Pepa ha intervistato Andrea C

Continua la serie di interviste ai Turisti per Caso dai Turisti per Caso. E ora è il mio turno: tocca a me fare l’inviata speciale Sono le 8 di sera. Il mio Eurostar è arrivato a Venezia da qualche minuto. Una pausa in albergo per cambiarmi e poi via, rieccomi fuori. Ecco, siamo vicini all’ora X: il momento in cui lo incontrerò. Lo...
Pepa, 30 Ago 2002
Continua la serie di interviste ai Turisti per Caso dai Turisti per Caso. E ora è il mio turno: tocca a me fare l’inviata speciale Sono le 8 di sera. Il mio Eurostar è arrivato a Venezia da qualche minuto.

Una pausa in albergo per cambiarmi e poi via, rieccomi fuori.

Ecco, siamo vicini all’ora X: il momento in cui lo incontrerò. Lo vedrò. Gli parlerò. Quando Martino mi ha detto che avrei intervistato Andrea C., il mio cervello ha cominciato a galoppare in sella alla fantasia più sfrenata. Andrea C. Di lui non si sa molto. Di lui si leggono le provocazioni, gli interventi pungenti nei forum, le parole che corrono veloci una dopo l’altra sistemate secondo un ordine incisivo e preciso.

Un alone di mistero lo avvolge. Un alone che arriva perfino a confonderci sulla sua età reale o presunta.

Chi è Andrea? Questo mi chiedo camminando per piazza San Marco alle 9 di sera. Questo mi chiedo mentre prendo il vaporetto che mi porterà a Ca’ Dario dove è in corso una festa in costume. E’ lì che ci incontreremo. E lì che farò la mia intervista.

Arrivo al cancello del palazzo. Un maggiordomo in livrea mi chiede la parola d’ordine: FIDELIO – rispondo io con un mezzo sorriso per il riferimento di Schnitzleriana e Kubrickiana memoria…

Le porte del cancello si schiudono, adesso Andrea è più vicino. Ha scelto un luogo davvero speciale per il nostro incontro.

Salgo lo scalone di pietra. Mi confondo tra le pieghe del mio vestito rosso scuro stile direttorio. Sugli occhi, una maschera, come richiesto dalla serata.

Il salone si apre al mio sguardo come porta di altri tempi: dentro, un brulicare di voci, colori, penombre e costumi abbaglianti.

Inizio a farmi strada tra la folla e la musica del bolero di Ravel…La luce è poca, affidata alle candele, non riesco a distinguere niente e nessuno in modo chiaro e definito. Sto cercando una maschera bianca. Andrea mi ha detto che indosserà una maschera bianca. Non dovrebbe essere difficile riconoscerlo visto che tutti gli altri portano maschere scure o colorate.

D’un tratto un sussulto.

Eccola.

Ecco la maschera, candida, precisa eppure così sfuggente…Mi insinuo tra la folla, rubo al volo un trouffle di cioccolato da un vassoio e prendo coraggio. Ma lui, dietro alla sua maschera lattea, non si ferma e mi costringe a seguirlo. Mi sento Alice all’inseguimento del Coniglio matto nella pubblicità del Mulino Bianco. Chissà se poi anche la nostra intervista-avventura finirà con una ricca e sana colazione in uno scenario bucolico, tra le rovine di un tempio greco in mezzo a fette biscottate e marmellate. Ne dubito.

Lo vedo sparire dietro una porta. Mi ci infilo anch’io.

Eccomi, la sua sagoma è di schiena, davanti a me: Andrea si volta. Mi ricorda un po’ John Malkovich nelle Liason Dangereous. Intendo dire, il suo look. Perchè di volto non posso parlare, vedo solo le labbra increspate da un enigmatico sorriso mentre il resto è occultato sotto un candore di gesso apparente.

Non avrà più di trent’anni, magro, alto più o meno 1 metro e 90 (un gigante).

Ha una bella voce, ma il suo accento non è quello della Serenissima.

Dalla maschera bianca spunta un ciuffo di capelli neri…

Decido di tenere addosso la maschera anch’io. Così giochiamo ad armi pari, mi dico.

