Singolarità spaziotemporali in Portogallo

DOM 08/08/2004 Con il vecchio bauletto e le borse laterali nuove di zecca montate sull’Honda 600 Silverwing parto da Bergamo senza fretta (diciamo che saranno state più o meno le 9.30) e imbocco l’A4 in direzione Ovest. In un autogrill nei pressi di Torino incontro due ragazzi delle mie parti che stanno andando verso la valle della Loira...
Scritto da: Luca (un altro)
singolarità spaziotemporali in portogallo
Partenza il: 08/08/2004
Ritorno il: 26/08/2004
Viaggiatori: da solo
DOM 08/08/2004 Con il vecchio bauletto e le borse laterali nuove di zecca montate sull’Honda 600 Silverwing parto da Bergamo senza fretta (diciamo che saranno state più o meno le 9.30) e imbocco l’A4 in direzione Ovest.

In un autogrill nei pressi di Torino incontro due ragazzi delle mie parti che stanno andando verso la valle della Loira con una moto “vera” e che hanno la gentilezza di non prendermi per pazzo (o almeno di non darlo troppo a vedere…) per il fatto che io sto viaggiando in scooter. Dal momento che tutti e tre siamo già stufi all’inverosimile di guidare in autostrada, usciamo e prendiamo la statale del Monginevro. Sul passo ci fermiamo per un panino e poco dopo, scesi a Briancon, ci dividiamo: loro a destra per Grenoble, io a sinistra verso Gap.

Poco dopo il villaggio di Serres, ho la felice intuizione di prendere una strada (segnalata come “turistica” sulla cartina della Eurocart) che pare si chiami Route des Princes d’Orange: pochissimo frequentata, attraversa le Alpi provenzali e i rari paesini che ci sono da quelle parti fino ad arrivare al Col de Perly, da dove si gode un panorama mozzafiato fatto di vento, silenzio e profumo di lavanda su un orizzonte vastissimo che arriva fino al Mont Ventoux.

Sull’altro versante scendo dolcemente fino alla grande spianata dove inizia la foce del Rodano, sulla quale mi accoglie, proprio di fronte a me, un tramonto intensissimo, commovente. Decido di inseguirlo fino ad Orange, dove prendo una stanza all’Ibis.

La sera ho tutto il tempo per una lunga e tranquilla passeggiata nel centro della città di cui mi rimane, oltre a un chiaro ricordo di sporcizia, l’immagine del bellissimo e imponente teatro romano (che si apprezza molto meglio, riuscendo a vederne anche l’interno, dai giardini che si trovano sulla collina immediatamente alle sue spalle).

LUN 09/08/2004 Dal momento che il piacere del viaggio deve fare i conti anche con la distanze da percorrere ed il limite di tempo a disposizione, al mattino imbocco subito l’autostrada (l’Ibis si trova vicinissimo al casello) e mi rassegno a una giornata di noia mortale attraverso il Midi e lungo i piedi dei Pirenei francesi. Riesco perfino a materializzare l’incubo metropolitano della Est di Milano percorrendo la tangenziale di Tolosa (imbottigliatissima… e di domenica!!!).

Purtroppo, appena abbandonata l’autostrada, lo spirito appena rinfrancato non fa in tempo a riprendersi perché, all’altezza di Orthez e proprio quando decido di mettermi di buzzo buono per attraversare i Pirenei, inizia mestamente a piovere… Risalgo quello che è segnalato come un tratto del cammino di San Giacomo in un clima che all’inizio si presenta timidamente irlandese (pascoli verdissimi, nebbiolina, pioggia leggera…) e poi, salendo, sempre più tristemente alpino (poco prima del confine mi devo fermare sotto una tettoia accanto a una cascina per ripararmi da un acquazzone…). Sorprendentemente, sul passo di Roncisvalle non piove più e l’abbazia emerge a tratti dalla nebbia come un miraggio, avvolta in una nuvola che le nuota attorno e ne fa uno spettacolo straordinariamente suggestivo: purtroppo pochi minuti dopo in quella stessa nuvola mi ci infilo io (e questo è un po’ meno suggestivo…) scendendo verso Pamplona, dove mi fermo, mezzo fradicio, in uno dei tanti alberghi a tre stelle del centro.

La sera, nonostante continui a piovere a intermittenza, non rinuncio a girare un po’ per le strade della corrida di San Firmìn e a vedere il resto del centro della città che, anche al buio e senza troppa gente in giro, lascia una fortissima impressione di eleganza e di fierezza tutta navarra.

MAR 10/08/2004 Il mattino mi rimetto in viaggio verso ovest e, dopo avere trascorso un certo tempo sotto un cielo di Castiglia invaso da astronavi extraterrestri camuffate da nuvole bianchissime e perfettamente uguali (che però, procedendo, si ritirano di fronte a squarci sempre più ampi di un azzurro sempre più intenso), arrivo a Burgos.

E’ una citta splendida, o forse così mi è parsa perché ho avuto la fortuna di visitarla con una luce limpidissima e, grazie a questa, dalla cima del castello ho potuto godere di un panorama vastissimo sulla parte più settentrionale della Castiglia-Leon. Oltre a ciò, però, Burgos è anche una cattedrale gotica veramente molto bella e molto ben conservata ed un centro pedonale piccolo ma vivace, dove l’attività più piacevole è quella di prendere un caffè dopo pranzo seduto ad un tavolo sulla Plaza Mayor.

Nel pomeriggio raggiungo Valladolid, dove un paio d’ore sono più che sufficienti per rendermi conto che il passato nobile da capitale di un regno è stato ampiamente sorpassato da un presente da grande città moderna e un po’ frettolosa (ma forse è un’impressione superficiale. Forse è stata soltanto un po’ frettolosa la mia visita…).

Passando per le città di Tordesillas, Toro e Zamora deciso a raggiungere – finalmente, dopo tre giorni interi di viaggio…! – il territorio portoghese, percorro verso sera il ponte formato da una diga sul fiume Douro e, appena di là, mi fermo per la notte nella cittadina di Miranda, dove prendo una camera in una pensioncina senza pretese.

Qui, grazie anche all’ora in più a disposizione per il fuso orario, mi capita di scoprire un luogo inaspettatamente magico: è come se l’attraversamento del confine (che si trova praticamente a 500 metri da dove alloggio) mi avesse proiettato in un’altra dimensione. Miranda è poco più che un gruppetto di case arroccate su una rupe a strapiombo sul Douro ma ha tutta l’ambizione e il respiro di una città, e questo senza perdere nulla della misura e della tenerezza di un villaggio: c’è una cattedrale dalle dimensioni sproporzionate e quasi paradossali per il luogo in cui si trova; una parte “moderna” con una via commerciale lunga forse 50 metri che ha la vivacità di una cittadina di media grandezza; una parte “antica” composta da quattro-strade-quattro dove il silenzio, la quiete e le pochissime, semplici facce contadine che la sera si affacciano alle finestre sembrano essere state dimenticate lì da un’altra epoca… Ecco, sì, proprio come volevo ma allo stesso tempo oltre ogni aspettativa, sono arrivato veramente in Portogallo.

MER 11/08/2004 Deciso a restare immerso in questo clima nuovo e sorprendente, il mattino muovo verso nord-ovest.

Lungo la strada, che passa attraverso un paesaggio rurale molto sereno, incrocio un trattore guidato da un vecchio contadino in giacca e cappello, serio e compunto come un notaio alle prese con un rogito; incontro un paio di muratori che al mio passaggio mi fanno cenni di saluto ampi e rispettosi, come se non avessero mai visto uno scooter delle dimensioni del mio né, tantomeno, un italiano in vacanza dalle loro parti… Non faccio in tempo a finire di chiedermi dove sono finito che arrivo a Braganza la quale si rivela, francamente, un po’ una delusione. Rispetto ai primi cinquanta chilometri di Portogallo che ho visto è una cittadina molto più moderna (o, perlomeno, manifesta l’intenzione evidente a diventare tale…), costeggiata da un’autostrada (che la collega a Madrid da una parte e a Porto dall’altra) e circondata da nuovi alberghi e banche che le stanno spuntando attorno con la grazia di una mandria di elefanti accanto ad un gregge di pecore. La parte antica – una cittadella fortificata con al centro un castello – è tutto sommato vuota e deludente, nonostante la dinastia reale portoghese abbia avuto proprio qui le sue origini.

