Parchi del Sud-Ovest USA: 4 settimane da sogno

4 settimane piene nei più spettacolari parchi del Sud-Ovest degli USA, più la ciliegina sulla torta: il mitico Yellowstone
Scritto da: Stefan Borg
parchi del sud-ovest usa: 4 settimane da sogno
Partenza il: 14/06/2015
Ritorno il: 12/07/2015
Viaggiatori: 3
Spesa: 3000 €
Alla tenera età di 58 e 56 anni, rosa maria ed io ci sposiamo; nostro figlio, diciottenne, è il testimone di nozze. così, tra le ferie e le 2 settimane di congedo matrimoniale, salta fuori un bel viaggione (quasi 1 mese intero) in una meta da tempo desiderata: i parchi del sud-ovest usa. Niente città – a parte San Francisco – solo parchi e natura con scenari incredibili.

CONSIGLI PRATICI

Documenti: controllate il passaporto (se non l’avete, prenotatelo per tempo). Fate un’assicurazione sanitaria per qualunque evenienza.

Prenotazioni: c’è chi prenota gli hotel per ogni singola tappa con mesi di anticipo: migliori prezzi, ma è sempre un rischio, considerando che le distanze tra un parco e l’altro sono notevoli. Io ho fissato solo alcune notti nei posti più battuti, per il resto ho cercato durante il viaggio. Consiglio di noleggiare l’auto con anticipo (basta la tipologia più piccola vistele dimensioni medie dei mezzi negli USA)

Lingue: cartelli, depliant turistici, guide: non viene nemmeno presa in considerazione l’idea che si possa non conoscere l’inglese. In alcune zone, California soprattutto, si può parlare lo spagnolo, ma non è poi così frequente.

Durata: se avete 4 settimane potete inserire yellowstone (come leggerete), che è molto lontano dagli altri parchi; con meno tempo – piuttosto che una toccata e fuga da 1 giorno-1 giorno e mezzo – meglio rinunciare e concentrarsi sul sud-ovest.

Domenica 14/6

Sveglia alle 4 e via a Caselle; fino ad Amsterdam tutto bene, poi si parte con un certo ritardo, che viene recuperato in volo. Il tempo a disposizione a New York, però, resta contato, e le cose si complicano in quanto – essendo il primo punto di entrata negli USA – ci fanno recuperare i bagagli (per fortuna arrivano in fretta), uscire e rientrare dopo averli spediti nuovamente.

C’è una corsia preferenziale per le connessioni al primo controllo passaporti, poi basta; le code sono interminabili e al metal detector ci fanno togliere tutto, scarpe, cinture e fogli nelle tasche compresi.

Con tutto ciò, si arriva in tempo all’imbarco per Los Angeles, ma era meglio perdere questo volo e prendere il successivo… infatti ci siamo appena rilassati, rallegrandoci della nostra buona sorte, quando uno strano annuncio ci mette la pulce nell’orecchio: si parla di Salt Lake City, città lontana dalla rotta prevista. Si atterra nella capitale Utah – dicono per mancanza di carburante – il che ci fa perdere altre 2 ore, che si aggiungono alle oltre 20 del viaggio nel suo insieme.

Finalmente, verso le 21, siamo a Los Angeles; recuperate le valigie si fa un’altra coda in attesa dello shuttle della Alamo, poi – per fortuna – non c’è quasi nessuno in agenzia. In compenso, l’impiegato fa il furbo e cerca di venderci, a caro prezzo, un “upgrade” dicendo che 3 bagagli non ci stanno nella Nissan Versa prenotata 3 mesi fa; insistiamo per vederla e allora si rassegna: “Se vi va bene” – dice – “non tornate più qui e andate via direttamente”. Infatti ci sta tutto senza problemi.

Abbiamo dubbi sul significato della lettera “L” nel cambio, chiedendo in giro scopro che vuol dire “Low Gear”, una specie di ridotta.

In pochi minuti siamo all’hotel, che ho prenotato vicinissimo all’aeroporto; possiamo finalmente rilassarci? No, perché – quando già si pregusta il piacere di un letto, dopo 2 notti quasi insonni – ecco la doccia fredda: la stanza ha un solo “queen bed” e un divano semplice. La prenotazione di Booking.com indicava “max 3 persone” e il gestore dice che dovevamo specificare che eravamo 3 adulti: roba da matti! Non ci sono altre camere libere; va a finire che Federico si arrangia sulla moquette, che – per fortuna – è bella spessa. Lunedì 15/6

Rinfrancati da una buona dormita, si fa colazione e si parte per l’inizio della nostra vacanza.

Qualche centinaio di metri e si imbocca l’autostrada, che è larghissima (5-6 corsie per senso di marcia); c’è un po’ di traffico, ma usciti da Los Angeles si viaggia tranquillamente. Il paesaggio è anonimo e piuttosto brullo; più avanti c’è una zona allucinante con migliaia (letteralmente) di trivelle per il petrolio.

Visto un Super 8 a Lindsay, lo prenotiamo per la sera (78$, buon prezzo) e proseguiamo verso il Sequoia National Park, dove prendiamo la tessera valida per un anno per tutti i parchi nazionali. Qui ci aspetta una bella sorpresa: il prezzo di 80$ non è per persona, come credevamo – e sarebbe già più che onesto – ma per auto!

La Giant Forest è un magnifico bosco ricco di maestose sequoie e conifere di dimensioni ragguardevoli: immortaliamo con un paio di foto una pigna, ben più lunga di una delle mie scarpe (e io ho il 43, non il 36…). Chiediamo informazioni ai ranger del parco e ci rendiamo conto che non è facile comunicare: si fa fatica a capire l’inglese che si parla qui.

Dopo la breve e facile scalinata fino alla panoramica Moro Rock, si prosegue nel bosco fino all’attrazione principale, il famoso General Sherman, la sequoia più grande del mondo. Da lontano non sembra niente di particolare – anche perché è in mezzo a tanti altri giganti – ma avvicinandosi (si può arrivare a pochi metri di distanza) fa veramente impressione.

Sulla via del ritorno vediamo il ristorante Mendoza, ovviamente messicano; mangiamo alcuni piatti tipici: burritos, enchiladas e fajitas, in versione vegetariana. Gira e rigira, si tratta sempre di tortillas – arrotolate, aperte, chiuse a calzone – con qualcosa dentro, ma il cibo è gustoso e le porzioni abbondanti.

Martedì 16/6

Aiutati dal fuso orario, ci alziamo di nuovo molto presto.

Cominciamo la giornata con un errore clamoroso nella scelta del percorso (che, peraltro, si rivelerà foriero di grandi benefici): si taglia per una strada secondaria che attraversa la Sierra Nevada, molto più breve come kilometraggio, ma con un’interminabile serie di saliscendi e curve. Alla fine della discesa, quando mi fermo a fare benzina, si sente puzzo di bruciato ed esce fumo dalle ruote.

Chiediamo aiuto a un giovane vigile del fuoco e lui ci dice che non è niente di grave se sul cruscotto non appare la scritta “Brake” fissa. Si fa riposare l’auto e si riparte: sembra tutto OK.

Segue un lungo tratto in un panorama semidesertico: non si vede nemmeno un paese degno di questo nome per comprare qualcosa da mangiare. Il caldo comincia a essere forte, e aumenta ancora dopo l’ingresso del Death Valley National Park, nella discesa che conduce a Panamint Springs.

Ci fermiamo per la prossima notte al Panamint Spring Resort, al costo di 110$ per una “casetta”; segue un pranzo leggero nell’unico ristorante.

La temperatura è di 42 gradi; si aspetta ancora un po’ prima di ripartire per andare a vedere la zona più vicina della Death Valley, quella di Stovepipe Wells. In salita tutto va bene e la temperatura dell’acqua rimane a metà scala; al contrario, nella successiva discesa si risente il “tac tac” del freno e l’odore di bruciato. Momento di panico: siamo lontanissimi da qualunque città e ci aspettano altri saliscendi, senza contare che ci troviamo in piena Death Valley: un nome, un programma…

Inverto la marcia e nella discesa uso molto la “L”, anche a costo di andare a passo di lumaca; si arriva a Panamint Springs senza problemi. Non ci sono meccanici, ma la ragazza dello store mi rincuora dicendo che in questa zona il problema del surriscaldamento ai freni capita di frequente.

Mercoledì 17/6

Ci svegliamo alle 5 per viaggiare il più possibile con il fresco, e in mezz’ora siamo pronti a partire.

Sia stato il riposo notturno o l’uso frequente della “L”, la Versa arriva senza il minimo problema a Stovepipe Wells, dove si vede la bella zona delle dune di sabbia. Poi prendiamo un po’ d’acqua al Visitor Center di Furnace Creek, ancora chiuso; il termometro fuori dall’entrata indica livelli ancora umani: 37-38° (ma sono le 7,30 del mattino).

Poco dopo siamo al celeberrimo Zabriskie Point che – forse per l’orario non ottimale, forse per le aspettative troppo alte – non mi fa un’impressione particolare. Più tardi si devia dalla via principale per percorrere la Artist Drive, un bell’anello di 17 kilometri che permette di vedere rocce di vari colori; infine, si fa una breve camminata all’interno del Golden Canyon.

