Patagonia, Terra del Fuoco e Falkland: la selvaggia bellezza del sud del mondo
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In questa prima parte del viaggio in Patagonia siamo in 4: io, Valeria di Monza, Maddalena di Torino e Luca di Locarno (CH). Più avanti ci raggiungeranno altri 6 viaggiatori, per continuare in Terra del Fuoco e dopo alle Falkland.
14 febbraio: arrivo a Punta Arenas
Arriviamo a Punta Arenas la sera di San Valentino. Niente vento, cosa che per questa regione è abbastanza sorprendente, temperatura 15 °C. Volevamo andare al famoso ristorante “La Luna” in calle O’Higgins, ma non avevamo calcolato il pieno del 14 febbraio. Dobbiamo ripiegare sul ristorante Beagle, poco più avanti, dove per un po’ di ceviche e un piatto di carne con le patatine fritte ci fanno aspettare un’ora e quaranta.
Notiamo subito che lungo le vie della città ci sono un sacco di scritte che ricordano la rivolta popolare iniziata a ottobre dell’anno scorso, per un salario migliore e maggiore uguaglianza sociale. Qualche assembramento si forma ancora ogni tanto: purtroppo abbiamo modo di sperimentarne direttamente le conseguenze. La strada che porta all’appartamento Entre Fronteras dove alloggiamo passa davanti alla caserma della Gendarmeria de Chile. Per un errore di comunicazione i soldati ci fanno passare proprio nel momento in cui arriva a tutta velocità la camionetta blindata che ogni venerdì sera sparge gas urticante per le strade. Un getto violento di gas ci investe in pieno. I soldati si accorgono del guaio e cercano di soccorrerci, ma ormai è troppo tardi. Impossibile tenere aperti gli occhi, che bruciano e lacrimano per mezz’ora. Niente acqua, che favorirebbe la diffusione del gas a contatto con la pelle. Un’esperienza che non auguro a nessuno.
Il primo impatto con il Cile non è stato affatto positivo.
15-17 febbraio: verso Puerto Natales e il parco Torres del Paine lungo la Carretera Austral
Dopo esserci ripresi dalla brutta esperienza della prima serata, riusciamo a dormire abbastanza bene. Al mattino torniamo in aeroporto a ritirare l’auto che abbiamo noleggiato. Abbiamo scelto un’auto normale con bagagliaio ampio, perché non c’è affatto bisogno di un fuoristrada in questa regione, anche se dovremo fare qualche tratto di sterrato.
A Punta Arenas finisce (o inizia, se uno va in direzione sud-nord: questione di punti di vista) la RN 9 o “Carretera Austral”, che collega Santiago del Cile con il sud del paese lungo un percorso di circa 3500 km. E’ una strada un po’ per modo di dire: in realtà il percorso stradale si interrompe in più punti e ci sono numerosi tratti di mare da fare in ferry, uno anche piuttosto lungo.
Da anni il governo cileno ha in progetto di costruire una vera e propria strada che arriva fino all’estremo Sud del paese. La recente scoperta di ingenti giacimenti petroliferi nella regione australe potrebbe finalmente dare un impulso alla realizzazione di questa opera. Oggi il tragitto tutto via terra è possibile solo passando attraverso l’Argentina, percorrendo la Ruta 40 fino a Rio Gallegos sulla costa atlantica e poi rientrando in Cile poco prima della Terra del Fuoco. Se si noleggia una macchina a Santiago, questa opzione risulta poco conveniente a causa degli alti tassi di importazione temporanea del veicolo applicati dalla dogana argentina.
Il termine “Carretera Austral” è riferito specificamente agli ultimi 1700 km del tragitto attuale, che vanno da Chaitèn nella regione di Aysèn (raggiungibile in ferry da Hornopirèn, dopo Puerto Montt, o dall’isola di Chiloè) a Punta Arenas.
Noi facciamo la Carretera Austral in direzione nord, da Punta Arenas verso Torres del Paine. All’uscita da Punta Arenas, lasciate le ultime casette colorate con i giardini fioriti di lupini rosa e lillà, un grande cartello verde ci informa che stiamo per approcciare la “Ruta del fin del mundo”, termine che mette un po’ di inquietudine. Il cartello descrive anche il cosiddetto “Circuito Aonikenk”, lungo il quale si spostavano le antiche tribù nomadi della Patagonia.
La “Ruta del fin del mundo” è il tratto finale della Carretera Austral. La strada raggiunge Puerto Natales (km 250), poi Cerro Castillo (km 310) e finalmente il Parque Torres del Paine (km 360). Il percorso si snoda tra praterie sconfinate, tocca laghi e fiordi che si insinuano tra una miriade di isolotti, costeggia la Cordillera Chilena con le vette perennemente innevate e per un tratto corre lungo il confine con l’Argentina. I paesaggi sono notevoli. Ci si ferma spesso a scattare foto alle placide mandrie che pascolano nelle vallate o ai gauchos intenti a governare greggi. Scegliamo il percorso ovest che porta direttamente al lago Grey, dove abbiamo intenzione di fare la navigazione verso i ghiacciai. La strada è in parte asfaltata, in parte in “ripio”, cioè roccia nera pressata, in parte in ghiaia. In generale, il fondo è buono e non crea problemi di guida. Sul ripio si va come sull’asfalto, sulla ghiaia si può andare a 60-70 km/h senza problemi, salvo ovviamente i tratti di montagna. Lungo il percorso si incontrano pochissime macchine, al punto che quando si incrocia un veicolo è consuetudine un lampeggio di saluto con i fari o fare ciao ciao con la mano.
