Viaggio nel Sud Est asiatico

Kuala Lumpur, Hong Kong, Macau, Chiang Mai e Phuket
Scritto da: Franz_Zena
viaggio nel sud est asiatico
Partenza il: 28/10/2011
Ritorno il: 18/11/2011
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
Viaggio in Malesia, Hong Kong, Macau e Thailandia 2011

Mi presento, sono Francesco! Il viaggio che mi appresto a raccontare mi ha portato attraverso tre differenti nazioni nell’arco di un po’ più di 20 giorni. Onestamente di viaggio vero e proprio sono stati solo i primi 15, perché poi è subentrata la parte di relax.

In genere non viaggio mai con tour organizzati in quanto il fatto di dover seguire tabelle di viaggio prestabilite e gruppi di persone mi toglie il fiato. Quindi, anche nel 2011 ho acquistato un bel biglietto aereo, fatto lo zaino e via. Via verso terre lontane, verso un sacco di persone da conoscere e storie che aspettavano di avvenire per essere raccontate.

Il periodo del viaggio è stato a cavallo tra ottobre e novembre 2011, la cifra di spesa totale si è aggirata attorno ai 1500 euro (voli intercontinentali compresi).

Il viaggio è iniziato il 25 ottobre quando sono decollato da Malpensa alla vota del Bahrain e quindi verso Bangkok. Appena atterrato in Bahrain c’è già il primo imprevisto, giusto per non farci mancare un antipasto di ciò che avrei potuto dover affrontare. In Thailandia era in corso una terribile alluvione e quindi, il secondo volo, quello appunto per Bangkok, era in ritardo di 3 ore. Incredibile, il viaggio è subito iniziato con una notte imprevista accampato nell’aeroporto del Baharain per poi partire alle 5.00 del mattino. Mentre molte persone erano disperate perché avevano perso la loro coincidenza, per me è andata bene visto che se l’aereo fosse stato in orario, avrei comunque dovuto aspettare 5 ore a Bangkok.

Una nota sul volo. Era della Gulf Air e l’aereo non era male, sebbene sia stato il peggiore che abbia preso da un bel po’. Il personale non spiccava a confronto dello staff di altre compagnie mediorientali, ma l’aereo era comunque pulito. Nel primo volo il mio monitor non funzionava, ma per fortuna ho potuto spostarmi. I pasti erano nella media anche se, sebbene io non mi faccia tanti problemi col cibo, il riso ridotto a pappetta non è proprio al centro dei miei sogni più arditi. Nel secondo volo ero nella prima fila della Economy, dove c’erano 4 sedili e 3 monitor. Questa è la prova che qualcuno ce l’aveva con me… Grazie agli Dei per avermi dato un lettore MP3, così ho ascoltato musica e dormito quasi tutto il volo.

Un saluto veloce a chi avevo conosciuto sull’aereo, un piatto veloce di Pad Thai all’aeroporto e poi via, verso Kuala Lumpur. Sul volo ho conosciuto Tim, espatriato Londinese che tornava a casa a KL. Con Tim il volo è sembrato durare un attimo e mi ha rimpinzato di consigli utili.

All’arrivo all’aeroporto di KL dei Low Cost (LCCT) è molto facile trovare il bus che porta in centro ed in poco più di 30 minuti dall’uscita dall’aeroporto si arriva nel centro di Kuala Lumpur. Aveva piovuto parecchio, l’odore di umidità permeava questa notte bollente di Kuala Lumpur. Palazzi e torri svettavano ovunque e poi loro, simili a due giganti che si abbracciano, le Petronas Towers sono apparse a fare gli onori di casa. Tutto filava liscio, nulla poteva andare storto, ne ero convinto.

Arrivato alla stazione mi sono ricordato dei mille avvertimenti sulla famosa “mafia dei taxi” ed il modo per non farsi fregare sul prezzo della corsa. Cioè andare al banco dei taxi e comprare un biglietto per la corsa a prezzo prestabilito in modo da non dover contrattare col tassista. Bello, troppo bello per funzionare.

Un tassista sorridente mi ha fatto salire sul suo taxi, sorridendo mi ha chiesto dove sarei dovuto andare, gli ho dato l’indirizzo ed il biglietto. A questo punto, da un espressione sorridente, è passato ad avere una faccia come se gli avessi strizzato un callo con una pinza arroventata. Poi, con un “OK”, siamo partiti.

In un attimo siamo arrivati a destinazione, siamo scesi, l’autista mi ha reso lo zaino e puntando un palazzo con un dito mi ha detto “E’ laggiù”, poi è saltato sull’auto, praticamente smaterializzandosi. Una scena che forse ho visto solo in un qualche cartone animato anni ’80. Fiducioso, sono andato verso il palazzo indicatomi, ma era disabitato, forse avevo frainteso il palazzo che aveva puntato, quindi ho provato quelli vicino, ma nulla. Era l’una di notte.

Alle 2.00 sudato marcio, spaesato, con la mappa sulla quale non trovavo punti di riferimento e senza acqua, ho desistito nella mia ricerca e sono entrato in un hotel senza nome dove ho preso una camera ed acquistato una bottiglia d’acqua in una specie di supermercato annesso all’albergo. La notte in quella stanza con la finestra imbullonata, senza aria condizionata è stata una prova di forza. L’umidità del vapore della doccia, il caldo ed il rumore che veniva da fuori mi ha fatto passare la notte in bianco. Alle 6.30, già dopo la terza o quarta doccia, ero fuori dall’albergo alla ricerca del mio “vero” hotel.

A questo punto ho scoperto di essere stato scaricato in un quartiere diverso da quello di dov’era il mio albergo. Ecco perché la notte prima non avevo trovato punti di riferimento sulla mappa. Ero a Chow Kit, una parte “non bella” di KL. Detto questo tengo a rimarcare una cosa, non mi sono mai sentito in pericolo. Si, c’erano delle facce da ceffi, ma nessuno mi ha detto nulla, KL nonostante tutto iniziava a piacermi. Una volta fatto il punto non ci ho messo molto a trovare la monorail ed in un attimo ero nel mio albergo a sentire la consierge che si lamentava che non avevo fatto il check-in la sera precedente.

“Sa signorina, non so resistere al passare le notti in alberghi fumosi o nelle sale d’attesa degli aeroporti” e quello che volevo risponderle sarcasticamente, ma mi sono trattenuto.

Una volta lasciato lo zaino in camera, senza aspettare un attimo, dopo quella notte insonne, eccitato per il viaggio, stordito dalla mancanza di sonno, disperato per un caffè e avido di nuove avventure; sono partito verso la mia prima meta, le Batu Caves. Quindi, altra corsa sul monorail, fermata alla “Sentral Station” (si, Sentral con la “S”) cambio su un commuter train e via fino alle grotte.

Praticamente le grotte sono fatte così, c’è da immaginarsi una collina di roccia calcarea (non sono un geologo quindi il “calcarea” per me vuol dire qualsiasi cosa). La collina dentro è vuota. E’ come un muffin ripieno al cioccolato dopo che si è tolto il cioccolato. Le grotte sono il luogo più sacro per gli Hindù Malesi e l’ingresso è circondato da due grosse statue e diversi piccoli templi. Una delle statue, quella vicina alla stazione, rappresenta il Dio Hunuman, il Re delle Scimmie descritto nel poema epico Ramayana, forse questa statua è stata piazzata qui perché l’area è appunto invasa dalle scimmie. Questa è la teoria eretica che ho formulato davanti a quella statua, mentre avevo da una parte una scimmia che mangiava della frutta e dall’altra una che beveva da una noce di cocco. L’altra statua, quella più famosa, è una rappresentazione dorata del Dio Murugan. Questa è la statua del Dio Murugan più alta al mondo e lui è in posa con la sua lancia e lo sguardo concentrato su qualcosa sull’orizzonte. In quella direzione, più o meno, ci sono le Petronas Towers. Sarà stata una coincidenza? Alla base della statua del Dio Murugan inizia la scalinata di 275 scalini che porta all’ingresso della grotta. La leggenda vuole che per essere propiziati dagli Dei bisogna fare tutti gli scalini e non saltarne neanche uno. Io l’ho fatto, se nonché attorno al gradino 270 mi sono distratto a guardare la volta dell’ingresso della caverna e sono finito per abbracciare la scalinata. Bam! Caduto come una pera. Quindi, il conto degli scalini è saltato. Cavoli… Mi devo scegliere posti meno scenografici per fare voti di conteggio degli scalini.

