Viaggiare intorno al mondo con un camion: quando anche pochi centimetri contano davvero

Redazione TPC, 29 Dic 2025
viaggiare intorno al mondo con un camion: quando anche pochi centimetri contano davvero

Avevamo un sogno. Avevamo anche un salotto. Un bel giorno abbiamo deciso di trasformare quel salotto nel palco scenico del nostro sogno. Scotch carta alla mano, tipo revolver in un film western, sguardi carichi di entusiasmo: convinti di riuscire a far entrare letto, cucina, bagno, divano, tv e armadio in quattro metri o poco più. La mano incartava, gli occhi scintillavano, la mente galoppava, creava, incastrava, rimpiccioliva la doccia, recuperava centimetri, risolveva. In teoria. Poi è arrivata la pratica. In un attimo il nostro salotto è diventato un campo di battaglia: cartoni ovunque e persino il tavolino sacrificato alla causa. Dopo pochi minuti era chiaro: la realtà è molto meno spaziosa di come ce l’immaginavamo. Ci siamo fermati, ci siamo guardati, ed era lampante: quello di cui avevamo bisogno era ben più ampio di quattro metri.

L’idea che resiste

Eppure, nonostante lo spazio tiranno e la frustrazione palpabile, abbiamo continuato. Perché quel giorno, in quel salotto, era iniziato tutto: l’idea aveva preso corpo, il sogno aveva sbattuto contro muri freddi e concreti, ma aveva continuato a respirare. Siamo tornati sul divano, computer aperto con mille schede a confronto: forse un van più grande? Pro? Contro? La spesa? Ne valeva la pena? Ci assalivano nuovamente domande e dubbi, e in un attimo eravamo di nuovo al punto di partenza. Lo sconforto c’era, ve lo assicuriamo. Ma la voglia di magia, quella, non ci ha mai lasciati. Così sono passati i giorni: tra lavoro, mille domande, stress: la solita giostra quotidiana. J, persino mentre lavorava, trovava sempre un momento per cercare ispirazione online. Io rientravo la sera, stanca dopo ore in cucina, tra caldo, nervosismi e gambe gonfie, ma ascoltavo sempre con piacere ogni nuova proposta. Sì, perché discutere delle sue idee, cercare di far combaciare tutto, era quasi un rito. A un certo punto è nata l’idea dell’Unimog: un mini camion che molte persone usano come casa viaggiante, per cui abbiamo cominciato a guardare tra i vari modelli, dimensioni e costi. Ed ecco arrivato il primo tasto dolente: questo tipo di mezzi costavano troppo rispetto allo spazio reale che offrivano. Forse il gioco non valeva la candela.

Una sera che cambia tutto

Fino a quella sera: sono tornata a casa e J mi ha accolto, come sempre, con un sorriso grande, un abbraccio forte e quel bacio che sa di “finalmente sei tornata”. Inutile dire che per noi quel momento era sacro: dopo esserci persi per tutto il giorno, ci ritrovavamo lì, davanti alla porta. Poi la doccia, la mia coperta di pile caldissima e il solito divano. Quella sera l’aria era diversa. Non pesante, ma sospesa, come se custodisse un segreto. All’improvviso J mi ha guardata e ha detto: «E se prendessimo un camion?» La mia prima reazione? Ho riso. Forte. Pensavo scherzasse. Invece no: era serissimo. Ne abbiamo parlato, e devo dire che ogni suo ragionamento aveva senso. L’idea del camion, alla fine, non era poi così folle: ci avrebbe permesso di avere più carico, più autonomia, più libertà. Immaginate di poter aggiungere serbatoi più grandi, batterie extra e pannelli solari, così da poter restare in mezzo al nulla senza dover cercare acqua o corrente. Non è solo una questione di comfort: è sicurezza, solidità, indipendenza. Un mezzo più robusto significa poter affrontare strade difficili, sterrati, deserti, e sapere di avere tutto sotto controllo. Eravamo elettrizzati perché avevamo davvero la possibilità di costruire tutto su misura: ogni dettaglio, dalla cabina agli impianti, sarà deciso, disegnato e realizzato da noi.