Puerto Natales
Puerto Natales (20.000 abitanti) è il primo centro abitato degno di tal nome che si incontra lungo la Carretera Austral in direzione Nord, a 250 km da Punta Arenas. La cittadina è carina, con le sue case di legno dipinte a colori pastello. Molto bello il lungomare che inizialmente penserete essere un lungolago, salvo ricredersi dopo essere stati informati che la città si affaccia su una lunga e stretta insenatura oceanica. Si tratta del Seno Ultima Esperanza, un fiordo che si insinua fin qui dalle coste del Pacifico, al termine di 120 km scavati tra spaccature e stretti golfi. Il porto di Puerto Natales è il capolinea meridionale dei traghetti che percorrono i fiordi della costa cilena dell’Oceano Pacifico.
Abbiamo scelto questa cittadina come base per i trasferimenti giornalieri verso il Parco Torres del Paine. Evitate di alloggiare direttamente all’interno del parco, perché i prezzi sono proibitivi. Il nostro alloggio sono gli appartamenti Dorotea Loft, in posizione centrale in calle Eberhard. A poco più di 100 metri, in calle Phillippi, ci sono i meravigliosi murales di Angelino Sotocea, dipinti nel 1996 e restaurati due anni fa, che raffigurano scene delle vita e episodi storici degli indios Aonikenk e Kawesqar, sterminati dall’alcool, dal vaiolo e dalle malattie veneree portate dai “conquistadores”. Questi eccezionali murales sono assolutamente da non perdere.
Una passeggiata sul lungofiordo è imperdibile, specialmente al tramonto se avete la fortuna di beccare una giornata di sole. Tra gruppi di cigni bianchi dal collo nero che nuotano nelle acque calme del fiordo e le centinaia di sterne e cormorani appollaiati sul molo, con le vette innevate della Cordillera Patagonica sullo sfondo, vi colpirà subito lo spettacolare “Monumento al viento”, che raffigura un ragazzo e una ragazza in volo trascinati al cielo dalla forza del vento.
Il lungomare, il monumento, gli stormi di uccelli, le montagne sullo sfondo, rendono questo luogo affascinante. Sedetevi su una panchina e lasciate correre lo sguardo fino alle vette innevate della cordigliera: magari, come me, vi troverete senza accorgervene a pensare a chissà che cosa. Forse al rapporto tra l’uomo e l’ambiente, forse alla vita nel sud del mondo, forse alla purezza della natura incontaminata. Dopo però, devo essere sincero, più prosaicamente abbiamo pensato a una bella cioccolata calda in uno dei tanti pubs di questa piacevole cittadina.
Per la cena abbiamo scovato l’eccellente ristorante Kawesqar (stesso nome di una delle etnie indie) a 100 metri dal nostro alloggio. Lo riconosci facilmente perché all’ingresso in vetrina c’è un quarto di agnello allo spiedo messo a cuocere sulla brace. Pantagrueliche grigliate di carne, alte come una montagna e tenute assieme da un lungo spedino d’acciaio, oppure il pesce che preferite cotto o marinato come “ceviche”, con limone, cipolla e peperoncino, accompagnate dall’ottima birra Austral, per una cifra attorno a 20 €. Fatevi portare sempre al tavolo anche il “chimichurri”, la salsina piccante con cui i cileni accompagnano qualunque cosa e che è buonissima sul pane. La specialità della casa è proprio il cordero chimichurri, cioè l’agnello con salsa piccante.
All’uscita da Puerto Natales c’è lo sconcertante “Monumento de la mano”, che rappresenta una gigantesca mano aperta che spunta dal suolo, un classico in Sudamerica. Poco più avanti a una rotonda c’è una replica a grandezza naturale del “milodòn”, un animale preistorico erbivoro simile a un bradipo gigante, dove tutti si fermano a fare le foto ricordo. Una ventina di km più a nord, ben segnalata sulla RN 9, c’è la Cueva del Milodòn, un insieme di caverne dove sono stati trovati i resti di una colonia di questi animali estinti.
A Puerto Natales ci sono molte agenzie che organizzano tour di navigazione lungo il fiordo, oppure gite a Torres del Paine. Se volete, per 100 dollari tutto compreso vi portano anche in Argentina a vedere il famoso ghiacciaio Perito Moreno, andata e ritorno in giornata.
Navigazione sul lago Grey
Entriamo nel Parque Torres del Paine dall’ingresso sud-ovest, l’Administraciòn Rio Serrano. Ci dirigiamo subito verso l’Hosteria Grey, per vedere gli orari delle crociere sul lago, che oggi verranno sicuramente operate perché c’è poco vento.
Scegliamo la crociera delle 13.30. Sul lago vediamo subito i primi iceberg che si sono staccati dal ghiacciaio, trascinati dal vento fino in prossimità del molo. Due condor ci osservano guardinghi. Il ghiacciaio è in fondo al lago. Lo si raggiunge dopo circa un’ora di navigazione sull’acqua grigio-verde appena increspata dall’imprevista bonaccia. Il catamarano costeggia pareti di roccia a strapiombo, tra le quali ogni tanto si aprono spettacolari vedute del massiccio Paine visto da Ovest. Mano a mano che ci si avvicina al fronte del ghiacciaio, si moltiplicano gli ooohh di stupore miei e dei compagni di viaggio. Davanti al ghiacciaio si rimane a bocca aperta. Dal Cerro Condor e dalle montagne del Parque Nacional Bernardo O’Higgins, che confina a nord-ovest con Torres del Paine, scendono tre lingue di ghiaccio separate tra loro da contrafforti montuosi. In totale il ghiacciaio si estende per 5 km e il fronte sul lago è alto una trentina di metri. I blocchi di ghiaccio assumono colori dal bianco all’azzurro intenso, secondo la quantità d’aria che rimane inglobata durante il congelamento dell’acqua. La lingua più bella è quella centrale, che si è solidificata formando una serie di spettacolari guglie di ghiaccio azzurro e turchese.