Sono quasi le 10 e ora il caldo comincia a sentirsi. L’auto va sempre bene ma, nel dubbio, lascio perdere la lunga deviazione (circa 30 km.) per il Dante’s View, punto panoramico spettacolare che prevede una ripidissima salita/discesa.

Usciti dalla Death Valley, si va verso Las Vegas per una strada più breve rispetto alla highway.

Siamo ancora in pieno deserto quando spuntano in lontananza i grattacieli di Las Vegas; in breve si raggiunge la famosa “Strip”, dove sono allineati gli hotel-casino per cui la città è nota in tutto il mondo: Luxor, Excalibur, Bellagio, Flamingo. La realtà supera ogni fantasia: la Torre Eiffel del Paris è alta 165 metri, la vicina ruota panoramica 170 metri (è la più alta del mondo); l’hotel MGM Grand ha più di 5.000 stanze…

Andiamo all’ufficio turistico per trovare un posto per la notte; la signora, molto gentile, guarda su Internet e ci propone varie opzioni. Siamo a metà settimana e i prezzi sembrano stracciati (si parte da 28$!); in realtà, poi, aggiungi le tasse, aggiungi la terza persona, i costi reali lievitano e si arriva a un minimo di 88$ per un hotel lontano dalla zona centrale. Alla fine scegliamo l’Excalibur, 93$.

Prima di andarci, però, si passa dalla sede della Alamo, poco distante dall’aeroporto; espongo il problema ai freni e l’addetto senza tante storie mi chiede: “Vuoi cambiare l’auto?” Rispondo di sì e vado a cercarne una della stessa categoria, ma non ce ne sono. Meglio così, infatti mi offrono un “free upgrade”, una Kia Optima assai più bella dell’auto precedente e con solo 2.000 miglia percorse anziché le 21.000 della Versa: che meraviglia!

Tutti contenti per questo inaspettato colpo di fortuna, andiamo direttamente all’Excalibur; mi fermo fuori dall’entrata posteriore, in mezzo a enormi bus carichi di turisti giapponesi, mentre Rosa Maria va dentro a chiedere come dobbiamo fare per sistemarci. Passa il tempo e non la vedo più; alla fine scopro il perché: la reception è dalla parte opposta a quella da cui è entrata e il salone, pieno zeppo di slot machine e tavoli da gioco, sarà lungo quasi 200 metri e largo poco meno!

Sistemo l’auto da solo, senza attendere il “valet”, in un grande parcheggio a più piani e finalmente possiamo prendere possesso della nostra stanza, ampia e confortevole, al 5° piano.

Più tardi si esce (e fa ancora un gran caldo), con l’idea di percorrere la Strip e mangiare qualcosa lungo la via; si arriva fino al Bellagio, dove vediamo il lussuoso interno e il celebre spettacolo delle fontane. Purtroppo, a Federico fa male il piede, per cui non si prosegue oltre; sulla via del ritorno mangiamo in un burger che – tutto sommato – è migliore del previsto e abbastanza economico.

Giovedì 18/6

Si passa mezza mattinata a cercare (invano) di risolvere il problema della carta di credito di Rosa Maria, che non viene accettata; per sbloccarla bisogna telefonare a un numero Unicredit, ma il Nokia (dual band) è del tutto inservibile negli USA.

Inoltre, scopriremo poi, oggi ci sono stati grossi problemi di linee tra Italia e Usa. Di fatto, però, i problemi di comunicazione telefonica ci accompagneranno per tutto il viaggio; meno male che i messaggi funzionano e che esiste what’s app.

Cerchiamo una banca (la più vicina è a 2 miglia!) per prelevare; finalmente un po’ di fortuna: l’operazione riesce al primo colpo

Pranziamo al buffet del Palms, consigliato dalla guida, ed è una buona scelta: per 13$ ci abbuffiamo e portiamo via mele, arance e panini. Si fa ancora un giro al Venetian, hotel-casino con tanto di Ponte di Rialto, gondola e gondoliere (anche se il canale sarà lungo 20 metri); rinunciamo, invece, al Caesar’s Palace perché oggi ci sono ancora parecchi kilometri da fare. Rimarrà il rimpianto di non aver visto questo hotel incredibilmente kitsch, secondo quanto dicono le guide.

Infine, si lascia questa città pazzesca in direzione di Zion. Si arriva fino all’ultimo paese prima del parco, Springdale, una cittadina molto carina e piena di hotel e ristoranti; il Rìo Lodge, consigliato dalla guida, non esiste più e gli altri o sono pieni o hanno costi proibitivi: uno ci chiede 170$, prezzo speciale perché è l’ultima stanza!

Allora si torna indietro per una quindicina di miglia fino a Hurricane; qui ci va bene al primo colpo, con il Travelodge Hotel: 83$ colazione compresa. C’è anche la piscina, della quale approfittiamo subito, visto che – anche se è quasi buio – fa ancora molto caldo.

Venerdì 19/6

Sveglia alle 6,30 (per il nostro corpo sono le 5,30) per visitare Zion Canyon con il fresco; in realtà, all’inizio della giornata fa addirittura freddo.

Si prende la navetta fino all’ultima fermata (Sinawawa Temple) e da lì si prosegue a piedi; alla fine del sentiero proviamo a risalire ancora un po’ il fiume, ma bisogna guadarlo più volte e non siamo equipaggiati con le apposite scarpette impermeabili.

Quando torniamo di nuovo nel canyon principale il clima è mutato: c’è un bel caldo – accettabile, ma in graduale aumento – mentre si percorre il sentiero che porta alle Emerald Pools (carine, non certo imperdibili). Con il senno di poi ci rendiamo conto che sarebbe stato meglio fare il contrario: vedere prima questi laghetti e successivamente andare al fondo valle per risalire il fiume.

Si riparte verso il Bryce Canyon. La strada è bellissima: si risale una valle con viste superbe sulle imponenti masse rocciose, dapprima rossicce, poi più chiare; tra le altre, spicca la Checkerboard Mesa, una collina solcata da strisce orizzontali e verticali che ricorda una scacchiera.

Dopo il bivio per Panguitch c’è un altro pezzo di strada altamente spettacolare: il Red Canyon, un ottimo antipasto in vista di ciò che ci attende di lì a poco.

Siamo ormai vicini alla meta; ecco il Foster’s Motel prenotato da casa. Il posto è bruttino e la stanza è piuttosto piccola; in compenso, costa solo 80$ a notte e – soprattutto – si trova in posizione strategica, a poco più di 1 kilometro dall’ingresso del Bryce Canyon. Sistemati i bagagli, si parte per dare una prima occhiata a questo parco tanto atteso; nei dintorni del Visitor Center ci sono alcuni cervi che pascolano tranquilli nei prati ai lati della strada.

Ormai è tardi per i colori del tramonto (buona parte dell’anfiteatro è già in ombra), ma la vista è comunque splendida: centinaia di pinnacoli – gli “hoodos” – tra il bianco, il rosa e il rosso, con qua e là le macchie verdi dei pini. Sembra di vedere i castelli fatti in spiaggia con la sabbia bagnata.

E quello di stasera è solo un assaggio, dobbiamo rivedere il tutto illuminato dal sole…

Si cena velocemente in un fast food che fa pizze, tutto sommato più che accettabili; c’è solo un inconveniente: la Pizza Pepperoni ha in realtà il salamino piccante! I ragazzi del locale si fanno in quattro per aiutarci e – quando chiediamo di sostituirla con una pizza al formaggio – ci restituiscono i soldi della differenza.

Alle 22 siamo di nuovo al Visitor Center per uno spettacolo tanto inatteso quanto magnifico: c’è un ritrovo di astrofili proprio qui a Bryce e si possono vedere, gratuitamente, pianeti, stelle e altri corpi celesti; basta mettersi in coda presso uno dei tanti telecopi. Il cielo è sereno, la luna non è ancora al primo quarto e non c’è alcuna luce nei dintorni; vediamo nitidamente Saturno, la Via Lattea, la luna e diversi ammassi stellari: uno spettacolo fantastico!

Torniamo al motel felici per questa magnifica giornata, coronata dalla sorpresa serale, e per la prospettiva di avere ancora un’intera giornata da trascorrere in questo posto straordinario…

Sabato 20/6

… che confermerà pienamente le nostre grandi aspettative.

Dopo la colazione, si va a vedere il Bryce Canyon da un rinomato punto panoramico, Inspiration Point. In effetti, c’è di che essere ispirati: la luce chiara del mattino illumina un panorama stupendo sull’anfiteatro, che non ci lascia senza fiato solo perché l’avevamo già “anticipato” ieri sera.

Scesi in auto al Sunset Point, imbocchiamo il Navajo Trail, il più frequentato dei sentieri che si inoltrano in mezzo agli hoodos; una discesa abbastanza ripida, ma su sentiero largo e agevole, ci consente di vedere da vicino queste vere e proprie meraviglie della natura. Giunti in fondo al canyon, ci sono due possibilità per risalire: il sentiero più diretto che rientra al punto di partenza oppure una variante – il cosiddetto Navajo-Queen Trail – che fa fare un giro più lungo sul fondo e conduce a un altro punto panoramico sulla cresta, il Sunrise Point. Inizialmente ho qualche dubbio per il caldo, ma – come scopriremo con piacere più tardi – al Bryce Canyon si sta bene anche nelle ore centrali.

