Soroche, cucina e Beyoncé… ecco il mio Perù

Diario semiserio del mio viaggio in Perù
Scritto da: FiorellaTad
soroche, cucina e beyoncé... ecco il mio perù
Partenza il: 10/08/2011
Ritorno il: 31/08/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
Mesi dopo essere tornata dal Perù mi sono cimentata nella riproposizione di una delle ricette provate nelle tre settimane del mio viaggio, le causas alla limeña. Non saranno mai come quelle originali, mi sono detta, ma non importa. Rivolevo il mio piccolo angolo di Perù sulla tavola imbandita per festeggiare l’ultimo dell’anno. Una corsa al supermercato e poi in cucina: tra lenticchie e lasagne, hanno visto la luce anche le mie causas etichettabili come “alla posillipina”, dal nome del mio quartiere a Napoli. Si tratta di un tortino di patate, farcite con spezie, lime, pollo (o tonno, ho preferito questa versione per il 31 dicembre), maionese e avocado. Il risultato? Ottimo, secondo i neofiti delle causas. Saporito, ma da migliorare, secondo me.

Lima e la cucina costiera

La cucina peruviana è stata una delle maggiori scoperte del mio viaggio di questa estate. La conoscenza del Paese è andato di pari passo con la scoperta della sua gastronomia, forse la più interessante del Sudamerica, che è riuscita a coniugare con successo tradizione e modernità, varietà di materie prime, input culturali diversi. Non è un caso che di recente si è tenuto a Lima un importante congresso con i più rinomati chef provenienti da tutto il mondo.

Proprio a Lima, destinazione del mio volo dall’Europa, è iniziata la scoperta dei sapori peruviani. La capitale del paese compensa una sua endemica inospitalità con l’offerta di un’esperienza culinaria unica. La prima sera in Perù è stato quindi sinonimo di tipica cucina costiera: ceviche (diverse varietà di pesce o crostacei crudi marinati nel succo di lime con cipolle e peperoncini), tiraditos (ceviche in versione giapponese, preparato in modo più raffinato e senza cipolle), conchitas a la parmesana (cappesante gratinate al forno con formaggio) e pulpo al olivo (polpo in salsa d’olive tritate). Tutto degustato con vista sull’oceano, scambiando quattro chiacchiere con un amico di lunga data che non vedevo purtroppo da anni. Con lui ho poi visitato il giorno successivo la città. Mi ripeto: Lima non è bella, ma ha un suo fascino, forse malinconico. Plaza de Armas, Plaza San Martin, varie chiese, tra cui la cattedrale, si vedono in poco tempo. Meritano una visita più approfondita il Monasterio de San Francisco con le sue catacombe e Huaca Pucllana, un importante centro cerimoniale del 400 d.C. circa, scoperto da qualche anno nel quartiere residenziale di Miraflores.

Molto di tendenza è il quartiere di Barranco: locali, baretti, ristoranti soddisfano gli amanti della vita notturna. Qui ho provato il maracuja sour e il pisco sour, quest’ultimo fatto con un’acquavite d’uva, il pisco, bevanda e vanto nazionali.

Soroche? Benvenuti a Cusco!

Dopo Lima, destinazione Cusco, l’antica capitale Inca, un piccolo gioiello incastonato tra le Ande a più di 3000 metri. Nonostante il turismo non le lasci tregua soprattutto ad agosto, Cusco conserva una sua inevitabile forza attrattiva fatta di storia, tradizioni, architettura. Impari a scoprirla giorno dopo giorno, visitando i suoi monumenti più celebri (in Plaza de Armas: la Catedral, l’Iglesia de la Compania de Jesus. Poi l’interessante Museo de Arte Precolombino e lo splendido Qorikancha), esplorando le sue stradine e scoprendo angoli incantevoli. La città ti accoglie però, dopo uno o due giorni di necessario riposo. Può non capitare a tutti, ma la prima conoscenza cusqueña è il soroche, il mal di montagna che si può manifestare con giramenti di testa e malesseri vari. Per me ha significato non mangiare per qualche giorno, dovendo abituare il mio corpo a vivere a quella altitudine.

