Rue Cave’, 21

di Patrizia S.

Il dolore si era affacciato in sordina, come al solito, e al principio non ci aveva fatto molto caso. O forse era talmente catturata dai colori delle tele di Gauguin e dagli sguardi dei ritratti di Van Gogh da riuscire ad ignorarlo. Ma quando arrivò alla sala di Rousseau il...
Turisti Per Caso.it, 07 Mag 2003
rue  cave', 21
Il dolore si era affacciato in sordina, come al solito, e al principio non ci aveva fatto molto caso. O forse era talmente catturata dai colori delle tele di Gauguin e dagli sguardi dei ritratti di Van Gogh da riuscire ad ignorarlo. Ma quando arrivò alla sala di Rousseau il Doganiere le sporadiche contratture erano diventate una spina acuta che trapassava la pianta del piede, proprio all’attaccatura delle dita. Il solito crampo, si disse. Eppure era stata accuratissima nella scelta delle scarpe quando aveva fatto la valigia. Gli stivali che portava erano comodi e ampiamente sperimentati durante altri viaggi. Eppure il dolore era tornato. Guardò l’orologio: tra camminate, file alla biglietteria e giri nelle sale, stava in piedi da almeno cinque ore. Si lasciò cadere su una panchetta provvidenziale al centro della stanza sentendosi improvvisamente stanchissima. “Adoro i musei, ma mi uccidono…” pensò. “Dovrei sfilarmi lo stivale e massaggiare il piede, ma qui, con tutta questa gente, nemmeno parlarne…”

La sala era affollatissima come quelle di qualsiasi museo parigino in quei giorni intorno alla fine dell’anno, e probabilmente nessuno avrebbe fatto caso ad una signora con un solo stivale, ma lei si limitò a tentare di articolare le dita sperando che un po’ di riposo sarebbe bastato.

“Tutto dipende da una carenza di potassio. – aveva detto un amico medico – Per far passare il tuo crampo basterebbe che mangiassi una banana”. Già, ma dove trovare una banana alla Gare d’Orsay? Dieci minuti di contemplazione sul mondo sognato del Doganiere e la sensazione dolorosa sembrò attutirsi fino ad un vago indolenzimento. Riprese prudentemente il giro delle sale, fermandosi spesso e tenendo d’occhio l’orologio per non tardare all’appuntamento davanti al guardaroba. Ma mentre scendeva le scale il dolore tornò a crescere, e quando arrivò nell’atrio zoppicava visibilmente. Piero come al solito aspettava già.

– Problemi? – Il mio solito crampo. Mi siedo qualche minuto sugli scalini e ora che arrivano Paola e Roberto sarà passato.

Anche questa volta il riposo sembrò sistemare tutto o quasi. Mentre gli uomini consultavano la guida e le mappe per capire come arrivare a Les Invalides, lei riuscì a far scivolare un po’ in giù lo stivale in modo da muovere un pochino più agevolmente le dita e sciogliere il muscolo contratto. Uscirono dal museo e l’aria gelida del Lungosenna li colpì come una scudisciata. Camminarono in fila indiana verso la stazione della metropolitana e il dolore tornò, sordo, vigliacco, irrobustito dal gelo che saliva dalla strada umida attraverso le suole. Quando iniziò anche a cadere un nevischio pungente lei guardò il cartello del metrò che sembrava lontano anni luce e quasi gridò: – Fermi tutti! Non credo di riuscire a fare altri dieci passi. Che ne direste di continuare senza di me? Io ho già visto Les Invalides anni fa e non sono una gran patita di Napoleone e degli eserciti. Prendo un taxi e me ne torno a casa a riposarmi. Faccio un bel bagno caldo, mi lavo i capelli e quando voi tornate mi trovate fresca come una rosa e pronta per andare a cena.

Piero la guardò preoccupato ma si tranquillizzò leggendo nei suoi occhi solo un bel po’ di stanchezza e voglia di rilassarsi in pace. Un provvidenziale taxi si materializzò al semaforo vicino: meglio non lasciarselo scappare perchè si avvicinava l’ora più critica del pomeriggio.

Salì sull’auto e si lasciò cadere sull’ampio sedile circondata da pacchetti e rotoli di poster che gli altri le avevano affidato.

– Rue Cavè 21, s’il vous plait.

– Rue Cavè? – ripeté il tassista facendo seguire un fiotto incomprensibile di parole.

– Parli lentamente la prego. Il mio francese non è gran che…

– Ho detto che per arrivare là a quest’ora e con questo traffico ci vorranno almeno tre quarti d’ora.

– Io non ho fretta. – rispose calcolando mentalmente quanto le sarebbe costato quel maledetto crampo – Mi basta non dover stare in piedi.

Si accomodò meglio sul sedile in modo da poter allungare la gamba e sfilare lo stivale. Finalmente qui, con lo schienale che la riparava da occhiate imbarazzanti, poteva massaggiare il piede dolente. Intorno il traffico sembrava impazzire; i fari delle auto incolonnate cominciavano a disegnare coni punteggiati di nevischio e i clacson dei parigini innervositi protestavano come quelli dei romani sul lungotevere.

Due occhi indagatori la scrutavano dallo specchietto retrovisore.