La grotta è maestosa, la volta è altissima, grosse stalattiti si proiettano verso il basso dalla volta, e per un attimo diventi Hindu anche te, mentre preghi Shiva, Vishnu e Brama di non farle staccare mentre passi.

Quel giorno ho avuto fortuna, infatti molte famiglie si erano recate in un tempio all’interno della grotta a fare quello che poteva sembrare un battesimo di massa. Ai bambini venivano tagliati i capelli e il capo era cosparso di una pasta gialla. Poi un sacerdote lanciava fiori ad una divinità mentre un aiutante suonava una campanella. Raccontata così sembra quasi una scena comica, ma invece, il senso di fede in quei momenti era forte. Si percepiva facilmente che per gli Hindu, quello era un momento importantissimo. La gente, intendo i parenti dei bambini, erano accalcati attorno al tempio, ed io mi sono goduto la scena da una scala, col vantaggio sia della posizione rialzata che del fatto di non essere a spintonarmi tra tutta quella gente. Per fortuna avevo la macchina fotografica col teleobiettivo che mi ha permesso di vedere i particolari dalla distanza senza disturbare.

Dalla grotta che ha una unica volta si passa a un’area successiva. Praticamente è come se in questa seconda area in passato vi fosse stata un’altra stanza nella quale è crollata la volta. Mura ripide circondano uno spiazzo con alcuni templi. A guardare verso l’altro sembra di essere in fondo ad un pozzo e guardare le pareti che si propagano verso l’alto, verso le nubi. Pareti altissime infestate da scimmie che gridano e si spulciano guardandoti come a dire “Se ti avvicini ti tiro una pulce!… e anche un morso!”.

Finita la visita sono tornato alla scalinata del Dio Murugan, dalla quale si può accede anche alla Dark Cave. Più che altro mi interessava il panorama dalla terrazza davanti alla Dark Cave stessa da dove si vedono benissimo le Petronas Towers svettare laggiù nello skyline della città, chissà che meraviglia di sera!

Ho dato un’occhiata alla Dark Cave, alla quale si può solo accedere in gruppo e a seguito del pagamento di un biglietto. Due cose mi hanno fatto desistere, il primo è stato il pungente odore di guano di pipistrello, che mi dava ricordi vividi di Goa Lawah (Bali), ma mentre avrei potuto resistere all’odore senza grossi problemi, quello che mi ha fatto tornare sui miei passi è stato un cartello che avvisava dell’imperdibile occasione di avvistare un ragnone che esiste solo li, il quale credo che sia anche velenoso. No, la mia aracnofobia mi ha bussato sulla spalla e mi ha indicato il varco per uscire. Mai contraddire la propria aracnofobia.

Lungo la scalinata verso la base della collina ho avuto qualche buona occasione di fotografare delle scimmiette del posto. Ero tentato di fotografare la scimmietta che si è lanciata sulla borsa di una turista asiatica, ma poi tutta la mia attenzione è stata catturata da una scimmia con avvinghiata una scimmietta neonata. Non sapevo se mi colpiva più l’istinto materno della scimmia-mamma mentre abbracciava la sua piccola, o la piccola stessa che con gli occhi sgranati guardava incuriosita queste grandi strane creature che vociferavano e le giravano attorno. Magari pensava “questi umani sono proprio bizzarri…”. Questa è stata una buona occasione per scattare alcune belle foto.

Dalle Batu Caves, dopo una pausa per una Mountain Dew ghiacciata, sono tornato a Sentral, da dove, dopo essermi perso nel dedalo di bancarelle e corridoi, ho preso la monorail fino a China Town.

China Town è grossa e solo lei meriterebbe un giorno intero. Io l’ho fatta un pezzo questo giorno e poi ci sono tornato più avanti.

La prima tappa fuori dalla stazione di Maharajalela, è stata il piccolo tempio di Kuan Yin, un’isola di pace. Un’isola di pace dipinta di bianco, di rosso e con portali a cerchio. Il tempio è dedicato alla Dea Kuan Yin, la Dea della Misericordia, molto popolare in Cina. Subito vicino c’è anche il tempio Chan See Shu Yuen, questo, all’opposto del primo, ha pannelli molto elaborati con rifiniture veramente belle e complicate, ma a mio parere, è anche molto più cupo.

Dal tempio, ho proseguito per la strada e sono arrivato a Petaling Street, la strada delle cianfrusaglie e delle cose contraffatte. Qui un grande dilemma. Un maniaco dello shopping affamato, cioè me, alle ore 16.00 a dover decidere se andare prima nei negozi di cianfrusaglie o al Old China Cafè. La fame ha avuto il sopravvento. Ed il locale, super consigliato nelle varie guide e siti non aspettava che me. Nel vero senso della parola, infatti era deserto.

Qui sono stato servito da un cameriere gentilissimo e una signora attempata che solo lei merita la visita. La signora parla un misto di inglese e cinese, sia con me, che col ragazzo. Entrambi mi hanno consigliato ottimi piatti e mi hanno tenuto compagnia. Il locale arriva dritto da un passato che appartiene ormai solo a film ingialliti, con arredamento d’epoca, luci soffuse ed odore di legno antico. Purtroppo il nuovo piano regolatore di KL impone che i palazzi vecchi non possano venire più restaurati, e una vota superato il punto di non ritorno dovranno essere abbattuti per fare posto a palazzi moderni. Quindi l’Old China Cafè è destinato all’oblio. Anche se venisse ricostruito, non sarebbe la stessa cosa.

Mentre mangiavo si è scatenata una tempesta monsonica. Evviva, quest’anno non ne avevo ancora presa una… Sarà Kuala Lumpur che vuole offrirmi una doccia dopo la sudata? Chissà? Così ho approfittato della sosta per farmi fare un tour del locale da Mr. Cameriere Simpatico e Miss Anziana Bilingue. Loro come improvvisati ciceroni, mi hanno fatto vedere vecchie stampe, la cucina dove mi sono complimentato col cuoco ed il piano superiore dove c’è un’incantevole Tea House. Decisamente, dovrò tornarci in un prossimo viaggio.

La tempesta è finita che erano già le 17.30 passate e pochi raggi di sole dorati del tramonto passavano attraverso le nuvole nere che correvano attraverso il cielo, per andare chissà dove, lassù, a Est. Salutatemi l’orizzonte!

Sono uscito dal ristorante e mi sono diretto a Petaling Street, la via delle cianfrusaglie e prodotti non originali. C’è da dire che in Asia il gioco Angry Birds è ormai un’icona ed ovunque si trovano prodotti dedicati agli uccellini protagonisti. Si trovano appunto ovunque, soprattutto a Petaling Street. Qui non ho saputo resistere al portachiavi di Angry Birds. E’ un assioma, più una cosa è surreale, più mi piace.

Ora con “Red” di Angry Birds mi sono diretto prima nella parte coperta della via dove vengono venduti prodotti contraffatti, senza trovare cose che mi dicessero “comprami”, e poi nel cuore di China Town. Questa parte di città mi ricordava Chow Kit, il quartiere dove mi sono perso la sera prima. Non so se era il sonno, ma avevo una certa sensazione di Deja Vu.

Palazzi decadenti, strade non proprio pulite e tanta gente. E tuttavia, mi piaceva. Sono stato in altri posti con architettura simile e mi fanno sempre lo stesso effetto. All’inizio ho una strana sensazione malinconica, a vedere questi edifici destinati all’oblio, con le loro facciate ormai scrostate, persiane mal concie e vecchie insegne dipinte tanto tempo addietro che ormai sono state quasi cancellate dagli eventi. Ma poi, la vita che anima questi posti è sorprendente. In quei momenti ho pensato che sarebbe stato bello avere l’albergo qui e non in Jalan Sultan Ismail, l’area più turistica della città ai piedi delle Petronas Towers.

Qui, già ormai al tramonto, ho fatto una capatina al ponte vicino a Merdeka Square dove si vedono i due fiumi Sungai Gombak e Sungai Kelang che confluiscono alla base della piccola e candida moschea Masjid Jamek. Confluenza fangosa, ecco cosa c’è ed ecco sa significa il nome di Kuala Lumpur, la città è nata qui, nata nel fango per diventare la realtà scintillante di neon, acciaio e cristalli che conosciamo. Proprio in questo punto snobbato dai turisti più avvezzi ai centri commerciali ed alle vetrine. Viaggiando ho imparato che ci sono posti la cui importanza va ben oltre all’aspetto del posto stesso. E questa ne era la conferma.