Valle Sacra, Matteo e Perù Etico

Infatti la riscoperta dei sapori peruviani è ricominciata in Valle Sacra, un luogo che vale il viaggio intercontinentale. Il Rio Urubamba, i rilievi che lo circondano, gli antichi villaggi inca: la maestosità di questi posti avvolge e inebria, così come la sensazione di pace e tranquillità che trasmettono. Saranno gli dei inca lassù, saranno le temperature più miti (15°C, mentre a Cusco 5°C), sarà la rinvigorente cucina casalinga di Matteo (una fusion italo-peruviana da leccarsi i baffi), ma in Valle Sacra ho ritrovato tutte le forze per continuare il viaggio.

Matteo è italiano. Vive qui da una decina di anni. Ha una casa meravigliosa con il salotto patio con le pareti dipinte di blu, un giardino sconfinato con vista sui monti della valle. Ho fatto tappa da lui prima di proseguire per Ollantaytambo, un pittoresco villaggio, sovrastato da una fortezza inca e caratterizzato da strade strette e lastricate di ciottoli (un piacere per i minivan turistici), e attraversato da orde di visitatori diretti al Machu Picchu. Con la moglie Camilla ed Emanuele, Matteo ha messo su un’agenzia di viaggi responsabili. In estrema sintesi significa poter scoprire un paese andando oltre i suoi circuiti turistici, immergendosi in una realtà spesso difficile e complessa e dando il proprio contributo per migliorare le cose. Il Perù è un Paese molto povero nonostante il crescente sviluppo a due cifre. Gli stipendi medi sono bassi e buoni livelli di sanità e istruzione sono praticamente inaccessibili a gran parte della popolazione. Non si può dunque rimanere indifferenti quando ci si avvicina a un paese che vive in queste condizioni. Con “Perù Etico” si fanno due cose molto importanti. Innanzitutto si finanziano progetti di recupero di bambini e adolescenti abbandonati perché diversamente abili o provenienti da famiglie con enormi difficoltà economiche. Questi ragazzi sono accolti in case famiglia, vanno a scuola, sono seguiti da team di infermieri, tutor e psicologi. Imparano mestieri, fanno laboratori d’arte. Tornano a “vivere”, mi permetto di dire, e si prova a dar loro una possibilità negata nel passato. In secondo luogo, si visitano i progetti stessi, si conoscono i bambini, si pranza con loro. Egoisticamente e superficialmente si potrebbe dire: ci si sente utili. Ma in realtà quello che si vive visitando Mosoq Runa, Chaska Wasi e il Ceprof è molto altro. I sorrisi di questi bambini e gli sguardi delle persone che li assistono vi rimarrà dentro per sempre.

In rotta verso Machu Picchu. Nuovo Continente vs Vecchia Europa

Allora, dopo i racconti e le prelibatezze di Matteo, mi rimetto in viaggio. Per visitare Machu Picchu, una delle mete turistiche più importanti del mondo, un luogo che è sinonimo di leggenda, avventura, mistero, bellezza oserei dire divina, bisogna immettersi nei tradizionali e comodi circuiti turistici. Da Ollantaytambo, si prende un elegante trenino della medesima società che gestisce l’Orient Express, per raggiungere Aguas Calientes, un villaggio adesso regno del peggiore kitch turistico (anche se ci sono alcune perle gastronomiche, ça va sans dire, di cui tratterò successivamente), in passato accampamento degli operai che lavoravano alla diga che sorgeva nella stessa insenatura. E’ da qui che si sale, il mattino presto, verso il Machu Picchu.

Dal finestrino del treno per Aguas Calientes si ammirano panorami spettacolari. Ma è irresistibile intrattenimento anche quello che avviene all’interno della carrozza. E non parlo del personale. È il mondo, condensato in pochi metri quadri, tra zaini e smartphone, a meravigliare come sempre. Di fronte a me c’è una coppia di ragazzi francesi. Lei splendida, lui serissimo. Hanno un background familiare e sociale di un certo rilievo, è facile constatarlo. Per un’ora di viaggio, quasi non si rivolgono la parola. Lei, occhioni azzurri, una pelle che le ho invidiato in modo crudele, zigomi alti, ha avuto per tutto il tempo un’espressione imbronciata tipica parigina. Lui non ha distolto lo sguardo dalla brochure del treno, in cui si spiegava per sommi capi la storia del Machu Picchu. Condensata in due giovani ecco la Vecchia Europa: annoiata, abituata a “tutto”, che non si meraviglia dello spettacolo a pochi centimetri dal proprio naso. In francese si direbbe due tipi “coincés”: consultate il dizionario.