Il capitano ferma spesso la barca davanti al ghiacciaio, per permetterci di scattare le foto o semplicemente per lasciarci ammirare lo spettacolo naturale. Mentre siamo lì con lo sguardo rapito dai pinnacoli di ghiaccio e dallo scenografico contorno di montagne innevate, un marinaio ci chiama a raccolta. Sorpresa: davanti al ghiacciaio Grey ci hanno preparato un brindisi con il pisco, la bevanda alcolica a base di distillato d’uva con limone tipica dei paesi andini. Salute!!!
La gita sul lago Grey è costata 80 dollari a persona, ma davvero ne è valsa la pena.
Parque Nacional Torres del Paine
Torres del Paine si raggiunge da Puerto Natales continuando lungo la RN 9 per 120 o 150 km, secondo quale ingresso (“guarderia”) si sceglie.
I panorami di questo parco sono mozzafiato. Guglie di roccia, laghi di montagna, pinnacoli innevati, fiumi e cascate si aprono allo sguardo sorprendendo mille volte il visitatore. I massicci e le torri sono maestosi e impressionanti. Imprimono negli occhi e nella mente immagini e sensazioni di potenza, di imponenza, di esuberanza che pochi luoghi al mondo sono capaci di trasmettere.
Le vette principali sono: Cerro Paine Grande (3050 m), Torre del Paine (2800 m), Cerro Paine Medio (2450 m), Cuernos del Paine (2800 m), Cerro Catedral (2200 m). Il vento e il ghiaccio hanno modellato i picchi del massiccio del Paine in forme e stratificazioni stranissime, che si possono vedere solo qui.
Torres del Paine si gira bene in macchina, lungo strade di ghiaia o di sterrato che non creano nessun problema di guida anche con un’auto normale.
Dietro ogni curva, dietro ogni promontorio, aspettatevi una sorpresa: può essere una cascata, può essere un arcobaleno tra i monti, può essere un branco di guanachi, oppure un’aquila che vi volteggia sopra la testa, o un prato colorato di fiori simili alle stelle alpine. Oppure può essere anche una folata di vento che ti porta via, o una doccia imprevista a causa degli spruzzi dell’acqua sollevati dal vento… anche questo fa parte della visita.
Entrando dalla Guarderia Sarmiento, il giro percorre la Valle Francés, che offre vedute spettacolari dei “Cuernos del Paine”, poi si costeggia il lago Nordenskjöld con un eccezionale mirador proprio sotto il Cerro Paine Grande, quindi si attraversa un altro avvallamento che porta al lago Pehoè. I colori dell’acqua dei laghi a Torres del Paine sono uno spettacolo a sé stante: blu intenso il lago Sarmiento, verde-turchese il lago Pehoè, grigio (omen nomen) il lago Grey, bianco sporco la laguna Amarga, verde il lago Nordenskjold.
Il panorama con la vista delle vette è davvero sublime se avete la fortuna di vedere il massiccio sgombro di nubi illuminato dalla luce del sole al tramonto.
Altri tratti che dovrebbero facilmente rientrare in una visita di un paio di giorni:
– il circuito dell’area nord-est del Parco, che costeggia il Rio Paine e raggiunge Laguna Amarga, Laguna Verde e Laguna Azul. Sul percorso si incontra la stupenda cascata “Salto del Paine” sempre avvolta in un arcobaleno generato dalla luce del sole tra gli spruzzi d’acqua.
– il circuito ovest, che porta al lago Grey e all’omonimo ghiacciaio.
– il circuito nord che passa dietro le guglie che danno il nome al parco e consente di raggiungere il Mirador Las Torres posto proprio sotto i pinnacoli di roccia.
– il circuito sud che porta al lago Sarmiento e alla guarderia Rio Serrano.
Tutti questi percorsi si fanno in auto senza problemi. In moltissimi punti si aprono sentieri di trekking, che richiedono dai 30-40 minuti (come quello che si snoda lungo la costa sud del lago Grey e porta al Mirador Grey), a 2 ore (es. quello per raggiungere il Mirador Las Torres che arriva proprio sotto le tre guglie che danno il nome al parco). Chi vuole può anche visitare l’intero parco a piedi, seguendo il percorso di trekking detto “W” da fare in più giorni, noto agli appassionati di escursionismo di tutto il mondo. Lungo i sentieri più battuti sono collocati numerosi rifugi dove si può alloggiare.
Alla visita del Parque Torres del Paine bisognerebbe dedicare almeno 2 giorni, che è una durata che permette di vedere quasi tutto, coniugando giri in auto con passeggiate nei punti più spettacolari.
Il biglietto di ingresso in alta stagione (ottobre-aprile) costa 25.000 pesos, cioè circa 30 € per noi visitatori stranieri. I cileni pagano solo 5.000 pesos, oppure entrano gratis se sono over 65. Il biglietto vale 3 giorni, durante i quali potete entrare e uscire a piacere quante volte volete da qualunque ingresso.