A questo punto sono tornato sui miei passi. Prima la monorail, poi doccia all’albergo per poi fare una capatina alle Petronas Towers di notte. C’è da dire che sono fantastiche, maestose. Sembrano due pinnacoli di cristallo o anche due stalagmiti di ghiaccio. O anche quei bastoncini di legno con lo zucchero cristallizzato che vendono nei negozi di tè. Questa scena mi ha lasciato incantato. Chissà che panorama spettacolare che ci sarà dalla cima delle torri. Ecco cosa mi chiedevo mentre mi godevo la vista di quei due giganti dalla piazza deserta ai loro piedi. Davvero due opere d’arte.

Dopo di questo, una veloce cena ad un venditore ambulante di spiedini e poi a dormire, il giorno dopo mi sarei dovuto svegliare all’alba.

Melaka – Malacca

La sveglia ha suonato all’orario oltraggioso delle 6.30 del mattino, orario quasi improponibile vista la carenza di sonno dei giorni precedenti. Così, assonnato a tal punto da aver sconfinato nello stato della trance, mi sono alzato, mi sono lavato i denti, ho fatto colazione con biscotti al cioccolato che ho comprato la sera prima e poi mi sono dovuto lavare di nuovo i denti. Già in confusione, ed era solo l’alba.

Sono uscito ed ho preso uno dei primi treni della monorail fino alla stazione di Hang Tuah, da qui ho preso il commuter train fino alla stazione Bersepadu Selatan, dove c’è il nuovo terminal dei bus. Questo nuovo terminal è pulitissimo e brillante tanto da sembrare più un aeroporto che un terminal dei bus. Da qui ho preso il bus che mi ha portato a Malacca in un paio d’ore di viaggio attraverso la bellissima Malesia.

Il terminal dei bus a Malacca è quasi in periferia, e ho dovuto prendere un taxi per arrivare in centro. Anche qui mi sono affidato al bancone dei taxi dove ho preso un biglietto. Quando sono salito sul taxi ho sperato che questo tassista non mi avesse portato in una versione di Chow Kit della Malacca, ma è stato corretto, ed in poco siamo arrivati al Stadthuys. Lo Stadthuys è l’edificio simbolo della Malacca. E’ il palazzo rosso costruito dagli Olandesi quando Malacca era una loro colonia. Come da tradizione, sia il palazzo che la chiesa affianco, la “Christ Church of Melaka” sono dipinti in rosso brillante. Tutto attorno sciamano dei rickshaw a pedali decorati seguendo le più sfrenate fantasie dei loro padroni. Agglomerati di colori e fiori che si muovono su tre ruote al ritmo della musica degli impianti Hifi installati.

Ho lasciato lo Stadthuys e mi sono diretto verso la Santiago Gate, la porta di Santiago. Questa “porta” è una delle poche tracce rimaste dell’antica fortificazione chiamata “A’ Famosa”, costruita dai Portoghesi. Poi gli inglesi hanno deciso che la fortificazione non sarebbe più servita e, a suon di barilotti di polvere nera, hanno risolto il problema di avere l’ingombro di una fortezza. Ora questa “porta” è una sorta di torretta troppo stretta per far immaginare il passaggio di carri con delle merci, ma forse già ai suoi tempi aveva più una funzione di torre di vedetta, sebbene non molto alta. Il visitatore che arriva sul posto vedrà una struttura con le pareti esterne di pietre squadrate ed intonaco bianco scrostato, tutta circondata da antichi cannoni in mostra e aiuole dai fiori colorati.

Dal retro della Porta di Santiago si può salire su per Bukit St. Paul, la collina della chiesa di St. Paul. Lungo la salita si può fare visita anche al piccolo cimitero olandese. Io mi sono diretto su per quella scalinata sotto il sole cocente di quella giornata di ottobre malese, l’autunno delle nostre latitudini, in quei momenti, era un lontano ricordo, tanto lontano da sembrare quasi una fantasia. Su per quel percorso ero circondato da cinesi che come formichine caciarone salivano su per la salita sbraitando e sbuffando. Il tizio davanti a me, decisamente obeso, tremendamente sudato e barcollante mi faceva venire in mente scene da cartone animato. Lui che in preda ad un collasso mi crollava addosso, travolgendo me e la coppia di vichinghi che avevo dietro. Si, il fatto di essere biondi e parlare un idioma nordico li ha promossi al grado di vichinghi. Povera la macchina fotografica di Mr. Cinese Grasso che tenuta per la tracolla picchiava su quasi ogni scalino… Toc-Toc-Toc-Toc-Toc… Dopo un po’, con quel suono cadenzato ed ipnotico non sapevo più se era il rumore della sua macchina fotografica o le sue coronarie che scoppiavano.

La collina non è molto alta, ma vale la visita. Dalla cima, dove c’è il sagrato della chiesa di St. Paul, c’è una bella vista sulla Malacca e si vede fino al mare, mentre invece, della chiesa non è rimasto molto. Praticamente della chiesa sono rimaste solo le pareti ed una parte coperta dove doveva esserci l’altare. Due sono le cose degne di nota. Uno è che questa chiesa è stata, per un breve periodo la tomba di St. Francisco Xavier, prima che la salma fosse traslata a Goa, in India. Nella stessa chiesa vi sono inoltre numerose lapidi in mostra lungo le pareti. Di nuovo, i turisti cinesi si facevano scattare foto in posa davanti a lapidi e rispettivi epitaffi. La scena era surreale e grottesca, vedere cinesi che si facevano scattare foto sorridenti, con le dita “a V” affianco al bassorilievo di un teschio e l’epitaffio dedicato alla persona sepolte, una scena proprio grottesca.

A questo punto, dopo la visita della piccola chiesa immersa nella confusione di quello sciamare di cinesi, sono tornato alla base della collina e da qui mi sono diretto lungo il “Melaka river”, cioè il fiume che taglia a metà Malacca. Dall’alto avevo visto ciò che sembrava un veliero, ma una volta arrivato, mi sono reso conto che era una riproduzione di un vascello nel bel mezzo di un piazzale di cemento. Nulla di particolarmente romantico. Ho proseguito nel sole cocente e mi sono imbattuto in una bellissima trappola per turisti che non potevo farmi sfuggire. La mini-crociera sul “Melaka river”. La mini crociera, con barconi di vetroresina, motori diesel, musica a palla è una cosa davvero da fare. Il percorso si snoda lungo il fiume controcorrente ed attraversa degli scorci della Malacca davvero belli. Il lungofiume ha passeggiate sugli argini costellate di locali e di sera deve essere l’ideale per un chill-out.

La crociera dura un po’ più di 30 minuti e poi si viene lasciati al punto di partenza. Quindi, via alla tappa successiva, Jonker Walk. Sul margine opposto del fiume rispetto lo Stadthuys vi sono due stradine perpendicolari al fiume, la prima è Jalan Hang Jebat, la più commerciale, mentre la seconda è Jalan Tukang Emas, la più cinese. Le due strade hanno per quasi tutta la lunghezza un percorso parallelo per poi congiungersi alla fine e creano così un percorso a cerchio. Io ho iniziato dalla seconda, costellata di officine ed alberghi. Alla fine della stessa ci sono due interessanti templi, il primo è Cheng Hoon Teng chiamato anche “Il tempio della nuvola misericordiosa” dedicato alla Dea Kuan Yin, che è anche il tempio più antico della Malesia, mentre quello successivo è il Xiang Lin Si dove vi è un palco dove avvengono danze e recite per intrattenere le divinità. La seconda parte del percorso è stato tramite Jalan Hang Jebat, dove vi sono alcuni ristoranti e negozi. Consiglio il “Geographer Cafè” dove ho mangiato un ottimo riso fritto, spiedini di pollo in salsa piccante ed insalata di verdure con sesamo nero. Davvero un gran bel posto, ben arredato, ottimo cibo a prezzi ridicoli. Inoltre in quel momento trasmettevano musica latina e con quell’arredamento coloniale mi ha trasportato per un attimo nei miei ricordi Cubani. Di conseguenza, anche la voglia di farsi una bella nuotata nel mare a Playa Costa Verde.