Per tutti questi motivi mi ci fermo veramente pochissimo e me ne vado ben presto verso Chaves.

Lungo la strada però, ricomincia a piovere, e anche con una certa intensità (e io che credevo che nella penisola iberica ad Agosto non piovesse mai…!!!). Così, visto che più o meno è ora di pranzo, all’altezza del villaggio di Rebordelo mi metto al riparo in una stazione di servizio con annesso uno snack-bar dal nome altisonante di “Harley Davidson”, che in realtà si rivela essere una stanza con quattro tavoli, un televisore acceso e un grosso bancone che ai clienti (io sono l’unico) non offre altro che coca-cola e patatine fritte. Dopo pochi minuti però (mentre fuori continua a piovere) entra nel locale un simpatico vecchietto di circa 80 anni che, non so se mosso più dalla solidarietà verso un viaggiatore infreddolito sperduto in quell’angolo di mondo o dalla sorpresa e dal fascino dell’esotico (confesso di trovare ancora molto piacevole il pensiero di poter essere stato per lui l’evento più curioso ed interessante di quella giornata, e magari non solo…) si mette a raccontarmi la storia della sua vita, interamente in portoghese e senza che io ci capisca una parola!!! La naturale empatia umana e qualche notevole sforzo filologico mi permettono soltanto di intuire che in passato gli è capitato di conoscere altri italiani quando è stato a lavorare in Francia, che lui è certo che, dopo due settimane di permanenza in Portogallo, parlerò la sua lingua meglio di un portoghese, che la squadra di calcio del Porto ha appena ingaggiato un allenatore italiano (Del Neri: questo in realtà lo sapevo già…) e che, in fondo, gli sto simpatico… Così, dopo circa un’ora e nonostante continui a piovere, lascio l’“Harley Davidson” felice e con un sorriso dolcissimo stampato addosso – non so nemmeno io perché – e con il cuore che sento essersi allargato a dismisura… Ancora adesso mi domando, sorpreso, se davvero basta così poco e, ancora più sorpreso, mi rispondo quasi sempre che credo di sì.

Nel pomeriggio, durante l’unica vera interruzione della pioggia, riesco appena a visitare di sfuggita, poco fuori Braga, il santuario di Bom Jesus do Monte: una chiesa stampata sul fianco di una collina con l’unica peculiarità di essere raggiunta da una scalinata inutilmente barocca tagliata attraverso il bosco.

Più tardi arrivo finalmente sulla costa a Vila do Conde, una cittadina balneare poco a nord di Porto, dove avevo prenotato una stanza per due notti all’Estalagem Brazao. La sera sembra avere smesso definitivamente di piovere e allora posso uscire tranquillo per una passeggiata.

Qui, attirato da un ululato che proviene dal fondo di un viale in un quieto quartiere residenziale, incontro per la prima volta l’Oceano Atlantico, che non avevo mai visto tanto ad occidente. Con le onde che si infrangono tra alcune rocce, su un lembo di spiaggia che sarebbe deserto se non fosse per due lampioni, un chiosco di gelati e qualche famigliola a passeggio qua e là, mi appare nervoso, irrequieto.

Impressionante.

GIO 12/08/2004 Sotto un cielo (finalmente) inequivocabilmente limpido e un sole splendido, al mattino parto baldanzoso alla scoperta della città di Porto, con molta curiosità ma ben poche aspettative: a parte le due paginette lette sulla guida Routard letta la sera prima, di Porto conosco soltanto il vino… La prima, graditissima sorpresa della giornata mi accoglie in un piazzale vicino alla cattedrale, su uno dei punti più alti della città (che sorge sulla riva settentrionale del Douro) dove scopro un panorama magnifico sulla foce del fiume e, lungo la sponda opposta, il colpo d’occhio impressionante della cittadina di Vila Nova de Gaia, dove sono radunate le cantine di pressoché tutti i più famosi produttori del migliore vino del mondo. In una parola, ettolitri ed ettolitri di Porto pochissime centinaia di metri di fronte a me, nel territorio che con ogni probabilità ne accoglie la più alta concentrazione per metro quadrato dell’intero pianeta!!! Inebriato dal semplice sguardo, proseguo la visita della città che, per quanto un po’ caotica (soprattutto a causa di una serie infinita di cantieri stradali in pieno centro…), rivela anche molti altri insospettati motivi di interesse: lo sconcertante delirio barocco all’interno della chiesa di Sao Francisco, quello ben più misurato (ma non meno sconcertante) della chiesa di Santa Clara, l’eleganza liberty della libreria Lello e della stazione di Sao Bento e, soprattutto, la vivacità e la genuinità popolare che si respirano nel quartiere centralissimo della Ribeira, che dalla cattedrale precipita verso il Douro in un dedalo di scalette e viuzze sporche, maleodoranti ma coloratissime e straordinariamente vive.

La Ribeira (che l’Unesco ha pensato bene di nominare patrimonio dell’umanità) termina in una meravigliosa piazza dove l’unica cosa che riesco a fare è sedermi in riva al fiume con una coca-cola e un panino a godermi il cielo, l’acqua, il sole e, sinceramente ammirato, lo spettacolo di ragazzi che giocano a pallone, impiegati frettolosi che mangiano un gelato in pausa pranzo, turisti esausti indecisi sulle mete del pomeriggio, ragazze (mediamente molto bruttine, per la verità…) dedite alla difficile (ma altissima) arte del passeggio, mostriciattoli odiosi tra i cinque e gli otto anni che si rincorrono sbattendo contro tutto e tutti… Dopo un tempo che non so quantificare (credo a causa di un involontario pisolino, o una specie di estasi sognante, o un qualsiasi altro fenomeno distorsivo della linearità temporale che ora non sono in grado di spiegare…), nel primo pomeriggio mi ritrovo ad attraversare il fiume verso Vila Nova de Gaia, dove la vista del panorama di Porto nella sua totalità ne fa risplendere (e ricordare) ancora di più la bellezza. Qui mi dedico con profondo rispetto e compunzione al pellegrinaggio presso una delle cantine localizzate al mattino: scelgo quella della Graham’s (etichetta di proprietà della famiglia Symington, un nome che poi, molto curiosamente, tornerà a fare capolino nel seguito del mio viaggio…), un po’ sulla scorta delle felici esperienze fatte in passato con i suoi prodotti, un po’ per l’invitante collocazione su una collina proprio al termine del lungofiume. Ho il clamoroso colpo di fortuna di indovinare un momento in cui non ci sono visite di gruppo, così una hostess italiana molto simpatica mi accompagna personalmente al cospetto di file e file di maestose botti contenenti intere annate in invecchiamento, di fronte alle quali l’unico atteggiamento possibile è la più silenziosa e devota ammirazione.

Non pago della degustazione offertami alla Graham’s, dopo la visita ritorno sulla riva settentrionale per concludere il pomeriggio nel Solar do vinho do Porto, un bellissimo locale un po’ defilato dal centro ma immerso in uno splendido parco. Qui un aperitivo con Porto Romariz invecchiato vent’anni e mandorle tostate, un tramonto spettacolare tra il Douro e l’oceano, la musica dei Madredeus e la lettura di alcuni versi di Fernando Pessoa mi regalano la certezza che in un paese che contiene (e sa conservare) questi luoghi e queste emozioni qualsiasi essere umano, anche il più gretto e distratto, non può fare a meno di essere un poeta.

La sera, a Vila do Conde, perfino lo stesso oceano visitato la sera precedente mi appare meno imponente, quasi timido e rispettoso al cospetto dell’intensità delle sensazioni della giornata.

VEN 13/08/2004 Lascio definitivamente Vila do Conde con i ricordi del giorno prima ancora negli occhi, sul palato, nelle narici e, aggirando Porto da nord, raggiungo la riva del Douro qualche chilometro a monte della città e ne risalgo la valle lungo la statale che lo costeggia.

Per il primo centinaio di chilometri mi ritrovo circondato ed immerso in una vegetazione lussureggiante, con il fiume che fa continuamente capolino con dei meravigliosi colpi d’occhio a volte accanto a me, a volte qualche decina di metri più sotto. Poi, più o meno all’altezza di Peso da Regua, le colline a ridosso dell’acqua si spogliano improvvisamente dei boschi e si ricoprono del ricamo elegante e regolare di vigneti sterminati, in mezzo ai quali le stesse aziende proprietarie delle cantine di Vila Nova de Gaia non si fanno alcun riguardo a marcare il proprio territorio con insegne visibili a volte anche a chilometri di distanza (è qui che imparo a detestare l’immagine dell’omino nero col mantello della Sandeman…).