Mi fa accomodare su una chaise longue rossa. Lui si siede di fronte a me su uno scranno di pelle sui cui braccioli è scritta una massima latina: UBI MAIOR, MINOR CESSAT. Peeeeeeeeero’, hai capito l’amico… … Improvvisamente parte una musica classica molto suadente…Chopin? Sul tavolo di fianco a me un vassoio di tartufi fondenti e una bottiglia di Sauternes. Accidenti a lui, sa come prendermi per la gola…

ANDREA, COME MAI QUEST’INCONTRO A VENEZIA? NON HAI L’ACCENTO VENETO TU… Eppure se nella storia dell’uomo le radici hanno un qualche significato…

Io sono nato e cresciuto a Roma e dovrei per cultura ed abitudine sentirmi un verace trasteverino mentre per curioso destino conservo un po’ per genetica, un po’ per “linguaggio familiare” toni e accenti veneti. Venezia del resto non è solamente un luogo fisico ma è il luogo della magia, del mistero, dell’incontro: un po’ Occidente ed un po’ Oriente. Una città “instabile”, dove il tempo assume una diversa dimensione; una città che ha il ritmo delle emozioni e non quello degli eventi. Amo come puoi capire non la Venezia turistica fra lo struscio di piazza San Marco o l’invidiosa passeggiata per le Mercerie. Ma la Venezia autunnale, nebbiosa, dove tutto appare e scompare suggerendo verità relative in una dimensione in cui nasce il gioco della non identità, dei contorni sfumati, dell’incontro non necessariamente rivelatore anche se non privo di curiosità e di acutezza di osservazione.

Questa abitudine al mistero è del resto la stessa che ha coltivato curiosità e coraggio dell’abbandono, regole fondamentali del viaggio e queste mie radici mi fanno essere un po’ un Marco Polo, scontroso ed interessato più al procedere che alla limitazione di una stabile permanenza. Anche l’elemento sul quale ci si muove in città, l’acqua, ha caratteristiche uniche; la barca solca la sua rotta ma la scia si chiude in un perpetuo inizio che lascia al navigante la scelta della propria meta; non svincoli obbligati o incroci amletici ma continua scelta del tragitto in una dimensione di libertà. Ho scelto poi questa festa a Ca’ Dario (che può sembrare presuntuosa) perché, oltre al racconto di mia nonna che ne vantava il possesso per una del tutto illusoria e risibile eredità familiare, questo palazzo mi affascina per una atmosfera velatamente noir che vorrebbe, in queste ultime generazioni, consumate fra queste mura morti violente o dissesti finanziari in una sorta di dannazione della proprietà. La festa è ovviamente una festa di carnevale, anche se il periodo non è quello ma qui a Venezia, in sintonia con il clima cittadino, il travestirsi che ha sapore popolano o da fiera in altri luoghi acquista una dignità ed un sapore quasi serio. Il collocare l’incontro in questo ambiente lungi dall’essere un compiacimento un po’ snobistico vuole rappresentare la possibilità, nel mascheramento, dell’incontro senza preclusione, senza identità precisa se non quella della maschera.

Pepa?… Ma che fai, ti sei addormentata? Dì la verità, si infittisce il dubbio sulla mia età; giovane demodè e noioso o maturo un po’ frustrato e noioso? COME PREGO? NOOO,NON DORMIVO MICA…ANCHE SE UNA PENNICHELLA…MA DAI ANDREA, QUALE MATURO UN PO’ FRUSTRATO E NOIOSO? SECONDO ME NON HAI NEMMENO TRENT’ANNI…

