Scrittori per Caso: Poesie di Lorenza. Racconti di Loredana, Rita, Sarita
Abbiamo scelto due poesie di Lorenza e tre racconti brevi, di Loredana, Rita e Sarita
I cercatori d’amore di Lorenza
Su questo mondo freddo e spinoso siamo tutti bisognosi d’affetto: e brancoliamo come ciechi, cercandolo.
Indice dei contenuti
I cercatori d’amore
di Lorenza
Su questo mondo freddo e spinoso siamo tutti bisognosi d’affetto: e brancoliamo come ciechi, cercandolo.
Il buongiorno si vede dal mattino
di Loredana
La mia storia inizia in una giornata qualunque, in un anno qualunque, in una tiepida giornata di primavera.
La sveglia elettronica sul mio comodino, implacabile, con il suo ronzio insistente che aumentava progressivamente d’intensità, mi aveva strappato brutalmente ad un mondo popolato di sogni, un magico nirvana in cui ero la protagonista di una felice situazione.
«Cavolo! E’ già ora di alzarsi!» mi ero lamentata sottovoce con me stessa, l’unico interlocutore che in quel momento era disposto ad ascoltarmi.
Il letto, infatti, dalla parte della mia dolce metà era occupato da una sagoma rannicchiata sotto le lenzuola che lasciava intuire la forma della schiena del mio amato che dormiva così profondamente, con la bocca socchiusa che emetteva un leggero sibilo simile al suono di una teiera, che nemmeno le cannonate sarebbero riuscite a svegliarlo.
Con uno sforzo di volontà sovrumano avevo vinto l’impulso di riprendere il sonno ed avevo allungato una gamba, poi un’altra, mi ero stiracchiata ed infine ero uscita dal letto, avevo infilato i piedi nelle ciabatte di spugna, diretta al bagno per la toilette mattutina.
Il mio bagno è molto bello, grande, luminoso, con lucide mattonelle sulla tonalità dell’azzurro, colore che mi rimanda al mare e al senso di libertà che l’acqua riesce a trasmettermi.
Ci sono i soliti elementi comuni a tutti i bagni di ogni famiglia, water, bidet, lavatrice, vasca da bagno, ma una parete è interamente occupata da un grandissimo specchio che sovrasta il lavandino ed una serie di cassetti dove ripongo i miei pettini, i miei trucchi, le creme e tante altre cianfrusaglie che ritengo utili.
Lo specchio, da un po’ di tempo a questa parte, è il mio nemico, un nemico crudele e implacabile, perfido e bugiardo che non mi risparmia la visione di una immagine che non riconosco, che non sento più mia.
La nostra lotta non conosceva soste ed infatti anche quel mattino, l’immagine che scorgevo riflessa, non era quella che la mia mente avrebbe voluto vedere.
Dallo specchio mi fissava una quarantenne con gli occhi gonfi, appiccicosi per una congiuntivite allergica che mi tormentava sempre in primavera, i capelli arruffati, una leggera crescita grigia che sollecitava un appuntamento dal parrucchiere, il segno del copriletto su di una guancia, il fisico grassoccio, infagottata in una camicia da notte di flanella che era la negazione del sexi-appeale.
«Dio! Che mostro! Faccio schifo!», mi ero insultata per farmi coraggio.
Con le mani a coppa mi ero sciacquato il viso e l’acqua fredda mi aveva svegliato completamente, cancellando definitivamente la sonnolenza di prima e rendendomi la lucidità necessaria ad affrontare con obiettività il mio nemico.
Mi ero scrutata con attenzione il viso, alla ricerca di nuovi danni prodotti dall’inesorabile trascorrere del tempo. Era un compito spiacevole ed ingrato ma di cui non potevo fare a meno. L’esame non era andato male, rughe nuove non ne erano spuntate ne, a dire la verità, la mia pelle era nell’insieme abbastanza tonica, forse per merito del soprappeso che da qualche anno mi ritrovavo addosso, come un pidocchio resistente a qualsiasi trattamento.
Un po’ di ginnastica facciale, come avevo letto su una rivista femminile, delle grandi “O…” espirando con la bocca socchiusa, poi delle “A…”con la bocca spalancata, delle rotazioni del collo in senso orario ed antiorario per sciogliere la tensione muscolare e scacciare la cervicale, ed ero pronta per la mia battaglia: 1° mossa. Avevo spalmato una buona dose di crema da giorno acquistata in farmacia con grave salasso per il mio portafoglio ma che prometteva miracoli.