Gli animali del Parque Torres del Paine
Come in ogni parco degno di tal nome, anche a Torres del Paine è molto facile avvistare gli animali che lo popolano: vedrete senz’altro numerosi branchi di guanachi, e con ogni probabilità anche i nandù, uccelli patagonici che non volano, parenti più piccoli degli struzzi africani. Noi abbiamo avuto la fortuna di vedere parecchi caracara, i condor, una volpe rossa patagonica (“zorro culpeo”), una coppia di bandurria (ibis patagonici), le anatre colloblu, i queltehue che sono delle specie di tortore locali, i fenicotteri e gli elegantissimi cigni dal collo nero nelle lagune del parco. Praticamente, gli unici animali patagonici che non abbiamo visto sono i puma, che si muovono solo di notte, e gli huemules, i cervi di questa regione, che sono molto schivi e mi dicono anche sempre più rari.
Gli animali sembrano avvezzi alla vista dell’uomo e delle auto, e generalmente non mostrano segni di insofferenza. I guanachi (che appartengono alla medesima famiglia dei cammelli) hanno un comportamento singolare: piazzano 2 o 3 maschi in un punto elevato, che fanno da guardie vigilando sulle femmine e sul resto del branco, eventualmente ordinando la fuga in caso di pericolo. Se vi avvicinate con circospezione, molto semplicemente staranno lì a fissarvi con uno sguardo più stupito che preoccupato. Ma attenti a non avvicinarvi troppo, perché i simpatici camelidi hanno il vizietto di sputacchiare qua e là per intimorire chi rappresenta una minaccia potenziale, e vista la portata dello sputo si rischia di fare la doccia.
18 febbraio: Punta Arenas
Torniamo a Punta Arenas per ricongiungerci con la seconda parte del gruppo che arriva dall’Italia. Si aggiungono a noi Valeria e Ignazia di Genova, Fabio di Milano, Mariangela di Torino e la guida Piero Bosco di Viaggi Polari che è anche l’organizzatore di questa seconda parte del viaggio e di quella successiva alle Falkland. Più avanti ci raggiungerà anche Stefano di Monza.
La capitale della Patagonia cilena, o meglio della provincia di “Magallanes y Antarctica Chilena”, è una cittadina di circa 100.000 abitanti posta sull’istmo davanti alla Terra del Fuoco. La città è battuta per 8-10 mesi all’anno da un vento fortissimo, in particolare durante l’estate australe (dicembre-febbraio).
La città, vento a parte, è piacevole e inaspettatamente molto colorata: ci sono edifici color pastello un po’ dovunque, mercatini degli indios che vendono per 3-4 euro delle belle sciarpe di alpaca e …nota curiosa, dei divertenti e vivaci murales “trompe-l’oeil” dipinti a colori vivaci sugli edifici del lungomare. I punti più importanti sono
– il lungomare, con i murales e i cormorani appollaiati sui moli
– il monumento ai liberatori della Terra del Fuoco
– il palazzo Sara Braun
– il monumento in bronzo dedicato ai pastori (“monumento al ovejero”)
– il cimitero (“Cementerio Municipal Sara Braun”), dove tra cipressi accuditi con cura da una squadra di giardinieri, i sepolcri ornati delle famiglie più abbienti convivono con modeste tombe cadenti
– il monumento a Ferdinando Magellano in Plaza de Armas. Dicono che porta fortuna baciare il piede del marinaio negro sul basamento …ma in tempo di coronavirus, di cui si parla anche qui, ci limitiamo a toccarlo
Tra i musei decidiamo di visitare il Museo Regional Salesiano Maggiorino Borgatello, in Avenida Presidente Bulnes vicino al santuario Maria Auxiliadora. Il museo consente una full immersion etnologica, storica e biologica sullo stretto di Magellano, distribuita su 4 livelli che a loro volta si ripartiscono nelle sezioni di etnologia, archeologia, storia, flora e fauna. Le sale con aspetti di vita degli indios valgono da sole la visita. Se, potete, dedicate un paio d’ore alla visita di questo museo.
A Punta Arenas ci sono ottimi ristoranti, molti concentrati nella calle O’Higgins che è parallela al lungomare. Riusciamo finalmente a cenare al ristorante “La luna”, colpiti dall’ambiente interno pieno di bottiglie e lattine appese la muro, e di raffigurazioni della luna in blu e oro. Menu a base di pesce, chiaramente. Questo è il posto più adatto per farsi una scorpacciata di “centolla”, cioè il grande granchio a 7 zampe del Pacifico. Questa specie però è in via di estinzione a causa della pesca eccessiva, così un rigurgito di coscienza ecologica mi spinge a rinunciare allo squisito crostaceo. Poco male: puntate sulle eccezionali capesante (“ostiones”) al roquefort, o sul semplice ma eccellente “congrio frito” (grongo del Pacifico). Volete proprio strafogarvi? Per voi c’è il “Gran plato de la luna”, un eccezionale misto di frutti di mare in cui spiccano delle enormi cozze verde scuro (choritos), che con 3 o 4 di quelle uno è già pieno, in mezzo a una cornucopia di almejas (vongole), locos (grossi molluschi monovalvi), ostiones (capesante), camarones (gamberi), chipirones (calamari). Tutto questo ben di dio, innaffiato con un ottimo sauvignon o un malbec, vi costerà più o meno 25.000 pesos (30 €).
Per i carnivori questo ristorante propone un’ottima specialità locale alternativa al pesce: lo stufato di “cordero magallanico”, una specie di pecore grosse come vitelli che qui viene allevata soprattutto per la grande quantità di lana dello spesso mantello, oltre che per la carne ad alto contenuto proteico.
Una curiosa alternativa è il Café Restaurante Submarino Amarillo in Avenida Colón. Qui le simpaticissime cameriere sono vestite come i Beatles sulla copertina dell’album “Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band “.