Il giro completo potrebbe durare 2 ore o anche meno, ma con le numerose – e doverose – soste fotografiche ci mettiamo più di 3 ore; 3 ore spese benissimo, poiché vediamo paesaggi diversi e sempre straordinari. questo sentiero resterà il più bello percorso nell’intera vacanza. Tornati sul Rim, ci fermiamo in un’area pic-nic con i tavoli spostabili (ottima idea!), mangiamo e ci riposiamo un po’ all’ombra: oggi ci possiamo permettere di oziare un po’.

Più tardi si riparte con l’auto per vedere i vari punti panoramici che si susseguono lungo la cresta: sono belli ma non come i primi, che si affacciano sull’anfiteatro. Incontriamo diversi compatrioti, tra i quali un gruppo di Avventure nel Mondo, come sempre di corsa per vedere “tutto” in poco tempo. Infine, attendiamo con calma il tramonto a Bryce Point, ed è uno spettacolo magnifico, l’ennesima meraviglia della giornata.

Discreta cena al Foster’s Motel con una bella sorpresa: le insalate sono “free”, si può riempire il piatto quante volte si vuole.

Domenica 21/6

Oggi ci tocca una levataccia (ore 4,30) per arrivare in tempo a vedere l’alba e alle 5, puntuali, siamo al Bryce Point. Ma ieri la “rangera” ci ha dato un’informazione sbagliata: è ancora buio pesto; solo verso le 5,30 cominciano ad arrivare i primi, sparuti giapponesi (più tardi saranno uno sciame). Insomma, si poteva tranquillamente dormire almeno mezz’ora in più. Ma la mezz’ora di sonno buttata via è il meno; purtroppo, il cielo è un po’ velato e l’alba sull’anfiteatro – pur restando un bello spettacolo – ci delude un po’.

Alle 7 siamo a tavola al motel per la colazione e subito dopo partiamo per Page, dove – grazie al guadagno di un’ora dovuto al rientro in Arizona – arriviamo verso le 10: ottimo, c’è tutto il tempo per organizzare la visita all’Antelope Canyon, che va fatta nelle ore centrali del giorno.

Ci tocca un bel salasso: 40$ a testa per l’entrata all’Upper Antelope Canyon (ma l’avevamo messo in conto), più 8$ – sempre a testa – per il parcheggio (e questo è un vero ladrocinio); la bellezza di questo posto incredibile, però, è tale da non rimpiangere la spesa. Si cammina tra le pareti del canyon e qualche metro al di sopra di noi si apre una stretta fenditura dalla quale filtra la luce, producendo straordinari effetti di colore sui toni caldi del giallo, arancio e rosso.

Terminata la visita, torniamo a Page, al Motel 6 prenotato da casa: è migliore della media di questa catena, ma costa anche un po’ di più. Dopo la polvere dell’Antelope, ci sta proprio bene una doccia, dopodiché ci mangiamo un boccone in camera.

Ripuliti e ristorati, usciamo per esplorare i dintorni; andiamo al famoso punto panoramico di Horseshoe Bend, distante poche miglia da Page. Dal parcheggio si cammina per circa un quarto d’ora fino a raggiungere la cresta; la vista su questo spettacolare “ferro di cavallo” formato dal Colorado è splendida, anche se la posizione del sole, proprio davanti a noi, non è quella migliore. Nessun problema, possiamo tornare qui domattina: ecco uno dei vantaggi di non viaggiare con tappe troppo rigide o con i minuti contati.

Si cena al Pizza Hut, locale del quale un resoconto di viaggio parla molto bene. In effetti, la pizza non è male e ci sono diversi tipi adatti ai vegetariani. La serata è allietata dal simpatico incontro con una coppia di Bilbao; restiamo a chiacchierare a lungo con loro, trovando parecchi punti di sintonia, tanto che viene del tutto naturale scambiarsi e-mail e numeri di telefono.

Domani andranno, come noi, al Grand Canyon, ma non hanno ancora deciso se verso il North o il South Rim; in questo secondo caso, propongo loro di cercarci: se è consentito dal regolamento, possiamo ospitare la loro tenda nella nostra piazzola.

Lunedì 22/6

Oggi ci si può alzare con calma e ne approfittiamo per un bel sonno ristoratore, necessario dopo la levataccia (per di più inutile) di ieri mattina.

Andiamo a rivedere l’Horseshoe Bend, davvero magnifico con la luce del mattino, poi si fa la solita spesa al solito WalMart, prima di partire per la zona del Grand Canyon.

Poco dopo l’entrata nel parco nazionale cominciano i view point su questa sterminata creazione della natura; il primo è il Desert View, con tanto di torre panoramica e area pic-nic, della quale approfittiamo. Panorama grandioso (anche questo da rivedere al mattino), così come quello che si gode dal successivo Moran Point.

Dopo aver visto altri punti panoramici meno interessanti, si arriva a Canyon Village, nel cuore del Grand Canyon National Park. Pensavo, ingenuamente, a una specie di piccolo villaggio raccolto, invece anche qui le distanze sono “americane” e occorre l’auto per spostarsi da un punto all’altro. Il nostro Mather Campground, ad esempio, dista ben 2 miglia dal Visitor Center.

Abbiamo una piazzola enorme: c’è spazio per 3 tende e 2 auto; inoltre, ci sono un grande tavolo da pic-nic e il barbecue, il tutto per 18$ a notte! In compenso, dentro al campeggio mancano le docce (ce n’è solo qualcuna all’entrata) e i bagni sono a dir poco spartani.

Cominciamo a montare il campo; tutto OK, a parte un curioso incidente: lasciamo incustodita, sul tavolo da pic-nic, la scatola di polistirolo con i viveri e quando andiamo a prenderla troviamo il coperchio buttato a terra e un pacchetto di biscotti aperto e devastato. I corvi, al pari di altri animali nei parchi USA, hanno ormai imparato a riconoscere i contenitori dove può trovarsi il cibo e, appena possono, ne approfittano!

Andiamo a vedere il tramonto nei pressi del museo geologico, dove si gode una magnifica vista; c’è anche un albero secco utile per le fotografie al sole che cala dietro l’orizzonte, colorando il cielo si colora di un bellissimo rosso acceso.

Si cena al Bright Angel Lodge, consigliato da un resoconto di viaggiatori; ci mettiamo un po’ a trovarlo, ma ne vale assolutamente la pena: ottimo cibo e prezzi più che onesti.

Martedì 23/6

Ci alziamo un po’ pesti dopo la prima notte in tenda; in compenso, non abbiamo avuto alcun problema per il freddo: i sacchi a pelo di piuma bastano e avanzano.

Si torna al lodge di ieri sera per percorrere l’omonimo sentiero, il Bright Angel Trail, uno dei più frequentati tra quelli che scendono all’interno del Grand Canyon. Camminiamo per 45’, fino al primo punto di ristoro; è una bella passeggiata, anche se per vedere qualcosa di significativo bisognerebbe andare molto più in basso, il che è proibitivo in estate. Fin qui, invece, il caldo è più che sopportabile, più o meno sul livello del Bryce Canyon.

Tornati sul Rim, utilizziamo ampiamente le navette gratuite, cominciando con la linea che va verso Ovest; si fanno diverse soste, con viste sempre notevoli, anche se alla fin fine si assomigliano un po’ tutte. Più tardi passiamo dal Visitor Center e prendiamo lo “shuttle” in direzione Est, vedendo altri bei panorami sul maestoso canyon.

Ripassiamo dal campeggio per fare la doccia – a gettone, vicino all’entrata – poi torniamo al Visitor Center per goderci il tramonto dal Mather Point, indicato dalla guida come il punto panoramico migliore: anche stasera vediamo un magnifico spettacolo, passeggiando tra un belvedere e l’altro.

Tornando indietro, nell’incerta luce del crepuscolo, ci si presenta una scena davvero curiosa: un alce giovane (o una “alcessa”) beve alla fontanella fuori dal Visitor Center e quando l’acqua cessa di scorrere dal rubinetto, fa chiari gesti ai presenti per farselo riaprire!

Mercoledì 24/6

La seconda notte in tenda va decisamente meglio. si smonta, si mangiano i manghi e si va al malwick visto ieri per una colazione con burrito e pancakes; le bibite – non solo tè e caffè, ma anche succo d’arancia o limonata – sono “free”.

Prima di lasciare la zona del Grand Canyon rivediamo i due view point più interessanti: Moran Point e Desert View, dove scattiamo ancora un po’ di foto.

Si arriva a Kayenta, paese bruttissimo e decisamente indegno di essere la base operativa di Tex Willer (i messaggi per il mitico ranger vengono indirizzati presso il Kayenta Trading Post); qui ci fermiamo con l’idea di prenotare un motel per domani sera. Si prova al Wetherhill Inn; l’impiegata ci dice 150$, ma poi si corregge; per 3 persone fanno 163$ e in più vanno aggiunte le tasse: totale=184$! Ce ne andiamo.

