Gli occhi del condor

Arequipa è la mia città. Un’oasi verde e fertile a 2400 metri d’altitudine. Una valle circondata da vulcani maestosi che si elevano e a volte superano i 6000 metri. Qui si respira un’aria frizzante e piacevole, l’aria dell’eterna primavera. Arequipa ha un milione di abitanti, ma non lo dà a vedere, soprattutto la mattina...
Scritto da: Gabriele Poli 1
gli occhi del condor
Partenza il: 20/06/2002
Ritorno il: 25/06/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
Arequipa è la mia città. Un’oasi verde e fertile a 2400 metri d’altitudine. Una valle circondata da vulcani maestosi che si elevano e a volte superano i 6000 metri. Qui si respira un’aria frizzante e piacevole, l’aria dell’eterna primavera. Arequipa ha un milione di abitanti, ma non lo dà a vedere, soprattutto la mattina presto. Percorro le vie del centro ancora addormentato, cercando di non fare troppo rumore con l’auto a trazione integrale che ho noleggiato. In Plaza de Armas faccio una sosta brevissima per riempirmi gli occhi d’immagini. La bianca cattedrale riceve il consueto abbraccio del sole nascente e, alle sue spalle, si delineano i dolci profili del Chachani e del Misti, i due vulcani più vicini. Mi lancio verso i due “guardiani” di granito, la porta d’ingresso alla splendida Valle del Colca. Centosessanta chilometri di strada sterrata che sale verso l’infinito; sei ore di viaggio indimenticabile. Superati i primi contrafforti vulcanici, la via sale accarezzando pascoli di “ichu”, la fresca erbetta degli altipiani andini. Poco lontano, gruppi di timide vigogne mi osservano con dolcezza, ma anche allarmate. L’altipiano di Aguada Blanca è zona protetta, dove questi eleganti animali possono vivere liberi, ma non del tutto sicuri. Esistono ancora bracconieri, infatti, che sfidano le leggi dell’uomo e della natura, insidiando le vigogne per appropriarsi della loro lana, la più preziosa della terra. A 4350 metri, il freddo si fa più intenso, ma il cielo è di un azzurro mai visto e il sole sorride. Un lieve cerchio alla testa mi ammonisce; il “soroche”, il mal di montagna che può colpire all’improvviso, è in agguato. Parcheggio presso il ciglio della carreggiata e mi avvicino alla capanna di fango e paglia che sorge lì vicino. Una famiglia di scuri maiali mi osserva incuriosita, due lama ruminano scuotendo la testa, quasi a disapprovare l’intrusione. Una vecchia india esce dalla buia dimora, l’ampia gonna a più strati che le svolazza intorno. Non parla. Rumina anch’ella, come i suoi lama, poi sputa a terra un denso grumo scuro di saliva e foglie di coca. Mi guarda negli occhi, capisce il mio disagio, nota il pallore del mio volto. Annuisce e mi porge una tazza fumante di “mate de coca”, l’infuso di foglie che allontana il malessere. Rinfrancato, riprendo il cammino. La strada inizia a scendere e sotto ai miei occhi, come mille serpenti, si snodano le “andenes”, il miracolo dell’uomo. Sono terrazzamenti costruiti dagli antichi “Collaguas”, gente che rispettava la “Pachamama”, la madre terra che, soddisfatta, offriva in cambio messi copiose. La Valle del Colca. Colca, in Runa-Simi, la lingua degli uomini, significa magazzino; questa era la terra dei raccolti copiosi, conservati nelle “colca”, le numerose piccole grotte ancora aperte sui fianchi dei rilievi. Le Colca erano pure un gruppo di stelle, le sette sorelle -da noi occidentali conosciute come “Pleiadi”- che, durante le luminose notti andine, sorridono da lontano. Numerosi petroglifi raccontano la vita e le tradizioni di un popolo dimenticato. La chiesa di Yanque è una delle più belle fra le sedici della vallata. I templi cattolici sono costruiti in “sillar”, la bianca pietra vulcanica che ha ispirato gli architetti di Arequipa per gli edifici della “Ciudad Blanca”. Chivay è il paese principale della valle; le donne indossano costumi di mille colori, splendidi quadri viventi. Gli uomini, discendenti dei Collaguas, passano lenti, accompagnati da lama e asini carichi di fascine. Esco dal villaggio e mi avventuro verso la “Cruz del Condor”. Laggiù in fondo, come una lunga e profonda ferita, si apre uno dei più spettacolari abissi della terra, il “Cañon del Colca; fra le alte pareti di pietra, scorre il turbolento rio Colca, paradiso del rafting. Il vento è impetuoso. Vago con lo sguardo e la sorte mi regala una scena antica. Due punti scuri si avvicinano librandosi nel cielo, ingrandiscono; due alianti di piume planano verso di me. Mi inginocchio commosso, posando lo sguardo sugli occhi del condor.


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