Le prime sfide pratiche

Certo, non è la scelta più semplice. Ma diteci la verità: voi cosa avreste fatto? Avreste scelto la via più comoda o avreste seguito la curiosità, anche se un po’ folle? Inoltre, diciamocelo: andare in giro per le strade del mondo con un camion… quanto è figo? Certo, non sarà molto pratico parcheggiarlo in centro, ma stiamo già studiando una soluzione: un mezzo più piccolo a bordo, per raggiungere anche i vicoli più stretti. Nei giorni successivi abbiamo iniziato a misurare tutto come due architetti improvvisati: il metro come migliore amico e idee forse un po’ troppo ambiziose, ma ci piaceva. Siamo partiti dal divano, confrontando la seduta con quella che avremmo voluto ricreare nel camion. Fin qui tutto bene. Poi è arrivato il turno del bagno: la parte più comica. Io mi sedevo sulla tazza del wc per “simulare la situazione reale”, mentre J, armato di santa pazienza, cercava di calcolare il minimo spazio vitale per muoversi senza sentirsi in trappola. Immancabilmente finivamo a discutere: io volevo sempre un po’ di spazio in più, lui sosteneva che si poteva stringere ancora un po’. Superato il bagno, siamo passati alla cucina. Lì la faccenda si è fatta seria, almeno per me. In cucina ci lavoro, quindi non parliamo solo di un fornello e un lavello: per me è territorio sacro. Trovare il modo di far entrare tutto: piano cottura, lavello, qualche ripiano e magari pure un piccolo piano d’appoggio, era la vera sfida. J, come sempre, cercava di farmi ragionare: «Tanto cucini per due, mica per un ristorante», diceva con la calma di chi non ha mai dovuto impiattare in mezzo metro quadrato. Io, ovviamente, ribattevo che la logica non basta quando devi tritare, scolare, frullare e respirare nello stesso spazio. E qui vi chiedo: a voi quanto spazio serve per cucinare senza sentirvi in apnea?

Compromessi e scoperte

Perché io, sinceramente, non l’ho ancora capito. Ve lo devo dire: alla fine è successo, ho ceduto. Dopo una trattativa lunghissima, ho accettato di fare il piano d’appoggio un po’ più piccolo. Di quanto? Tenetevi forte. Cinque centimetri. J lo chiama “compromesso”, io preferisco “sacrificio eroico”. Per la cronaca, il piano sarà comunque di poco meno di due metri, giusto per mantenere una certa supremazia morale tra i fornelli. Insomma, ogni centimetro diventava una battaglia, ma anche un gioco. Altro che test di coppia all’Ikea: provate a camperizzare un mezzo insieme e poi ne riparliamo. Riuscire a far combaciare tutto senza perdere la testa è praticamente un miracolo di coordinazione e autocontrollo. Però, a pensarci bene, è anche una delle parti più belle. Perché in mezzo a tutte quelle discussioni su spazi, misure e soluzioni impossibili finisci per conoscere davvero l’altro e te stesso. Noi, per esempio, abbiamo capito che quando gli animi si scaldano facciamo fatica ad ascoltarci fino in fondo. Ci fissiamo sulle nostre idee, convinti di avere ragione, e per un attimo dimentichiamo che stiamo tirando la corda dalla stessa parte. Poi arriva quel momento in cui uno dei due respira, si ferma e torna a sorridere. Ed lì ti rendi conto che, anche se le idee non sempre combaciano, i cuori sì. Alla fine è questo che conta: la voglia di capirsi, di trovare il compromesso giusto, di restare una squadra anche quando lo spazio si stringe un po’. Perché sì, l’amore vince davvero. Magari non per metri quadrati, ma di certo per presenza.

Uno sguardo avanti

Nel prossimo articolo? Vi racconteremo di quando l’entusiasmo ha iniziato a fare un po’ paura: costi, tempi, prime ansie, ma anche quella fiducia testarda che ci spinge a credere in noi e nel progetto, nonostante tutto. Nel frattempo, però, ci teniamo a ringraziarvi in maniera speciale per essere qui a leggerci. A presto, avventurieri!



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