Nella via ho trovato un simpatico negozio di oggetti artigianali in legno dove non ho potuto resistere dal comprare uno strano flauto con una corda sopra per mio zio, il quale fa collezione di strumenti musicali. Poco più in avanti c’era anche la Orangutan House negozio di una fondazione che garantisce di usare i proventi in favore della difesa degli Orangutanghi.

Alla fine della strada ero di nuovo davanti al fiume, ma ora era arrivato il momento di raggiungere il posto che mi ero promesso ancora prima di partire per il viaggio. Dovevo arrivare allo stretto della Malacca, crocevia dei grandi esploratori del passato. Così ho seguito il fiume. Prima attraverso una zona residenziale, poi in un’area di cantieri, poi sotto il cavalcavia di una autostrada e poi il nulla. Una vasta area abbandonata mi separava dal mare, e con calma ho continuato a seguire la strada. Certe facce da ceffi mi guardavano da dentro un cantiere e, quando li ho visti da lontano, ho nascosto le macchine fotografiche nello zaino. Tuttavia, nessuno mi ha rivolto una parola e nel giro di poco, sono arrivato al mare. Eccolo, lo specchio di mare percorso ha chissà quanti esploratori. Quel tratto di mare che separa la Malesia da Sumatra, finalmente ero arrivato ad incontrarlo. In quel punto non vi è una spiaggia, ma una scogliera artificiale fatta di massi accatastati lungo la costa con alberi ad intervalli perfettamente, artificialmente, regolari. Una ragazza si era addormentata in una macchina li vicino all’ombra di un albero, lontano sentivo le auto che passavano sull’autostrada, il rumore di un lontano cantiere navale alla mia destra e poi solo il sibilo del vento marino che sembrava dirmi “anche te sei passato per la Malacca”, si ce l’avevo fatta, e la mia immaginazione in quel momento non aveva limiti.

Più tardi ho dovuto fare il percorso inverso, sono tornato al centro della Malacca e dopo un altro giro per negozi, sono tornato al pullman che mi ha riportato a Kuala Lumpur. Lungo il percorso ho preso un’altra tempesta, ma come aveva detto Tim sull’aereo, non c’era da preoccuparsi perché in questo periodo le tempeste duravano dai 30 minuti all’ora, ed era vero. La serata mi ha portato a visitare il Times Square Shopping Mall, che è davvero enorme, ed a mangiare al ristorante giapponese dentro lo stesso centro commerciale. Il centro commerciale è enorme ed ospita perfino un piccolo Luna Park al suo interno! Affascinante!

Una volta uscito dal centro commerciale sono tornato in albergo con una breve sosta sotto ad un porticato quanto è arrivata l’ennesima tempesta. Qui mi sono divertito a guardare dei Break Dancers mentre ballavano e si esibivano.

Visita a Kuala Lumpur

Il terzo giorno a Kuala Lumpur è iniziato in perfetto relax. Mi sono alzato tardi e sono andato a fare una bella colazione la ristorante convenzionato con l’albergo, poi ho preso lo zaino e sono uscito. La prima raccomandazione che ti viene fatta quando vai a KL, oltre al fatto della mafia dei taxi, è quella che per entrare nelle Petronas Towers bisogna farsi una levataccia per andare a farsi la coda per prendere i biglietti gratis per entrare. Ma Tim mi aveva detto di evitare tutto ciò. La vista dalle Torri è limitata, la coda è lunga e ci si può stare relativamente poco. Allora lui mi aveva consigliato di visitare le torri da vicino, ma poi andare a vedere il panorama dalla Menara Tower, non molto distante dalle Petronas.

Così, in assoluta calma sono uscito dall’albergo, ho fatto Jalan Sultan Ismail, Jalan Ramlee e sono arrivato alle torri. La loro vista era fantastica e nonostante le avessi già viste due sere prima, erano sempre stupefacenti.

Qui ho incontrato un gruppo di sette ragazze Indonesiane che dopo quattro parole mi hanno chiesto se fossero potute venire con me all’altra torre. Nel frattempo avevo anche scoperto che le Petronas erano chiuse ai turisti per lavori di manutenzione, quindi è stata una bella fortuna evitare di svegliarsi così presto.

A me piace camminare, alle Indonesiane invece no. Sarà che noi genovesi non siamo proprio le creature più docili nell’universo, ma dopo essermi sentito chiedere 1000 volte di prendere il taxi dopo un minuto di cammino mi avevano già irritato. Io continuavo a ripetere che avrei potuto fermargli un taxi ed io avrei continuato a piedi, loro dicevano qualcosa in Bhasa Indonesia e mi seguivano. Circa un chilometro dopo (o poco più), quaranta minuti di soste e un esaurimento nervoso alle porte, finalmente, siamo arrivati alla Torre. Neanche a dirlo, è fantastica. Sembra uno scettro bianco che si slancia verso il turchese del cielo. Io sono entrato e le Indonesiane continuavano a lamentarsi. A questo punto le ho salutate e gli ho detto che io sarei entrato nella torre. Un attimo dopo anche loro erano in coda e si lamentavano del prezzo. La vista dalla torre è davvero molto bella, essa copre i 360 gradi attorno alla torre e permette, in una giornata limpida di vedere fino lontano. La cosa che mi ha sorpreso di Kuala Lumpur è che è molto verde. Da sotto non lo sembra affatto, ma dall’alto è un mosaico di palazzi e alberi che non mi sarei aspettato. Da lassù ho riconosciuto molti dei posti che ho visitato, addirittura anche le Batu Caves. La giornata era molto limpida, ed era un vero piacere stare lassù. Nel mio girare ho incontrato un paio di volte le Indonesiane che parlavano sedute su dei divanetti assolutamente disinteressate del panorama al quale davano le spalle.

Quando sono sceso dalla torre, neanche a dirlo mi sono ritrovato assieme alle indonesiane che mi hanno chiesto se avessi idea di dove fosse un’agenzia di viaggi che dovevano contattare, no, non ne avevo idea, ma con l’aiuto della mia cartina ho capito che era vicino al centro commerciale Times Square dove ero stato la sera precedente. Gli ho chiesto di darmi la loro cartina così avrei potuto segnargli il posto, ma non ne avevano una, allora gli ho detto di prendere un taxi e farsi portare. Loro così mi hanno chiesto dove stavo andando e gli ho detto “China Town”, alla fine hanno preso un taxi per China Town e mi hanno offerto la corsa. Ma ovviamente non andava direttamente a China Town. La fermata principale era la “Cocoa Boutique”. La “Cocoa Boutique” è una fabbrica di cioccolato che è, più o meno, alla base della collina dove si erge la Menara Tower (in linea d’aria saranno 200-300 metri). All’inizio ero restio ad entrare, ma poi, visto che l’ingresso è libero e gli assaggi sono gratuiti, sono entrato anch’io. Il cioccolato offerto è un piccole scaglie, ed essendo abituato a cioccolato Italiano e con percentuali di cacao molto elevate, non ho trovato questa versione molto accattivante. Forse è stata più la curiosità di assaggiare cioccolata alle noci Cashew, al peperoncino o al Durian che ha fatto valere la pena di fermarsi. Dopo questa sosta forzata ed estremamente lunga, siamo ripartiti, le ragazze erano cariche di scatole con una miriade di tipologie diverse di cioccolata.

Finalmente, dopo un’odissea nel traffico di KL, siamo arrivati a China Town. Davanti a noi c’era il “Central Market” che non avevo visto due sere prima, così sono entrato. La struttura è la stessa dell’antico bazar, ma opportunamente restaurata, mentre invece i negozi sono quasi tutti di souvenir. Praticamente è una trappola per turisti. Così, dopo il pasto con pesce alla griglia ed una zuppa di verdura, ho lasciato le ragazze ed ho proseguito per Merdeka Square. Loro mi hanno chiesto “E… Dove vai ora?”, “Merdeka Square!”, “E perché?”, “Perché mi interessa, non voglio passare il pomeriggio seduto sul pavimento del Central Market…”.

Dal Central Market è facilissimo arrivare a Merdeka Square. Sulla cartina sembrano lontane, ma poi ci si mette un attimo. Prima sono passato sul ponte che avevo visitato due sere prima e subito dopo, ecco che appare Merdeka Square, la piazza dell’indipendenza.