2° mossa. Con un pennello avevo steso un leggero strato di “terra di sole” per avere l’aspetto abbronzato senza sottopormi all’esposizione di lampade cancerogene.
3° mossa. Avevo messo il mascara per allungare le ciglia.
4° mossa. Avevo sottolineato con la matita il contorno labbra per renderle leggermente più sensuali ed avevo messo un rossetto di una gradazione più chiara.
Mi ero sfilata la camicia da notte e mi ero guardata per ricevere la seconda mazzata.
Il ventre non era piatto come avrei sperato, anzi, una pancia molliccia strabordava dall’elastico delle mutandine, nonostante cercassi di trattenerla, impegnando i miei flaccidi muscoli addominali.
La situazione al piano superiore non era migliore, le coppe di pizzo del reggiseno sostenevano due sacchetti penduli che lasciati al di fuori della loro custodia risentivano terribilmente della forza di gravità ed erano motivo di scherno da parte di mio marito nei fugaci momenti di intimità che la nostra vita ci consentiva.
«Le mie scamorzine!», mi sussurrava nell’orecchio mentre stuzzicava i miei capezzoli.
«I miei ovetti al burro!», proseguiva incurante della sofferenza morale che quella cinica anche se veritiera affermazione provocava nel mio animo sensibile.
In fin dei conti la colpa di quello sfacelo fisico era, in parte, sua.
Prima di rimanere incinta, ostentavo orgogliosamente sulle spiagge di Ibiza, dove andavano spesso in vacanza, un seno seconda misura che sembrava scolpito nel marmo e che ben si sposava con il mio fisico asciutto taglia 40 su un metro e sessantacinque di altezza, il ventre era piatto, gli addominali scolpiti dalle ore passate in palestra, il culetto alla brasiliana era evidenziato dal perizoma coloratissimo.
Poi uno spermatozoo invadente ed armato da raro spirito di avventura, aveva creato un danno irreparabile, costringendomi, mio malgrado, alla veneranda età di 33 anni ad un frettoloso matrimonio riparatore e alla convinenza con una suocera obesa che aveva cercato di rendermi il più simile possibile a lei.
«Mangia cara!», insisteva amorevolmente tentandomi con succulenti manicaretti a cui non sapevo resistere.
«Devi mettere su qualche chiletto per il bambino!» Il risultato di quel plagio culinario era stato un aumento esponenziale di peso che aveva messo k.O. Il mio metabolismo e mi aveva fatto arrivare in sala parto con un sovrappeso di 30 chili che non ero più riuscita a smaltire.
A peggiorare le cose, il mio bel seno si era gonfiato a dismisura per effetto degli ormoni, riempiendosi di latte che aveva nutrito il pargolo fino ad un anno di età. Inizialmente ne ero stata felice, godendo del mio nuovo stato di “maggiorata” che suscitava nel mio compagno pensieri e atteggiamenti particolarmente libidinosi che lo avevano trasformato in un amante focoso come non mai.
A svezzamento ultimato, il seno si era miseramente svuotato ritornando alle dimensioni iniziali ma la pelle non si era adeguata al cambiamento.
Il risultato era stato desolante: il seno si era trasformato in una triste coppia di sacche oblunghe e vuote che sfiorava l’ombelico.
Avevo tentato di tutto: massaggi, impacchi, creme, ma ogni sforzo era stato vano e alla fine mi ero rassegnata.
Il reggiseno mascherava il disastro, ma nei momenti d’intimità la situazione era evidente e il “mio amato” non mancava mai di farla notare.
Lo avrei strozzato volentieri, ma temevo le conseguenze legali di un simile gesto e accantonavo il progettato uxoricidio.
Per un attimo valutai la possibilità di ricorrere ad un buon chirurgo estetico poiché sapevo dalle solite riviste che avrebbe potuto fare miracoli ma scacciai la lusinga dalla mente e ripresi le mie operazioni mattutine.
Sfilai la biancheria ed infilai un body pancerato che avrebbe contenuto le mie abbondanti forme, un completo pantalone blu notte taglia 52 che mi conferiva un’aria elegante, infilai le scarpe con tacco 10 cm., spruzzai abbondantemente il mio Chanel n° 5 ed ero quasi pronta ad affrontare la giornata.
Ora dovevo cercare di sistemare i capelli e la missione non era semplice.
Devo dire, per onestà, che mamma natura mi ha favorito dotandomi di capelli ricci, non il riccio da africana, crespo, ma un bel riccio morbido che in un passato lontano mi consentiva di evitare sedute frequenti dal parrucchiere.
