Un trono vicino al sol

Il più classico itinerario in Perù
Scritto da: Kingsize
un trono vicino al sol
Partenza il: 04/08/2011
Ritorno il: 24/08/2011
Viaggiatori: 16
Spesa: 4000 €
Dallo stretto passaggio tra due muri di adobe, mattoni di terra cruda, William spia gli ospiti che stanno tenendo papà Edwin così occupato da ieri mattina. I pomelli rossi che il vento e il sole gli hanno colorato sulle gote d’angelo, il portamento da ometto nell’abito tradizionale dell’isola di Taquile, quell’innocenza che solo amore s’aspetta e amore incondizionato irradia, fanno inspiegabilmente sanguinare il mio cuore d’incallito individualista. E’ un crimine rubare un bambino di quattro anni, ma è altrettanto un delitto dover chiudere la porta sul mondo d’amore che il suo sguardo spalanca. Lo lascio agli sciacalli della foto, è troppo sacro quel che ha risvegliato in me. Questa mattina, dopo la notte freddissima dei quattromila metri, è limpida e, nell’aria rarefatta, l’alternanza degli eucalipti e degli orti scandisce il ritmo. Sulle acque blu del Titicaca il sole s’è lanciato nel suo assolo quasi mediterraneo, ma quella laggiù, appena visibile all’orizzonte, è la costa della Bolivia. Scendo le balze coltivate a mais e patate fino all’acqua, nemmeno troppo fredda. Risalendo, l’aria non mi basta: respiro a pieni polmoni, ma mi sento soffocare: sono su un’isola a 4.000 metri sul livello del mare. A Taquile s’era rifugiata, millenni fa, una comunità quechua, il cui semplice stile di vita si incarna ora in questi uomini misurati, in queste donne formose, tutti serrati in un senso d’onore e di appartenenza che ricorda i nostri sardi. Non a caso è dal Titicaca che la coppia primigenia, Manco Capac e Mama Occlo, sono emersi per fondare la stirpe inca. Il sole qui è vicino, la sua presenza acceca il giorno tanto quanto la sua assenza gela la notte e, invitte, duemila anime regnano indisturbate in questo luogo reale ma che sa di mito.

E’ una pausa campestre, quella nostra a Taquile, ma la paglia sulla terra battuta della stanza, i sentori delle piante, le sfumature del paesaggio e l’incedere lento delle ore sono altrettanto eloquenti ed importanti degli altri luoghi a più palese contenuto intellettuale che abbiamo toccato nel nostro giro del Perù. Qui sembra che sia la terra a suggerire all’uomo come vivere, che questa terra cioè abbia la voce di questa cultura che nessuna conquista mai potrà annientare. A Nazca ci parlavano come se l’invasione da parte dei Wari fosse cronaca recente, a Ayacucho come se le ferite che Sendero Luminoso ha inflitto alla regione sanguinassero ancora, a Machu Picchu come se in fondo alla valle gli spagnoli potessero ancora individuare le strade d’accesso alla città. Storia, cronaca e tradizioni disegnano in Perù – un paese esteso più di quattro volte l’Italia – una miriade di vivaci, vitali identità locali: dai piccoli, nascosti alberghi boutique, con divani e caminetto acceso, ai modesti ostelli gestiti da minuscole cooperative di famiglie; dai mercati paesani dove ancora si pratica il baratto, ai supermercati occidentali che fortunatamente stentano ad imporre la loro logica aberrante su un tessuto urbano ancora troppo povero; dagli specialisti appassionati che propongono sport estremi con grande professionalità, ai ritardi biblici dei collegamenti aerei da Cuzco. Per infuriante che il Perù possa essere, per limitate che le sue risorse per lo sviluppo possano presentarsi, vi si respira la resilienza che le Ande non hanno mai cessato di insegnare, marcata dalla pena della sopportazione per chi non ha saputo immaginare una vita migliore, o animata dalla determinazione e dallo slancio verso il futuro per chi ha saputo cogliere l’occasione giusta o avuto il coraggio di perseguire la propria vocazione. Le storie di battaglie – di popoli o d’individui – si rincorrono qui oggi come ieri. Volontari mettono a frutto le loro professionalità per aiutare i più bisognosi e gli abbandonati, dedicando la vita a dar voce a chi non l’ha, a chi nemmeno immaginava di avere il diritto ad esser trattato come persona. Ce se ne potrebbe stupire, considerando la capillarità colla quale gli aspiranti alle cariche dello stato pubblicizzano la propria candidatura sui muri di tutto il Paese. Pensione a 65 anni, benzina a basso prezzo, colazione e pranzo gratuiti agli scolari, garanzia di lavoro e più opere pubbliche sono solo alcune delle promesse di chi svergognatamente afferma di “stare col popolo”. Tanta insistenza conferma invece l’incolmabile distanza tra le poltrone del potere e le panche del mercato del paese, del paese di Quinua ad esempio, dove – sotto grandi teloni di plastica blu – nativi e turisti consumano la medesima pietanza di pollo e verdure da un piatto di polistirolo, mentre al lato, nello spiazzo definito da una cornice di bottegucce, i prodotti della terra, dell’artigianato locale e della globalizzazione selvaggia cambiano di mano per pochi soles. Ah, come le meraviglie di oggi condividono gli stessi spazi di quelle di ieri e dell’altro ieri! Un obelisco candido su un pianoro vicino commemora la battaglia che, nel 1824, pose fine all’occupazione coloniale del Perù. La vista spazia sul vasto anfiteatro delle montagne tutt’attorno. E, poco più in là, sulla strada per Ayacucho, un ragazzo dal portamento impacciato ma dalla nitida visione storica ci illustra il susseguirsi delle culture nella regione e, nella luce accecante di quel deserto di cactus, la funzione delle nicchie, delle piazze e dei templi delle rovine Wari.