Il Nuovo Continente, dinamico e assetato di quel “tutto”, siede invece alla mia destra. Una coppia di messicani, un cileno e un argentino guardano estasiati al di là del finestrino. Ridono, scherzano, commentano l’esperienza fatta e da fare. I due messicani, non proprio due figurini e sprovvisti di qualsiasi eleganza (di cui i francesi sono invece densi) si divertono con i giocattoli degli anni 2000: cellulari con sei mila funzioni, macchine fotografiche, tablet, iPod e iPhone in tutte le loro declinazioni. In un attimo, un’immagine divertentissima. Al di là del finestrino c’è una cascata bellissima, la luce del tardo pomeriggio ne fa la scenografia perfetta per un racconto romantico. I quattro non se la lasciano sfuggire. Immediatamente si armano di fotocamere e immortalano la scena, scattando la foto tutti insieme, con i rispettivi apparecchi, contemporaneamente. Io così l’ho potuta vedere sia in “macro” dal vetro del finestrino, sia moltiplicata in “micro” dai quattro schermi dei ragazzi. I francesi non se ne sono nemmeno accorti.

La città perduta (e la cucina fusion)

“Ma la magia del Machu Picchu comincia già al momento della fila?”. Con sorriso beffardo, uno dei miei compagni di viaggio commenta così la chilometrica coda davanti l’ingresso del sito archeologico del Machu Picchu alle sei del mattino. Ironia e folla a parte, lo spettacolo che l’antica cittadella inca riserva è ancora stupefacente. Ci ho passato una giornata intera, visitando le rovine, ammirando il panorama mozzafiato sulle Ande e “scalando” la cima del Wayna Picchu, la montagna alle spalle della cittadella sacra. Servono tre quarti d’ora per arrivare in vetta e la salita non è proprio agevole, ma la vista da lassù ripaga di tutta la fatica.

Per rifocillarsi, bisogna però riscendere ad Aguas Calientes, dati i prezzi proibitivi dell’unico bar esistente all’esterno del sito archeologico. Nel paesino, dopo un accurato slalom tra ristoranti e pizzerie di dubbia qualità, la tappa obbligata è quella dell’ “Indio Feliz”, bistrot franco-peruviano fondato da un pluripremiato cuoco francese di cui adesso non ricordo il nome. Provare per credere.

Verso il Lago Titicaca ovvero Soroche 2 – Fiorella 0

Come metto piede nella città di Puno, punto di partenza per le escursioni sul Lago Titicata (sud-est del Perù, a pochi chilometri dal confine con la Bolivia), il mal di montagna mi abbatte nuovamente. Dopo sei ore di viaggio in autobus da Cusco, siamo saliti in altitudine e il mio fisico orgogliosamente di grado marittimo sventola bandiera bianca. Quindi la prima sera a Puno, è nel letto dell’albergo a “sfogliare”, magari in realtà a “cliccare” sulla macchina fotografica, le foto della giornata di viaggio attraverso gli altipiani. Sulla strada ci siamo fermati ad Andahuaylillas, Pucarà e Sicuani, abbiamo anche attraversato Juliaca, obiettivamente la città più brutta che abbia mai visto. E non è un caso. Juliaca nasconde dietro il suo orrendo aspetto traffici loschi: dal contrabbando alla rivendita di pezzi di auto usate, fino ad arrivare al commercio internazionale di stupefacenti.