Arrivato nel villaggio di Pinhao lascio la strada principale per cercare un luogo un po’ più defilato dove fermarmi a mangiare qualcosa e godermi il panorama. L’ennesimo colpo di fortuna (o a questo punto dovrei cominciare a dare più credito al mio intuito?) mi fa capitare sulla cima di una collina dove, in mezzo ai filari, si trova un unico, solitario bar. Non faccio in tempo a fermare lo scooter e a guardarmi un po’ intorno per scegliere i punti migliori da fotografare che – anche qui non so se più incuriosita dalla targa del mezzo, annoiata per l’assenza di altri clienti o mossa da sincera simpatia – mi si avvicina la proprietaria, una signora simpatica e gentile che, grazie al cielo, parla francese!!! Riesco così a scambiare quattro chiacchiere e ad essere più socievole che con il vecchietto di due giorni prima ed è questo probabilmente che mi fa guadagnare l’accesso al terreno sul retro del locale, dove il panorama sulla valle è decisamente migliore e dove ho la possibilità di gustare, in anteprima sulla vendemmia, qualche grappolo di un’uva gustosissima.

Questa volta mentre ridiscendo la collina mi chiedo cos’è che mi fa meritare questo genere di sorprese, attenzioni e piccoli, preziosissimi regali da persone così diverse: la generica popolarità un po’ folcloristica di cui godono gli italiani all’estero, la quantità inverosimile di chilometri percorsi, il fatto di essere in viaggio da solo, il semplice fatto di essere in viaggio e nient’altro… Non trovo risposte conclusive (e non ne è ho mai trovate da allora) ma qualunque cosa sia è qualcosa per cui vale davvero moltissimo la pena.

La destinazione del pomeriggio, che raggiungo dopo aver costeggiato per circa una cinquantina di chilometri altre colline e altri vigneti a perdita d’occhio, è il parco archeologico della valle del fiume Coa.

Pare si tratti del più grande sito mondiale di incisioni rupestri all’aperto, scoperto non più di una ventina di anni fa durante i lavori di costruzione di una diga (poi sospesi fra feroci polemiche e scandali che sembrano non essersi del tutto spenti ancora oggi). Dal momento che l’accesso è strettamente contingentato, è fondamentale prenotare almeno un paio di settimane prima la visita guidata da uno dei tre punti di accesso. Io avevo scelto quello di Castelo Melhor, un minuscolo villaggio da dove una ragazza molto competente e carina di nome Angela guida me e altre sette persone a bordo di un fuoristrada lungo un viaggio a ritroso nel tempo che dalla civiltà contadina e pastorale di circa un secolo fa (ciò che è, in pratica, più o meno l’attuale Castelo Melhor) arriva fino all’età della pietra con la visione ravvicinatissima di incisioni veramente sorprendenti.

Dal momento che nel gruppo siamo le uniche tre persone a non essere portoghesi (e a non capire la lingua), sul fuoristrada di Angela (che comunque da parte sua è gentilissima nel ripetere in inglese tutto ciò che dice) mi capita di scambiare qualche parola con una coppia di americani che, al termine della visita, mi invitano a bere una birra con loro nell’unico locale di Castelo Melhor (uno sgabuzzino di tre metri per tre con due tavolini sul ciottolato all’aperto).

Un altro di quegli strani fenomeni distorsivi della logica e della consequenzialità (che ormai nella mia esperienza in Portogallo cominciano a manifestarsi con una frequenza tale che non so più se continuare a sorprendermi o cominciare a preoccuparmi…) fa sì che in qualche modo e per qualche misteriosa ragione tutti e tre allo stesso tempo perdiamo il controllo della situazione e quello che doveva essere poco più di un aperitivo si trasformi in una chiacchierata pressoché infinita sul Portogallo, sull’esperienza del viaggio, su quello che europei ed americani pensano gli uni degli altri, sulla politica dei nostri paesi, su quello che ci distingue e su quello che ci unisce, sulle nostre storie individuali, su come queste in fondo non siano per niente diverse dalle storie di chi millenni prima di noi ha sentito lo stesso bisogno di raccontarsi incidendo nella roccia segni e figure, sulla bellezza, sullo stupore stesso di ritrovarsi a parlare con degli sconosciuti alla fine di un giorno qualsiasi nel posto più remoto e insignificante di un paese per tutti ugualmente straniero, sull’esperienza, in definitiva, di essere vivi lì, in quel momento, insieme… Solo dopo quelle che mi sembrano più o meno tre o quattro birre, un caffè e un amaro, il tempo rientra sui binari con una specie di scarto improvviso e ci rendiamo conto che sono passate circa cinque ore, che mezzo paese (più o meno venti persone) si è radunato lì solo per guardarci e sentirci parlare in una lingua che probabilmente molti di loro non capiscono, che ormai è buio pesto, sono quasi le undici e le camere dove avevamo prenotato per la notte si trovano rispettivamente a 40 e a 70 chilometri da lì, anche se non sappiamo bene in quale direzione… Nonostante il livello etilico preoccupante, riesco in qualche modo a raggiungere incolume la mia destinazione (un estalagem nella cittadina di Penedono) verso mezzanotte.

Prima di crollare nel letto come un macigno ho solo il tempo di ricordarmi che le due visioni di qualche ora prima si chiamano Vince e Bette, che sono di Miami, Florida e che qualche giorno dopo saranno a Lisbona da Tania, un’amica di cui mi hanno lasciato il numero di telefono.

SAB 14/08/2004 Al mattino me la prendo abbastanza comoda, un po’ per recuperare le forze dopo l’intensità della giornata precedente, un po’ perché oggettivamente non ho in programma di fare moltissima strada.

Mi limito a dirigermi con calma verso sud fino al parco nazionale della Serra da Estrela, dove si trova la catena montuosa più alta del Portogallo (1.991 metri sul livello del mare).

La Serra non è proprio niente di speciale (o, perlomeno, non lo è per chi è abituato anche solo alle Prealpi Orobiche…) e a parte alcuni panorami discreti e qualche angolo carino per il picnic (ne collaudo uno di persona) non offre molto oltre alla tristezza e alla desolazione di interi fianchi di montagne devastati dagli incendi.

Nel pomeriggio, quindi, scendo dalla Serra verso Coimbra, dove arrivo con ancora due/tre ore buone a disposizione per una prima visita.

Contrariamente alle mie aspettative, però, questo tempo si rivela più che sufficiente per farmi un’idea della città e per decidere che questa mi può bastare. Il panorama sul fiume Mondego che si gode da un terrazzo dell’università è la parte visivamente più memorabile. Per il resto gli altri locali dell’università aperti al pubblico (una sala per cerimonie e una cappella barocca), la cattedrale vecchia che sembra un castello fortificato, le viuzze del centro storico dove si trovano gli appartamenti degli studenti (tutti desolatamente vuoti, perché ad Agosto naturalmente anche gli studenti portoghesi sono in vacanza…) e la via pedonale dello shopping non sono per niente impressionanti e il colore e la vivacità che mi aspettavo di trovare sono quasi esclusivamente quelli, insopportabili, generati da una quantità incredibile di gruppi di turisti stranieri (principalmente italiani…) ciarlieri, distratti e chiassosi (mi ricordo che anch’io, in fondo, sono un turista straniero, ma trovo il modo di giustificarmi alla mia coscienza dicendomi che non sono in gruppo, non ho modo di essere chiassoso e faccio del mio meglio per non essere troppo distratto…).

C’è però un piccolo gioiello che restituisce a Coimbra la fama e il prestigio che probabilmente si merita davvero: la biblioteca Joanina che si trova un po’ defilata in un angolo del cortile principale dell’università e a cui, fortunatamente, si può accedere solo a piccoli gruppi per fasce orarie. Uno splendido monumento in omaggio al suo stesso preziosissimo contenuto (circa 300.000 libri antichi) con tavoli e scaffali in legno intagliato, soffitti affrescati, finestre dorate da cui filtra una luce caldissima che fanno dello studio e della lettura svolte lì attività ancora più alte e nobili.