Paesaggi incantevoli

Dodici ore di pullman separano i magniloquenti lasciti coloniali di Lima, sorvegliati da gran dispiego di poliziotti, da Ayacucho, ma una volta sopra la cappa di nebbia che ristagna sulla capitale e sulla costa in inverno, le Ande sciorinano un paesaggio incantevole dopo l’altro: la Statale 24 è una delle più panoramiche che si possano percorrere. In piazza, davanti alla cattedrale – in Perù tutte le cattedrali sorgono sulla piazza principale, immancabilmente battezzata Plaza de Armas – in una pentola immersa in acqua ghiacciata, latte, sesamo, cocco e zucchero girano vorticosamente per mano d’una signora in costume tradizionale, condensandosi in un gelato veramente artigianale. Artigianalmente intraprendenti anche un paio di ragazze, che da una banchina di fronte alla chiesa mi richiamano, sedotte, senza dubbio, dalla prestanza fisica del sottoscritto ricco turista. Ma in Plaza Maria Bellido, lontano dai turisti, Ayacucho dismette la maschera coloniale e la sua anima quechua prorompe: in una ventina eseguono sgangherate coreografie al ritmo di tre musici, le ragazze lanciando grida stridule, tutti pestando con prepotenza il selciato colle scarpe da ginnastica. Più che un ballo, è una catarsi, un rito tribale: l’energia è palpabile. Un’altra troupe fa loro da contraltare con giravolte diverse, mentre un terzo gruppo, in piedi, ripassa, testo alla mano, alcuni canti tradizionali. Tutti conoscono la melodia, ma il maestro vorrebbe s’andasse a tempo… Un’occhiata all’interno della cattedrale, aperta per la messa della domenica sera, sorprende l’ignaro turista con gli eccessi dorati d’un barocco violento come un’inquisizione, pesante come una condanna, insopportabile come una menzogna. Le follie scultoree dei retablos che fanno da sfondo a tutti gli altari, così come le statue di cristi agonizzanti, completi di capelli umani, di spicchi di specchio in bocca per maggiore veridicità e di ricchissime vesti, rivelano con chiarezza quale fede i missionari imponessero agli autoctoni che, non potendo respingere gli invasori, giocarono d’astuzia nascondendo i simboli della propria fede nelle decorazioni e negli affreschi delle chiese. Il gonnellino bianco del crocefisso rimanda alla Montagna, l’orlo della veste della Madonna è un fiume, così che ella possa personificare Pacha Mama, la Madre Terra, e quelle innocenti greche sono in realtà croci andine, come si può ben apprezzare nella chiesa di Chinchero. Quella, gesuita, di Andahuaylillas viene additata come la Cappella Sistina dell’America del Sud, ma le pretese dei suoi affreschi compassati perdono punti se comparate con la divertente, deliziosa ingenuità delle altrettanto estese illustrazioni all’interno di quella del vicino villaggio di Huaro. Le statue di santi e madonne nelle chiese più modeste sono poco più che bambolotti: come poteva questa gente adottare il culto di muti, inerti santi, uomini in ultima analisi, quando quel che chiedeva era la pioggia e un buon raccolto? Quando quel che vedeva attorno a sé era la forza delle manifestazioni della natura, che non essendo controllabili dall’uomo gli imponevano rispetto e adorazione? L’attuale diffondersi della consapevolezza della nostra dipendenza dalla natura ci permette di comprendere la spiritualità concreta e diretta di questa gente: noi stiamo tornando alle radici, loro non se ne sono mai distaccati. E non mi ha meravigliato sorprendere, nel caos urbano, un vecchio intento in un rito su una ragazza, fuori la cancellata della chiesa di San Francisco, ad Ayacucho: le antiche forme di religiosità sono tutt’altro che morte. I contatti con altre realtà erano tenuti dagli sciamani grazie alle piante allucinogene e la coca è diffusa quanto, ad esempio, il betel in Indocina, e il suo consumo in infuso da bere o in foglia ma masticare è una costante. Si dice aiuti nel mal di montagna – personalmente, ho preferito affidarmi al Diamox. Altri viaggiatori, che non avevano considerato gli effetti della rarefazione dell’aria ai 4.000 e più metri di alcuni passi e di Puno, hanno pagato con mal di testa, indisposizione, insonnia, febbre e vomito. Il passo Apacheta sulla Statale 24 che ci riporta sulla costa, ad esempio, si trova a 4.746 metri.