Il lago navigabile più “alto” del mondo

Definire il Titicaca un lago sembra assurdo. Si tratta di una distesa d’acqua immensa, di cui si ha difficoltà a scorgere i limiti. Appartiene per metà al Perù e per metà alla Bolivia ed è disseminato da una miriade di isole su cui vivono antiche comunità ancora poco avvezze alla tecnologia e che vivono soprattutto di turismo (alla loro maniera) e di pesca. La prima tappa per me è quella delle Islas Uros, isole artificiali realizzate dagli stessi abitanti con le totora, canne galleggianti che crescono nel lago e che sono utilizzate non solo per l’ “edilizia”, ma anche per l’artigianato e per l’alimentazione data la loro commestibilità. Le donne dell’isola ci accolgono con i loro costumi tradizionali coloratissimi, gli uomini ci spiegano come va la vita su queste piattaforme galleggianti. Un ragazzo ci dice che vivono praticamente solo di turismo e con la vendita di oggetti che realizzano a mano. Con i soldi messi da parte, seguono corsi di studi. Lui in particolare vuole diventare una guida ufficiale e studia a Puno, lingue straniere e materie attinenti il turismo.

La tappa successiva è Taquile, una splendida isola dove pernotteremo. Nessun hotel o bed and breakfast. Sono gli abitanti del posto ad aprirci casa. Per 24 ore vivremo come vive la comunità, “toilette” comprese, immersi nel silenzio meraviglioso dell’isola. La cucina locale è molto semplice, ma un po’ di essenzialità non guasta in questo momento del viaggio. Minestre con i legumi del posto, la trucha (la trota), tisane di muña accompagnano questo breve soggiorno. Il mio ospite è Alejandro. Mi accompagna nella sua casa che divide con moglie e due figlie. Tre casupole in mattoni affacciano su una sorta di patio all’aperto. Una di queste è la camera che divido con il mio compagno di viaggio. Sul letto una montagna di coperte per proteggerci dal freddo. A terra un po’ di paglia e alla parete un piccolo specchio. La mia torcia si scarica e continuiamo a farci luce con i cellulari, che destano a più riprese l’interesse di Alejandro.

“Che linea avete? Voglio comprare anche io un cellulare ma qui non c’è mai campo” ci dice. Ma senza elettricità, mi sembra complicato poterli poi ricaricare. “Ah ma io ho anche un pannellino solare – mi racconta – Ce lo hanno montato dei ragazzi di una Ong”. Bene. La tecnologia al primo posto, come la comunicazione d’altronde. La nostra piacevole chiacchierata prosegue. Il mio compagno di viaggio si avvicina allo specchio e tira fuori dal beauty-case l’astuccio delle lenti a contatto e il relativo liquido. Si sfila gli occhiali dal viso e si avventura nell’ardita impresa di mettere le lenti a contatto con poca luce e in condizioni obiettivamente precarie. Alejandro lo guarda estasiato, ammaliato quasi. Poi si preoccupa: “ti fanno male gli occhi?” chiede con un tono di poetica innocenza. Io trattengo la risata, come anche il mio amico e sorridiamo. “No, no, non mi fanno male gli occhi – gli risponde – è solo che non ci vedo molto bene. E a volte invece di usare gli occhiali, uso questi” e gli mostra una lente a contatto. “Vedi: se ne mette una su ogni occhio – continua – come se fosse una piccolissima lente degli occhiali. E così ci vedo”. Alejandro non poteva credere ai suoi occhi, appunto.

Road to Arequipa

Il ritorno necessario a Puno dopo la navigazione del lago Titicaca è stato interessante per una cosa: il lomo fino. Se capiterete da queste parti, andate da “Colors” e ordinate questo filetto di carne tenerissima e preparato a regola d’arte. Chiaramente, soroche permettendo.

Dopo una rigenerante dormita e un ardentemente desiderato ritorno alle toilette, ci rimettiamo in viaggio per raggiungere Arequipa, la “Ciudad blanca”, così chiamata per i suoi edifici coloniali costruiti con la pietra vulcanica tipica della zona che riverbera la luce del sole. Il benvenuto in città lo dà proprio l’imponente Misti, un vulcano di 5822 metri. Tutto intorno delle bellissime “foreste” di cactus, intervallate ogni tanto da cave e insediamenti industriali dalle dimensioni spaventose.