Gli altri hotel di Kayenta sono ancora più cari (oltre 200 dollari), per cui si comincia ad accarezzare l’idea del “primitive camping” di cui parlano alcuni resoconti di viaggio; decideremo domani.

Per il momento si prosegue velocemente per Chinle, a una settantina di miglia; qui troviamo subito posto al Best Western (bello) per la cifra – che a questo punto ci pare ancora accettabile – di 140$.

Con un cielo grigio alquanto minaccioso si parte per un primo giro al Canyon de Chelly, lungo il South Rim. Il canyon – da molti considerato “minore” – si rivela una bellissima sorpresa: non è monumentale come altri, ma le rocce rosse e il fondo verde formano uno splendido contrasto.

Dopo aver sostato in un paio di view point, si va direttamente a quello finale, Spider Rock: un posto veramente fantastico, che ci lascia senza parole! Purtroppo comincia a piovere e dobbiamo sloggiare in fretta.

Più tardi il cielo si riapre; niente male la vista del sole che cala dietro la Black Mesa.

Sono quasi le 21: riusciamo appena in tempo a fare cena (così così) nel ristorante del Best Western.

Giovedì 25/6

Colazione nel solito posto (a Chinle c’è poco da scegliere), poi si parte per un altro giro lungo la cresta del Canyon de Chelly.

Si va subito a Spider Rock, ma la luce non è la migliore; più tardi seguiamo il White House Trail che porta alle omonime rovine, l’unico sentiero all’interno del canyon permesso ai visitatori senza le guide indiane. La passeggiata è piacevole e anche la risalita dal fondo del canyon è poco impegnativa: il dislivello è ridotto e non fa troppo caldo. Si percorre anche una parte del North Rim – meno bello ma che vale comunque la visita – poi recuperiamo i bagagli e lasciamo Chinle.

Arriviamo verso le 16,30 al Visitor Center della Monument Valley, collocato in posizione straordinaria, proprio davanti ai 3 celeberrimi colossi di roccia. Il giro in fuoristrada costa 70/80$, a seconda della durata e il cavallo non ci interessa: dunque, si farà l’escursione con la nostra Optima, che si rivelerà anche stavolta degna del suo nome.

Prima, però, ci organizziamo per la notte al campeggio The View, lì a due passi: 21$ e possiamo montare la tenda in una collinetta di sabbia rossiccia con magnifica vista sulla valle. Chiediamo a un tipo la pompa, ma quello risponde che qui si fa “camping estremo”; pazienza: per una notte dormiremo un po’ più scomodi, e poi il fondo non è di terra dura.

Completato il montaggio della tenda, si parte per il giro della Monument Valley, seguendo lo sterrato di 17 kilometri che si snoda tra questi immani blocchi rocciosi, un po’ sconnesso, ma senz’altro percorribile guidando con attenzione. Passiamo un paio d’ore in mezzo a questa ennesima meraviglia della natura, con viste sempre diverse e sempre spettacolari. Tra gli altri, ci colpisce The cube, una specie di enorme dado di pietra rossiccia.

Al ritorno, c’è qualche difficoltà nell’ultimo tratto di strada, non tanto per la salita (che pure è ripida), quanto per il sole in pieno viso; comunque, si torna al campeggio senza il minimo danno.

Ora possiamo rilassarci: dopo il superbo tramonto, mangiamo qualcosa sui tavolini della reception e ce ne andiamo a nanna, portando negli occhi le immagini di questa stupenda serata.

Benedetta l’impiegata del Wetherhill Inn che ieri ci aveva fatto infuriare: se avesse mantenuto il prezzo di 150$ forse adesso non saremmo qui!

Venerdì 26/6

Verso le 5 metto la testa fuori dalla tenda e… meraviglia: l’alba arrossa i 3 grandi roccioni che abbiamo davanti, uno spettacolo semplicemente fantastico! Acchiappo subito la Canon e scatto un bel po’ di foto, tra le quali una che immortala la nostra tendina in mezzo a questi giganti di pietra.

Più tardi il sole è più alto, ma lo scenario è ancora magnifico e Federico può a sua volta sbizzarrirsi con la macchina fotografica, della quale è ormai diventato a tutti gli effetti il titolare. Prima di lasciare definitivamente questo posto magico, si fa ancora un breve giro con l’auto fino al john ford point per vedere i 3 alti pinnacoli denominati three sisters illuminati dal sole. Sosta per la colazione in un simpatico locale di Mexican Hat (il paese prende il nome da una curiosa roccia che sembra un sombrero), dove avviene un episodio curioso: una volta tanto, chiediamo l’acqua “no ice” e ce la portano … tiepida!

Nelle vicinanze c’è la Valley of the Gods, sulla quale ho letto recensioni entusiastiche; chiedo informazioni al gestore del caffè e lui mi dice che la strada è buona: OK, si va. In effetti, si comincia con uno sterrato più che agevole, ma dopo un po’ le cose peggiorano e ci cucchiamo ben 17 miglia assai travagliate; la strada pare non finire mai e io – preoccupato di evitare le buche più profonde – non mi godo nemmeno la bellezza di questo posto.

Finalmente compare la strada asfaltata; superato un paese dal curioso nome di Bluff, inizia un lungo tratto monotono, nel quale vediamo un paio di grossi animali (daini o caprioli) morti sul ciglio della strada. C’è un sole tropicale e io mi sento un po’ intontito per la notte quasi insonne.

Nel primo pomeriggio siamo a Moab, al Lazy Lizard, dove abbiamo prenotato per 3 notti. La prima impressione è tutt’altro che positiva: un vecchio che dorme appoggiato ai tavolini fuori dall’ostello, un altro anzianotto con un barbone e una faccia un po’ inquietante, un tipo con un occhio solo… La zona reception è un caos pazzesco e pare che il gestore non abbia alcuna idea della mia prenotazione; guarda e riguarda in un quaderno incasinatissimo e non dice niente; alla fine, comunque, ci dà la stanza. L’ostello è un po’ maltenuto e non brilla per pulizia, ma il costo è basso e per noi va bene così.

E’ ancora molto presto; che fare? Per un’escursione in canoa bisognava arrivare prima e a Moab grandi cose da vedere non ce ne sono. Allora, si fa un primo lavaggio della montagna di vestiti accumulata in questi giorni (oggi la roba scura), mentre io provo a fare la conferma dei volo di ritorno, senza successo: scoprirò poi che non è più necessario confermare.

Più tardi, messa la roba nell’asciugatrice, si decide di andare al parco degli Arches, a pochi kilometri dalla città, per un primo giro esplorativo. Lasciamo passare ancora un po’ di tempo poi entriamo nell’Arches National Park; sono circa le 18 e il clima è caldo sì, ma non certo proibitivo. Si percorre una buona strada asfaltata (io avevo notizia, invece, di uno sterrato) in mezzo a rocce e pinnacoli di colore rosso acceso; per diversi kilometri non si vedono archi finché – finalmente – cominciano ad apparire le grandi attrazioni del parco.

Siamo nella zona delle “finestre” e con una breve passeggiata arriviamo al bellissimo Double Arch. Si gira per un po’ nella zona, osservando da prospettive diverse gli archi, assai pittoreschi nella luce del tardo pomeriggio: a giudicare dall’inizio, anche questo parco è davvero uno spettacolo.

Si cena alla rinomata Moab Brewery; il locale è simpatico, la birra – prodotta in casa – buona e la zuppa con chili ottima. Inoltre, le porzioni sono enormi (avanziamo un intero wrap che ci portiamo via) e il conto decisamente basso; insomma, usciamo dalla birreria pienamente soddisfatti.

Sabato 27/6

Oggi è in programma l’escursione a Canyonlands, a una cinquantina di kilometri.

Cerchiamo – lungo la strada – un qualsiasi negozio per comprare cibo, ma invano: dopo Moab, infatti, non c’è nemmeno il più piccolo centro abitato. Pazienza, oggi per pranzo ci accontenteremo di frutta (poca) e qualche carota.

Arrivati al parco di Canyonlands, settore di Island in the sky (il parco è enorme e bisogna sceglierne una parte), percorriamo il Rim fino alla fine, al Grand View Point; qui facciamo una passeggiata di un miglio circa lungo la cresta. Di fatto, però, non c’è niente di particolarmente interessante; la cosa più bella si era vista all’inizio: un arco naturale di pietra che domina un vastissimo panorama. Insomma, nel complesso Canyonlands si rivela una mezza delusione, forse anche perché siamo abituati troppo bene.

Ci sarebbe ancora il vicino parco (statale non nazionale) di Dead Horse Point, con la vista su una curva del Colorado simile al “ferro di cavallo” di Page, ma decidiamo di lasciar perdere per tornare a Moab, lavare la roba bianca e poi fare la camminata che ieri ci siamo persi per le previsioni climatiche “terroristiche” del Visitor Center.

Così, verso le 18,30 – con un caldo più che accettabile – si imbocca il sentiero per il Delicate Arch, il più famoso del parco; c’è una leggera ascesa, ma niente di che; in meno di un’ora si arriva davanti al famoso arco di pietra rossa.