La piazza è grande, più o meno, come un campo da calcio e il prato è perfettamente curato. Ad una estremità si erge la bandiera, il cui palo si dice sia il più alto del mondo. Guardando la piazza dalla base del palo, sulla sinistra si trovano degli incantevoli palazzi arabeggianti che sono l’Ex Palazzo del Sultano ed il Museo dei Tessuti. Sul lato opposto della piazza rispetto la bandiera vi è il “Monumento Fontana”, cioè una scultura fatta con muri d’acqua che scendono lungo tutta la struttura e di fronte al Palazzo del Sultano vi sono una serie di palazzi che in passato ospitavano delle caserme. Giusto per il dovere di cronaca, li vicino c’è anche un parco che ho sentito dire sia bellissimo, ma non ho potuto visitarlo in quanto il tempo si è rapidamente rannuvolato ed i tuoni hanno iniziato a cantare un sottofondo burrascoso.

Di fretta ho lasciato la bellissima Medeka Square dicendole “Arrivecerci” e sono tornato a Petaling Street con l’intenzione di prendere la monorail, ma tra le bancarelle di cose contraffatte mi sono nuovamente imbattuto nelle indonesiane. Subito mi sono venute in contro per chiedermi dove fossi andato alle quali ho risposto “A Merdeka Square, come vi ho già detto prima”, e poi mi hanno chiesto se avessi voluto prendere un altro taxi con loro, ma ho declinato dicendo che avrei preso la monorail. Neanche a dirlo, io sono partito e me le sono trovate che mi seguivano lamentandosi che fatto che non volevano prendere la monorail.

Una volta sulla monorail la tempesta si è scatenata e quella di loro che parlava meglio l’inglese mi ha chiesto di indicarle qual’era la fermata più vicina alla loro agenzia, ma alla fine, sapendo già come sarebbe finita, mi sono offerto di accompagnarle di persona.

La loro fermata era Imbi, che è collegata direttamente all’ingresso del Times Square shopping center. Qui abbiamo dovuto aspettare un po’ prima che smettesse di piovere e poi siamo partiti. L’agenzia era lungo Jalan Imbi, più o meno a 500 metri dal centro commerciale, ma a trovarla non è stato facile, soprattutto con l’operazione destabilizzante delle indonesiane che alternavano la domanda “Perché non prendiamo un taxi?” con “Sei sicuro che sia la direzione giusta?” e con “Siamo ancora distanti?”. Ma poi, gli Dei mi hanno sorriso e, guidato dall’odore di una bancarella di Durian, sono arrivato nella piazza dove c’era l’agenzia. Qui loro si sono tuffate sui divanetti peggio che se le avessi fatte camminare attraverso un deserto di sale, scalze e con un blocco di granito in tasca. Finalmente ci siamo salutati e sono tornato sulla mia strada.

La serata è passata facendo un breve giro per negozi, poi a constatare che la famosa “Ain Arabia”, la piazza del cibo arabo esiste, ma non ha nulla che venda cibo, di nuovo una sosta dai Break Dancers e poi un’altra visita alle Petronas Towers di notte. Il mattino dopo sarei partito per Hong Kong, quindi è stato meglio tornare presto in albergo a fare lo zaino.

Hong Kong – Macau

Il volo low cost per Hong Kong ha lasciato Kuala Lumpur in perfetto orario. Io ero seduto affianco a due australiani che smaniavano dalla voglia di raccontarmi delle loro emozionantissime vacanze in Laos narrate attraverso le loro fantastiche fotografie. Un tramonto sul fiume Mekong apriva la sequenza, poi un pontile sul Mekong al tramonto, un altro tramonto sul Mekong, un pezzo di asfalto, un tavolo di un bar con, sorprendentemente, dei bicchieri sopra e poi un altro tramonto sul Mekong, una gita in barca fatta di immagini sfocate e anziani coi piedi in acqua per poi continuare con altri tramonti sul Mekong. Forse quando sono stato in Laos ero distratto, ma non mi sembrava che il sole fosse perennemente fermo in un tramonto perpetuo sul fiume Mekong. Poi ad un certo punto, quando hanno notato che viaggiavo da solo, hanno iniziato a raccontarmi dove e come si sono conosciuti. Il viaggio è sembrato durare tante, troppe ore, ma fortunatamente sono riuscito ad intervallare i capitoli dei viaggi dei signori con lunghe dormite. Forse erano proprio gli anziani ad avere questo effetto soporifero.

Atterrato a Hong Kong ho preso il treno che simile ad un proiettile lanciato nella notte cinese, mi ha portato in centro, a Kowloon Station. Da qui, il percorso è stato facile, zaino in spalla, prima giù per Austin Road, per poi arrivare a Nathan Road. Qui c’era l’insegna del mio albergo, l’Embassy Hotel. Prima di continuare, devo dire che l’ho scelto tramite un sito molto famoso nel quale c’erano buone recensioni. Comunque, sono entrato nell’edificio dove era chiaro che l’Hotel non era altro che un appartamento. Mi sono fatto indicare la strada da una guardia, e tramite un ascensore tutto rattoppato con nastro adesivo, sono arrivato a destinazione. L’hotel si è rivelato allucinante. Le camere erano cubicoli nei quali c’era solo lo spazio per un letto sudicio e lo zaino. Il bagno, poco più largo che le mie spalle, era un tutt’uno di doccia, gabinetto non funzionante e lavabo otturato. Se ci si sedeva sulla tazza del gabinetto, si doveva stare storti perché il lavabo sporgeva all’altezza del collo. Rotoli di capelli era un po’ ovunque ed i corridoi fuori dalle camere erano invasi da oggetti di ogni genere abbandonati. A questo punto dovevo andare a mugugnare (termine per lamentarsi in Genovese). Ma la vecchietta che mi aveva accolto e che sapeva un po’ di Inglese era sparita, ora c’era un vecchio cinese, magro come un manico di scopa, la pelle era una vecchia pergamena ma con grinze che erano peggio della maglietta dimenticata da una settimana in fondo al mio zaino. Lui non parlava in inglese ed era incavolato con me da subito. Incavolato con me a prescindere da tutto. Così, quando mi sono lamentato, la risposta è stata in cinese. Anch’io sono pretenzioso ad andare in Cina e sparare di trovare qualcuno che parli Inglese in un sedicente hotel internazionale? Non sia mai detto. Dopo una lunghissima discussione, tutt’altro che pacata mi sono visto costretto a cercarmi un altro albergo. Erano le 18 circa, mi sono battuto tutta Hong Kong zaino in spalla, per trovarne uno solo alle 22.00. Tutte le cose che avrei voluto vedere quel giorno sono andare a farsi benedire. Lo stesso “Symphony of Lights” che avrei voluto vedere la prima sera si è solo materializzato come fugaci bagliori che rischiaravano le nuvole, o forse lo smog, al di là dei palazzi che coprivano la visuale sulla baia.

Alle 23.00, senza essermi fatto una doccia, sono uscito dell’hotel e mi sono diretto verso la famosa Knutsford Terrace, luogo che raccoglie alcuni locali e ristoranti, tra i quali uno anche italiano. Purtroppo, sono arrivato tardi e questo si è tradotto nel fatto che nessuno ha voluto servirmi da mangiare. Quindi sono entrato in un pub, ho ordinato una enorme birra, visto che non avevo ancora bevuto dall’arrivo a Hong Kong, e sono riuscito a farmi portare come stuzzichini delle ali di pollo fritte. Non molto, ma meglio di nulla.

La giornata stressante mi ha permesso di avere una vista generale di Hong Kong, ma ero troppo agitato per essermela goduta, quindi, sono stato contento di rientrare nel mio albergo, farmi una doccia ed andare a dormire.

Il giorno successivo mi sono svegliato che era già tardi. La sera prima mi ero dimenticato di puntare la sveglia. Così, già in ansia di essere in ritardo, mi sono alzato e dopo una doccia, sono uscito.