BANDO ALLE CIANCE PERO’: RACCONTAMI COME HAI CONOSCIUTO IL SITO DI TPC Appartengo alla generazione ossessivamente bersagliata sull’importanza del mezzo informatico quale strumento indispensabile per il futuro lavorativo ed essendo sostanzialmente un bastian contrario ed un contestatore ho vissuto l’eroica stagione del gran rifiuto; sulla mia scrivania si sono alternate generazioni di computer, dal lentissimo commodore 64 (ricordo ancora la scritta “press play on tape” che invitava a premere il bottone di quella specie di “registratore sonoro” morbidamente curvilineo connesso al computer) ai più avanzati ma ancora velleitari modelli, che inevitabilmente si sono cimentati con il progresso che tutto brucia e la polvere che tutto copre, in particolare ciò che non viene usato. Sono state le inderogabili necessità della ricerca a farmi capitolare costringendomi al confronto col mezzo informatico ma soprattutto col mondo parallelo di Internet. La scintilla è così nata all’inizio per la dimensione informativa del Web e solo successivamente per la sua dimensione d’aggregazione. Ho sempre pensato più sana una passeggiata fra amici che una scoliotica discussione su una chat ma la simpatia e la carnalità di Syusy e Patrizio mi hanno spinto a curiosare in questo luogo con indirizzo ma senza domicilio. All’inizio mi sono limitato a qualche occhiata silenziosa, nel privilegio di guardare senza essere visti, poi un’ opinione sentita più visceralmente e, nell’emergenza della espressione, ho iniziato a essere partecipe anche io a questa sorta di gioco da tavolo ed una volta abbattute le resistenze iniziali mi sono trovato ad essere parte dell’ingranaggio. PERCHE’ QUESTA MASCHERA? LA TOGLIERAI MAI? Ho scelto di indossare una maschera bianca che è la mia preferita in quanto è la maschera di base, la “larva” (così veniva chiamata con riferimento al significato latino della parola), degli artigiani Veneziani. Su questi lineamenti di garza e gesso vengono realizzate le composizioni più articolate e raffinate, i personaggi di un carnevale variopinto. Anche su TPC è possibile vantare un analogo gioco: un insieme di lineamenti fatti di opinioni, di convinzioni politiche, di gusti, di viaggi ma nell’assenza totale di somaticità. Non conta solo l’identità reale ma anche quella che gli altri ti cuciono addosso. Per questo non mi interessa togliere questa maschera perché lo svelarsi sarebbe ricondurre a limitati particolari fisici un gioco che, nell’assenza della identità, vive d’altro. Nella vita di tutti i giorni a chiunque è concesso modificare opinioni, smussare angoli e storture del proprio carattere nella spinta all’adattamento e solo l’identità fisica è obbligatoriamente e costantemente identica a sé stessa. Qui ho il privilegio di poter perdere la costrizione dell’elemento fisico lasciando l’incertezza dei colori e lineamenti ed anche quella dell’età anagrafica. Se poi mai dovessi decidere di partecipare ad un raduno voglio conservare intatto il piacere della scoperta. Ho deciso quindi di allegare all’intervista non il mio album fotografico ma le immagini degli oggetti che simbolicamente mi rappresentano e che pur interessando probabilmente a pochi, nel fondo, mi identificano più di tanti scatti fotografici.

TU SEI UN INTERNAUTA O SEI SOLO UN TPC-NAVIGATORE? Come ho detto in precedenza non ho molta confidenza con questo strumento. Ne conosco solamente la dimensione del fruitore senza alcuna altra padronanza; un po’ come avere la patente senza conoscere il “prodigio” e la meccanica del motore. Considero tutto scontato: una chiave, un pedale e la scelta di una direzione ma al primo inconveniente si svelano le mie incapacità. Ricordi nel film “non ci resta che piangere” l’imbarazzo ma anche lo sconcerto di Benigni e Troisi di fronte a Leonardo nell’essere figli del tempo della tecnologia senza saperne spiegare i “misteri” anche più banali? La fisica teorica fatta di leggi matematiche dai risvolti pratici marginali, la luce tanto indispensabile che diventa unicamente prodigio teologico e persino il semaforo od il sistema di scarico del water diventano miracoli alla Marconi. Internet ha per me proprio questa dimensione del miracolo perpetuo…

