Tanzania in famiglia: incontro con i bushmen Hadzabe e safari in Serengeti

Lake Eyasi e gli Hadzabe, gli ultimi cacciatori-raccoglitori, e l'emozione della grande migrazione nel Serengeti
Scritto da: oliverafrika
tanzania in famiglia: incontro con i bushmen hadzabe e safari in serengeti
Partenza il: 11/01/2015
Ritorno il: 18/01/2015
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
E’ giunto il momento di recensire il nostro secondo safari in famiglia in Tanzania. Devo ammettere che abbiamo più volte fruito delle preziose informazioni pubblicate su questo forum, ma siamo stati quasi sempre troppo pigri per condiviedere le nostre esperienze: dopo aver fatto tanti viaggi ho solo pubblicato un diario su Zanzibar qualche mese fa…che vergogna!

Sono italiano, mia moglie e tanza-svedese, nata in Svezia da papà tanzaniano e mamma svedese anche se è più mzungu (europea) di me – ha visto l’Africa per la prima volta a 25 anni e il mio kiswahili è migliore del suo – viviamo a Nairobi dal 2013 con i nostri due figli, Malcom – 12 anni – e Marta – 10. Il mio lavoro mi ha portato in Africa negli ultimi 15 anni, ho già avuto modo di visitare i parchi della Tanzania in passato.

Uno degli aspetti positivi di vivere in una città caotica e trafficata come Nairobi è che alcuni dei posti più belli dell’Africa sono fuori dalla tua porta di casa: da qui si può andare a Nayvasha, Nakuru, Amboseli o Tsavo per il weekend, si vola sulla costa del Kenya in un’ora e in un’ora e mezza si è a Zanzibar. Arusha, la capitale tanzaniana dei safari, è a 3 ore di auto.

Siamo da poco tornati da una splendida settimana in Tanzania. Avevamo fatto un safari in Tanzania tutti assieme già l’anno scorso nello stesso periodo (gennaio) di 12 giorni, durante i quali avevamo visitato il Lake Manyara, il Tarangire, Ngorongoro, il Serengeti e il Western Kilimanjaro. Ci eravamo talmente divertiti che abbiamo deciso di tornare, questa volta “restringendo” il programma e includendo una visita alla regione di Lake Eyasi + il Serengeti, a mio avviso il più bel parco che abbia mai visitato.

11 gennaio

Partiamo da Nairobi con la nostra auto, arriviamo ad Arusha prima di pranzo, parcheggiamo nel cortile di Safari Crew Tanzania – l’agenzia di Arusha che si è occupata in maniera eccellente dell’organizzazione del nostro safari (nonché di quello dell’anno scorso) e in compagnia di Hubert – la nostra guida, partiamo per Lake Eyasi. Arriviamo al Lake Eyasi Safari Lodge per una gustosa cena. La struttura è nuova, ha aperto l’anno scorso, ha una splendida vista sul lago, le camere sono grandi, confortevoli, pulite. Siamo venuti fin qui per incontrare i bushmen Hadzabe, una delle ultime comunità unicamente dedite alla caccia e alla raccolta. Non conoscono l’agricoltura, l’allevamento, la ceramica, la metallurgia. Non conoscono alcuna forma di organizzazione sociale, di autorità, di coercizione, non conoscono la proprietà. Sono l’ultimo esempio di società anarchica, senza divieti e senza tabù. Sono i pronipoti dei nostri antenati, come noi appartenenti alla specie homo sapiens sapiens, che 200 mila anni fa ha fatto la comparsa lungo la Rift Valley. Il loro stile di vita è rimasto immutato nei millenni, vivono in piccoli gruppi di 20/30 individui, basando la propria sussistenza solo su quello che offre loro l’ambiente circostante. Domani è il gran giorno, tutti a letto presto.