I segni delle proteste popolari di ottobre e mesi successivi sono evidenti in vari punti della città. Resti di incendi, saracinesche divelte e muri tappezzati da scritte di protesta. Dovunque campeggia l’acronimo ACAB (= “all cops are bastard”, ma anche iniziale del verbo acabar, cioè deve finire, deve terminare). Insulti all’attuale presidente Piñera: assassino quando va bene, oppure CTM, che per ragioni di decenza non posso tradurre. Dello spargimento di gas al venerdì sera, in cui siamo stati coinvolti direttamente, ho già detto all’inizio del racconto.
Punta Arenas è la nostra base per la visita della provincia di Magallanes. Alloggiamo all’hotel Finis Terrae, in centro.
19-21 febbraio: stretto di Magellano
Prima giornata dell’esplorazione della provincia di Magallanes dedicata al condor, signore delle vette e del vento. Lasciamo Punta Arenas in direzione nord verso Rio Verde, dove c’è l’estancia Olga Teresa. Vediamo molti nandù e qualche guanaco pascolare ai lati della strada lungo il cammino.
Il condor è un uccello a rischio di estinzione. In tutta l’America meridionale ne rimangono non più di 10.000, diffusi sulle Ande dall’Ecuador fino al Cile. L’80% vivono in Cile e in Argentina. Vicino all’estancia c’è una delle più grandi “condoreras” cilene, con 150-200 esemplari. La condorera è uno sperone di roccia alto 2-300 metri nei cui anfratti i condor nidificano. Dobbiamo stare lontani, almeno a 300 metri, per cui l’organizzazione fornisce dei binocoli per osservare meglio gli uccelli e i nidi. Per chi non ha un teleobiettivo a focale lunga (da 600 mm in su) le guide hanno studiato un sistema che permette di scattare foto posizionando il cellulare davanti a un potente binocolo. Ogni tanto dalla condorera si levano in volo coppie di condor che descrivono ampie volte sopra le nostre teste lasciandosi trasportare dal vento quasi senza sbattere le ali, con un’eleganza eccezionale.
La seconda escursione in questa regione è dedicata alla visita di due delle tante isole che affiorano nello stretto di Magellano: Isla Marta e Isla Magdalena. Isla Marta è un piccolo promontorio di roccia che i leoni di mare e i cormorani si spartiscono con rispetto reciproco. I pinnipedi stanno sulla spiaggia a litigare tra loro per la difesa o il possesso dell’harem, mentre i cormorani schiamazzano nella parte superiore della scogliera. Il battello si avvicina fino a una cinquantina di metri, sbatacchiando qua e là masse di kelp spesse e pesanti, ma è proprio tra il kelp che c’è la maggiore crescita di krill e plancton che dà nutrimento agli animali.
Proseguiamo verso Isla Magdalena, dove c’è l’ultima delle pinguineras rimaste nello stretto di Magellano. In Terra del Fuoco arrivano nel periodo estivo, tra ottobre e marzo, molti gruppi di pinguini di Magallanes provenienti dall’Argentina, dalle isole Falkland e persino dal sud del Brasile, secondo quanto asseriscono i guardiani dei parchi. I “pinguini di Magallanes” sono di taglia piccola (sono alti al massimo 40-50 cm) e sono abilissimi nuotatori.
I pinguini presenti oggi sono solo qualche migliaio, rispetto a qualche anno fa quando se ne contavano decine di migliaia di coppie. Infastiditi dai turisti, che scorrazzano senza ritegno tra i nidi, i pinguini a poco a poco stanno abbandonando questa isola cercando luoghi più isolati e meno disturbati. Non è difficile prevedere che tra qualche anno non ce ne saranno più nemmeno qui. In un precedente viaggio avevo visitato la pinguinera del seno Otway, poco distante da punta Arenas. Da qui i pinguini sono andati via tutti circa 3 anni fa.
Da marzo in poi, quando i freddi venti del sud patagonico cominciano a farsi sentire, i pinguini di Magallanes fanno a nuoto il lungo percorso a ritroso verso le zone di origine, cioè la penisola di Valdés in Argentina, le Falkland, le coste del Mar de La Plata in Uruguay e raggiungono persino quelle del sudest del Brasile.
Per la terza escursione nel Sud del mondo levataccia alle 4 di mattina. La nostra meta è il Parque Marino Francisco Coloane, che si estende tra le insenature a ovest della Terra del Fuoco. L’obiettivo sono le balene che d’estate popolano i fiordi.
Si parte dal molo di Punta Carreras, una cinquantina di km a sud di Punta Arenas. Il catamarano Magallanes (qui tutto si chiama Magallanes, non è che abbiano una gande fantasia) passa davanti al faro di San Isidro e costeggia la penisola Brunswick fino a Cabo Froward, che è il punto più a sud dell’America continentale (ovviamente in assoluto, considerando anche le isole, il più a sud è Capo Horn). Un gruppo di bellissimi delfini di Peale, dalla caratteristica livrea bianca sul corpo, ci fa compagnia durante la navigazione. Saranno almeno una trentina e si divertono a superare il catamarano e poi a lasciarsi indietro per riagguantarlo poco dopo. Sono velocissimi: il catamarano viaggia a 25 nodi, cioè circa 45 all’ora, ma i delfini dimostrano di poterlo tranquillamente battere in velocità.
A Capo Froward osserviamo la Cruz de Los Mares, posta sul morro di Santa àgueda in omaggio alla visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1987.