Verso sera raggiungo il Quintal Alem Ribeiro, l’agriturismo di campagna a pochi chilometri da Coimbra dove ho prenotato per due notti. La quiete del posto ed un bagno in piscina sono le due cose che più mi ci vogliono a questo punto del viaggio.

DOM 15/08/2004 Dedico l’intera giornata ai dintorni meridionali di Coimbra, dove ci sono alcune cose che, guide alle mano, pare proprio valga la pena di visitare (con grande e piacevolissima sorpresa, inoltre, scopro che in alcune di queste l’ingresso la domenica mattina è gratuito…).

La prima tappa è Batalha, poco più di un villaggio dove sorge un impressionante monastero fatto costruire tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo da un re portoghese come ringraziamento alla Vergine Maria per la vittoria contro gli spagnoli in un’importante battaglia svoltasi in quei pressi.

La sua prima, più evidente caratteristica è la mole, notevolissima. La seconda è l’infelice scelta fatta chissà quando da chissà chi di far passare la trafficatissima strada statale a meno di un centinaio di metri dalla sua facciata. La migliore, però, è senza dubbio la magnifica architettura di impianto gotico con delle splendide fioriture manueline, uno stile esuberante di motivi, soprattutto vegetali, che animano la pietra in cui sono scolpiti come un inno entusiasta alla ricchezza, all’abbondanza e all’eleganza della natura. La parte in cui questo appare con maggior splendore sono le Capelas Imperfeitas, delle cappelle incompiute mancanti del tetto in cui il cielo aperto precipita in mezzo ad enormi colonne portanti che al cielo stesso innalzano la loro esultanza di forme e, paradossalmente proprio grazie alla loro incompletezza, al cielo perfettamente si ricongiungono.

Dopo Batalha raggiungo Alcobaça, pochi chilometri più a sud. Qui l’attrazione è un’abbazia cistercense che, per quanto notevole, dal punto di vista architettonico è decisamente meno memorabile del monastero precedente ma che conserva al suo interno molte più curiosità.

Tra queste mi colpiscono in particolare la pantagruelica cucina dei monaci (con una cappa di camino dalle enormi proporzioni perfettamente conservata) e, all’interno della chiesa, le bellissime tombe di Dom Pedro e Dona Ines, un re del Portogallo del XIV secolo e una sua cortigiana di cui le leggende narrano la tormentata storia di passione, vendetta, morte e ragion di stato che si concluse con il ricongiungimento definitivo degli amanti soltanto dopo la sepoltura.

Dopo pranzo faccio rotta verso est, dove a una quarantina di chilometri da Alcobaça si trova Fatima che, al di là di ogni rispettabilissima considerazione individuale, merita anche solo una breve sosta per rendersi conto di ciò che certi fenomeni riescono a muovere in termini di scala, dimensione, emozioni, attese, sofferenza, speranze e (sì, senza dubbio…) anche traffico e denaro.

Un’altra trentina di chilometri più a est di Fatima, infine, raggiungo Tomar dove, su una collina sopra la città, sorge lo straordinario convento di Cristo, che fu per lungo tempo sede dell’ordine dei Templari in Portogallo.

Si tratta di un vastissimo ed articolato complesso di chiostri, celle ed edifici in cui gli elementi di maggior rilievo sono la chiesa centrale con l’annessa sala capitolare. Oltre all’imponente interno (la guida Lonely Planet racconta addirittura che i Templari vi entravano a cavallo per assistere alla messa…), quello che più colpisce è l’aspetto esteriore: anche questo è in stile gotico-manuelino (con l’esplosione decorativa evidente soprattutto nelle linee di una meravigliosa finestra esterna al capitolo) ma qui la natura irrompe nell’arte in una maniera ancora più forte che l’azzurro del cielo sulle cappelle di Batalha e si riprende ciò che le è stato sottratto dall’umana ambizione alla bellezza per mezzo di un muschio rossastro che ricopre la pietra e, piano piano, sta consumando le forme, le foglie, le alghe e i mille altri motivi scolpiti. Questo, molto più che apparire come un segno di degrado, genera uno straordinario effetto cromatico da una parte e, dall’altra, costituisce un fenomeno incomparabile, in cui l’opera dell’uomo sulla natura e l’effetto della natura sull’opera dell’uomo si incontrano in un abbraccio che rappresenta un monito chiarissimo all’eccesso cui si spingono a volte le nostre azioni nei confronti del pianeta e, insieme, una prova evidente della nostra grandezza.

La sera, al rientro verso Coimbra, penso che il Portogallo mi sta trasmettendo ogni giorno di più dei segnali strani, mi sta rivelando delle testimonianze difficili da decifrare o anche solo da ascoltare, ma che hanno quasi sempre un impatto e un’importanza fondamentali.

LUN 16/08/2004 E’ il giorno in cui il mio programma prevede la copertura dell’ultimo tratto in direzione sud, verso Lisbona. Per questo motivo, in tutto e per tutto fedele alle sorprese, le contraddizioni e le incoerenze che questo paese mi sta insegnando, inizio la giornata dirigendomi una quarantina di chilometri a nord di Coimbra, verso la foresta di Buçaco.

Mi spinge qui la curiosità, suscitata da diverse guide, racconti e letture, per la ricchezza vegetale di questa foresta cintata (pare sia stata letteralmente piantata e coltivata nei secoli con somma pazienza da dei monaci) e per l’originalità architettonica dell’albergo di lusso che si trova al suo interno.

In realtà il numero e la varietà delle specie presenti non sono molto apprezzabili se non si possiede almeno qualche elemento di botanica (io mi limito a saper distinguere a stento un albero da un cespuglio) mentre l’albergo di lusso è, effettivamente, un’autentica follia dei primi del Novecento tra il gotico e il liberty ma, collocato al centro della foresta con la stessa grazia, raffinatezza e buon gusto del castello di Cenerentola a Disneyworld, non vale certamente la metà della curiosità che suscita.

Fortunatamente la deviazione su Buçaco viene ampiamente riscattata dal belvedere della Cruz Alta, nel punto più alto e defilato di tutta la foresta, dove si gode quello che è con ogni probabilità il più bel panorama del Portogallo, con lo sguardo che spazia liberamente fino a Coimbra a sud e fino all’oceano a ovest.

Nel pomeriggio interrompo il lungo trasferimento verso sud solo per una breve sosta nel villaggio fortificato di Obidos, uno dei numerosi e tristi esempi di come una piccola e graziosa cittadella medievale, con tanto di cerchia muraria ancora discretamente conservata, sia ormai stata trasformata in un unico, grande negozio di souvenir per turisti.

L’ultima parte della giornata la dedico alla visita del Palazzo Nazionale di Mafra (mi trovo ormai solo a poco più di una trentina di chilometri da Lisbona), un enorme residenza fatta costruire nel XVIII secolo dai reali del Portogallo la cui attrazione principale, come spesso accade per imprese di questo tipo, sono le dimensioni veramente impressionanti. Gli ambienti interni, fatta eccezione per la lunghezza sterminata dei corridoi e per una interessante biblioteca, sono poco più che testimonianze un po’ asettiche della vita di corte del periodo: pare, tra l’altro, che gran parte degli arredi originali siano stati asportati dagli stessi reali quando abbandonarono il paese poco prima dell’arrivo delle armate napoleoniche, all’inizio dell’Ottocento.

La sera raggiungo quello che sarà il mio alloggio nei giorni successivi: la Quinta de Sant’Ana, nei pressi del villaggio di Gradil a pochissimi chilometri da Mafra. Si tratta di una vasta azienda agricola (con l’intenzione dichiarata di produrre vino, anche se pare che finora non siano ancora riusciti ad ottenere un prodotto degno di essere immesso sul mercato) di proprietà di una simpatica coppia di stranieri (lui, James, inglese; lei, Ann, tedesca) con una piccola tribù di figli che scorrazza allegramente per la bella e grande casa padronale nella quale si trova anche la mia camera (veramente molto ampia e comoda).

La dolcezza e la tranquillità del luogo sono veramente ideali: mi fermerò qui per quattro notti.

Domani, finalmente, sarà Lisbona.