ANDREA, SEI UNO MOLTO DIRETTO, CHE NON HA PAURA DI DIRE QUELLO CHE PENSA: QUESTO TI HA MAI CAUSATO PROBLEMI SU TPC? Certamente non credo di essere simpatico di primo acchitto (e probabilmente neanche di secondo). Spesso la carnalità con cui si vivono le opinioni può essere confusa per incrollabilità o schematismo e persino per presunzione. Anche questo spazio dell’intervista che molti avrebbero utilizzato come momento della celia o ricerca di approvazione e simpatia l’ho trasformato in un autoritratto anche un po’ pomposo. Avrei potuto giocare sulla festa in maschera per trovare una battuta facile, un gioco delle parti che tu stessa mi hai sapientemente servito eppure non ho colto l’opportunità. Nella vita “reale” spesso e volentieri mi lascio andare al gioco ed ho imparato a prendermi poco sul serio. Ma qui quando i racconti e le opinioni si fanno scritte e per questo perenni sento la strana esigenza di lasciarmi poco andare quasi in un atteggiamento rispettoso della forma. Non partecipo molto agli spazi troppo frequentati eppure la mia nicchia me la sono ricavata…

RACCONTAMI QUALCOSA DEI TUOI COLLEGHI DI SITO: C’E’ QUALCUNO CHE TI HA COLPITO, CHE VUOI MENZIONARE IN PARTICOLARE? Per conservare il clima carnevalesco cercherò dei parallelismi fra le maschere della Commedia dell’arte ed alcuni dei protagonisti del sito di TPC. Alcuni accenti saranno inevitabilmente non perfettamente corrispondenti ma è il gioco delle imprecise somiglianze: Pepa: Inutile dirlo; sei in costume anche ora! Sei Arlecchino, l’immancabile maschera del teatro carnevalesco, goloso e sempre pronto a riempirsi la pancia e per questo anche un po’ pigro. E’ geniale, pieno d’astuzia e sfaccettato come i colori del suo vestito. E’ l’impersonificazione della capacità di arrangiarsi e di inventarsi nuove regole e nuove identità in perenne contrasto con un padrone che lo vorrebbe serio e composto.

Steve: Lo paragonerei a Capitan Spaventa, una maschera della tradizione Ligure, che rappresenta uno spadaccino temerario che combatte più con la lingua che con la spada. Ha un vestito a strisce colorate gialle ed arancioni ed una spada lunghissima che trascina facendo rumore. La profondità della lingua ma la semplicità delle armi.

Lorenza (lorecoll): E’ il Pulcinella dei forum. Canta dolcemente e prende la vita con filosofia, un po’ indolente e malinconica, un po’ allegra e conviviale.

Paolo: E’ il Dottor Balanzone che parla tanto e conclude poco ma è anche dotto e sapiente. Un panciotto che ne accentua le forme ed un libro sempre sotto il braccio pronto all’uso per ritrovare fra le pagine già lette le informazioni necessarie alla discussione. Un po’ burbero, a volte, ma anche pronto alla seria avventura di un viaggio fuori dai canoni.

Megane: E’ Beppe Nappa, maschera per coincidenza siciliana. Canta e canticchia ed è sempre felice. Spesso causa incidenti per sbadataggine ma come ricorda il nome (“toppa dei calzoni”) non se ne può fare a meno.

Rambutan: Impersonifica Brighella, sempre in cerca d’avventure ma anche pronto al litigio, un attaccabrighe scontroso ma spiritoso e dissacrante. Suona e canta per giovialità caratteriale ma è personaggio fedele ed altruista.

Eloisa: E’ un po’ il secondo Arlecchino dei TPC. E’ stravagante ed un po’ scapestrata ma dotata d’astuzia. Impersonerebbe il servo scanzonato col vestito dai cento colori costruito con le stoffe regalate dai suoi amici in occasione del Carnevale. E’ quindi l’immagine di chi sa farsi voler bene fra semplicità ed azzardo.

Annie: E’, seppur non le calza perfettamente, Colombina, dal carattere allegro e malizioso. Me la immagino vivace e un po’ vanitosa ma mordace e pronta a prendere in giro le persone che la circondano.

Costanzo: E’ Gianduia, maschera Piemontese, galantuomo a cui piace vino ed allegria anche un po’ paesana. Ama la convivialità della sagra e la semplicità raffinata delle feste locali.