Lo scoglio

La Panamericana, che aveva attraversato le misere periferie di Lima, casupole costruite su enormi ondulazioni di sabbia compatta, in pochi chilometri arriva a Paracas. Una sterrata serpeggia sul piatto deserto della Reserva Nacional e raggiunge i ristorantini di Lagunillas. La baia è superba, come lo squisito pranzo. Più in là danno spettacolo la dritta scogliera di Playa Roja e il belvedere de La Catedral, il cui arco naturale è crollato durante il violento sisma del 15 agosto 2007. Lo scoglio che ne è rimasto è comunque magnificamente fotogenico, e l’imponenza del luogo non è meno eloquente dello slancio spirituale di Kierkegaard e più convincente, nella sua rivelazione gratuita e nuda, di un ragionamento di Pascal. L’albergo ha una piccola piscina, ma pochi osano farci un paio di bracciate: agosto qui è inverno, e sotto un cielo grigio compatto, intabarrati come possiamo, un motoscafo lascia la spoglia penisola, sulla sabbia della quale si vede chiaro il famoso glifo del candelabro, e ci porta alle isole Ballestas, le Galápagos del Perù, regno di foche, di leoni marini e d’una quantità inverosimile di surie, cormorani, pellicani e pinguini di Humboldt. L’impressione è forte, come anche l’odore del guano, che a intervalli regolari viene raccolto e venduto come fertilizzante. E’ surreale che gli spagnoli e i peruviani fossero entrati in guerra per il controllo di questa risorsa, ma nel XIX secolo quella del guano era un’industria molto redditizia.