– E cosa ci va a fare una bella signora come lei in Rue Cavè? “Non sono poi tanto originali questi francesi” si disse, sentendosi però compiaciuta: ogni tanto una piccola “avance” anche se scontata, non poteva che far bene allo spirito.

– Ci abito.

– Lei è italiana, vero? E vive a Parigi? – No, sono qui in vacanza.

– Ma ha detto che “abita” in Rue Cavè! – Sto in una casa che è del fratello della mia amica. – Cominciava a sentirsi un po’ seccata di dover dare tante spiegazioni nel suo francese faticoso – Lui è venuto a passare le feste in Italia e ci ha lasciato l’appartamento.

– Così siete due belle signore sole in Rue Cavè…

– Non siamo sole, – rispose quasi sbuffando – e se anche lo fossimo che ci sarebbe poi di strano? – Non si è accorta che è una zona un po’ particolare? Un quartiere molto pericoloso…

Pericoloso? Ripassò mentalmente la piccola strada stretta, i palazzi vecchiotti che sembravano usciti dalle pagine di Simenon, il caffè fumoso all’angolo pieno di magrebini.

A pochi metri, nella trasversale, c’era un ristorante arabo e di fronte addirittura un “hammam”. Ma sì, quella propagine di Montmartre era chiaramente stata colonizzata dagl’immigrati delle ex colonie, e con questo? Lei era l’ultima persona a farsi problemi razziali e anzi, quell’atmosfera multietnica le sembrava aumentare il fascino della piccola casa nel cuore di Parigi.

All’inizio la prospettiva di quel capodanno al freddo invece di una bella vacanza tropicale l’aveva trovata poco entusiasta. D’altra parte sarebbe stato sciocco rifiutare una simile possibilità e Paola era stata così carina ad invitare lei e Piero. Poi era bastato poco per innamorarsi di quella casetta così romantica anche se piccola, e con un bagno non più grande di quello di una roulotte da dividere in quattro. Dormiva nel divano letto del soggiorno, ma la veduta sui tetti parigini con scorcio sul Sacre Coeur ripagava di qualsiasi scomodità.

– Non mi è sembrata così pericolosa. Sono là da tra giorni e non ho visto nulla di allarmante. In fondo alla strada di notte c’è sempre un’auto della polizia.

– Stanno là perchè la settimana scorsa c’è stata una sparatoria nella maison (il tono non lasciava dubbi su che tipo di casa fosse) vicino al bagno turco e gli accoltellamenti sono all’ordine del giorno. Ma di solito sono cose fra loro… Se almeno si ammazzassero tutti l’un l’altro in questo paese si vivrebbe meglio.

– Mi ci mancava solo il seguace di Lepen nella galleria degli ammiratori! – Pensò sentendosi irritata e per contrasto ancor più attrata dall’idea della casetta calda e accogliente che l’aspettava.

Tirò fuori dalla borsa una guida di Parigi e finse di immergersi nella lettura per sottrarsi a quella faticosa conversazione. Il tassista tentò ancora un paio di boutades sul traffico e il tempo, poi desistette e accese la radio.

Ci volle un giornale radio e varie telefonate di un programma in diretta per arrivare all’incrocio con Rue Cavè. Mentre l’auto girava l’angolo guardò la strada debolmente illuminata dai più classici dei lampioni: il numero 21 era nel primo isolato e in quel tratto non c’erano negozi. Sul marciapiede lucido non passava nessuno, solo, proprio a fianco del vecchio portone, un uomo sembrava in attesa. Mentre il taxi rallentava lei vide che era indiscutibilmente un arabo: la kefiah rigirata intorno al viso per proteggerlo dal freddo non lasciava dubbi. Era un tipo alto e grosso, o forse era solo il cappottone peloso che lo faceva sembrare tale. Improvvisamente tutte le sue idee “politicaly correct” andarono a farsi benedire e provò un attimo di sgomento. Il tassista dovette leggerglielo in viso mentre si girava a prendere i soldi.

– Stia tranquilla: aspetto qui finchè non la vedo entrare nel portone, madame.

Scese dal taxi zoppicando ancora leggermente. A lato del vecchio portone di legno luccicava la bottoniera d’ottone nuova fiammante, con quei diabolici tasti per la combinazione che sostituivano la chiave. Già, la combinazione…

8798 battè impaziente aspettando ansiosa lo scatto per risposta. Invece non successe nulla.

” 8798, sono sicura che il numero è esatto, – si ripeteva pestando nervosamente i maledetti bottoncini – ma allora perchè non ti apri? Mentre continuava a digitare percepiva che alle sue spalle si era formata una piccola coda di auto dietro al taxi che bloccava la strada. I clacson suonavano rabbiosi, qualcuno protestava e alla fine vide con la coda dell’occhio le auto andar via. Provò ancora una volta, imponendosi di rimanere calma e fare il numero lentamente, ma non successe nulla.

Nella penombra vide l’arabo farsi più vicino. Un braccio si allungò verso di lei.

“Madame, deve premere questo pulsante con l’asterisco dopo il numero. S’il vous plait…” La grossa mano spinse il portone e tenne galantemente aperta la pesante anta di legno.

“Bonne nouit, madame” sentì ancora alle sue spalle e, quasi contemporaneo, il tonfo della porta che si richiudeva sulla notte tranquilla.

Patrizia S.



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