Purtroppo, anni di tinture all’ammoniaca hanno modificato la struttura del mio capello rendendolo arido, stopposo, incapace di tenere la piega, vincolato alle mani sapienti di Elvio, il mio attuale parrucchiere, che con pochi colpi di spazzola e phon, riesce a darmi un aspetto da diva mentre quando cerco di fare da sola, il risultato è pietoso e devo ricorrere ai vecchi ma mai dimenticati bigodini.
Comunque, avevo pettinato la chioma aggrovigliata con uno di quei pettinoni a denti larghi che servono per dare volume senza rovinare i ricci e con la lacca avevo dato forma al tutto.
Il risultato era accettabile.
Passai in cucina e dal frigo presi il cartone del latte, rigorosamente scremato, lo versai nella mia tazza personale che misi nel forno a micro-onde.
Dopo pochi secondi sistemai la tazza sotto la macchina del caffè espresso, aggiunsi tre pastiglie di aspartame, per non ingrassare, estrassi dal sacchetto tre biscotti tipo integrali, un pastone appiccicoso che mi restava sullo stomaco per tutta la mattina e mi gustai in santa pace la colazione.
Era uno dei momenti più piacevoli della giornata, il momento in cui concentravo le forze per affrontare gli ostacoli che si sarebbero presentati sul mio cammino quotidiano.
Il primo, inevitabile, era il risveglio delle belve.
Il diario viola (di due amici?)
di Rita
Tutto ebbe inizio quella mattina presto.
Gli occhi di Giulia erano fissi davanti allo specchio del bagno. I capelli tirati su con un fermaglio preso dal comodino, ancora quando era assonnata. Con la coda dell’occhio Giulia scorse alla sua destra come un’ombra. Era Claudio! Ragazzo favoloso, con un fisico possente, ancora atletico per i suoi 42 anni. Lei giovane donna era sempre stata attratta da lui. Lo aveva avuto al suo fianco sin da bambina, in ogni momento della sua vita, ogni giorno. Lo conosceva da quando i suoi genitori erano morti in un incidente stradale. Claudio si era sempre preso cura di lei, come una sorella e come una figlia, soprattutto dopo che il padre di lei gli aveva confidato che stava per lasciare la madre per un’altra donna; ma il destino fece poi diversamente per loro… Giulia quella mattina sorrise a Claudio, ma con poca convinzione. Lui la prese fra le sue braccia e le disse:”Ciao Bambina mia, dormito bene?” E lei:”Non ricordo di aver mai chiuso gli occhi stanotte …Ero troppo pensierosa e agitata per riposare!” Giulia odiava sentirsi chiamare a 30 anni ancora bambina da lui.
Claudio scostò dal viso di lei un ciuffo di capelli ribelli, e la accarezzò su una guancia. Con uno schiocco fragoroso gli stampò un bacio sulle labbra, ma lei con fare quasi annoiato si allontanò. Giulia sapeva che dalla notte appena trascorsa, tutto non poteva più essere come prima. Avevano fatto l’Amore almeno tre volte, persi l’uno nelle braccia dell’altro, almeno le sembrava di ricordare così…Avevano giocato sino all’alba , quasi come due incoscienti fuori da ogni schema.
Solo alla mattina tutto era diventato più chiaro per Giulia. La ragazza che vedeva nello specchio non era lei, sentiva che non era più se stessa. “Perché?” si domandava. Cos’era stato a non far andare le cose come sarebbero dovute andare? Perché non sentiva la gioia nel suo cuore? Cosa la turbava? Giulia mentre si preparava il caffè cercò di ricordare cosa era accaduto la sera prima, ma il troppo alcool per lei che era astemia e la testa stordita, non gli permettevano di avere un chiaro ricordo di come Claudio era arrivato a casa sua. Ricordava di averlo sentito verso le 7.00 di sera al telefono mentre lui sistemava le ultime cose in ufficio. L’avrebbe raggiunta poi in palestra aspettandola fuori all’uscita per andare a prendere un aperitivo insieme. Avrebbero poi cenato da lei con due pizze giganti prese nella solita pizzeria, la loro pizzeria, sotto casa di lei.
Questo era tutto ciò che Giulia ricordava della sera prima. Possibile che due birre di troppo l’abbiano ridotta all’incoscienza e a non ricordare quasi nulla? Non si capacitava.