La navigazione prosegue tra i meravigliosi paesaggi di questa parte del mondo, passando davanti a colonie di cormorani e di pinguini di Magallanes, quando finalmente compare lo spruzzo della prima balena. Siamo all’altezza della Isla Carlos III. Ogni anno un gruppo di megattere (humpback whales) viene in queste acque ricche di nutrimento. E allora alé, tutti fuori con macchine fotografiche, telefonini e teleobiettivi come cannoni pronti a cogliere l’apparizione dei cetacei. In un paio d’ore ne abbiamo viste circa una trentina, con doverosi affondamenti e esposizione delle code, quelle foto che poi riguardi decine di volte e mostri con orgoglio agli amici. Due balene fanno anche breaching, cioè compiono enormi balzi fuori dall’acqua per ricadere pesantemente sollevando spruzzi alte decine di metri.
Lasciamo le balene per proseguire all’interno dei fiordi fino al Glaciar Helado (ghiacciaio gelato, persiste la carenza di fantasia per i nomi). Sull’acqua turchese scorrazzano sterne, procellarie, fulmari e albatros. Molti uccelli si portano proprio accanto al fronte del ghiacciaio, perché in questo punto c’è accumulo di nutrimento proveniente dal permafrost sotto la crosta ghiacciata. Dalle montagne circostanti scendono cascate che finiscono direttamente in mare. L’acqua verde-turchese riflette i raggi del sole che intanto hanno forato le nuvole. I panorami di questi territori sono davvero meravigliosi.
Una bellissima escursione di una giornata che consiglio vivamente a tutti. Organizza Solo Expediciones di Punta Arenas. Costo 280 dollari a persona, pasti e pisco con ghiaccio millenario dei ghiacciai inclusi. Certamente non costa poco, ma lo spettacolo che vi scorrerà davanti agli occhi vale assolutamente lo sforzo economico.
22-29 febbraio: le Falkland
Ogni sabato un volo della LATAM collega il Cile con l’aeroporto militare di Mount Pleasant nelle Falkland (o Malvinas, secondo i punti di vista). Una volta al mese l’aereo atterra anche a Rio Gallegos in Argentina. Questo volo è l’unica alternativa alle crociere per raggiungere queste isole.
Il nostro programma di viaggio prevede la visita di Port Howard, a West Falkland, e di Pebble Island e Saunders Island nel nordovest dell’arcipelago. I voli interni sono gestiti dalla FIGAS (Falkland Islands Government Air Service), che opera con i piccoli Britten-Norman a elica da 6-8 posti. A parte la pista vicino alla capitale Stanley, tutte le altre sono in erba e la cosa più curiosa quando stai per atterrare è che in pista ci sono le pecore, che scappano precipitosamente quando il rumore del motore si fa più forte. Nell’ufficio di Stanley fanno bella mostra le scritte “I love FIGAS”, col cuore, e “I flew FIGAS …and survived”. L’aereo vola a circa 200 km/h e a un’altezza di 3-400 metri, che consente di apprezzare i magnifici panorami dell’arcipelago. In cabina si può portare solo la macchina fotografica e il bagaglio non deve superare nel complesso i 20 kg. Per ogni kg eccedente si pagano 3.5 sterline per ogni tratta.
Port Howard
Prima tappa a Port Howard, West Falkland, nel lodge dei signori Sue Lowe e Wayne Brewer, pieno di articoli vintage, di velluti e di bottiglie di porto intatte da chissà quanti anni. C’è anche un piccolo museo con vari reperti della guerra anglo argentina del 1982. Rimaniamo qui 2 notti.
Port Howard, 25 abitanti, 45000 pecore e 500 vacche, è l’insediamento più numeroso di tutta la parte Ovest delle Falkland. La lana delle pecore e le visite dei turisti forniscono alla famiglia Brewer il necessario sostentamento, mentre i viveri li porta un ferry che ogni giorno alle 9 e mezza raggiunge la baia, accompagnato da un corteo di giocherelloni delfini di Commerson, piccoli con una grande pezza centrale bianca, che balzano dentro e fuori davanti al cargo. Con le jeep attraversiamo la brughiera e raggiungiamo White Rock, una scogliera a due ore e mezza di fuoristrada dall’insediamento. Lungo la strada ci fermiamo a vedere i resti di un Mirage argentino abbattuto dalla contraerea. Qui a Port Howard gli argentini installarono una base che nel periodo della guerra ospitava più di 1000 militari.
White rock è popolata da una numerosa colonia di cormorani imperiali, con accompagnamento di gabbiani grigi, skua, avvoltoi e caracara. C’è anche un piccolo gruppo di pinguini rockhopper (saltaroccia), quasi tutti esemplari giovani perché gli adulti sono in mare per l’approvvigionamento di cibo.
Pebble Island
Lasciamo Port Howard per raggiungere Pebble Island (“l’isola dei ciottoli”), nel nordovest delle Falkland, con un volo di 15 minuti tra panorami stupendi visti dall’alto. Il Pebble Lodge è grande e accogliente ed è gestito dalla famiglia Pole, che in sostanza è proprietaria dell’isola. Si trova proprio dietro Elephant beach, 6.5 km di spiaggia bianca popolata dalle beccacce di mare dal lungo becco rosso (oystercatchers) e dai voltapietre. Anche qui pecore a go-go. Mr Pole ci dice che a causa della scarsità di erba a disposizione, ogni pecora deve avere un’area di movimento di circa 2 ettari (!).