MAR 17/08/2004 La colazione di Ann e James, consumata in una sala da pranzo che difficilmente potrebbe apparire più tipicamente anglosassone, è gustosa ed abbondante. A farmi compagnia ci sono la voce del pappagallo di casa, che ripete a oltranza il motivo del ponte sul fiume Kway (conosce solo quello, ma lo conosce alla perfezione…) e due coppie di motociclisti provenienti dall’Estonia che, probabilmente in omaggio alla nuova Europa a 25, hanno percorso in un paio di settimane più di 5.000 chilometri per arrivare fino lì!!! La loro presenza mi conforta molto sia perché mi fanno sentire un po’ meno uno sconsiderato (io in fondo ho fatto si è no metà della loro strada…) sia perché mi convincono che, se capita di fare incontri così inaspettati in posti tanto lontani, questo continente sta diventando un luogo davvero molto interessante e, se ci sono persone che si prendono la briga di percorrerlo da un capo all’altro con la possibilità concreta di sentirsi dovunque a casa, abbiamo davvero una speranza molto solida.

Dalla Quinta mi dirigo verso Lisbona pieno delle aspettative che mi derivano dalle poesie di Pessoa, dai libri di Tabucchi, dai film di Wim Wenders, dalla musica del Fado e dalla mia immaginazione che, anche mettendo insieme tutti questi stimoli, non riesce a darmi un quadro compiuto di quello che potrebbe significare vivere in una città sulla soglia di un oceano… Il primo impatto è la luce.

La luce che mi inonda, mi acceca quasi, sulla vasta spianata della Praça do Comercio, in riva al Tago. Poi, da lì, la vivacità delle strade della Baixa, allo stesso tempo classiche, eleganti e coloratissime e il brulichio di mezzi e di persone sulla piazza centralissima del Rossio.

Mi prendo giusto qualche minuto per riavermi ed orientarmi e decido di dedicare la giornata alla parte occidentale della città.

Salgo a piedi verso il Miradouro da Gloria, uno dei tanti punti panoramici della città dove si raccolgono in forme e modalità ogni volta differenti angoli azzurri di cielo, bagliori rossi dei tetti, schegge verdi di un giardino, ovatte bianche e passeggere di nuvole, scorci passeggeri della lenta ed eterna marcia blu del Tago e dove è veramente impossibile, a meno di avere occhi opachi e uno spirito inerte, non soffermarsi a praticare l’esercizio dolce e difficile della contemplazione.

Compio con lentezza un pellegrinaggio vagamente senza meta per le vie del Bairro Alto, che a quest’ora del giorno appaiono tranquille e genuinamente popolari, intento a catturare e fissare nella memoria gli elementi topografici un po’ paradossali di una città che, nel suo insieme, vive a picco su qualcosa (ma non riesco ancora a capire cosa), aggrappata ai fianchi ripidissimi di strade a precipizio che conducono dal mare (o da una piazza) al cielo e poi, immediatamente dopo, ad un’altra piazza (o un altro precipizio) e che attorno e in mezzo a queste strade ha costruito i simboli di una mitologia (come i tram gialli che si arrampicano rasente i muri) forse un po’ turistica ma alla cui banalità non mi voglio rassegnare e della cui grandezza ancora non mi rendo pienamente conto.

Cerco di riprendermi da queste prime impressioni consumando un pasto frugale al Miradouro da Santa Catarina e poi andando a prendere un caffè (carissimo!) al Caffè A Brazileira in Largo do Chiado dove, seduta ad uno dei tavolini all’aperto, c’è la statua di Fernando Pessoa (che qui era un cliente abituale) accanto alla quale mi siedo per tenergli compagnia dal momento che, come spesso accade e gli accadeva in vita, si trova lì da solo.

(mi chiedo quale altra città al mondo abbia dedicato una statua ad un poeta al tavolo di un bar, e in quale altra città al mondo avrei veramente trovato il coraggio di sedermi accanto a lui…).

Poco lontano dal Chiado passo di fronte alle rovine del Convento do Carmo, che sono ancora nelle esatte condizioni in cui si trovarono dopo il disastroso terremoto del 1 Novembre 1755 che rase al suolo mezza Lisbona e di cui ancora oggi, dopo 250 anni, questa città (che ora comincia davvero a stupirmi ad ogni angolo) mantiene orgogliosamente un segno nel suo pieno centro, monumento perenne alla propria fragilità e precarietà al cospetto di qualcosa di molto più grande di lei (anche qui, non riesco a capire cosa sia: forse è la stessa cosa su cui vivono a picco le sue strade ed i suoi tram, qualcosa il cui nome e la cui identità continuano a sfuggirmi).

Decido di allontanarmi da questa atmosfera un po’ magica e un po’ ipnotica del centro e mi sposto, sempre a occidente, nel quartiere di Belém dove si trova il Mosteiro do Jerònimos, senza dubbio l’esempio di interno manuelino migliore del Portogallo (le volte sono ancora più impressionanti ed eleganti di quelle di Batalha), costruito in memoria, onore e celebrazione dei navigatori portoghesi, delle loro scoperte e della gloria che ne è derivata alla nazione.

Poco distante, in mezzo all’estuario del Tago, la torre di Belèm, che fungeva da postazione di guardia, si fa apprezzare molto più per il tranquillo parco in riva al fiume che ora le sorge vicino che per il valore o la prestanza (obiettivamente scarsa…) della sua figura.

Per concludere la giornata decido di lasciare Lisbona – carico di dubbi e di provocazioni ma senza essere ancora riuscito a farmi un’idea sicura del carattere della città – cogliendone un panorama magnifico dal Parque Eduardo VII, un vastissimo giardino che si allunga a nord-ovest del centro e da cui, al termine di una lunghissima striscia di verde, si riescono a contemplare in un solo colpo d’occhio il Tago sullo sfondo e la Baixa rinchiusa tra il Barrio e il Chiado da una parte e il Castelo e Alfama dall’altra.

Rientro verso Gradil seguendo un lungo giro che mi porta lungo la costa fino a Estoril e Cascais, che mi appaiono come poco più che due gigantesche attrazioni turistiche, e quindi ripiego verso nord.

La sera ho l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Ann ed il piccolo Patrick che le si arrampica continuamente intorno e così, oltre a prometterle che mi farò sicuramente mandare una cassa del loro vino non appena sarà pronta la prima annata, scopro che lei e la sua famiglia conoscono personalmente i Symington (sì, i proprietari della Graham’s!!!) e che proprio una di quelle sere escono a cena con loro. Per me è come incontrare qualcuno che conosce personalmente i Beatles o gli U2, o qualcosa del genere, così, pur senza arrivare all’ardire di domandare un autografo, cerco di essere il più garbato possibile pregandola di portare alla famiglia tutti i miei più ossequiosi omaggi.

MER 18/08/2004 Mi prendo una pausa dalla scoperta di Lisbona e decido di dedicare questa giornata a Sintra.

La particolarità di questa cittadina più o meno a metà strada fra Lisbona e Mafra, citata ed esaltata da un grandissimo numero di viaggiatori e di poeti, è quella di essere immersa nel verde su una piccola catena di colline, a pochissima distanza dall’oceano ma con un clima che, per qualche strana bizzarria meteorologica, ricorda molto più la Baviera che il Mediterraneo.

Una volta lì, trascorro buona parte della mattinata arrampicandomi a piedi per i sentieri che dal centro (affollatissimo di turisti e di negozietti, e perciò da evitare accuratamente) salgono attraverso i boschi fino al Castelo dos Mouros, una fortificazione araba in rovina (e per questo molto suggestiva) che domina la zona.

Non pago della fatica (non indifferente) per arrivare fino qui, proseguo ancora più su fino al Palacio da Pena, una residenza reale che rappresenta il più folle tra i numerosi edifici eccentrici di cui le foreste di Sintra sono cosparse. Si tratta di un palazzo semplicemente assurdo, costruito in uno stile che mescola il castello di Neuschwanstein con un caravanserraglio, una moschea ed un monastero manuelino ed il cui risultato, anche grazie agli infelicissimi accostamenti cromatici, è probabilmente quanto di più vicino alla definizione di perfetto cattivo gusto io abbia mai visto. Gli interni, arredati secondo un indefinibile stile tra il barocco ed il liberty, non sono meno aberranti e l’unica cosa veramente notevole è il panorama che, da lì, spazia sopra il resto delle colline fino all’oceano.