Il posto è bellissimo; peccato che ci siano altre centinaia di persone in attesa del tramonto. C’è di buono, però, che ci troviamo in una specie di anfiteatro naturale in sensibile pendenza, per cui l’arco si vede bene da qualunque punto. Inoltre, c’è spazio e si può osservare questa fantastica creazione della natura da tanti punti di vista diversi; è possibile anche arrivare sotto l’arco stesso.

Pian piano il sole scende e lo spettacolo si fa più suggestivo. Dopo aver visto e stravisto il Delicate Arch in tutte le salse, riprendiamo la via del ritorno prima che lo faccia la grande massa di turisti.

Si cena nuovamente alla Moab Brewery; stavolta, però ordiniamo un wrap in meno: ci saziamo ugualmente e risparmiamo qualche dollaro su un conto che, comunque, era già più che onesto.

Domenica 28/6

Ultima puntata (la terza in 3 giorni!) agli Arches, dopo aver lasciato i bagagli al Lazy Lizard. Qui lo strano tipo con un occhio solo, rivelatosi un appassionato fornaio, ci regale un filone di pane: discreto per gli standard italiani, superlativo per gli USA.

Stavolta si esplora la zona più lontana del parco, cominciando con una piacevole camminata fino al Landscape Arch (il più lungo arco naturale del mondo, con una campata di 90 metri) e poi verso il Double O, che si scorge da lontano. Vediamo poi altri 2 archi più vicini alla strada, il Tunnel Arch e il Sand Dune Arch, quest’ultimo molto suggestivo per lo scenario complessivo e per il sentiero di finissima sabbia gialla che si percorre per arrivarci.

Tornati a Moab, si fa un po’ di spesa, si saluta la strampalata, ma simpatica, combriccola del Lazy Lizard e comincia la lunga galoppata verso Nord. Sosta-pranzo a Green River, vicino al museo cittadino (in questi posti si trovano sempre tavoli da pic-nic, acqua e bagni), poi si arriva senza difficoltà all’innesto dell’Highway 15; c’è un po’ di traffico intorno a Salt Lake City, ma si riduce avvicinandosi a Ogden, il paese consigliatoci da Charlie come posto-tappa per stasera.

Si va al Motel 6 prenotato ieri con il cellulare, vicinissimo all’autostrada. La zona è alquanto squallida, ma il motel è nuovo, le stanze sono belle e c’è una piccola piscina. Il gestore ci consiglia un posto per mangiare, il Rooster, dicendo che è vegetariano; in realtà non è proprio così, ma si mangia molto bene (ottimi i wraps vegetali) e a un prezzo decisamente basso.

Lunedì 29/6

Oggi niente sveglia: finisce che ci alziamo a un’ora per noi tarda assai, le 8,30. Nel parcheggio – ieri sera pienissimo – è rimasta solo la nostra Kia.

Vorrei controllare le gomme prima della lunga tirata verso Nord e chiedo a un tipo di un’officina; lui guarda il cruscotto e mi dice che se non si accende alcuna spia, “it’s fine”. Meglio così.

Tra una cosa e l’altra, si parte decisamente più tardi del previsto, ma la strada è facile da trovare (dopo il primo grosso paese, Logan ci sono già le indicazioni per Jackson), scorrevole e molto bella: risalita una stretta valle, si superano alcune verdi colline e si costeggia un bel lago in una zona rinomata per i lamponi. Attraversiamo alcuni paesini dai nomi francesi: Montpelier (con una “l”), Geneva e Paris (4 case in croce e con in centro un disegnino con la Torre Eiffel).

A Jackson, bella città turistica e piena di negozi, si fa la spesa in un supermercato, poi si percorre il breve tratto di strada (circa 10 miglia) che porta alla stazione sciistica di Teton Village. Il paesino è molto gradevole e costruito in modo da non stravolgere l’ambiente circostante; anche il Teton Village Hostel, prenotato da casa, è accogliente con la sua bella struttura in legno.

E’ ancora presto; ne approfittiamo per salire con una seggiovia gratuita (negli Usa le chiamano “gondole”) fino a un punto panoramico sulla valle, a quota 3.000: sono le 8 di sera e si sta ancora bene in maglietta! Mangiamo sui tavoli fuori dall’ostello, poi Federico ed io ci facciamo qualche partita a Carambola, nel piano inferiore dell’ostello stesso.

Un tè alla reception, poi saliamo alla nostra camera; prima di andare a dormire vediamo – comodamente al coperto – gli elementi naturali scatenati: pioggia a dirotto a Teton Village; lampi e tuoni in lontananza. Meno male che non siamo in tenda.

Martedì 30/6

Poco prima di entrare nel Teton Range Park c’è una fila di auto ferme; lavori in corso? No, ci sono 2 alci (femmine o giovani, non hanno le lunghe corna) che bevono nello stagno.

L’ambiente naturale del Teton è molto bello: siamo più o meno a quota 2.000 e ci troviamo su di un vasto e verdissimo altipiano, dal quale svettano montagne di tipo alpino, alte fino a 4.100 metri.

Ci fermiamo, come di consueto, al Visitor Center per cartine e suggerimenti sui sentieri; ce ne indicano 2 e andiamo subito al punto di partenza del primo, il Jenny Lake. Da qui si prende un battello gratuito che ci porta sull’altra sponda del lago e si sale per un agevole sentiero fino a un Inspiration Point (grazioso ma nemmeno lontanamente paragonabile a quello del Bryce Canyon) e alle Hidden Falls.

Dopo aver sostato in diversi view point lungo la strada principale del Teton Range, si mangia in un’area pic-nic per poi prendere la via del ritorno; in breve siamo alla partenza del secondo trail previsto, quello del Taggart Lake. Percorso un sentiero assai poco montano per una ventina di minuti, si sente il cielo brontolare e si vedono, in lontananza, alcuni nuvoloni scuri; allora, considerato il diluvio di ieri sera, si fa marcia indietro.

Probabilmente si poteva proseguire senza farsi la doccia, ma ormai siamo alla macchina; utilizziamo il tempo risparmiato per tornare al supermercato di Jackson e fare una robusta spesa da 2 giorni, in vista di Yellowstone.

Si cena al Teton Thai consigliatoci dal gestore, ma i piatti sono improbabili accozzaglie di ingredienti al limite dell’immangiabile: questo sarà il ristorante peggiore dell’intera vacanza.

Mercoledì 1/7

Finalmente arriva il giorno del posto più atteso della vacanza: Yellowstone. Sveglia alle 6,30 e colazione nel piano sotterraneo dell’ostello; verso le 8 siamo già nel Teton Range Park, che attraversiamo rapidamente fermandoci solo per scattare qualche foto.

Arrivati allo Yellowstone National Park, dopo l’immancabile foto al cartello indicatore, ci avviciniamo alla zona più famosa, quella dell’Old Faithful. Ci fermiamo un momento per vedere gli orari previsti per le “eruzioni” dei geyser, poi proseguiamo, tanto si dovrà tornare qui per la cena.

Dunque, l’esplorazione di Yellowstone comincia con le varie pozze che si incontrano lungo la strada che porta al nostro campeggio, a Madison. In un magnifico crescendo di spettacolarità, si parte con il Black Sand Basin (che già non è male) e si prosegue con la zona del Biscuit Basin, dove si trova la notevole Sapphire Pool, una pozza che – come suggerisce il nome – ha le acque di un bellissimo colore azzurro.

Ci sembra già di aver visto tanto, ma il meglio deve ancora venire: nel Midway Geyser Basin ci sono, infatti, una stupenda pozza di color turchese (Turquoise Pool) e la perla della zona, la fantastica Grand Prismatic Spring, un laghetto di circa 100 metri di diametro con colori così stupefacenti da sembrare finti e un leggero fumo che aleggia al di sopra delle acque. Come suggerito da vari resoconti di viaggio, percorriamo una stradina che, in una decina di minuti, ci porta alla base delle collinette che stanno dietro alla Prismatic; da qui – per tracce di sentiero tra gli alberi, scomodo e faticoso – si sale per ammirare dall’alto uno spettacolo straordinario: una piscina, quasi perfettamente rotonda, di acque turchesi con i bordi giallo-arancio-rosso e piccoli ruscelletti serpeggianti che entrano ed escono come i raggi del sole. Fantastico!

Siamo davvero senza parole: in poche ore Yellowstone ha già scalato alla grande la classifica di parchi, fin qui guidata – a parere di tutta la famiglia – dal Bryce Canyon. E siamo solo all’inizio, come potremo constatare successivamente!

Dopo il pranzo in un’area pic-nic, si raggiunge il Madison Campground, una bella area alberata simile al campeggio del Grand Canyon. Come l’altra volta, chiediamo in prestito il martello e qualcosa per gonfiare il materassino; stavolta ci aiuta una famiglia di mormoni con ben 7 figli. In breve, tutto è sistemato per le prossime 3 notti.

Si riparte; dopo una sciacquata ai piedi sulle rive di un ruscello (non ci sono docce al camping), ci fermiamo in una zona con fenomeni naturali alquanto diversi da quanto visto finora: il fango bollente di Fountain Paint Pot.

