Racconto etnico: IL VENTO

Come tutte le mattine, Samida si apprestava a salire la collina per andare a interrogare il vento...
Turisti Per Caso.it, 16 Apr 2003
racconto etnico: il vento
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Come tutte le mattine, Samida si apprestava a salire la collina per andare a interrogare il vento. Era quella una dote che possedeva sin da bambino e che, nel corso degli anni, aveva straordinariamente affinato. Non si era mai chiesto il perché. I vecchi del villaggio narravano che fosse nato vicino la tana di una lince e ne avesse carpito i segreti. Non aveva mai creduto a questa storia. Sapeva solo che era così e questo gli bastava. D’altronde, era l’unico tra gli orang asli ( aborigeni della Malesia occidentale, letteralmente ”abitanti della foresta” ) al quale il Grande Spirito avesse dato questo dono: riuscire a interpretare il vento. Quando vi si metteva contro era in grado di avvertire un uomo in lontananza o l’odore sgusciante di un predatore confondersi tra la fitta macchia tropicale. Coglieva in anticipo il fresco respiro della pioggia o gli strali soffocanti del sole: il messaggero del vento, venerato come uno sciamano.

All’inizio, erano state solo brevi percezioni ma poi, col passare del tempo, la sua capacità si era accresciuta a dismisura ed, al pari di una fiera, distingueva gli odori a distanze elevate. Più volte, aveva salvato la tribù preannunciando la piena del fiume o l’attacco a sorpresa dei nemici e così, a soli vent’anni, poteva permettersi di non lavorare poiché il villaggio provvedeva ai suoi bisogni. Bastava solo che si inerpicasse sulla collina per andare a dialogare con le brezze.

Quel giorno, il fiume Tahan appariva ingrossato ed il suo manto tormentato da nembi di insetti risentiti. Gli aborigeni si destreggiavano tra le sue bocche infide sempre pronte a serrare le mascelle. L’aria era densa di una coltre pesante che, unendosi ad una fitta pioggia, punzecchiava gli occhi di lacrime salmastre.

Cessato il temporale, la foresta risuonava di note odorose che un tiepido vento diffondeva dolcemente. Samida aveva avvertito qualcosa, un’essenza che non aveva mai sentito. Era difficile da interpretare e così, ritornato al villaggio, non ne aveva parlato ad alcuno poiché nessuno lo avrebbe aiutato. Era davvero molto strano. Un odore nuovo eppure conosciuto, un miscuglio di fragranze, disturbate da un pungente effluvio di sudore.

Infastidito, provò a concentrarsi. Distingueva il gelsomino, le note delicate del frangipane, il tocco deciso del sandalo eppure quegli odori gli sembravano così diversi. Una smorfia attraversò il suo volto ed, irritato, riprese a salire l’altura. Il vento si era alzato disperdendo lungo la fitta e verdeggiante boscaglia un nugolo di richiami olfattivi.

L’indigeno accelerò l’andatura fino a raggiungere la cima. Da lassù, gli alberi rivaleggiavano con la collina cingendola in una morsa di soffici chiome.

Il fiume pareva un rettile fangoso che, lento, si insinuava tra i radi vuoti della vegetazione. L’uomo lo seguì con gli occhi e, all’improvviso, notò qualcosa che lo riempì di stupore. Lunghe e sinuose imbarcazioni sfrecciavano chiassosamente sull’acqua senza che un remo ne animasse il movimento. La corrente pareva arrendersi al loro avanzare acquietandosi in un mesto e breve dondolio.

Samida restò immobile a fissarle mentre gli uccelli si levavano in volo poi le vide avvicinarsi alla tribù e, di corsa, prese a scendere il sentiero ferendosi ripetutamente tra i rami. Un fumo denso cingeva quella strana visione diradandosi lentamente nell’aria.

Impaurito, ne seguì le tracce e, poco dopo, le vide lambire il villaggio perdendosi rapidamente tra le anse. Col cuore palpitante, accelerò la corsa fino a ché le capanne non furono vicine. La vita scorreva tranquilla e nulla pareva mutato.

– «Ehi, Thanì – proruppe col fiato ingrossato – le hai viste anche tu?».

– «Viste cosa?».

– «Le barche sul fiume!».

– «Quali barche?».

– «Quelle senza remi che facevano un gran rumore!».

– «Barche senza remi…?!?».

