Sono incredibili i discorsi in inglese che riesco a fare con uno sconosciuto: schiavismo, colonialismo, Cristoforo Colombo, Nelson Mandela… Lo guardo negli occhi, non posso farne a meno, sono affascinato da una certa rassegnazione che ha nella voce, dall’armonia che ha nel muovere le mani, me lo immagino nel suo villaggio in Africa e finisce nel solito confronto che mentalmente ho l’abitudine di fare.

Perché, mi chiedo, perché qualcuno ha deciso che io dovessi essere inondato di privilegi mentre qualcun altro ha dovuto morsicare la vita dal primo vagito che ha emesso. E’ il solito manierismo il mio? Sto facendo del buonismo da quattro soldi? Va bene, allora diciamo che godo come un riccio quando incontro uno sfigato perche’ posso toccare con mano questi privilegi che altrimenti sarebbero scontati.

Il traghetto attracca sulla riva destra del Tago, ho la Praca do Comercio davanti e l’impressione rimane quella della prima volta. Questa piazza che doveva essere il cuore pulsante della citta’ a quanto avevo letto, non e’ che il capolinea di tutti i mezzi di trasporto pubblici. Non vedo i chioschi con tavolini all’aperto disposti ai piedi del monumento a D. Jose’, col suo cavallo nero che fece denominare la piazza dagli inglesi “black horse square”. E’ in ristrutturazione, una piazza quasi deserta se si eccettua il popolo accalcato alle pensiline per prendere il tram.

Pedalo contro mano lungo la Rua Aurea per arrivare al Rossio, vero centro di Lisbona, ed è lì che cerco un Hotel degno dei prossimi due giorni che passerò in città.

************************* La sensazione che sto provando in questo momento non mi sorprende, la conosco, sono alla fine di un altro viaggio, tra poco io e la bicicletta ci estranieremo. Domani sarò semplicemente un turista, con la sua macchinetta fotografica in una mano e la guida nell’altra.



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