Tra surf e cantine

Nella regione si susseguirono le culture Paracas, Nazca, Huari e Ica prima del sopravvento degli Incas. Troviamo ceramiche stupefacenti e tessuti finemente ricamati nel museo archeologico Antonini di Nazca, frutto stupendo della passione di quel ricercatore italiano che tanto s’è dedicato a questi luoghi. Il sorvolo sulle misteriose linee a bordo dei piccoli Cessna è forse una delle principali motivazioni d’un viaggio in Perù. Purtroppo l’inaffidabilità dei vettori esclude ogni sicurezza di poterlo effettuare, nemmeno prepagando, ed è per pura casualità che alcuni del gruppo riescono a volare. Si suda caldo (si è dentro una lattina volante sotto il sole cocente) e si suda freddo: l’aeroplanino sbalza, s’impenna, s’inclina a destra e poi a sinistra per dare a tutti i passeggeri la possibilità di vedere i famosi disegni, a stento riconoscibili su un tavolato sabbioso attraversato da centinaia di linee, come una lavagna prima dell’arrivo della supplente. Indubbiamente, però, se lo stomaco regge, è una mezz’ora indimenticabile. Altri del gruppo, per evitare delusioni, scelgono di dedicarsi al surf sulle dune giganti di Huacachina, giusto fuori Ica. E’ una regione di vigne storiche, e ne approfittano per visitare un paio di cantine e degustare i vini e il famoso pisco in un ambiente sofisticato di meticolosa attenzione al prodotto e al territorio, i reperti del quale formano quasi un piccolo museo privato.

Cultura e musei

In una piana desertica contornata da lontani rilievi, incantata nella luce del pomeriggio, le tombe ricostruite di Chauchilla, 30 chilomtri a sud di Nazca, offrono un’idea della cultura Inca-Chincha: vi troviamo sciamani mummificati dai lunghi dreadlocks avvolti in colorate coperte e sepolti con offerte di crani e terrecotte. Il vento, il silenzio e la solitudine s’impossessano, non visti, delle nostre anime, e torniamo nostalgici mentre il sole lascia queste distese. Traversata la costa del Pacifico, tutta minuscole baie, scogli e piccoli promontori da cartolina, ci riportiamo in altitudine, ad Arequipa. La città è costruita con grandi blocchi di sillar, una pietra vulcanica bianca, ed i soffitti sono a volta per scongiurare il pericolo di crolli in occasione dei frequenti terremoti. Rimaniamo stregati dal fascino tutto mediterraneo del monastero di Santa Catalina, un’oasi di clausura nel cuore della città. Le sue piccole calli fiorite, i chiostri e le fontane celano un’interessante passato di ricche monache gaudenti e di una santa profetessa. La pinacoteca raccoglie alcuni notevoli lavori della scuola pittorica di Cuzco, e dal belvedere, nel sole del mezzogiorno, brillano i ghiacciai sulle tre vette che coronano la città: El Misti (5.822 m), Chachani (6.075 m) e Pichu Pichu (5.571 m). Anticamente le montagne erano dèi, e ad esse si sacrificavano i giovani più perfetti della comunità per placarle nel caso di disastri naturali. La mummia di Juanita, una giovane offerta in sacrificio al vulcano Ampato (6.310 m) cinquecento anni fa, è visibile nel Museo Santury, congelata in una teca. Altre attrazioni sono le ricche case coloniali, costruite alla romana attorno ad un patio centrale e ancora piene di mobili, dipinti e curiosità d’epoca. Casa del Moral è stata affittata quest’oggi per una festa privata e i preparativi fervono. Troviamo riparo dal sole nella balconata sopra il colonnato che circonda Plaza de Armas. E’ il 479° anniversario della fondazione spagnola della città, e la processione delle bande entra in pompa magna dalla sinistra della cattedrale, che occupa tutto un lato della piazza. Arequipa è una città bassa (sempre per i terremoti) di gente indaffarata e gioviale, in grande trasformazione come tutto il Perù urbano: le indicazioni della guida, pubblicata solo un anno fa, vanno spesso a vuoto.