Nei due giorni passati a Pebble Island facciamo due lunghe escursioni una verso la parte est dell’sola, l’altra verso ovest, su piste sconnesse la cui tracciatura spesso è solo un’ipotesi. In direzione est raggiungiamo Cape Tamar e Cape Evans, tra baie bellissime popolate da cormorani e pinguini gentoo. A Cape Tamar assistiamo alla scena straziante di un pinguino catturato dalle procellarie giganti e dagli avvoltoi che se lo stanno divorando. Speriamo che fosse un esemplare debole o malato.
Torniamo al lodge attraversando l’interno, costellato da una serie di laghetti (ponds) dove sguazzano fischioni, svassi ciuffati, alzavole, stornelli prataioli e gli elegantissimi cigni dal collo nero.
In direzione ovest raggiungiamo Berntsen Bay, con la meravigliosa spiaggia di sabbia bianca detta Stinker beach (che sarebbe “la spiaggia del fetente”, nome quanto mai inappropriato per uno dei luoghi più belli di tutte le Falkland). Una numerosa colonia di gentoo fa la spola tra il mare e i nidi, mentre un gruppo di avvoltoi osserva i movimenti dei pinguini con interesse. Gabbiani e grey gulls svolazzano tra gli scogli, mentre i delfini di Commerson fanno capolino tra le onde. Rimarremo 2 ore e mezza su questa spiaggia, da cui non si vorrebbe mai venire via. Spero che qualche foto allegata dal diario renda l’idea.
Proseguiamo verso Cape Coventry, dove finalmente riusciamo a trovare una colonia di pinguini saltaroccia con qualche adulto rimasto ad accudire i piccoli, anche se i pinguini sono un po’ restii ad esibirsi nei balzi tra le rocce per i quali sono famosi. La baia ospita anche un gruppo di rock shags, i cormorani dagli occhi rossi molto più rari di quelli imperiali che hanno gli occhi blu.
Poco lontano da Cape Coventry visitiamo due memoriali: uno alle pendici di Marble Mountain in onore degli aviatori argentini caduti durante il conflitto e uno sulla First Mountain eretto dagli inglesi in onore dei marinai del cacciatorpediniere lanciamissili Coventry affondato dagli argentini. Qua e là anche su questa isola sono sparsi i rottami di aerei abbattuti o precipitati (Dagger e Mirage).
Saunders Island
Altro volo panoramico della FIGAS per raggiungere Saunders Island, a ovest di Pebble. Qui l’organizzazione ha provveduto a caricarci le provviste sull’aereo, perché l’alloggio è molto spartano e la famiglia Pole-Evans che gestisce il settlement, cioè l’insediamento, non fornisce servizio di cucina. Per fortuna le donne del nostro gruppo assolvono benissimo questo compito.
Questa isola presenta forse i panorami più belli di tutte le Falkland. Ci sono zone umide e laghi permanenti, dune di sabbia e scogliere ripide. L’istmo detto “the neck” (il collo) è uno dei luoghi più spettacolari al mondo per l’osservazione di varie specie di pinguini e degli albatros.
The neck è una stretta lingua di sabbia bianchissima battuta dal vento che unisce Mount Harston e Elephant Point, a ovest, con Mount Richards a est. Si raggiunge con le consuete due ore di sballottamento su piste improbabili attraverso la brughiera selvaggia.
Arriviamo al neck in una giornata ventosa. Il vento solleva folate di sabbia bianca tra le quali si muovono ondeggiando i pinguini che vanno e vengono dal mare, per il foraggiamento proprio e della famiglia (compagna con prole o in cova).
Dirigendosi verso est si raggiunge prima la colonia dei pinguini di Magallanes, poi i pinguini gentoo dal becco rosso, poi un gruppetto di una trentina di king penguins, quelli con un colletto di piume arancione che arriva fino all’inizio del petto, poi i simpaticissimi rockhopper (pinguini saltaroccia). E’ la specie più piccola (solo 35-40 cm), ma sono bellissimi. Hanno un vezzoso ciuffetto di piume gialle a lato degli occhietti cerchiati di rosso. Vederli saltellare di roccia in roccia in fila indiana a piccoli balzi è uno spasso: sono immediatamente eletti dal gruppo come la specie più simpatica. Tanto buffi e impacciati sono mentre saltellano tra le rocce, scivolando e rotolando giù ogni tanto, tanto disinvolti appaiono quando si gettano nelle pozze tra gli scogli fino a raggiungere l’oceano. Qui diventano dei veri e propri siluri quando si immergono alla ricerca del krill, i gamberetti oceanici di cui si alimentano.
Salendo sulle pendici di Mount Richards (una collina alta 400 metri), raggiungiamo la zona di nidificazione dei magnifici “black browed albatros” gli albatros dalle sopracciglia nere, che è la specie più diffusa in tutta l’area antartica e subantartica. Magnifici uccelli che quando si alzano in volo dispiegano un’estensione alare di quasi tre metri. Vederli decollare e poi partire con pochi battiti di ali è un eccezionale spettacolo di slancio e leggerezza. Signori del vento, in volo sono un concentrato di eleganza e di potenza, soprattutto quando volteggiano sopra le onde sfiorandole appena e lasciandosi trasportare dal vento senza mai toccarle. Grazie al vento, e a una particolare abilità nello sfruttare le correnti ascensionali, riescono a percorrere centinaia e centinaia di chilometri sull’oceano alla ricerca del cibo, per poi ritornare al nido dove le femmine accudiscono i piccoli che attendono il nutrimento. I nidi sono occupati dai pulcini perennemente affamati, che aspettano il rientro di un genitore per il rigurgito del pesce. Pensare che questi albatros non sono nemmeno i più grandi: gli albatros wandering, cioè “erranti”, hanno un’apertura alare che può superare i 3.50 metri.