Proprio mentre riempiva la macchinetta del caffè con dell’acqua, vide su alcune dita della sua mano, delle macchie d’inchiostro blu scuro. “Come mai?” disse.”L’ultima volta che ho scritto sul mio diario è stato 2 giorni fa, come faccio ad essere sporca d’inchiostro?”. Guardò poi di getto verso il basso, e vide che le sue ciabatte giganti rosa con la faccia d’Ippopotamo, regalatele dalla sua migliore amica Marta, erano sporche anch’esse d’inchiostro blu.
Il respiro si fece pesante, irregolare e i battiti del cuore gli arrivarono fino alla gola, soffocandola. Una goccia di sudore freddo gli cadde dalla fronte. Si precipitò di corsa nella sua camera da letto nuovamente. Cercava ovunque il suo diario viola. Forse lì poteva esserci scritto tutto quello che era successo la notte prima con Claudio.
“Giulia,” si disse ad alta voce “cerca di ricordare, sforzati! Dove hai messo il tuo diario? L’ultima volta che lo hai aperto è stato 2 giorni fa sul tuo letto! Accidenti Giulia…Uffa…Solo tu puoi ridurti in queste condizioni…”. Proprio non si ricordava dove lo aveva appoggiato. Cercò nell’armadio, buttando all’aria ogni maglione, ogni vestito, qualsiasi indumento le capitava sotto tiro; di solito succedeva che lo nascondeva lì per paura che Claudio potesse leggere qualche sua pagina…Ma nulla. Allora guardò nella sua 24 ore, la valigetta comprata anni prima a Bologna; ma anche lì tirò fuori solo dischetti per il computer e un libro di poesie.
Cercò in ogni angolo della casa. Stava per cedere, per rinunciare a dare una spiegazione a tutto quel caos, quando sentì suonare il campanello della porta. Si avvicinò cauta e impaurita, guardò dallo spioncino e vide il viso di Claudio.
“Claudio?”, disse ad alta voce. In quell’istante pensò seriamente di non sentirsi bene. Per la casa riecheggiò il secondo suono del campanello, si avvicinò e guardò di nuovo dallo spioncino. Claudio era sempre lì immobile con lo sguardo fisso nel vuoto. Inquieta aprì la porta, di scatto come se volesse liquidarlo con due parole e nulla più. In un secondo lei si accorse che anche lui aveva una macchia d’inchiostro blu scuro sulla mano destra. “Com’era possibile questo?”, pensò Giulia tra sé e sé. Claudio era lì con lei fino a poco tempo prima. Nell’altra mano teneva il suo diario viola. Quello che aveva cercato per tutta la mattina.
“Amore ho letto tutto e ho gioito e pianto nel farlo. Le tue parole sono luce per me, ma…” Giulia lo interruppe e lo guardò fisso negli occhi. Dentro al suo sguardo vide se stessa ancora ferma davanti allo specchio, con ancora i capelli tirati su dal fermaglio, un po’ scompigliati, gli occhi assonnati e un sorriso appena accennato.
“Hai sognato tutto mia giovane Donna, ” si disse “il tuo Claudio è solo frutto della tua immaginazione, quella che ogni notte scrivi sul tuo diario viola con la tua ormai vecchia penna stilografica dall’inchiostro blu scuro…”. Giulia si girò e vide oltre la porta del bagno, sul suo letto nella camera ancora in disordine dalla sera prima, il suo diario viola aperto a metà e Claudio che vi scriveva sopra, come a continuare la loro storia…
La prima volta di Graziano
di Sarita
Oggi abbiamo ammazzato un cane.
In verità è stato Graziano ad ammazzarlo, ma io ero lì. Una complice, inerte ed attonita forse, ma pur sempre complice.
C’eravamo incontrati durante un trekking, io e Graziano, una sera di aprile, accanto ad un ruscello. Entrambi avevamo il problema di doverci lavare nell’acqua gelida del torrente. Poi, tornando insieme nel paesino dove dormivamo, scoprimmo che entrambi, per motivi diversi ma simili, eravamo fuggiti dall’Italia ed avevamo finito per convergere in Nepal. Lui fuggiva dai debiti accumulati cercando di salvare il suo studio di veterinario, io da una storia d’amore andata male.
Un ragazzo ed una ragazza che si ritrovano così lontani da casa e decidono di continuare insieme il loro cammino. Sembra una cosa romantica, invece all’inizio fu solo noia. Erano tre ore buone che camminavamo tra le montagne e stavamo diventando ridicoli: parlavamo la stessa lingua ma eravamo a corto di argomenti. Dentro di me cercavo di non pensare alla delusione delle mie aspettative della sera prima, a quel feeling che credevo oramai instaurato. Graziano indossava un paio di occhiali da sole a specchio. Pensai che forse era uno di quelli che si vuole godere in pace la montagna.