I love Arequipa

Mi è bastato l’ingresso in città ed è stato amore a prima vista. Arequipa è bellissima. Elegante, dinamica, accogliente, molto lontana dalla tetra Lima. La vita cittadina è intrigante. Le strade brulicano di gente: uomini d’affari, studenti, turisti, artisti. Il mio albergo è al centro, si chiama “La casa de Melgar”, forse il posto migliore dove ho dormito in Perù. L’hotel è ospitato in uno splendido edificio del ‘700. Una serie di patii, le pareti dipinte di rosso o di blu, l’arredamento antico, un giardino interno dove poter far colazione: è stato un soggiorno eccezionale.

Di buon mattino mi incammino tra le strade della città. La prima visita è al Monasterio de Santa Catalina, ma definirlo monastero è riduttivo. E’ una vera e propria città nella città. Qui arrivavano le secondogenite delle famiglie nobiliari spagnole, destinate alla vita religiosa. Lasciavano lo sfarzo casalingo per ritrovarsi in un luogo dall’indiscusso fascino. Le celle erano piccoli appartamentini che le ragazze dividevano con tre o quattro inservienti a loro dedicate. La visita è inebriante: i colori, la luce, i chiostri di Santa Catalina sono di una bellezza incredibile.

Capitolo cucina. Anche qui, e c’era da aspettarselo, Arequipa non delude. Le soste che consiglio: “La Nueva Palomino” e la sua chupe de camarones (zuppa di gamberoni) e i rocotos rellenos (peperoni piccanti ripieni di carne. Per palati forti) e il bistrot “Zig Zag” (con scala interna disegnata da Gustave Eiffel, si proprio lui) e il suo filetto di alpaca cotto su pietra lavica.

Volete diventare come Beyoncé ma la natura non è stata clemente? E soprattutto avete tanta voglia di avventura? Il Canyon del Colca vi aspetta.

Si discute da tempo su quale sia il canyon più profondo al mondo. I due principali contendenti sono entrambi peruviani: il Colca e il Cotahuasi (che dovrebbe essere circa 150 m in più). E sono entrambi il doppio del Grand Canyon statunitense. Stiamo parlando di profondità che vanno dai 1000 ai 3200 metri. Mi si chiede: “vuoi vedere il Colca, le montagne, fare trekking e dormire in un’oasi paradisiaca?”. Chiaramente si. E non sapevo a cosa andassi incontro. L’errore di fondo è stato anticipare la rilassante visita alle sorgenti termali di “La Calera” a Chivay, un paio di ore di autobus da Arequipa, al trekking nel Colca. Chivay non è nulla di che, ma le piscine delle terme con acqua che sgorga a 85°C, valgono la pena.

Il giorno dopo con una guida prendiamo l’autobus pubblico diretto a Cabanaconde. Da questa cittadina rurale inizia la “discesa” verso Sangalle, l’oasi paradisiaca di cui sopra, situata in fondo al Colca, mille metri più in basso. L’immagine delle palme, delle piscine e della rigogliosa vegetazione che mi aspettano mi spingono con entusiasmo a intraprendere il trekking. Quanto tempo ci vorrà? tre ore. Cosa sono per una come me: alimentazione sana ed esercizio fisico tutto l’anno?

Non se ne può avere un’idea. Il sentiero non era tortuoso, di più! Cammino, cammino e il pensiero dei bungalow tra prati e fiori meravigliosi diventa la mia ragione di vita. A metà cammino, mi sento uno straccio. Ogni dieci minuti scarto una salvifica caramella, illudendomi di darmi maggiore energia. In un istante, l’illuminazione che mi spinge a continuare e a non fare tappezzeria tra cactus e muli: Beyoncé. Lei il Canyon del Colca non lo ha mai attraversato, ma Lei ha avuto madre natura dalla sua parte e non il Dna europeo come il mio. Ecco: questa discesa è per avvicinare la mia atonicità fisica a quella della divina. E se a fine trekking ho ancora la cellulite, faccio causa alla regione dei Canyon peruviani e al governo di Lima. Per la serie, la forza di volontà.