12 gennaio

Prima dell’alba (verso le 5) partiamo da Lake Eyasi Safari Lodge a bordo del nostro Toyota Land Cruiser con la nostra guida e Qwarda, un ragazzo del villaggio di Mang’ola che parla la lingua hadza (gli Hadzabe non conoscono il Kiswahili). Imbocchiamo una pista che diventa sempre meno visibile, fino a diventare il letto di un fiume. La discesa diventa ripida, scendiamo tutti dall’auto e io e Qwarda liberiamo il passaggio per l’auto da alcuni grossi macigni. Dopo circa 40 minuti raggiungiamo una piana dominata da enormi baobab. Lasciamo la nostra guida e l’auto, ci inoltriamo nel bush a piedi in fila indiana, seguendo il ragazzo del villaggio di Mang’ola , che ad un tratto si ferma ed emette una serie di “click” (che poi scopriremo essere suoni tipici della lingua degli Hadzabe). Da lontano arriva la risposta. Proseguiamo per alcuni metri e scorgiamo un gruppetto di 8 uomini accovacciati attorno al fuoco intenti a scaldarsi. Hanno pantaloncini sdruciti, indossano pelli di babbuino e numerose collane e copricapo di perline colorate. Si passano di mano in mano una pipa rudimentale ricavata dall’osso di un animale con cui fumano un’erba spontanea che – dice Qwarda – “serve loro a essere più abili nella caccia”. Parlano, ridono, scherzano, alternando suoni vocalici a numerosi “click”. Ad un tratto si alzano e subito una muta di piccoli cani biondi, alcuni dei quali erano accucciati a terra praticamente mimetizzati nel terreno e nella vegetazione, scatta per seguirli. Inizia la caccia!. Seguiamo il gruppo di cacciatori tra arbusti e spine di acacia. Il gruppo si divide in 2, Malcom ha già socializzato con sguardi, strette di mano e pacche sulla spalla –senza chiaramente poter scambiare una parola – con un giovane cacciatore, gli sta praticamente attaccato, lo segue dappertutto, è gasato a mille, è supereccitato. Ad un tratto si sentono fischi e grida: uno di loro ha appena colpito un bush baby, un piccolo lemure. Lo recupera tra i cespugli, estrae la freccia e se lo infila nella cintura. Poco dopo sentiamo altre grida concitate, seguite da rumore di rami fruscianti e da grasse risate, siamo un po’ indietro e non riusciamo bene a capire cos’è successo: hanno preso una vervet monkey, un cercopiteco. Sono evidentemente felici e soddisfatti, c’è abbastanza da mangiare, non c’è più motivo di proseguire, si può tornare al campo. Gli Hadzabe non conoscono l’accumulazione, non sanno pensare a domani. Il nostro accompagnatore ci spiega che non spendono in media più di 3 o 4 ore al giorno a procurarsi il cibo e dedicano il resto del tempo a rilassarsi, socializzare, coccolare i bambini, cantare e fare all’amore. Il sole è ormai alto, torniamo al campo che è composto da piccolissime capanne a base circolare alte poco più di un metro con un’apertura piccolissima. Uno dei cacciatori si avvicina alle donne che stanno poco distanti attorno a un altro fuoco assieme ai bambini più piccoli e offre loro il bush baby, che arrostiscono immediatamente intero sulle braci. Gli altri iniziano a scuoiare la scimmietta, a farla a pezzi e a disporne i pezzi sul fuoco, un altro ne porta una parte alle donne. Il ragazzo del villaggio di Mang’ola ci spiega che l’interazione tra uomini e donne è ridotta al minimo, le donne hanno il loro fuoco, non si accostano mai a quello degli uomini, mangiano e cucinano separatamente assieme ai loro bambini; la divisione sociale del lavoro è molto netta, non c’è mai alcuna sovrapposizione di ruoli: le donne si occupano dei figli, della costruzione delle piccole capanne e della raccolta di tuberi e bacche, mentre gli uomini vanno a caccia e costruiscono archi e frecce. Restiamo incantati di fronte a una scena di vita così vera e autentica. Sulla via del ritorno riflettiamo sul fatto che la nostra specie ha vissuto praticamente così per il 95% del suo tempo, da quanto è comparsa circa 200 mila anni fa fino a 10 mila anni fa, quando la scoperta dell’allevamento e dell’agricoltura ha dato inizio alla parabola della crescita e dello sviluppo tecnologico che ci ha portati ad essere quelli che siamo: in pratica se consideriamo il tempo in cui l’uomo è esistito, tutto quanto noi diamo per scontato è estremamente recente, la stranezza di questo mondo siamo noi, non loro. Oggi lo stile di vita degli Hadzabe è messo a dura prova: sono rimasti circa 1000 individui, la loro possibilità di movimento e i loro territori di caccia si sono via via ristretti a causa dell’avanzare delle coltivazioni e dall’istituzione dei parchi nazionali dove gli Hadzabe non possono cacciare. Siamo consapevoli di essere stati i privilegiati testimoni assieme ai nostri figli di una civiltà di cui, probabilmente, i nostri nipoti potranno solo sentire raccontare. E’ ormai mezzogiorno, fa caldo, salutiamo Qwarda a Mang’ola e procediamo verso Karatu. Trascorriamo il pomeriggio alla piscina del Country Lodge, circondato da rigogliosi giardini.