Infine, verso le 19 siamo davanti al celeberrimo Old Faithful, seduti sulle panche gremite di spettatori in vista della successiva “eruzione” (il geyser si attiva ogni 90 minuti, con un margine di errore di 10 minuti al massimo): è un bellissimo spettacolo, con la colonna d’acqua alta 50 metri che sale verticale e poi in parte si vaporizza e in parte si piega, spinta dal vento.

Alle 20,30 abbiamo la cena, prenotata da casa (!), all’Old Faithful Inn: ottima la zuppa ai peperoni. Restiamo ancora un po’ dentro a questo bellissimo lodge, costruito su enormi travi di legno, e saliamo al secondo piano per ascoltare il gradevole suono di un pianoforte.

“Giallo” al momento del ritorno: non ricordo più da dove sono arrivato, e solo dopo aver girato a vuoto per un po’ riesco a ritrovare la Kia.

Giovedì 2/7

La prima notte a Yellowstone trascorre senza problemi; temevamo il freddo, invece si sta più che bene: con una felpa e un paio di calze si può uscire tranquillamente dalla tenda anche verso l’alba.

Rapida colazione sul nostro tavolo da pic-nic, poi si parte per percorrere l’anello alto della strada a forma di 8 – in totale sono ben 230 kilometri – che copre gran parte di questo parco sterminato.

Anche oggi si comincia alla grande, con la visita al Norris Geyser Basin: ci sono 2 sentieri sulle classiche passerelle di legno, per un totale di circa 3 kilometri, e anche questo posto è spettacolare. La cosa più bella è la Emerald Pool, il cui nome – una volta di più – è del tutto meritato, visto l’incredibile color verde smeraldo della pozza.

Si prosegue lungo la strada a 8 verso Nord; la sosta successiva sono le famose Mammouth Hot Springs, cascatelle di acqua calda che scorrono lungo una collina calcarea, creando tanti piccoli laghetti e bellissimi giochi di colore tra il bianco e il giallo-arancione. Anche stavolta ci vuole un bel po’ per vedere tutto; l’orario non è dei più felici (siamo nel mezzo del giorno e fa piuttosto caldo), ma il posto è un’altra incredibile meraviglia della natura.

Nel villaggio i cervi pascolano tranquilli nelle aiole; anche noi troviamo una bella panchina nel verde (e all’ombra) e lì ci fermiamo a mangiare, sotto gli occhi curiosi del solito scoiattolo.

Rivista rapidamente la parte più suggestiva delle cascatelle – quella, riprodotta in tante cartoline, che ricorda Pamukkale in Turchia – si riprende l’auto. Dopo una bellissima vista dall’alto di un view point appena segnalato, si devia per vedere l’albero pietrificato, che si rivela l’unica vera delusione di Yellowstone: il posto è insignificante e ci costa pure una lunga camminata sotto il sole.

Unico aspetto positivo è la vista, da lontano, di un’orsa con il cucciolo. Siamo già contenti per essere riusciti a scorgere questo animale, ma di lì a pochi minuti vedremo di molto meglio: un orso scuro a non più di 3 metri dalla strada asfaltata!

Si arriva a Canyon; sostiamo allo store per comprare qualcosa da mangiare, ma c’è ben poco: stasera ci arrangeremo con quello che è rimasto nel nostro scatolone di polistirolo.

Tornai a Madison, riscendiamo la valle per andare a lavarci nel fiume di ieri, ma la strada è più lunga del previsto e dopo un po’ rinunciamo. Cena al campeggio mentre i nostri vicini mormoni si danno da fare con l’immancabile barbecue.

Venerdì 3/7

L’inizio della giornata è tutt’altro che positivo: lasciamo la Canon in tenda e mi tocca sciropparmi 20 miglia (A/R), mentre Federico e Rosa Maria vedono un’altra pozza. Per recuperare tempo premo un po’ troppo sull’acceleratore e a Norris un’auto dei ranger del parco mi fa segno di fermarmi.

Seguono attimi di paura, che diventa terrore quando il ranger mi dice che andavo a 62 mph a fronte di un limite di 45: oddio, chissà che multa ci appiopperà. Invece, dopo averci chiesto se c’era una ragione per questa velocità (al che rispondiamo tutti e 3 all’unisono “We have forgotten…” senza specificare che cosa), si limita a controllare i documenti e a dirci di andare più piano. Che sollievo!

Dopo qualche minuto, ripenso all’intera scena: io che scendo dall’auto e il ranger che, con aria minacciosa, mi fa segno di rientrare, mi fa mettere le mani sul volante e poi mi fa aprire il finestrino per passargli i documenti… sembra la scena di un film per noi europei, non abituati a questo tipo di approccio lungo le strade.

Oggi è in programma la visita della zona denominata Grand Canyon, quella più tipicamente montana del parco, famosa per le sue cascate. Percorriamo in successione il North e il South Rim del fiume Yellowstone, fermandoci in corrispondenza dei vari view point.

Si comincia con un sentiero che scende fino al punto più alto delle Lower Falls, bellissime cascate di quasi 100 metri: lo spettacolo è stupendo, ma il meglio deve ancora venire. Più tardi, infatti, ci fermiamo all’Artist Point e qui il panorama ci lascia senza fiato: si vedono con un unico colpo d’occhio le cascate e il profondo canyon sottostante, in un quadro di rocce gialle-rossicce che fanno un magnifico contrasto con il verde degli alberi e l’azzurro cristallino delle acque.

Insomma, una meraviglia (l’ennesima), il punto panoramico più bello di Yellowstone e uno tra i più belli che ricordi di aver visto.

Sull’altro lato del canyon l’attrazione principale è l’Uncle Tom Trail, un sentiero che conduce – in ripida discesa – a un altro stupendo belvedere, questa volta posto all’altezza del punto di arrivo delle Lower Falls, incombenti sopra di noi. C’è anche un arcobaleno creato dall’acqua vaporizzata: altro lavoro (e non poco!) per la Canon e per la Lumix.

Ma c’è ancora tanto da vedere. Superata un’ampia prateria nella quale pascolano tranquilli i bisonti, ecco l’anticamera dell’inferno: un antro dall’appropriato nome di Dragon’s Mouth, con tanto di fumi e odore di zolfo, e un’ampia pozza giallastra di fango ribollente, il Sulphur Caldron.

Qualche kilometro e il panorama torna dolcissimo: si costeggia l’ampio Yellowstone Lake fino a North Tumb, dove ci aspetta un’altra area di pozze e geyser, meno superlativa di quelle viste finora, ma comunque interessante, soprattutto per la presenza di alcune curiose montagnole che – a mo’ di piccoli vulcanelli – emergono dalle acque del lago.

Andiamo sparati verso la zona dell’Old Faithful, vista di sfuggita il primo giorno, ma che merita una visita più approfondita. E’ ancora abbastanza presto, c’è tutto il tempo per fare la camminata dal “Vecchio fedele” alla Morning Glory Pool, che Federico ha proposto di andare a cercare, dopo averla vista in una cartolina. E bravo il nostro ragazzo: la pozza ha colori straordinari ed è – dopo l’inarrivabile Grand Prismatic – la più bella del parco: sarebbe stato un vero peccato perdersela!

Ma non c’è solo lei: lungo il sentiero vediamo anche tanti geyser (qualcuno attivo, altri no) come Castle Geyser e The Grotto: una passeggiata rilassante e bellissima, sotto il piacevole sole del tardo pomeriggio. Di ritorno, ci gustiamo nuovamente l’eruzione dell’Old Faithful, stavolta da un’altra angolazione; il geyser è perfettamente illuminato.

Quest’altra, meravigliosa giornata si conclude con una buona cena all’Old Faithful Inn.

Sabato 4/7

Caricata la macchina, si va alle Kepler Cascades, nella zona dell’Old Faithful; da qui parte la camminata – consigliata dai ranger – per il Lone Geyser. Ma è destino che il geyser rimanga solitario: il sentiero, infatti, pullula di zanzare assatanate e in breve decidiamo di desistere.

Non tutti i mali vengono per nuocere: il tempo risparmiato ci consente di fare un’altra escursione lungo un sentiero che passa vicino ad altri geyser (tra questi Daisy, che però non rispetta l’orario previsto e ci fa aspettare inutilmente per una ventina di minuti) e si conclude presso la nostra amata Morning Glory Pool, che volentieri immortaliamo anche con la luce del mattino.

Non lontano da qui ci capita un incontro davvero inaspettato: tra gli alberi, a 2-3 metri dal sentiero – e siamo nella zona più frequentata di Yellowstone! – appaiono un orso e subito dietro un lupo o coyote che sia. Federico e Rosa Maria si avvicinano per guardare meglio e fotografare mentre io, più prudentemente (o più “conigliamente”), osservo i due animali a rispettosa distanza.

Per concludere in bellezza, ci fermiamo ancora una volta alla Grand Prismatic Spring, che appare ancora più bella in un momento in cui il vento, spingendo via i fumi che aleggiano sopra la superficie, rende i colori straordinariamente vivi.