Poi però abbiamo visto quel cane lì.
All’inizio l’abbiamo solo sentito. – Una carogna – ho pensato, disgustata dall’odore. Invece si muoveva. Era poco più di un cucciolo, le zampe posteriori erano paralizzate ed in avanzato stato di cancrena. Si portava dietro una scia di mosche affamate e l’odore della carne morta, ma era vivo.
Trascinava quella massa di pelo putrefatto facendo uno sforzo terribile.
– Ecco – ha detto Graziano – questo è un cane da ammazzare.
E l’ha detto mettendo l’accento sulla parola ‘questo’, come se poco prima avessimo discusso insieme sul problema dell’eutanasia invece di camminare ognuno per conto suo. Poi è rimasto in silenzio e mi ha guardata; o almeno credo perché non potevo vedergli gli occhi.
Mentre si avvicinava al cane intuivo i suoi pensieri. Il suo viso era immerso in uno stato di totale delusione, la delusione di un bambino che si rende improvvisamente conto della morte.
Il cane intanto si era trascinato dietro un muretto basso. Non lo vedevamo più ma si sentiva ancora quell’odore. Graziano gli è andato dietro. Poi il cane si deve essere fermato. Graziano si è inginocchiato accanto a lui.
– Lo faccio? – si è chiesto o mi ha chiesto, non so.
Io mi sono guardata attorno. Eravamo soli e non c’era nulla al di fuori di montagne e alberi e qualche casa di pietra e fango, in lontananza. Il sole stava tramontando dietro un picco innevato. Era bellissimo, ma solo da vedere. Se lo ascoltavi ti sentivi penetrare nel cervello il respiro agonizzante del cane, se lo annusavi arrivava l’odore della morte.
Mi domandavo come e con cosa Graziano potesse fare una cosa del genere. Lui mi ha come letto nel pensiero.
– Con una botta in testa – ha detto raccogliendo da terra una pietra rossiccia.
Poi un silenzio lunghissimo. Lui con quella pietra nella mano, io in piedi dietro il muretto. Non si decideva. Passava il tempo. Eravamo sospesi in un’attesa che mi sembrava infinita.
Non credevo che l’avrebbe mai fatto, non credevo che ci sarebbe riuscito.
Invece l’ha fatto. Ha calato il braccio ed la pietra è sparita dietro il muretto. Poi l’ha rialzata ed ha ripetuto l’operazione, quante volte non lo so più. Io ero sicura che il primo colpo fosse stato preciso e mortale e Graziano anche, credo. Eppure colpiva e ricolpiva la testa di quella bestiola a me invisibile, come un professionista della morte, come un assassino che infligge coltellate superflue sul corpo esanime della sua vittima. Ma non era lo stesso: non c’era il più piccolo segno di rabbia su quel viso.
Avrei voluto guardargli gli occhi.
Tutto è finito e siamo andati via, io senza guardare oltre il muretto. Dopo un chilometro percorso nell’assoluto silenzio della sera siamo giunti in paesino animato: gente che camminava, bambini che giocavano prima di andare a letto. Graziano ha chiesto per trovare una camera. Io non riuscivo a parlare. Avrei voluto abbracciarlo ma quegli occhiali scuri, ormai inutili dato che il sole non c’era più, mi tenevano a distanza.
Così qualche passo più avanti è venuto lui da me. Mi ha messo un braccio attorno alle spalle e mi ha spiegato tutto su quel cane: che stava morendo, quale malattia avesse e com’erano stati i suoi ultimi istanti di vita, il modo in cui gli aveva ringhiato quando si era avvicinato e come poi si era calmato ed aveva abbassato la testa.
E adesso non riuscivo a vedere i suoi occhi sotto le lenti scure ma riuscivo a vederli, erano grandi ed azzurri, lo sapevo. Adesso Graziano non mi sembrava più un bambino; il suo tono era piuttosto quello di un padre, di un genitore responsabile che spiega alla figlia l’esistenza della morte.
Gli ho detto che avevo capito e che pensavo che avesse fatto la cosa giusta.
Lui mi ha guardata, sollevato. Faceva il veterinario da otto anni.
– E’ stata la mia prima eutanasia su un cane – ha detto.
Nella religione induista l’ultima reincarnazione di un’anima, prima dell’uomo, è il cane.
La torre
di Lorenza
La mia solitudine è cresciuta con me senza lasciare spazio libero intorno: odore di polvere, buio, mi circondano.
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