La Reserva Nacional Salinas y Aguada Blanca

È una brulla distesa punteggiata da greggi di vigogne, alpaca e lama: superato un passo a 4.800 m, circondato da un orizzonte di infinite montagne e vulcani innevati, si scende a Chivay. Un paio d’ore nelle vasche d’acqua termale di La Calera ritemprano i provati viaggiatori, che trovano poi, proprio qui, un appassionato astronomo che, nel minuscolo osservatorio dell’albergo Casa Andina, descrive con la meraviglia d’un primitivo le costellazioni del cielo dell’emisfero meridionale, coadiuvato da una lampadina su cui ruota una mascherina sapientemente bucata. La luna è piena, stasera, e col telescopio si riesce a vederne i punti e i crateri come nelle foto della Nasa. Anche l’escursione al Cañón del Colca, insieme al Cotahuasi il più profondo del pianeta, ci tiene col naso per aria, stavolta per osservare il volo dei condor dal belvedere della Cruz del Condor. I punti d’osservazione sullo strapiombo brulicano d’una multicolore e poliglotta umanità armata di punta-e-scatta e di reflex che mitragliano gli uccelli, alcuni dei quali ci sorvolano vicinissimi. Quanti sono? Quelli marrone sono i giovani, quelli neri col collarino bianco gli adulti. Sono un piccolo stormo. Una mezz’ora di spettacolo indimenticabile, poi il numero s’assottiglia e spariscono. Lungo i fianchi del canyon si snodano le spettacolari terrazze delle coltivazioni inca – e i resti di quelle rovinate dai terremoti, che conservano in segreto i contadini inghiottiti dalla terra durante i sismi. Una sosta per le danze dei campesinos in costume tradizionale attorno alla fontana della piazza a Yanque, un’altra per sorseggiare un Colca Sour (cocktail più fruttato del Pisco Sour) nel villaggio di Maca, e s’imbocca la Statale 30. A Lagunillas ci si ferma, alcuni per un panino con la vista dei fenicotteri in lontananza, altri per sentirsi male: stiamo salendo, e a Puno toccheremo i 3.830 m. Il mate de coca, tè di foglie di coca, non pare essere di grande utilità. Prima di Taquile, l’escursione sul Titicaca ci sbarca alle isole degli Uros, piattaforme galleggianti di canne. Tutto qui è fatto di totora, una canna acquatica che cresce selvatica in questa parte del lago: la superficie calpestabile delle isole, le capanne, le imbarcazioni, gli oggetti d’artigianato. Le donne vendono arazzi decorati con coloratissimi fili di lana rappresentanti gli animali e i personaggi delle loro mitologia. E’ una storia davvero unica, quella di questa gente, come tante di questo viaggio che, a chi me l’ha chiesto, rispondo che sì, rientra nei miei top 3, sia per l’interesse delle situazioni che per la loro diversità. Un bel viaggio deve offrire panorami agli occhi, sapori al palato, emozioni al cuore e scoperte e interrogativi alla mente. Il Perù ha tutto questo – e non siamo ancora arrivati a Machu Picchu. Da Puno, dopo la pausa agreste di Taquile, s’imbocca la Statale 3, ma prima d’arrivare a Cuzco visitiamo l’incantevole sito di Sillustani: una necropoli di chullpas, torri di pietra dei notabili dalla cultura Colla, con vista sul blu immobile del lago Umayo. Ne avevamo visto un modellino in fibra di vetro al Museo Carlos Dreyer di Puno, assieme a tre mummie e ai corredi funebri. A Lampa scopriamo i segreti dei passaggi sotterranei della cattedrale e ammiriamo l’elegante ossario, completo di marmi di Carrara, costruito da un benestante del luogo, la cui cupola regge una copia in alluminio della Pietà. Un’altra copia, in gesso, scartata perché troppo pesante, è conservata nel Municipio. Una rapida visita alle rovine dell’originalissimo tempio e della città inca di Raqchi, e Cuzco è nostra per quattro giorni.