Si esce definitivamente dal parco di Yellowstone portando nella mente tante immagini di questo posto meraviglioso, un angolo di Paradiso con qua e là chiazze di Inferno: da un lato praterie sconfinate dove pascolano mandrie di bisonti, verdi boschi e dolci colline, cascate, canyon e torrenti; dall’altro – a poca distanza – pozze di fango ribollente, fumarole e odore di zolfo…

Il viaggio è assai più rapido del previsto: altro che Idaho Falls, dove avevo immaginato di dormire stanotte, si può arrivare tranquillamente fino a Ogden. Stavolta si va al Motel 6 che si trova in centro città: è decisamente più scalcagnato dell’altro, ma in compenso costa solo 60$.

Dopo un’altra buona cena al Rooster (una delle ragioni per scegliere Ogden come posto tappa…), prima di rientrare al motel si devia per una strada in salita fino a un punto da cui si vedono i fuochi artificiali dell’Indipendence Day: bello spettacolo.

Domenica 5/7

Oggi ci aspetta una lunga giornata di puro trasferimento, alla fine della quale ci saremo sciroppati poco meno di 900 kilometri.

Si imbocca la Highway 15 e, superata la capitale dello Utah, si passa vicino al Gran Lago Salato che le dà il nome, poi c’è un lungo tratto che costeggia un’enorme spianata bianca di sale; ci fermiamo un paio di volte per scattare qualche foto al curioso spettacolo.

Si fa la sosta-pranzo nel bel parco della zona sportiva di Elko, dove – come sempre – si trovano acqua e rest rooms. La Kia si riposa meno di un’ora, poi le tocca faticare nuovamente, ma il “lavoro” è facile: strada larga, pianeggiante e semideserta. Oggi risulta molto utile il “cruise control”, che permette, impostata una certa velocità, di mantenerla senza usare l’acceleratore fino a quando non si disinserisce il sistema o si tocca il freno: l’ideale per queste interminabili autostrade.

Si entra in Nevada e cambia il fuso orario; guadagniamo 1 ora. Tanto meglio, anche questo ci aiuta e possiamo macinare ancora un po’ di miglia: superiamo un grosso paese dal curioso nome di Winnemucca, superiamo parecchi altri abitati più piccoli e – infine – ci fermiamo a Fernley, una trentina di miglia prima di Reno, per sistemarci al “solito” Motel 6.

Cena discreta in un ristorante messicano; il gestore parla spagnolo, il che mi consente – finalmente! – di lasciar perdere per una sera l’inglese e di capire perfettamente tutto quello che mi viene detto.

Lunedì 6/7

Ci alziamo ancora incerti su che cosa vedere prima dell’arrivo a Lee Vining, dove pochi giorni fa ho prenotato il motel per stasera. Alla fine si opta per il Lago Tahoe e questa si rivelerà senz’altro una buona scelta. Il lago, che ha una superficie di quasi 500 kmq, è un posto assai turistico (lungo la strada costiera c’è coda in alcuni tratti), ma vale veramente la pena di vederlo: acque cristalline e belle spiagge sabbiose con alle spalle folte foreste di conifere. Insomma, un vero gioiello.

Si raggiunge una di queste spiagge, Nevada Beach, e verrebbe voglia di fermarsi a prendere il sole e fare il bagno nelle tiepide acque del lago. Ma il tempo è tiranno e si prosegue in auto fino alla “perla” del lago, la bellissima Emerald Bay, che si può ammirare dall’alto di un punto panoramico.

Il tempo sta cambiando; lungo la comoda strada che scavalca la Sierra Nevada (niente a che vedere con gli interminabili saliscendi del tratto tra Sequoia e Death Valley…), il sole sparisce e – via via che si avanti – il cielo si riempie di nuvoloni neri molto minacciosi.

A un certo punto, inevitabile, arriva la pioggia: ci becchiamo due temporali fortissimi, uno dei quali con tanto di grandine; trovo un parziale riparo per l’auto sotto “mezza” tettoia di un benzinaio (i posti più coperti sono già occupati) e mi fermo per una decina di minuti.

La grandine cessa, anche se il cielo è sempre nerissimo. Verso le 17 appare il curioso Mono Lake; superato Lee Vining, si percorrono altre 4-5 miglia per vedere l’attrazione principale della zona, le rocce tufacee di South Tufa. Si tratta di strane formazioni di roccia calcarea emerse verso la metà del secolo scorso, in seguito all’abbassamento del livello del lago, dovuto al fatto che per molti anni era stato usato per portare acqua a Los Angeles.

Dal parcheggio c’è un sentiero di circa mezz’ora che consente di inoltrarsi in mezzo a queste rocce dalle forme più strane, ed è una passeggiata davvero piacevole e interessante; la minaccia di pioggia è costante, ma alla fine il tempo tiene e riusciamo a concludere il giro senza bagnarci.

Si ritorna a Lee Vining; il Yosemite Gateway Motel situato su un rialzo con vista lago – è molto grazioso; dal lato opposto alla nostra stanza, si vede una parte dell’albergo che sporge nel vuoto.

Il paese è piccolissimo e c’è solo un ristorante, ma anche stasera – sia pure a fatica – si riesce a trovare qualcosa di vegetariano.

Martedì 7/7

Colazione con i muffin comprati ieri e via, verso lo Yosemite National Park.

La strada che sale al Tioga Pass (3.000 metri circa) è bellissima, con laghetti, boschi e montagne incombenti; segue poi un tratto meno spettacolare, che pare interminabile, fino ad arrivare al centro del parco, la Yosemite Valley. Dopo una prima sosta, con breve sentiero fino alle Brideveil Falls (così così), si prosegue all’interno della valle, con sulla sinistra la celeberrima e incombente parete del Capitan: 1.000 metri di roccia a strapiombo.

Lasciata l’auto al parcheggio, si prende il “solito” shuttle gratuito fino al punto da cui parte il Mirror Lake Trail; il sentiero si rivela alquanto deludente poiché in questa stagione il lago è poco più di una pozza e non riflette granché. Si fa poi una piacevole passeggiata, sotto grandi alberi, alle Lower Falls; le cascate sono molto carine, anche se dopo Yellowstone sembrano poca cosa.

Dopo il pranzo, si torna indietro per poi risalire lungo la strada che porta al punto panoramico più noto, il Glacier Point. L’idea iniziale è quella di fare l’ultimo tratto in navetta, ma non ci sono indicazioni sugli orari, per cui – visto che sono le 16,30 e la strada è aperta a tutti – proseguiamo con l’auto fino al fondo. Poco dopo scopriremo il motivo del blocco stradale durante le ore di maggior traffico: negli ultimi 2-3 kilometri la strada è stretta (secondo gli standard USA, per noi è normalissima).

Si fa una sosta a Washburn Point, belvedere spettacolare da cui si vede l’Half Dome perfettamente di profilo: la celebre parete sembra tagliata a metà, in verticale, con un ciclopico coltello. Egualmente meraviglioso è il panorama che, poco più avanti, si gode dal Glacier Point, sicuramente la cosa più bella vista a Yosemite.

Con una lunghissima discesa, in un bel panorama di boschi, si raggiunge l’uscita Sud del parco; ancora un po’ di miglia e siamo a Oakhurst, dove si trova il grazioso Mountain Trail Lodge prenotato qualche giorno fa.

Mercoledì 8/7

Ci alziamo con tutta calma; discreta colazione con i bagel in un caffè del paese, qualche (scarsa) informazione all’ufficio turistico e via verso San Francisco. C’è qualche dubbio su quale strada prendere, tra le tante che vanno verso il mare; si seguono le indicazioni di un benzinaio.

Il paesaggio è brullo e il traffico si fa sempre più intenso: eravamo abituati troppo bene in Utah, Arizona e Nevada…

Visto che è presto, si decide di costeggiare tutta la baia di San Francisco e poi entrare in città passando dal Golden Gate Bridge, con il vantaggio di non doverci tornare apposta. Sull’autostrada, però, non vi sono indicazioni chiare, per cui ci troviamo incanalati direttamente sul ponte che collega Oakland con il centro città.

Si raggiunge la downtown senza alcuna difficoltà, a parte una ripida salita e la successiva, vertiginosa discesa che ci danno subito l’idea di com’è fatta Frisco: pochi minuti e parcheggio l’auto davanti al San Francisco Downtown Hostel.

Il posto dove si deve restituire l’auto è esattamente davanti all’ostello, ottimo. Come la nostra “Opima”, un’auto che ha pienamente tenuto fede al suo nome.

Ci sistemiamo; come prevedibile, la camera è abbastanza piccola, ma nel complesso l’ostello è molto bello, oltre ad essere situato proprio al centro della città. Usciamo per un primo giretto della zona centrale intorno a Union Square; vediamo – insieme a tanti altri turisti – la curiosa manovra che fanno i tranvieri per rigirare le “cable cars” alla fine del loro percorso, nel punto più basso.

Dove andare a cena? L’idea è quella di un ristorante indiano; scegliamo il Little Delhi, che sembra carino e ha avuto diversi premi; in realtà, la cena è discreta, ma niente di più.