E’ da qui che telefono a Tania, l’amica di cui Vince e Bette mi avevano lasciato il numero. Con lei, gentilissima e che già si aspettava la mia chiamata, ci accordiamo per incontrarci la sera stessa insieme a loro e ad altri amici a Lisbona, in Praça de Camoes (vicino alla statua di Pessoa al Largo do Chiado).

Nel primo pomeriggio, lasciato rapidamente e senza rimpianti il Palacio da Pena, scendo da Sintra verso l’oceano, a pochi chilometri da lì.

Per il primo tratto la strada è la stessa che porta verso Lisbona e attraversa gli stessi boschi in cui si trovano i palazzi di Sintra, poi una deviazione improvvisa immette su un percorso male asfaltato che, attraverso un paio di chilometri brulli e battuti dal vento, scende a precipizio verso Cabo da Roca.

Si tratta dell lembo di terraferma più occidentale d’Europa ed è, ne’ più ne’ meno, l’autentica meta ultima di tutto il mio viaggio.

Qui, a parte un promontorio con un banalissimo faro, è semplicemente la sensazione di essere sul limite, la consapevolezza di avere un intero continente alle spalle, con tutta la sua gente, la sua storia e tutta la strada che ho fatto per arrivare fino a lì; è l’impossibilità fisica di poter fare altra strada via terra e, allo stesso tempo, la percezione concreta di un’immensità liquida e misteriosa che si spalanca davanti; è la curiosità di trovarmi nel punto più vicino all’America in cui sia mai stato e in cui potrò mai arrivare con le sole forze mie e della mia moto. E’, soprattutto, la contemporanea presa di coscienza di tutto questo, è il sentirmi in qualche modo al centro di uno spazio e di un tempo immensi di cui questo punto e questo momento sono il culmine e la sintesi, come un gigantesco colpo d’occhio sulla mia personalissima storia e la mia geografia individuale.

E’ il punto ideale per ripartire, per fare altra strada, altro tempo, altra storia.

Mi volto, riprendo la moto e ritorno da Ann.

La mia storia ricomincerà da lì.

Ricomincia, in particolare, da un bagno rilassante, quasi catartico, nella piscina dietro la casa, circondato dalle colline della Quinta e dalla luce dolce del tardo pomeriggio.

Poi, sistemato per la sera e preparato il bagaglio per il giorno dopo, saluto Ann e l’onnipresente Patrick e scendo a Lisbona per la cena.

Come d’accordo incontro Tania, che è simpaticissima, in Praça de Camoes insieme a Vince, Bette e un sacco di altri amici con i quali andiamo in un ristorantino del Bairro a mangiare carne in un ambiente cosmopolita come poche altre volte mi è capitato: ci sono io, Vince e Bette, uno scozzese, un londinese, ovviamente Tania e altri tre o quattro portoghesi, Joao, un ragazzo nato in Mozambico e vissuto a lungo ad Amsterdam… Dopo la cena continuiamo la serata in pellegrinaggio per un numero imprecisato di locali a bere birra e ascoltare musica (mi accorgo con un po’ di disappunto che in Portogallo vanno gli stessi pezzi da discoteca, a tratti francamente insopportabili, che si sentono qui…). Tra i vari personaggi che a più riprese compaiono e svaniscono dalla compagnia, ad un certo punto si materializza come da un sogno una creatura meravigliosa di nome Anabel (pare sia la sorellastra di Tania) la cui bellezza mi lascia senza parole tanto da costringermi a passare buona parte del tempo restante in contemplazione. Mi riprendo solo un po’ più tardi quando, verso le quattro del mattino, ci ritroviamo a casa di Tania in sei o sette superstiti (oltre a me, Tania, Anabel, Vince e Bette – che di lì a pochissime ore prenderanno l’aereo per Londra – Joao e un paio di altri) a bere assenzio (in Portogallo, depurato degli alcaloidi, è regolarmente in vendita), che ha il piacevole effetto di farmi sentire un po’ balordo e un po’ poeta maledetto.

Quando mi stendo finalmente su un materasso nella mansarda di Tania (saranno state le cinque) prima di addormentarmi riesco soltanto a pensare ai ragazzi che ho conosciuto quella sera e allo strano modo che hanno i lisboeti di essere simpatici e di compagnia: gentili, aperti, accoglienti ma mai esuberanti, eccessivi o invadenti come può esserlo un mediterraneo. Come se la mitologia, il precipizio, il mistero senza nome su cui Lisbona mi è parsa essere costruita loro ce l’avessero dentro, forse proprio perché ci vivono a contatto ogni giorno e per questo lo portano sempre con loro, negli occhi, nel sorriso un po’ triste e un po’ gentile, nel modo di parlare.

Come se i lisboeti sapessero qualcosa che noi non sappiamo.

GIO 19/08/2004 Mi sveglio alle nove dopo un sonno breve ma sufficiente per riacquistare la lucidità necessaria per lasciare un biglietto di ringraziamento a Tania (che dorme ancora, anche perché poco prima lei ha accompagnato Vince e Bette in aeroporto…) e continuare la scoperta di Lisbona.

Oggi è la volta della parte orientale della città, dove salgo come il più conformista dei turisti prendendo uno dei tram gialli (sì, proprio loro…) che l’hanno resa celebre.

Dal Castelo de Sao Jorge il panorama è incomparabile, molto più ampio ed aperto di quelli che avevo visto dai Miradouros di due giorni prima: se là il bianco, il rosso e l’azzurro erano scorci più o meno ampi, qui gli stessi colori (grazie anche alla limpidezza della giornata) sono tutto l’orizzonte di una città che finalmente si rivela in un unico colpo d’occhio nella sua gran parte, se non proprio nella sua interezza. E il Tago, il cielo e l’oceano non sono più scaglie di colore ma un unico grande azzurro, quasi senza soluzione di continuità, che l’avvolge dovunque.

Estasiato e in uno stato quasi ipnotico, continuo la contemplazione portandomi poco più a nord del Castelo, prima sul Miradouro da Graça e poi su quello da Senhora do Monte.

Soltanto dopo un paio d’ore, per cercare di riprendere contatto con la realtà, scendo a soffermarmi un po’ nei quartieri di questa parte della città ed è così che attraverso la Mouraria (pressoché squallido, ma con degli squarci di cielo straordinari), la Graça (più elegante e borghese) e infine, dopo averla incontrata per la prima volta dall’alto del Miradouro di Santa Luzia, l’Alfama, che dalla collina dietro al Castelo scende fino al fiume.

Forse ha ragione chi dice (non ricordo in quale guida l’ho letto) che qui batte il vero cuore popolare di Lisbona. Se si evitano i locali per turisti della sua parte più bassa, le innumerevoli e labirintiche stradine e le scalette sono una fonte inesauribile di vita e di angoli sorprendenti: case di un bianco accecante, panni stesi alle finestre, balconi fioriti, aiole microscopiche dove in una posizione impossibile cresce l’unico albero di un intero vicinato, bambini che giocano indifferenti ed indisturbati in una piazzetta con la poesia del Tago che scorre, altrettanto indifferente ed indisturbato, sullo sfondo… Dopo questo sovraccarico di sensazioni, ho la forza soltanto di prendere un panino in un bar dietro la cattedrale per poi decidere di spendere l’ultimo pomeriggio a Lisbona ancora più a oriente, al Parque das Naçoes.

Si tratta del quartiere ultramoderno che ha ospitato l’Expo ’98, affacciato sulla vastissima laguna formata dal Tago alle spalle della città e ricco di edifici avveniristici (alcuni veramente notevoli) che adesso ospitano prevalentemente musei, esposizioni e l’oceanario più grande e famoso d’Europa.

Un po’ sopraffatto dalla stanchezza della sera precedente e un po’ allucinato da tutte le impressioni degli ultimi giorni, non posso fare altro che sedermi per un paio d’ore, ancora una volta, ad ammirare.

Di tutti i colori di Lisbona quello che rimane qui non è altro che un enorme, infinito azzurro di acqua e di cielo entrambi sterminati (e quasi indistinguibili), appena venati dal bianco di qualche nuvola o dal grigio/argento sottilissimo delle strutture del Parque e del ponte Vasco da Gama (il più lungo d’Europa) che attraversa il Tago senza che quasi ci si accorga della sua presenza, anche lui sopraffatto dall’aria, dai colori e, ancora una volta, dalla luce.