– «… Seguite da strisce di fumo…!».

– «Vuoi prenderti gioco di me?» sbottò la donna, risentita.

– «Insomma, vorresti farmi credere di non aver visto nulla?».

– «Proprio così!» ribadì annuendo col capo.

– «Stupida donna!» mormorò Samida allontanandosi rapidamente.

Visibilmente contrariato, prese a chiedere in giro ma ovunque egli andasse otteneva sempre la stessa risposta. Com’era possibile che un simile evento fosse passato inosservato? Confuso, continuò ad indagare massaggiandosi vistosamente le ferite.

– «Ti hanno colpito?» proruppe all’improvviso il vecchio sciamano.

– «Già, quei rami sono molto taglienti!» replicò l’indigeno con una smorfia di dolore.

– «Non mi riferivo a quelle – continuò l’altro additando le piaghe – ma alle barche stregate!».

– «Allora le hai viste anche tu!?!».

– «No! – tagliò corto lo sciamano – ma ho avuto una strana visione nel mio trance!».

– «Puoi descriverla?» incalzò l’altro, trepidante.

– «Ti ho visto sfuggire ad uomini dalla pelle chiara alla testa di fumose imbarcazioni!».

Un velo di nervosismo scese sul volto del ragazzo.

– «Cosa credi voglia significare?».

– «Tu hai visto ciò che ancora non è stato – replicò lo sciamano con tono grave – sarai tu a trovare la risposta!».

L’aborigeno lo guardò allontanarsi e una nebbia di interrogativi addensò i suoi pensieri. Sconsolato, ritornò verso il fiume scrutandone attentamente il corso. Chi erano quegli stranieri e cosa significavano quelle parole? Quella sera non tornò alla capanna ma risalì nuovamente la collina. Era una notte tranquilla e le nuvole pettinavano i rossastri capelli della luna. Samida si sedette su un costone ascoltando il riverbero dell’acqua. Lentamente, le palpebre si abbandonarono alle insidiose lusinghe del sonno e, senza accorgersene, si assopì. Dopo brevi istanti, una visione abbagliante gli accecò la mente e, di nuovo, vide le barche. Stavano ferme sul ciglio del fiume mentre un mucchio di stranieri le discendevano lentamente. Di colpo, il villaggio fu inondato da fiumane vocianti che si perdevano lungo più direzioni. Distingueva chiaramente lo sciamano mostrar loro la costruzione di una cerbottana, sentiva le risate irriverenti di fronte al totem del Grande Spirito, osservava, sgomento, quei piccoli, terrificanti lampi fuoriuscire da strani oggetti legati attorno al collo ed un senso di profonda inquietudine pervase il suo corpo.

Si vide coperto di indumenti che non aveva mai indossato mentre incedeva in mezzo a piccole case disposte ordinatamente in riva al fiume e, di colpo, trasalì. In un attimo, il sogno mutò angolazione catapultandosi dentro una nuova prospettiva. Quegli stranieri volevano la sua foresta, la sua gente, l’essenza stessa della sua identità. Sgomento, prese a correre nella boscaglia inoltrandosi laddove la luce era più fioca. Il fragore delle barche ronzava incessantemente nell’aria dilapidando gli ultimi sprazzi di serenità. Braccato e con gli occhi carichi di oscurità, continuò ad inoltrarsi fino a quando si sentì scivolare nel vuoto. Il cratere si aprì all’improvviso mentre i lampi gli artigliavano violentemente le pupille. Un grido agghiacciante solcò le sue labbra e, giunto all’apice del turbamento, si destò.

L’alba si stagliava timidamente in lontananza rischiarando le svanenti memorie della notte. Col sangue che gli scorreva impetuoso, Samida la guardò sollevarsi faticosamente all’orizzonte e, quando la luce ritagliò le prime impronte, tutto gli apparve evidente. Prima o poi, quegli uomini sarebbero arrivati mutando per sempre le cose. Era una scelta del destino alla quale non avrebbe potuto sottrarsi. Quel giorno, con pochi, indomabili compagni, avrebbe lasciato la tribù per spingersi laddove non si era mai inoltrato.

Con le brezze che gli lambivano la fronte, si sollevò di scatto. Sentiva che il vento lo avrebbe aiutato e, lentamente, ridiscese il sentiero, pronto a raccogliere la sfida. Nessuno gli avrebbe rubato l’identità.

Fabio Lentini



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