13, 14, 15 e 16 gennaio

Quest’anno abbiamo deciso di “saltare” il cratere di Ngorongoro. E’ uno di quei posti che va assolutamente visitato una volta nella vita, ma tende ad essere troppo affollato; certo, ci sono un sacco di animali, ma è fin troppo facile avvicinarli. Ci fermiamo al view point da dove si può ammirare la grande caldera e proseguiamo verso Nord-Est, verso il Serengeti. Il Serengeti è, tra gennaio e marzo, semplicemente il posto migliore da visitare. Le pianure tra il Cratere di Ngorongoro e la vzlle di Seronera diventano la scena di quello che è stato definito “il più grande spettacolo della Natura”, i cui attori sono 2 milioni di erbivori – gnu e zebre – che si danno appuntamento qui per la calving season, la stagione dei parti. Il sottosuolo vulcanico di questa regione rende l’erba particolarmente ricca di sostanze nutritive, perfette per fornire alimentazione alle madri durante la delicata fase dell’allattamento. I predatori sanno bene che tutti gli anni le grandi mandrie torneranno in questa regione e le aspettano per banchettare. Abbiamo trascorso 2 notti a Kati Kati Camp, a Seronera, e 2 notti a Mbugani Camp vicino al lago Ndutu, nel settore nord-orientale della Ngorongoro Conservation Area. Entrambi i campi sono costituiti da tende spaziose dotate di bagno privato, molto confortevoli se si pensa che i campk sono lontani da tutto, proprio in the middle of the action: a Mbugani eravamo praticamente circondati dalle mandrie, abbiamo assistito alla caccia di un gruppo di leonesse, al tentativo fallito di un ghepardo, e abbiamo ammirato sia qui che a Seronera un numero incredibile di animali di ogni specie. Non c’è dubbio, vedere la migrazione nel Serengeti in questa stagione è quanto di meglio ci si possa aspettare da un safari.

17 gennaio: Dopo i nostri 5 fantastici giorni nel Serengeti siamo rientrati a Karatu, ultima notte al Country lodge, dove ci godiamo un’ottima cena.

18 gennaio: Al mattino torniamo ad Aruaha. Recuperiamo la nostra auto e arriviamo a casa a Nairobi prima del tramonto.

Alcune note sull’organizzazione:

Il tour operator che abbiamo scelto è atato semplicemente perfetto. Come l’anno scorso, anche quest’anno abbiamo scelto Safari Crew Tanzania, operatore con sede ad Arusha gestito da due fratelli italiani che si è rivelato ancora una volta molto professionale, offrendo al contempo un ottimo rapporto qualità/prezzo. Ho avuto precedenti esperienze con i tour operators più famosi, quelli che hanno brochures patinate e sono conosciuti in Europa e in America e alla fine Safari Crew Tanzania offre un servizio personalizzato a prezzi molto più accessibili dei “grandi nomi”. Le nostre aspettative erano sicuramente elevate dopo l’esperienza dell’anno scorso ma sono state pienamente soddisfatte. Tutto ha funzionato perfettamente, grazie a Roberto, uno dei proprietari: abbiamo definito assieme l’itinerario, ha capito perfettamente cosa volevamo e ci ha offerto varie possibilità di alloggio tra cui scegliere. Il risultato è stato un programma confezionato su misura per la nostra famiglia. Se è vero che la scelta del tour operator è fondamentale, altrettanto importante è la scelta della guida e anche qua non avevamo dubbi: anche quest’anno siamo stati accompagnati da Hubert, un signore di una cinquantina d’anni con 25 anni di esperienza. è in grado di avvistare qualsiasi cosa a distanze incredibili, ha una grande conoscenza degli animali e del loro comportamento, è estremamente premuroso con i bambini, è un autista prudente e ha dato conferma di essere un ottimo compagno di viaggio. La sua capacità di fermare la jeep nelle posizioni ideali per ammirare gli animali è emersa in ogni circostanza. La sua capacità di leggere le tracce e scovare la fauna è incredibile. Insomma, è stata una vacanza fantastica, che speriamo di poter nuovamente ripetere l’anno prossimo: torneremo sicuramente nel Serengeti e aggiungeremo un’altra zona di questo magnifico Paese. Un consiglio a tutte le mamme e i papà: portate i vostri figli in safari in Africa, non c’è nulla di cui aver paura, portateli nei parchi, portateli a conoscere la gente: si tratta di un’esperienza estremamente formativa che li aiuterà a crescere che i vostri piccoli porteranno per sempre con sé. Dopo averla provata guarderanno il mondo con occhi diversi.



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