Ecco Sangalle. E, si, l’estenuante sforzo fisico è ampiamente ripagato. Peccato che sia talmente stanca da non riuscire neanche ad alzarmi per buttarmi nelle piscine naturali. Finisco all’ombra degli alberi, con una vista stupenda sul Canyon che mi riempie gli occhi e con il vento che mi coccola.

Non vi faccio il racconto della risalita. Facilmente immaginabile. Comunque l’arrivo in vetta è una scarica di adrenalina. E io sono sempre più tonica.

Festa nella scuola di Tikapata

Un grande prato, un pugno di casette disseminate, un orticello biologico. Se mi avessero detto da piccola “questa è una scuola”, non ci avrei creduto. La scuola di Tikapata è speciale. Si trova nella Valle Sacra e accoglie bimbi peruviani e di nazionalità diverse. Molti hanno doppio passaporto. L’hanno costruita Matteo, Camilla, Francesco per iscriverci i propri figli e per farla frequentare a ragazzini meno fortunati che qui possono contare su un ottimo livello di istruzione in un complesso didattico invidiabile. A questa scuola è legato uno dei miei ultimi ricordi del Perù. Mi hanno portato alla festa che ogni anno si organizza qui e che vede protagonisti insegnanti, studenti e le loro famiglie. Sul colorato buffet, il mondo. Sushi divino, torte mitteleuropee e fiumi di chicha morada, bevanda tipica del Perù ed elaborata a partire da una varietà di mais di colore viola scuro che si coltiva intensamente sulla Cordigliera delle Ande.

Customer Satisfaction

Il mio volo intercontinentale per la Spagna. Al gate, si avvicina una ragazza. Vorrebbe farmi qualche domanda. Ma sono stanca e glisso. Ne arriva un’altra, e poi una signora e ancora un ragazzo. E una ragazza ancora. All’ultima dico si. Sono tutti dell’ufficio del turismo peruviano. Si aggirano per i gate dell’aeroporto di Lima per sottoporre dei questionari agli europei di ritorno a casa. Sei venuto in Perù in vacanza? Dicci perché, se ti è piaciuto, cosa hai visto e quanto hai speso. Customer satisfaction, direbbero gli esperti di marketing. Ebbene sì. Il Perù ha molte ricchezze (oro, gas, legname, petrolio) che, forse, sta capendo come sfruttare meglio senza sentirsi troppo soggiogato alle multinazionali che si aggiudicano le concessioni. Però ha scoperto quanto sia importante il turismo come biglietto da visita del Paese, della sua storia, della sua gente. Nel corso del viaggio, mi avevano sorpreso già vari aspetti dell’organizzazione turistica. Le guide, gli uscieri dei musei o comunque tutti gli impiegati riconducibili ad uffici turistici sono di una professionalità e di una gentilezza sconcertanti. I fiori all’occhiello del Paese splendono. Qualche esempio. Il Macchu Picchu è ben organizzato e vigilato (i guardiani sono ovunque nel sito e sono instancabili e molto severi con i turisti); Plaza de Armas a Cusco: al di là delle splendide facciate delle chiese che vi si affacciano, date un’occhiata alla cura con cui sono preservati i giardinetti al centro.

E infine, ti sottopongono al Customer satisfaction.

L’addetta: “allora, ultima domanda. E per ringraziarla c’è questo piccolo omaggio per lei”. E mi porge un portachiavi con un pendaglietto che ripropone alcuni motivi tipici dell’artigianato peruviano. “Crede di ritornare in Perù nei prossimi tre anni?”.

Sorrido. “Sicuramente si”.

[1] Herman Melville in “Moby Dick”: “E’ la più strana e più triste che ci sia. Perché Lima ha preso il velo bianco; e c’è un orrore più grande in questa bianchezza del suo dolore”, alludendo alla garùa, una nebbia che tinge il cielo di bianco e la immerge in un’atmosfera malinconica.

[2] La cucina nipponica ha influenzato molto quella peruviana negli ultimi anni come conseguenza della consistente immigrazione giapponese in questo Paese.

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Isla Uros - Lago Titicaca

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Lago Titicaca

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Machu Picchu

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Arequipa

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Canyon del Colca

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Casa del Melgar - Arequipa

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Monastero di Santa Catalina - Arequipa



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