Ecco, la luce, come il primo giorno e il primo momento in cui sono arrivato qui. Ho finalmente la sensazione che sia proprio questa la chiave del mistero di questa città. Lisbona è letteralmente sommersa dalla luce, una luce che diventa volta per volta acqua, aria, oceano. Una luce in cui tutto (storie, luoghi, persone, attese, speranze…) non può fare altro che annegare, completamente accecato e sopraffatto dal riverbero.

Finalmente Lisbona mi si rivela per ciò che credo sia veramente: una singolarità nello spaziotempo – l’ennesima e la più grande di questo sorprendente paese – e lo sguardo e la gentilezza stranita dei lisboeti non sono altro che la reazione naturale, stupefatta e inevitabile, di chi vive quotidianamente immerso e narcotizzato da questo mistero a cui, ancora una volta, non riesco a trovare un nome (forse non esiste un nome per dirlo, forse si tratta della sintesi cromatica e visiva di tutte le possibilità possibili, oppure del presagio di una verità sconosciuta che non arriva mai e si lascia soltanto sempre, eternamente aspettare…) Questo della città e dei suoi abitanti non è un particolare modo di sognare o di incarnare un sogno, no. Tutto questo non genera altro che una specie di strana ipnosi e le immagini che mi porto via (i precipizi impossibili, i segni del dolore passato, gli scorci di un presente fuori dal tempo, i quartieri avveniristici) sembrano piuttosto i frammenti scomposti di un sonno a tratti sereno a tratti inquieto ma che non riesce mai a trasformarsi in un sogno compiuto.

Si tratta semmai di autentica, purissima contemplazione: sì, questa è davvero l’unica attività “fisicamente” possibile qui (credo di essermene, almeno in parte, reso conto di persona) ed è come se ogni cosa e persona non facessero altro per tutto il tempo. Lisbona e i lisboeti sono testimoni dal valore inestimabile, testimoni di qualcosa di infinitamente grande e lontano e “diverso” da tutto ciò che noi conosciamo e normalmente viviamo e a cui soltanto loro sono in qualche modo prossimi, con il loro stesso modo di essere, senza nemmeno bisogno di averne coscienza.

Lisbona e i lisboeti sono necessari.

Sono una speranza e un antidoto necessari contro il più grande rischio del nostro tempo: qualsiasi modo di vivere e di pensare che sia totalizzante, che neghi e cancelli ogni dubbio, ogni differenza e ogni paura, che non sappia in alcuna maniera concepire ed ammettere altro al di fuori di sé.

Alla fine della terra, dove è persa ogni rincorsa verso il sole, ho smarrito per un attimo il mio intero armamentario di memorie e ho creduto di vedere annegare storie intere nella luce come oceano di un colore senza nome, orizzonte irraggiungibile sul margine tra l’attesa di un ritorno del passato e il ricordo di un futuro inesistente.

Era inutile pensare di resistere, inutile difendere l’immagine apparente di me e dei miei pensieri: silenzi sommergevano i frammenti stupefatti, ritornati a galleggiare, delle immagini riflesse di figure senza tempo.

Non poteva rimanere che guardare.

Ancora una volta trovo rifugio da queste emozioni e questi pensieri ritornando e ricominciando da Ann.

Di nuovo mi abbandono alla pace e alla tranquillità di un bagno in piscina, alla bellezza delle colline, alla luce del tramonto.

Il sonno questa volta sarà lungo, dolce, profondo.

Domani lascerò tutto questo.

VEN 20/08/2004 Mi risveglio sereno e molto ben riposato e, dopo la solita abbondante colazione sulle note del fiume Kway, lascio la Quinta sinceramente commosso con l’immagine di Ann e del comitato di commiato composto da tre o quattro dei suoi marmocchi che mi salutano un po’ stupiti dalla soglia di casa come se stessi partendo per il servizio militare.

Dopo pochi chilometri imbocco il ponte Vasco da Gama, che scivola sul pelo dell’acqua del Tago per una lunghezza che pare infinita, e nel giro di una decina di minuti sono dalla parte opposta della laguna.

Mi fermo subito nella stazione di servizio che si trova lì, dove si vede ancora distintamente il profilo della città.

Finito il rifornimento alzo gli occhi e saluto per l’ultima volta Lisbona, sentinella sul confine tra questo continente e l’orizzonte sterminato delle sue possibilità, guardiano fedele del suo tesoro più prezioso: la consapevolezza del proprio limite e della presenza, eternamente oltre quello, di qualcosa di altro, misterioso e sconosciuto.

Mi volto, ed è il movimento più faticoso che faccio in tutto il viaggio.

Salgo in sella e rimetto in moto. Ecco, ora sto tornando verso casa.

Prendo l’autostrada che porta direttamente verso la Spagna, cercando di mettere il più velocemente possibile quanta più strada mi riesce tra di me e il desiderio di ritornare.

Un po’ per vincere la tentazione, un po’ per rendere meno faticoso il viaggio, lungo il tragitto mi fermo diverse volte: un paio d’ore per il pranzo a Evora – che ha un centro storico delizioso costruito attorno ad un tempio romano molto ben conservato -, poco meno di mezz’ora sia a Evoramonte che a Estremoz – la cui caratteristica migliore è, per entrambe, quella di godere di uno splendido panorama sulla parte di Alentejo che le circonda – e poco più di un’ora a Elvas – che si fa ricordare per ben poco oltre alle mura robuste e a un imponente acquedotto -.

Nel tardo pomeriggio attraverso il confine e una volta in Spagna, dovendo fare i conti anche con l’ora persa per il fuso orario, percorro poco più di una settantina di chilometri e decido di fermarmi a Mérida, dove prendo una stanza in un albergo qualsiasi dell’immediata periferia.

La cittadina, alla luce del tramonto, si rivela di una bellezza sorprendente, con il magnifico ponte romano sul fiume Guadiana che si incendia di un colore rosso intensissimo.

La serata è piacevole, passata ad ammirare lo spettacolo della gente che si ritrova, numerosissima, sulla Plaza Mayor. L’atmosfera, i volti, lo stesso brusio della folla sono completamente diversi da quelli portoghesi, in qualche modo più simpatici e confortevoli, decisamente più simili a quelli di una qualsiasi piazza in una qualunque piccola città italiana, e per questo mi trovo molto a mio agio, mi sento quasi di casa.

Sono ritornato nell’alveo di uno spaziotempo sicuro, familiare.

Il Portogallo ora è veramente alle spalle.

SAB 21/08/2004 Lasciata Mérida, tutta la mattinata trascorre abbastanza noiosamente in viaggio, prima attraverso l’Extremadura, la cui desolazione fa sì che io non riesca a ricordarla per nulla di rilevante, e poi nella Mancha, che corrisponde molto meglio all’iconografia classica di una Spagna gialla, arida e assolata.

E’ proprio in mezzo a quest’ultima che incontro, splendida, orgogliosa e preziosa come un gioiello, Toledo.

Ho la grande fortuna di visitarla in una giornata asciutta e limpidissima, sotto un cielo di un azzurro intenso che ne fa risaltare al massimo tutto lo splendore.

Un pomeriggio è decisamente troppo poco perché riesca a gustarne ogni angolo quanto meriterebbe. In ogni via del centro storico (peraltro straordinariamente ordinato e pulito) e di fronte ad ogni edificio respiro un’atmosfera nobile, fiera e tranquilla, il riverbero di un passato che non è affatto ingombrante ed opprimente ma anzi dolcemente accolto e custodito.

Riesco a visitare degnamente soltanto la cattedrale, magnifica, che mescola mirabilmente e senza alcuno sforzo slancio gotico e ricchezza barocca e la chiesa di San Tomè, con l’Entierro del Conte di Orgaz che è giustamente considerato uno dei dipinti più belli ed intensi del Greco. Per il resto ho soltanto il tempo di farmi impressionare dalla mole imponente dell’Alcazar (tutto sommato l’edificio più incongruente – anche se il più appariscente – di tutta Toledo), di vagabondare ammirato per un paio d’ore e di lasciarmi inondare infine dal panorama mozzafiato che si gode dalle colline di fronte alla città, da dove questa appare gelosamente protetta dal fiume Tago (ancora lui!!) che, perfettamente consapevole della ricchezza e della bellezza che è chiamato a custodire, la circonda interamente su tre lati.

Nel tardo pomeriggio mi dirigo verso Madrid.