La prima tappa è stata Starbucks dove ho fatto colazione con un caffè fumante ed una fetta di torta e poi sono partito alla volta di Kowloon Park. Il parco è una sorta di piccolo polmone nel centro della città. Ok, apparentemente è grosso, ma poi in proporzione alla città è infinitesimale. Il parco è diviso in aree tematiche con fontane, stagni ed anche un labirinto di siepi. Mi sono recato in questo parco perché speravo di vedere la gente del posto fare il Tai Chi Chuan, ma nonostante ci fossero centinaia di anziani, nessuno praticava questa arte marziale. Sembravano più appassionati a chiacchierare seduti all’ombra di qualche albero. E’ stato comunque un bel modo di iniziare la mia esplorazione di Hong Kong.

Uscito dal parco ho fatto un pezzo di strada su per Nathan Road. Prima di partire avevo letto che i centri commerciali di Hong Kong sono fantastici, allora ho provato ad entrare in uno a caso. Forse ho sbagliato centro commerciale, ma non mi ha lasciato impressionato. Negozi di merce banale a prezzi troppo alti addirittura per essere Hong Kong.

La tappa successiva è stata il Wong Tai Sin Temple nella parte nord di Hong Kong. Il tempio stesso è molto bello ed è diviso in diverse aree una diversa dall’altra. Entrare in questo tempio e i giardini che lo circondano mi ha fatto venire mente tutti quei film con immagini stereotipate della Cina. Non mancava nulla, portali di pietra, statue di leoni, lanterne, laghetti con statue ed anche una cascata artificiale. Appena entrato sono andato a vedere l’area dell’oracolo di Kuan Yin dove il rito vuole che prima si debba pregare la Dea della Misericordia, magari accendendo anche qualche bastoncino d’incenso, e poi ci si debba inginocchiare nello spiazzo antistante a scuotere dei barattoli pieni di bastoncini numerati finché non ne esce uno. A questo punto si deve prendere il bastoncino, e dopo essersi marcati il numero corrispondente si deve andare dagli indovini a farsi interpretare quali auspici comporti. Il padiglione degli indovini è qualche rampa di scale più in basso ed è appunto un padiglione pieno di cubicoli, tanto da formare due corridoi paralleli con cubicoli ad entrambi i lati. In ogni cubicolo c’è un indovino che in base al prezzo che si è disposti a pagare può fare diversi tipi di interpretazione. I cinesi ci credono in queste cose, ed in questo modo hanno alimentato un business tale da diventare a sua volta un’attrazione turistica.

Nel perimetro del tempio vi sono padiglioni dedicati alla preghiera e giardini dove, turisti permettendo, ci si può rilassare per qualche minuto. Purtroppo il panorama del tempio coi suoi bei giardini è deturpato da quei palazzi, più simili ad alveari umani che a dei condomini, che svettano tutt’attorno al tempio come una sorta di corona di cemento tempestata di finestre e condizionatori appesi.

Una volta visitato il tempio e dopo un pranzo a base di Dim Sum in un centro commerciale vicino alla metro, mi sono diretto a sud, a Central. Ormai era già pomeriggio inoltrato e sono riuscito a vedere appena il palazzo della Bank of China, il Lippo Centre, Hong Kong Park e il Museo del Tè. Il Museo del Tè è composto da una parte dedicata alle tipologie di Tè ed una sui servizi da Tè a partire da quelli antichi fino ad arrivare ad opere di arte moderna. Affianco al museo c’è anche un locale dove vengono proposte degustazioni di diversi tipi di Tè, allora ho deciso che era il momento di prendersi qualche minuto di relax con una tazzina di Tè fumante. Quando sono entrato ho consultato il menù ed ho scelto una “Cerimonia del Tè con due degustazioni”.

Già mi ricordavo la cerimonia del Tè alla quale ho avuto la fortuna di assistere a Kyoto, ma questa è stata totalmente diversa. La ragazza cinese ha fatto una complicatissima procedura che per gli estimatori sarà stata l’equivalente di un’arte, ma per me, nella mia modesta eresia in campo di Tè, era più o meno una complicata rappresentazione del principio che un liquido, nello specifico l’acqua calda, può essere travasata da una teiera all’altra. E non solo una volta, ma più e più volte! Che magia! Alla fine la ragazza mi ha fatto assaggiare i due tipi di te. Dico assaggiare perché alla fine, a suon di travasare e versare acqua calda, ne era rimasto meno di un bicchiere per tipo. Il primo era di un colore smeraldo pallido e dal gusto di decotto amaro di lattuga, o per lo meno, come credo che sia il decotto amaro di lattuga, mentre il secondo, dal colore ambrato era dolce e più gradevole. Poi la ragazza mi ha chiesto come faccio il Tè a casa mia e l’ho scandalizzata quando ho nominato il microonde.

Uscito dalla degustazione del Tè mi sono diretto al Victoria Peak Train. Questo è uno dei mezzi che permettono di salire sul Victoria Peak. Forse è il più lento, perché c’è sempre una coda lunghissima da fare, ma di sicuro è il più scenografico, infatti, mentre sale lentamente lungo la collina, da il tempo di gustarsi Hong Kong che si allontana. Purtroppo, quando ero in coda mi sono accorto che il mio lettore MP3 di cui andavo fiero era sparito. Probabilmente quando ho lasciato quell’orrido albergo è caduto dallo zaino. Non ne stava andando bene una, qui ad Hong Kong.

Arrivati sulla vetta del Peak ci si ritrova in un altro centro commerciale e dopo essere saliti una lunga serie di scale mobili, si arriva all’osservatorio. La vista ripaga tutto il tragitto per salire. Era ormai calato il tramonto e la città risplendeva davanti a me. Proprio lì sotto c’era Central, che sembrava tanto vicina da poterla toccare, e poi, oltre la baia si vedeva la parte dei “New Territories”, la parte continentale. Tutto attorno a me c’era un’orda di turisti, ma non ci facevo nemmeno caso in quanto tutta la mia attenzione era rapita dallo spettacolo che avevo davanti. Anche questa sera mi ero perso la “Symphony of Lights”, ma non importava, questo panorama era assolutamente fantastico. Bagliori, luci e neon brillavano e scintillavano su questi pinnacoli che mi apparivano davanti. Battelli attraversavano lo specchio di acqua tra Central e Tsim Sha Tsui (punta meridionale della Hong Kong continentale) dei New Territories in una incessante staffetta. Era bellissimo, troppo bello per tornare subito in dietro. No, dovevo rimanere li ancora un po’. Finché il vento di tempesta che stava soffiando me l’avrebbe permesso.

Una volta tornato a Central ho preso la metro e sono tornato prima a Nathan Road e poi mi sono diretto nel caotico Temple Market. Il mercato vendeva cose da turisti e non ho trovato nulla che valesse la pena acquistare, ma nel mio girovagare ho trovato un ristorantino. Il ristorante era al margine di un incrocio e offriva pesce. Quindi mi sono seduto ed ho ordinato un piatto di riso fritto, canocchie grigliate e conchiglie simili alle capesante fatte saltare con una salsina di fagioli neri e poi guarnite con porri e peperoncino fresco, da bere una birra cinese. La cena è stata ottima ed abbondante, il prezzo si è aggirato attorno ai 5 Euro. Dopo questa tappa sono tornato, stanco ma soddisfatto, al mio albergo dove dopo una doccia, sono crollato a dormire.

Macau

Era l’alba e la sveglia del mio cellulare inesorabile come sempre, mi chiamava a gran voce. Svegliati Fra! Svegliati! Guarda che se non ti alzi chiamo il vecchio cinese dell’Embassy Hotel a tirarti giù dal letto! A questo punto più per un riflesso pavloviano che per movimenti consci, sono riuscito a farmi una doccia, preparare lo zaino, vestirmi ed uscire, addirittura senza invertire le fasi di questa sequenza. E c’è da andarne fieri visito il mio stato in quei momenti.

Prima tappa è stata Central, e da qui ho raggiunto il Ferry Terminal dove sono finalmente riuscito a procurarmi una tazza di caffè bollente e delle uova strapazzate in un ristorante Koreano. Da qui, un’ora più tardi, sono partito col motoscafo alla volta di Macau. Nonostante sia Hong Kong che Macau facciano parte della galassia cinese, entrambe godono in quanto provincie ad amministrazione speciale di autonomie in campo di immigrazione. Quindi ho dovuto fare la procedura di uscita da Hong Kong e l’immigrazione a Macau. Per fortuna che non avevo dimenticato il passaporto.