Cuzco

E’ bella, Cuzco, e dal nostro ostello le luci notturne della città, che dalla valle protende lunghe linee di lampioni verso le pendici delle colline circostanti, sembrano riflettere le costellazioni. Di giorno, brilla di attività, di arte, di storia. Anche qui, tutt’un lato della Plaza de Armas è occupato dalla cattedrale, in realtà tre chiese interconnesse, affollate di dipinti, tra cui la famosa Ultima Cena col cuy, il porcellino d’india (che in realtà è un’alpaca), piene di retablos dorati, di statue dolorose, di un’insistenza talmente cieca su una religione materialista come il cristianesimo da ispirare quasi una nostalgia spirituale. Il vicino monastero di Santa Catalina offre ambienti molto speciali, severi nelle loro geometrie grigie che sboccano però in un’oasi inattesa di colori e forme: una grande sala affrescata in quattro registri, forse uno per ogni regno: in basso il minerale (decorazioni geometriche), sopra l’animale, poi l’umano (scene galanti e di caccia) e, in alto, il celeste (grandi ritratti di santi). Lo stile è rustico, ma l’inventiva e la vitalità dei soggetti ne fa una vera scoperta, più interessante della cerimoniosa, inamidata esibizione di ricchezza di cui si pregia la chiesa della Compañía de Jesús. Il museo Inka, alloggiato in un’antica casa signorile, offre una lunga e completa panoramica su quella cultura, di cui Qorikancha è il lascito più bello in città. Le mura trapezoidali del più ricco tempio inca sono state riutilizzate per un convento domenicano e mostrano un’abilità e una precisione costruttiva quasi disumane. Nei dintorni, i paesaggi meravigliosi della provincia di Cuzco nascondono numerosi siti degni di nota: gli affreschi della candida chiesa e i verdi terrazzamenti dell’asimmetrica Chinchero, fotogenicissima; le sorprendenti, profonde terrazze concentriche di Maras, un ingegnoso vivaio per acclimatare le piante alle diverse altitudini; la sorpresa delle saline di Moray, dove innumerevoli vasche raccolgono da centinaia d’anni l’acqua salata d’una vicina sorgente montana; per finire con le rovine di Ollantaytambo, dominate da una spettacolare gradinata sulla quale doveva campeggiare un tempio che l’arrivo degli spagnoli non diede agli inca il tempo di terminare.

Da lì, un’ora e quaranta di treno porta ad Aguas Calientes, dove alle cinque di mattina inizia a formarsi la coda per le navette che serpeggiano lungo il pendio per arrivare a Machu Picchu. La prima luce che rosseggia le nubi e definisce i puntuti rilievi circostanti alza le aspettative, e Machu Picchu non delude. Troppi sono gli interrogativi, storici, tecnici e culturali a cui gli archeologi non trovano ancora risposte convincenti. Ci si lascia quindi andare all’ammirazione incondizionata per questa città che sembra ancora viva. Per un’emozionante veduta dall’alto occorre scalare Wayna Picchu, il picco che le sta a fianco: servono giusto un paio di buone gambe e tanto fiato. E se un’ora di salita è poco, si può andare alla Gran Caverna e al Tempio della Luna, costruito sotto un aggetto di roccia. Il ritorno a Machu Picchu è estenuante, ma si cammina dentro le nubi e nella foresta di una montagna incontaminata, sulle vere orme degli inca. Più che un trek, è un sentiero che porta indietro nei secoli, e la nostra è una fatica antica. Perché costruissero le loro città così maledettamente in alto è facilmente spiegato: Taita Inti, il Padre Sole, era fra le divinità più importanti, e più un luogo era alto, più era benedetto. La vera funzione di Machu Picchu non è nota: quel che è certo è che è un trono vicino al sole degno del sovrano d’un regno vastissimo, la cui popolazione superava quella dell’antica Roma e il cui stile imperiale ci è familiare: espansionismo senza troppi scrupoli, attenzione all’agricoltura e all’approvvigionamento idrico, costruzione capillare della rete stradale e architettura d’alta classe. Perché fossero rimasti su queste montagne, piuttosto che scendere verso condizioni di vita forse più facili nel vicino bacino amazzonico, lo sanno gli occhi che qui possono spaziare su nobili vulcani, i piedi che qui puntano verso elevate destinazioni, e l’anima che gode del puro senso di dominio che riviene dal vivere sul cucuzzolo d’un aristocratico reame. Anzi, come scrisse Garcilaso de la Vega nel 1609, essendo il Perù lungo e stretto come un corpo umano, e stando Cuzco al centro, il piacere è quello di vivere nell’ombelico stesso del mondo. Perfino i lama e le alpaca, qui, hanno un portamento altero. E se le infastidisci, come i dominatori sogliono fare, ti sputano addosso. Siamo sicuri che non ci fosse un visto da richiedere, un albero genealogico da dimostrare o una prova del fuoco da superare, per essere ammessi sin qua?



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