Ho prenotato per tre notti a Valdilecha, un paese una trentina di chilometri a sud-est della città lungo l’autostrada per Valencia, dove ho la graditissima sorpresa di scoprire che il Palacete de la Ochava, piccolo e pulitissimo, è uno degli alberghi con il miglior rapporto qualità/prezzo in cui mi sia mai fermato.

DOM 22/08/2004 Nonostante mi alzi senza alcuna fretta, la vicinanza dell’autostrada e la straordinaria facilità di accesso viario alla città (nella quale, eppure, non sono mai stato prima) mi permettono di arrivare in pieno centro a Madrid entro le dieci.

Per togliermi subito ogni dubbio, decido di dedicare gran parte della giornata ai musei e, approfittando anche dell’ingresso festivo gratuito, mi infilo subito al Prado.

Pur sviluppandosi su una superficie tutto sommato limitata (questo forse è l’unico difetto), il suo contenuto è di una ricchezza straordinaria (ma questa è un’osservazione scontata e ovviamente banale). Rimango al suo interno per più di tre ore, delle quali ne spendo almeno una soltanto fra il Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch e le Pinturas Negras di Goya (che, comunque, meriterebbero da sole un tempo ben più lungo…).

Dopo un veloce spuntino sul Paseo della Castellana e ormai votato al martirio in nome dell’arte, trascorro gran parte del pomeriggio al Museo Thyssen-Bornemisza dove, ben più che gli impressionisti francesi (ormai inflazionatissimi, almeno da noi, grazie alle mirabolanti e lucrative iniziative del signor Marco Goldin…), si fanno ricordare con grande piacere alcune opere (piuttosto insolite e rare in Europa) di impressionisti nordamericani.

Verso sera vado finalmente ad esplorare il centro della città dove, a parte i numerosi e golosissimi Musei del Jamòn, l’aspetto che mi colpisce di più è ancora l’impressione di confortevole familiarità che mi trasmette il centro di una città spagnola.

E’ la facilità con cui riesco subito ad orientarmi, il clima festoso e insieme tranquillo che respiro fra la gente che assiste agli spettacoli di strada vicino al Palazzo Reale, l’atmosfera serena e maestosa della Plaza Mayor, la simpatia istintiva che mi trasmettono le persone sedute ai tavolini dei bar per l’aperitivo con le tapas… Penso che, se mai dovessi lasciare l’Italia, Madrid o una delle altre città della Spagna che ho visto in questi giorni sarebbe la scelta più naturale.

O, perlomeno, la più facile e scontata.

LUN 23/08/2004 Dedico gran parte della giornata alla scoperta della regione a cavallo della Sierra de Guadarrama, a nord di Madrid.

Credo in buona misura anche a causa del clima un po’ grigio, il paesaggio (anche qui molto simile a una regione prealpina nostrana) non mi rivela niente di sorprendente ne’ di memorabile.

Al di là della Sierra mi spingo fino a Segovia che, a parte un maestoso acquedotto di epoca romana che arriva fino al pieno centro della città, offre un Alcazar francamente deludente e poco più.

Sulla via del ritorno passo per la cittadina di San Lorenzo soltanto per dare un’occhiata dall’esterno al palazzo dell’Escorial (il lunedì è chiuso alle visite). Ben più che la sua mole, sono impressionanti il suo grigiore e la sua bruttezza completamente fuori luogo, sproporzionato oltraggio gettato senza alcuna considerazione nel cuore di quella che con ogni probabilità non ambiva ad essere altro che una tranquilla cittadina di montagna.

In perfetta coerenza con l’impronta di una giornata stanca e tutto sommato un po’ noiosa, nel tardo pomeriggio mi riduco a compiere i miei doveri da bravo consumatore perfettamente irreggimentato facendo un po’ di shopping al Corte Inglés in pieno centro a Madrid.

Sentirmi come a casa, purtroppo, significa anche questo… E’ un segnale inequivocabile che, nonostante la strada ancora da fare, il mio viaggio sta ormai volgendo al termine. MAR 24/08/2004 Lascio Valdilecha puntando decisamente verso nord-est, lungo l’autostrada che da Madrid porta a Saragozza.

Il tragitto è inevitabilmente noioso, anche se il cielo limpido e la giornata non troppo calda mi mettono tutto sommato di buon umore.

Mi concedo l’unica sosta di una certa rilevanza nella cittadina di Siguenza, che si rivela una piacevolissima sorpresa, dolce e gradevolmente sonnacchiosa.

Oltre a ciò, l’unica nota in qualche modo pittoresca lungo il percorso sono le sterminate piantagioni di turbine ad energia eolica che hanno perlomeno il curioso pregio di farmi sentire un po’ un donchisciotte a due ruote fra mulini a vento del ventunesimo secolo.

A Saragozza prendo per Huesca e proseguo in direzione dei Pirenei (che affronto in condizioni meteorologiche più fortunate rispetto all’andata) e scavalco il passo di Portalet, da dove rientro in territorio francese.

Su questo versante, però, il clima muta improvvisamente e il mare di nebbia gelida in cui mi immergo mi fa rivivere l’incubo della discesa verso Pamplona di quindici giorni prima.

Per questo motivo proseguo solo per una trentina di chilometri e mi fermo subito nel villaggio di Laruns, dove prendo una stanza (e una doccia calda…) in un tipico piccolo albergo di montagna.

MER 25/08/2004 Con mia grande (e lietissima) sorpresa al mattino le nubi della sera precedente si sono in buona parte dissolte e perciò decido di trascorrere una mattinata di guida divertente percorrendo i colli leggendari delle tappe pirenaiche del Tour de France.

Valico nell’ordine l’Aubisque (che è molto vicino a Laruns), il Tourmalet (spoglio, maestoso e impressionante quanto lo Stelvio, con in più un ammirevole monumento al ciclismo sulla cima), l’Aspin (molto più clemente, dolce e verdeggiante) e mi fermo a pranzo in una trattoria sul Col de la Peyresourde.

Nel pomeriggio scendo verso Tolosa e riprendo l’autostrada del Midi. La percorro per qualche ora seguendo a ritroso il percorso dell’andata ed esco all’altezza di Nimes, ritrovandomi di nuovo nella regione delle bocche del Rodano.

Decido di fermarmi ad Arles, incuriosito dal fascino e dalla fama di Van Gogh.

La città, notevolmente sporca, si rivela un po’ una delusione.

Grazie ad un gelataio simpatico e loquace (che si presta con molto garbo e gentilezza a colmare una mia clamorosa lacuna) scopro che la casa del pittore non esiste più (distrutta, per quanto mi pare di aver capito, dai bombardamenti durante la guerra) e tutto ciò di interessante e piacevole che mi rimane di Arles è soltanto il ricordo del teatro romano perfettamente conservato e l’immagine della vasta, tranquilla ansa del Rodano che la circonda.

GIO 26/08/2004 E’ l’ultimo giorno di viaggio.

Nonostante la fretta e l’impazienza di rientrare, resisto in autostrada solo un paio d’ore e, all’altezza di Draguignan, esco e percorro le strade interne della Costa Azzurra.

La giornata è calda e piacevole, così cerco di rubare le ultime sensazioni alla strada, tra Grasse e Vence, annusando i profumi della Provenza e sbirciando il Mediterraneo in lontananza.

All’altezza di Nizza imbocco verso nord la valle del Var e proseguo fino a Isola, dove prendo per il Colle della Lombarda.

Dei passi alpini che conosco questo è forse il più simpatico e piacevole: defilato rispetto ai grandi percorsi, con la strada che lo scavalca poco più larga di una mulattiera.

Sulla cima il cartello con la scritta “Italia” ha come sempre l’effetto di commuovermi un po’, nonostante tutto.

Lungo la discesa verso la valle della Stura la sosta forzata di una ventina di minuti per lasciar passare un gregge di pecore mi costringe a ricordare che la consapevolezza dell’esistenza (e del pari diritto di cittadinanza) di ritmi e priorità diversi da quelli a cui sono normalmente abituato è forse la lezione più importante da trarre e conservare da ogni vacanza.

Da qui in avanti ormai sono sempre meno sensazioni e meno ricordi; sempre più nomi e più oggetti: Cuneo, Alba, Asti, Alessandria, l’autostrada, Milano, la tangenziale, il casello di Bergamo.

Ecco, sono arrivato.



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