Scendendo dalla collina, più in basso gentoo e king fanno scaramucce per accaparrarsi venti centimetri di spazio in più per il nido, tenendo bene sottocchio gli skua e i caracara, pronti ad approfittare di qualche pulcino abbandonato o di qualche adulto ferito. Assisto alla scenetta di un gruppo di gentoo che si è messa in disparte tra le foglie di una specie di salvia gigante e guarda verso il mare, mentre alcuni del nostro gruppo camminano in fila indiana sul bagnasciuga e ogni tanto si girano scattando foto: mi chiedo chi è l’osservatore, e chi è l’osservato….
Uno spettacolo eccezionale che il sole, che nel frattempo ha bucato le nuvole, rende più vivido e brillante.
Rimaniamo quasi tre ore al “neck”: si fa davvero fatica a venire via da un posto come questo.
La seconda escursione su Saunders Island ci porta a The Rookery, altro luogo di nidificazione degli albatros che qui sono stimati in 19000 coppie, popolato anche da una piccola colonia di rockhoppers quasi tutti pulcinotti, perché gli adulti sono in mare a fare rifornimento.
Gli elefanti di mare di Kelp Point
Ultimo volo FIGAS per raggiungere Stanley, la capitale delle Falkland. In aeroporto sono già pronte le jeep che ci portano subito a Kelp Point, dopo le solite 2 ore di sballottamento su piste la cui tracciatura è quasi inesistente. Kelp Point, una settantina di km a sud di Stanley, è punto di ritrovo per gli elefanti di mare, che vengono qui in ottobre-novembre per la riproduzione e in febbraio-marzo per la muta.
Una cacofonia di grugniti, rutti, sbuffi e strombazzamenti ci accoglie all’arrivo. La colonia di elefanti di mare è numerosa: ce ne sono almeno una cinquantina. Stanno lì spaparanzati nel fango o sulla battigia in attesa di cambiare la pelle. I maschi sono colossali: 6 metri di lunghezza per 4 tonnellate di peso e un paio di metri di larghezza. Uno degli animali più grandi del mondo. Oltre che per la mole, si riconoscono anche per la presenza di un’appendice mobile che ricorda una proboscide. Le femmine invece sono molto più piccole, dato che normalmente non raggiungono la tonnellata. Sono ricoperti da chiazze di manto chiaro che via via si staccano e vengono sostituite dal nuovo manto grigio scuro. Simpatici ciccioni che si muovono a fatica sulla spiaggia srotolando strati di grasso e fermandosi a riposare dopo ogni spostamento di qualche metro. Ogni tanto qualche maschio, pinneggiando goffamente con un ridicolo ondeggiamento di cuscinetti di grasso che si muovono ritmicamente, riesce a raggiungere l’acqua. E allora accade il miracolo: tanto impacciati e comici nei movimenti appaiono questi giganteschi pinnipedi sulla terra, tanto leggiadri e disinvolti si muovono nell’acqua, che in effetti è il loro reale ambiente naturale perché ci stanno 9-10 mesi all’anno.
Raggiungiamo poi Whale beach, poco distante, dove c’è un’altra colonia di pinguini gentoo, quindi dobbiamo rientrare a Stanley. Alloggiamo all’hotel Malvina House.
Stanley
Nella capitale delle Falkland vivono circa 2500 dei 2900 abitanti di tutto l’arcipelago, che si fanno chiamare “kelpers”, nome che richiama il kelp, l’alga degli oceani freddi. Il borgo è un variopinto insieme di villette con i tetti dai colori pastello, che si estendono su una collinetta affacciata sulla baia. Sul lungomare ci sono tanti ricordi dell’assurda guerra anglo-argentina che nel 1982 fece 930 morti, di cui 300 nel solo affondamento dell’incrociatore argentino Belgrano. Il monumento ai caduti riporta i nomi di tutti i soldati e i civili inglesi morti durante il conflitto. L’analogo argentino si trova invece a Buenos Aires.
In Thatcher Drive troneggia il busto in bronzo della lady di ferro, ringiovanita di una trentina d’anni e ritratta con un fisico da modella. Tutto attorno, casette di legno con lupini colorati e grandi papaveri rossi e gialli nei giardini.
Pochissima gente in giro. La bianca chiesetta St Mary’s Church, cattolica, è aperta e praticamente vuota. I kelpers frequentano quasi tutti la cattedrale anglicana che si erge al centro del lungomare, facilmente riconoscibile per i mattoni rossi e per il monumento di bianche stecche di balena posto all’esterno.
La visita delle Falkland è stata organizzata da International Tours & Travel di Stanley.
Conclusione
Ripartiamo da Stanley sabato 29 febbraio, mentre le notizie sulla diffusione del coronavirus si susseguono. 5 ore di attesa estenuante all’aeroporto di Mount Pleasant, poi finalmente riusciamo a imbarcare. Si paga la tassa d’uscita di 25 sterline. Torniamo in Italia via Punta Arenas – Santiago – São Paulo. Il volo LATAM da São Paulo a Malpensa, a causa delle disdette, è praticamente vuoto ma per fortuna è operativo. Quello che troviamo in Italia è notizia di oggi. Nel frattempo, le Falkland hanno chiuso l’accesso agli europei come misura precauzionale contro il Covid-19 e il gruppo che doveva fare un giro simile al nostro rimarrà bloccato in Cile.
Grazie ai compagni di viaggio e a chi ha letto il diario e ha avuto la costanza di arrivare fino a qui.
Luigi