Macau è bella. Decisamente bella. Gli edifici sono più piccoli rispetto ad Hong Kong e mi ha dato una sensazione meno claustrofobica. Mentre Hong Kong mi ha dato l’idea di una città viva e dinamica, forse Macau ha più un aspetto di terra di casinò e turismo legato al suo centro storico, ma rimango dell’idea che una serata nel centro storico di Macau non sarebbe stata male.

Nel centro c’è da seguire il tipico tour da turisti. La Piazza del Senato, famosa per il suo pavimento a onde bianche e nere. La “Santa Casa da Misericórdia” luogo in cui veniva offerta assistenza alle famiglie dei marinai dispersi in mare, la “Igreja de São Domingos” che è snobbata da molti, ma qui è stato creato il primo giornale in lingua Portoghese in Cina, la “A Abelha da China”. A questo punto le strade si fanno più strette man mano che ci si avvicina alle “Ruínas de São Paulo” che sono l’icona di Macau. Lungo queste stradine affollate a tal punto che ci si può trovare in tratti tanto gremiti che i turisti diventano una sorta di mosaico multicolore, multiforme e multilingua; si possono trovare negozi piuttosto interessanti. Oltre i tipici negozi che vendono rimedi della Medicina Tradizionale Cinese, frequentissimi anche a Hong Kong, qui si trovano anche negozi che vendono dolciumi e carne candita. Il termine “Carne Candita” forse è improprio, ma è la “Bakkwa”, cioè carne macinata ed essiccata che viene conservata con zucchero e sale. Una ragazza sorridente me ne ha offerto un pezzo e devo dire che è stata proprio buona. Poi, non mi sono potuto far mancare il dolce tipico di Macau, una specie di sfogliatina concava ripiena di crema pasticcera caramellata sul lato superiore. Veramente ottima!

Le Ruínas de São Paulo si ergono in cima ad una scalinata e a oggi sono l’unica testimonianza rimasta dell’antica cattedrale di San Paolo andata distrutta in un incendio nel 1835. E’ molto bella da vedersi, ma c’erano tanti, troppi turisti. Una gran confusione deturpava il posto. Io mi sono fatto largo tra la folla e sono riuscito ad entrare nel perimetro della cattedrale, ora una piazza aperta, dove sono in mostra piccole parti degli antichi muri. Più o meno, dove credo che un tempo fosse l’abside della chiesa, oggi c’è l’accesso alla cripta. La cripta, di per se, è un locale non tanto grande che ospita alcuni oggetti religiosi recuperati dalle macerie, tra i quali, una grossa statua di St. Francisco Xavier.

Una volta uscito dalla cripta, dopo essere salito sulla facciata ed essermi goduto il panorama, mi sono diretto verso il centro. Prima una breve sosta a comprare dei dolci tipici alle arachidi da portare a casa, poi sosta per una zuppa di noodles con verdure ed uno strano ingrediente bianco e fucsia e poi via verso il sud di Macau.

A sud di Macau c’è un bel tempio, è il tempio “Deusa A’ Ma”, dedicato alla Dea Matsu, la Dea protettrice dei naviganti. La leggenda vuole che quando i portoghesi siano attraccati proprio vicino a questo tempio ed abbiano chiesto ai nativi come si chiamasse il posto, loro hanno risposto Matsu, ed i Portoghesi hanno storpiato il nome in Macau. Forse io sono la reincarnazione del portoghese che non capisce il cinese ed il nativo in realtà era il vecchio cinese dell’Embassy hotel (tanto vecchio che non ha bisogno della reincarnazione per arrivare ad oggi). Si, il dialogo tra di noi sarebbe decisamente finito così.

Il tempio Deusa A’ Ma, secondo me, è molto bello, inoltre e non è frequentato da (grosse) orde di turisti. Il tempio è in realtà costituito da tanti piccoli templi che si articolano lungo un percorso circolare su e giù per la collina. Mi hanno impressionato due cose, la prima erano grossi massi su cui erano incisi degli ideogrammi cinesi. Molti turisti Asiatici si fermavano a farsi fotografare con quegli ideogrammi, quindi immagino che avessero un significato propiziatorio. L’altra cosa è stato l’incenso. Qui, come anche in altri templi di Hong Kong, vengono usate delle spirali enormi che si allargano a cono… Praticamente degli zampironi enormi che ricordano le ceste da pesca. Questi incensi hanno la proprietà di durare un mese ciascuno e ce ne sono davvero tanti. A tratti l’aria diventa satura di fumo ed i templi emergono da una nebbiolina profumata. Tutto molto suggestivo.

Era quasi ora di tornare ad Hong Kong, ma ho deciso di darmi una mossa e tornare alle Ruínas de São Paulo. La scelta si è rivelata più che azzeccata, sia perchè ho potuto assaggiare un altro pezzo di Bakkwa da una bancarella, sia perché essendo quasi il tramonto, molti dei turisti se n’erano già andati via. Ora le rovine erano, quasi, in pace. Addirittura a tratti, riuscivo a sentire il cinguettio degli uccellini sugli alberi vicini alle rovine. La facciata si è dipinta dell’arancione-dorato del tramonto e con un malinconico “Arrivederci” sono dovuto tornare al traghetto che mi ha riportato ad Hong Kong.

Questa era l’ultima sera ad Hong Kong. In teoria sarei dovuto rimanere un giorno in più, ma non sono riuscito a trovare un albergo decente e a prezzi abbordabili, quindi ho deciso di partire per la Thailandia con un giorno di anticipo rispetto la mia tabella di marcia. Quindi, essendo l’ultima sera ad Hong Kong, ho voluto festeggiare. Dopo una doccia via verso il Dancin’ Jupiter, locale pubblicizzato come posto fantastico per chi balla musica latina. E poi, ero proprio curioso di vedere come si balla la musica latina ad Hong Kong. Neanche a dirlo, dopo un viaggio per arrivare, il locale era chiuso. Un ragazzo della portineria del palazzo affianco mi ha confermato che il locale ha chiuso già da un po’ e forse, non hanno aggiornato il sito internet. Secondo me, c’era dietro il vecchio cinese dell’Embassy Hotel. Quindi, per cercare di raddrizzare la serata sono andato a D’Aguilar Street, indicata come centro della vita notturna di Hong Kong. Secondo me D’Aguilar Street è un posto che bisogna andarci almeno una volta quando si è a Hong Kong. Qui si riversa una quantità tale di turisti neanche fosse l’unico posto dove c’è musica alla sera. E’ il regno della confusione, delle grida, della musica e dell’alcol. Forse non è l’ideale per tutti, ma una serata trascorre in fretta qui. E troppo in fretta è arrivato il momento di tornare all’albergo. Lo zaino aspettava di essere fatto e il mattino dopo sarei dovuto andare all’aeroporto con l’incognita di un volo per la Thailandia o un altro giorno e una notte a Hong Kong.

Thailandia

La sveglia è suonata all’orario oltraggioso delle 5.30 del mattino. Non ho avuto problemi ad alzarmi visto che per l’ansia ho passato una notte insonne, anzi ero felice di potermi muovere e tornare in azione.

Il treno, popolato da pochi turisti assonnati, mi ha portato all’aeroporto internazionale di Hong Kong dove sono arrivato che era ancora troppo presto. Tutti i check-in erano chiusi, tutti i banconi informazioni erano chiusi, così come anche i negozi. Erano solo aperte alcune caffetterie. Così ho deciso di impegnare il tempo in un modo costruttivo, cioè fare colazione.

Sono andato in un ristorantino Koreano e qui ho preso un Tè al latte ed un sandwich. Il Tè era praticamente acqua sporca visto che era assolutamente insapore, mentre invece il sandwich era un po’ stantio, ma non male.

Mentre aspettavo ho cercato di connettermi al WiFi dell’aeroporto e dopo una sequela di tentativi sono riuscito a consultare diversi siti di prenotazioni alberghiere on-line, per riscontrare che sia ad Hong Kong che in tutta la regione, come ad esempio Lantau Island, non vi erano posti che mi sarebbero costati meno di 130 Euro a notte. Dovevo trovare il modo per andare in Thailandia.