Giovedì 9/7

Dopo una più che lauta colazione all’ostello (non solo bagel con marmellata e burro di arachidi, ma anche mele e banane a volontà), si parte per visitare San Francisco con un cielo grigio e un clima autunnale: anche a mezzogiorno la temperatura non supererà i 18°.

Si segue l’itinerario a piedi consigliato dalla guida, che attraversa Chinatown (molto piccola e niente di speciale) e prosegue per North Beach, il quartiere italiano, strapieno di caffè, pizzerie e ristoranti toscani, campani e quant’altro. Curioso un locale dove campeggia una grande Italia dipinta con il tricolore; la cosa buffa è che la scritta “Sarno” è assai più grande rispetto a “Roma” o “Napoli”.

Per una strada in ripida salita si raggiunge la Telegraph Hill, dove si trova la strana costruzione della Coit Tower; dopo una coda di mezz’ora, saliamo in cima con l’ascensore. Il panorama sulla città è notevole; peccato, però, che la giornata non sia delle migliori: spunta appena, tra le nuvole, l’isola di Alcataz, mentre il Golden Gate Bridge nemmeno si vede.

Scendiamo verso il mare per la stretta Filbert Street, seminascosta in mezzo a villette con lussureggianti giardini pieni di bellissimi fiori; non sembra assolutamente di essere nel cuore di una metropoli. Si vede anche un uccellino che pare un colibrì.

Costeggiamo a piedi i vari moli, fermandoci al Pier 39, celebre per i leoni marini. Poco dopo comincia a piovere e – dato che siamo senza giacche – aspettiamo all’interno di un supermercato; per fortuna la pioggia non dura molto. Si raggiunge poi il punto di Lombard Street da cui parte la scenografica discesa a serpentina in mezzo alle ortensie immortalata in tante cartoline; come d’incanto ecco comparire orde di turisti, tra i quali spiccano gli immancabili giapponesi.

Si torna verso il centro e si compra in un piccolo supermercato la pasta e la verdura per cenare all’ostello.

Ci aspetta un’ultima fatica, la ripida salita lungo Mason Street fino alla cima di Nob Hill, zona raffinata in cui si trovano alcuni enormi alberghi.

Verso le 18,30 siamo al Downtown Hostel: un po’ di riposo e si cena con le penne De Cecco.

Venerdì 10/7

Ultimo giorno di vacanza con tanta, tanta strada a piedi! Dopo colazione si va al Civic Center (niente di speciale), poi si prosegue per Alamo Square che, invece, è un bellissimo posto, sia per le caratteristiche “case gemelle”, sia per il panorama sulla downtown di Frisco.

Infine, sulla via del ritorno, si passa dalla St Mary Catholic Church, chiesa moderna progettata – tra gli altri – da Pier Luigi Nervi, che si rivela una bellissima sorpresa: interessante la parte esterna; magnifico l’interno, grazie a bellissimi giochi di luce. Ci sono anche 4 grandi vetrate, decisamente inusuali, poste ai 4 angoli della chiesa.

Verso le 13 siamo di nuovo in ostello per fare il check-in online; l’operazione riesce, ma dovremo stampare le carte d’imbarco più tardi. Pranzo con i bagel presi a colazione, poi – finalmente con il sole e una temperatura gradevole (intorno a 23-24°) – si esce nuovamente per andare al famoso Golden Gate Bridge. Si devono prendere due autobus; peccato, però, che il secondo, il 28, non arriva al ponte a causa di lavori stradali nella zona. Se ne prende un altro che fa capolinea non troppo lontano (si fa per dire: si tratta di un paio di miglia) dal ponte.

Così, ci sciroppiamo una lunga camminata lungo la pista ciclabile fino al Golden Gate Bridge, ma tutto sommato ne vale la pena: la giornata è splendida e dal ponte si gode un superbo panorama sulla città, sulla baia e sull’isola di Alcatraz. Al ritorno colpo di fortuna: sta per partire un bus “Go”, chiediamo informazioni all’autista e scopriamo che è gratuito; ci sono solo 2 fermate; dunque, scendiamo al capolinea, nel Financial District; da qui si torna all’ostello con una piacevole passeggiata per Market Street, in mezzo a una foresta di altissimi grattacieli.

La procedura di stampa delle carte d’imbarco è lunga e faticosa (soldi esauriti, guasto alla stampante…), ma alla fine ce la facciamo.

E’ tardi per comprare e preparare cena, per cui andiamo a De afghanan, ristorante afghano visto stamattina. Ce lo ricordavamo vicino, invece ci tocca un’altra lunga camminata (e poi una ventina di minuti di attesa, poiché il locale è molto piccolo); per fortuna ne vale la pena: razioni poco generose, ma cibo molto buono. Insieme al Bright Angel Lodge e al Rooster, è il posto dove abbiamo mangiato meglio in tutto il viaggio.

Al ritorno vediamo molte persone più o meno disastrate – avevo letto sulle guide che se ne trovano soprattutto nella zona centrale – ma non si ha mai una effettiva sensazione di pericolo.

Sabato 11/7

Lo shuttle dell’ostello arriva in perfetto orario, alle 9; mezz’ora dopo siamo all’aeroporto.

Il primo volo dura poco più di 3 ore; siamo vicini al finestrino e ci godiamo alcune belle viste sul Lago Tahoe e nella zona del Gran Lago Salato.

A Minneapolis il tempo dello scalo è breve, ma non ci sono dogane o altri controlli; in pochi minuti siamo al gate da cui parte l’aereo per Amsterdam: ottimo! Anche il secondo volo è in perfetto orario; si vede poco dal finestrino, poi cala la notte e cerchiamo di dormire, peraltro senza molto successo.

Domenica 12/7

Ad Amsterdam c’è ancora qualche problema a stampare la carta d’imbarco nei self service; alla fine ci riusciamo modificando i dati sul bagaglio. Poco dopo le 15, in perfetto orario, siamo a Caselle; 2 valigie arrivano subito, un’altra il giorno dopo.

NOTE

Clima. Si è sofferto il caldo meno del previsto, anche grazie alle sveglie molto mattutine, con cui siamo riusciti spesso a visitare un parco il mattino presto e/o verso il tramonto, utilizzando le ore più calde per gli spostamenti in auto. Posto più caldo = Las Vegas, sui 40° anche di sera (la Death Valley non conta, ci siamo stati prestissimo al mattino); ottimo clima a Bryce Canyon e Grand Canyon; fresca (anche troppo) San Francisco. Costi. Motel a prezzi molto variabili (da 60$ a 140$), assai più alti nelle zone turistiche; campeggi a prezzi irrisori (minimo 18$ in tre). Pasti sempre abbastanza economici.

Strade. Ben indicate con numero e direzione (es. 95 North) e spesso semideserte. Limiti di velocità che variano continuamente: attenzione!.

Parchi- Una meraviglia: cartine dettagliate con tutti i sentieri, elenco delle attività dei rangers e – in diversi posti (Zion, Grand Canyon, Bryce Canyon, Yosemite) – shuttle gratuiti e assai frequenti. Sentieri: se c’è scritto che ci vogliono 2-3 ore, basta 1 ora e mezza; inoltre, quelli definiti “strenous” sono paragonabili ai nostri sentieri di montagna più facili.

Animali. Abbiamo visto 2 orsi vicinissimi, cervi, bisonti e scoiattoli a volontà, addirittura un lupo. Peccato solo per l’alce maschio che non è mai comparso.

Dimensioni, distanze. Oltre che per la loro bellezza, i paesaggi colpiscono per le loro dimensioni: il Grand Canyon, smisurato, impossibile da cogliere con lo sguardo ne è l’emblema (ma anche i roccioni di Monument Valley non scherzano…). Mezzi di trasporto enormi; un camper da 7 metri, grande in Italia, qui sembrerebbe una 500. Di conseguenza, sono grandi anche le corsie, le strade, i parcheggi… Le distanze sono percepite in maniera assai diversa che da noi. Esempio: cerco un negozio e la ragazza del Motel mi dice: “En el pueblo aquì cerca” e quel “cerca” equivale a… 12 miglia!

Più e meno. Sorprese positive: Canyon de Chelly e Mono Lake; delusioni (ma leggere e dovute soprattutto alle aspettative della vigilia): Zabriskie Point e Canyonlands. Riguardo al posto più bello in assoluto – fermo restando che abbiamo visto cose straordinarie ovunque – Yellowstone è veramente fuori categoria. Mi viene in mente il titolo de “La Stampa” che – dopo l’ennesimo Tour vinto da Merckx – titolava: “Merckx superuomo, Gimondi primo degli uomini”. Parafrasando direi: “Yellowstone extraterrestre, Bryce primo dei posti meravigliosi”.

Varie. Grande attenzione ai disabili, non solo in città: in prossimità di tutti i Visitor Center e dei view point, i posti più comodi del parcheggio sono riservati ai portatori di handicap. Attenzione alle pari opportunità: ad esempio, i fasciatoi per neonati si trovano sia nei bagni delle donne, sia in quelli degli uomini. In compenso, ci sono cose per noi incredibili come i cartelli che – all’entrata dei Visitor Center – segnalano il divieto di… introdurre armi!



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