In aeroporto ho fatto mille tentativi, rivolgendomi a banconi di compagnie aeree e a ipotetici servizi di “hotel booking”, tutti infruttuosi, finché ho incontrato un ragazzo cinese che forse impietosito o forse temendo che gli scagliassi addosso il mio zaino, mi ha detto che al Check-In dell’Airasia avrebbero potuto trovare un volo. In men che non si dica ero al bancone dell’Airasia dove sono riuscito ad acquistare il biglietto aereo. In coda un russo ha tenuto a presentarsi e mi ha chiesto se avessi voluto investire dei soldi con lui per un business a Pattaya, in Thailandia. No, non ci pensavo neanche e una volta preso il mio biglietto mi sono dileguato. Mi ci mancava alle calcagna anche quello che poteva sembrare un incrocio tra un sicario ed un mafioso russo. No, questo sarebbe stato troppo.

Nell’attesa di imbarcarmi ho potuto pranzare. Ho preso una specie di polpetta di riso avvolta in una foglia di loto ed una specie di porridge di riso e brodo di maiale con uova di 100 anni. Il riso purtroppo aveva preso un gusto amarognolo dalla foglia e non mi è piaciuto più di tanto, mentre il porridge era molto buono. Le uova di 100 anni sono uova che vengono conservate sotto la cenere per qualche mese e in questo processo diventano nere e col gusto di fungo. Devo dire che erano proprio interessanti.

L’aereo è decollato in perfetto orario e Hong Kong è sparita in men che non si dica. Poi, tappa a Bangkok dove ho cambiato l’aereo e sono partito per Chiang Mai dove c’era un festival ad aspettarmi.

Sono atterrato a Chiang Mai, in Thailandia, che era ormai il tramonto. Conosco bene questa città, visto che ci sono già stato in passato. Così non ci ho messo molto a trovarmi una camera per quella notte al prezzo di 7 Euro. La camera era al Grace Boutique Hotel, un alberghetto pulito proprio nel centro della città. Così, dopo aver preso la camera ed aver fatto una bella doccia, sono uscito per visitare la città di notte. I mercatini erano sempre gli stessi che ricordavo ed anche la merce in vendita non era cambiata. In genere non impazzisco per i mercatini, ma il “Night Bazar” di questa città mi piace proprio. Qui ho cenato con un pesce grigliato, verdura saltata, ed una bella birra ghiacciata.

Thailandia – Chiang Mai e Phuket

Era la mia prima mattina in Thailandia, la sveglia è suonata presto, così ho avuto modo di fare colazione prima lasciare l’hotel per andare nella guesthouse che avevo prenotato dall’Italia.

Una volta sistematomi nella guesthouse, sono uscito ed ho iniziato a contrattare con un autista di Tuk-Tuk. Lui voleva portarmi alla “Via dell’Artigianato” che non è altro che una strada fiancheggiata delle fabbriche visitabili. Alcune offrono anche prodotti che possono essere interessanti. Tuttavia, volevo andare da un’altra parte, e a suon di contrattare ho spuntato allo stesso prezzo sia la visita al tempio Doi Suthep che la visita alla “Via dell’Artigianato”.

Il tempio “Doi Suthep” è sulla cima di un monte alle spalle di Chiang Mai. Devo dire che se si visita questa cittadina, non ci si deve lasciare sfuggire questo tempio. Oggi le scalinate fuori dal tempio sono invase da bancarelle che vendono alimenti e cianfrusaglie, ma il tempio, una volta raggiunto è fantastico. Il tempio stesso è costituito da due parti, una esterna, con tanti piccoli templi e punti in cui pregare, mentre la parte interna ospita il famosissimo Stupa Dorato. Questo posto è decisamente uno spettacolo tale da lasciare a bocca aperta. Purtroppo è invaso dai turisti quindi c’è da mettere in conto una bella ressa di persone.

Sulla via del ritorno ho fatto una sosta alle bancarelle dove ho pranzato con uova di quaglia alla brace, succo di maracuja e spiedini di polpette in salsa piccante.

Il pomeriggio è trascorso in fretta nella “Via dell’Artigianato” e non è mancata la dose quotidiana di adrenalina quando l’autista del Tuk-Tuk per entrare nelle “fabbriche” si lanciava nella corsia opposta ed evitava dei frontali all’ultimo secondo. In una di queste fabbriche, nonostante vi fossero prezzi già stabiliti, sono riuscito a contrattare con quella che sembrava una capa-commessa e sono riuscito a portarmi a casa dei bellissimi oggetti laccati per pochissimo.

Una volta tornato in centro sono entrato in una agenzia locale e mi sono organizzato due giorni di trekking, prima di iniziare la scuola di cucina.

Il programma che mi ero fatto comprendeva cinque giorni di cui due di trekking, uno vicino a Chiang Rai e uno vicino a Mae Hong Son con guide locali. Devo dire che entrambi i trekking sono stati bellissimi. Le guide, simpatiche e preparatissime; hanno fornito al gruppo improvvisato di trekkers moltissime informazioni sia sulla flora che sulla fauna locale. In particolare quando una guida ha sperato che prendessi in mano un ragno grosso come il mio palmo con la scusa che “non morde”, la mia aracnofobia ha preso la parola dicendogli “lascialo a non mordere sulla tua mano e non sulla mia”.

Gli altri tre giorni di permanenza sono passati a scuola di cucina. Io adoro cucinare ed adoro il cibo Thailandese, quindi non potevo farmi mancare l’occasione di iscrivermi alla Chiang Mai Farm Cooking School. E’ stata davvero una bellissima esperienza che mi ha decisamente arricchito, e da allora ho già fatto più volte cene Asiatiche con piatti Thai. Per chi fosse curioso, il mio piatto forte è diventato il Pollo al Curry Verde Thai e Latte di Cocco. Semplicemente spettacolare, piccantissimamente spettacolare!

Il vero scopo che mi ha portato a stare così al lungo a Chiang Mai è il festival Loy Krathong. Questo festival si articola su quattro giorni ed è molto sentito dalla gente del posto. In particolare, la prima serata c’è la parata in costume delle scuole e l’ultima c’è quella degli adulti. Il tema di quest’anno era il “Regno Lanna”, una sorta di medioevo Thailandese. Non c’è bisogno di dire che partecipare a questa festa è stato fantastico, in particolare essere immerso tra la gente locale e festeggiare come loro, assieme a loro. La tradizione vuole che si debbano mettere dei “krathong” cioè piccole zattere di fiori ed incensi nei fiumi e/o far volare delle lanterne. Naturalmente ho voluto provare entrambi. Qualche anno fa avevo partecipato al Loy Krathong di Bangkok e di Phuket, ma quelli non sono nulla a confronto a quello di quest’anno. Dico solo che a mezza notte, il cielo era rosso di lanterne e fuochi artificiali, mentre le rive del fiume sembravano infuocate da tutti i “Krathong” messi in acqua. Un’esperienza difficile da descrivere.

Passata l’esperienza di montagna, ho lasciato Chiang Mai per immergermi in cinque giorni di assoluto relax a Phuket. Nel corso di questi giorni ho affittato un motorino e mi sono recato quasi ogni giorno in una spiaggia vicino a Surin dove c’era poca gente ed il mare molto pulito. Qui ho incontrato Ismail che lavora in un bar della spiaggia e mi ha fatto vedere che alla parete aveva, tra molte sciarpe di squadre di calcio internazionali anche una del Genoa, quindi Ismail ha scalato la mia “Top 10” di locali consigliabili in Thailandia. A parte la fede calcistica, lui si è rivelato anche un ottimo cuoco quando mi ha fatto, fuori dal menù, un Tom Yum (una zuppa a base di citronella) ai frutti di mare servito con riso Thai al vapore e da bere un bicchiere di anguria frullata. Assolutamente ottimo per pranzare in riva al mare.

Troppo presto è arrivato il giorno di tornare in Italia. Queste tre settimane sono volate e tutte le esperienze come anche le difficoltà che mi sono trovato davanti, mi hanno arricchito di esperienza e reso questo viaggio indimenticabile. Non posso descrivere cosa provo ripensando a questo viaggio, non ne sarei in grado. E’ una sensazione meravigliosa, un abbraccio che stringe tutti i sensi. Facile innamorarsi di queste sensazioni. Non è la prima volta che vengo stregato da un viaggio, ed è per questo che continuo a cercare la mia prossima meta laggiù, oltre quell’orizzonte che ormai familiare mi cela qualche fantastica sorpresa.

Al prossimo viaggio, alla prossima storia che aspetta di essere raccontata!

Tanti saluti

Francesco



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