Fly: E’ Meneghino che impersonifica la maschera di quello sempre con la risposta pronta soprattutto se alle domande spiritose. Dove nasce il gioco è una certezza trovarlo fra pseudonimi d’ogni tipo.

Giò: E’ Sandrone, contadino pieno di buon senso ma anche gran bastonatore a ragione o a torto. Piacevole scontrarsi con lui nella certezza della risposta sentita, è un po’ il compagno d’osteria.

Ro_gua: E’ Scaramuccia, maschera napoletana, un tipo spaccone che prende botte un po’ da tutti, pur ricambiandone qualcuna. Comunque spiritoso e disposto al gioco, anche quando ne è la giusta vittima. Nonostante l’aria da padrone delle ferriere deve essere un principale alla mano.

Elisa: E’ una maschera semplice, è la maschera della fantasia, costruita in casa con pazienza e con molta inventiva, fatta con lo spirito del partecipare ad una festa che è per tutti. Susita: Non ha maschera lei, straniera in questo carnevale italiano. In obbedienza alle sue radici ha spirito, linguaggio e desiderio di gioco del bel paese ma fuso orario e ritmi anglosassoni finendo per sembrare quella sempre fuori dal gioco della corda. COME VIAGGIA ANDREA? E’ proprio una bella domanda… Viaggio come lo può fare un perfezionista, pigro, caotico, ritardatario, squattrinato studente: molto con la fantasia (alla Salgari per intendersi) e poco nella realtà. E quando il viaggio non è solo sogno mi dibatto fra due opposte pulsioni: vedere, capire, far proprio ciò che si incontra (e questo richiede “solitudine” e talora silenzio) o lasciarsi andare, farsi travolgere, comunicare (e questo comporta ricerca dei luoghi di massa, delle musiche giuste ed anche lasciarsi andare a quelle bravate che fanno del viaggio l’ ”impresa” da ricordare). SCRIVI BENE, ANDREA: LO FACEVI DA PRIMA? Credo che lo scrivere sia un esercizio prima di tutto mentale, la capacità di esprimere concetti semplici come elaborati e profondi stati d’animo è indispensabile per chiunque ed è solo la scrittura che permette di approfondire e rielaborare ed è così comunicazione con sé stesso oltre che con l’altro. Non ho abitudine quotidiana con la scrittura; scrivo quando ne sento la necessità e senza alcuna velleità di sorta. Per lo più si tratta di biglietti, i classici e complicatissimi auguri per le occasioni speciali. E’ però vero che la parola, soprattutto quella scritta, esercita su di me un fascino particolare.

CREDI CHE INCONTRERAI I TPC AL RADUNO DI NOVEMBRE? NON SEI CURIOSO DI AVERLI DIFRONTE E NON PIU’ DIETRO A UN COMPUTER? Non sono sicuro di partecipare al raduno di Novembre, tutto dipende dagli impegni e dalle volontà del momento. Non ho particolari attese sui compagni di sito o meglio preferisco conservare curiosità ed aspettative così come sono adesso. Lo spazio costruito su TPC è una dimensione di gioco e funziona se conserva queste caratteristiche, se non si cerca di attribuirle una funzione d’aggregazione che non può avere. E’ l’isola che non c’è di Peter Pan, un luogo fatto di personaggi più che di persone. Sarò un po’ disfattista ma la mia paura è quella di scivolare in un’ esperienza che ricalca troppo da vicino le riunioni dei vecchi compagni di scuola dopo innumerevoli anni di lontananza, un po’ il “Compagni di Scuola” di Verdone, uniti da esperienze ed affetti giovanili separati dalla vita. Così quello che è stimolante nel ritrovarsi nel sito (curiosità, aspettative, rispondenza alle immagini che ci si è costruiti) rischia di spegnersi nella “festa de noantri”.

Preferisco allora non caricare di significato questa possibilità di incontro e rinviare allo stato d’animo del momento.

Improvvisamente la musica si fa più forte e vicina: la porta della stanza si apre di scatto e un turbinio di maschere , voci e note ci travolge. Io non oppongo resistenza, anzi, distolgo volentieri lo sguardo dall’ipnotica maschera bianca di Andrea, distolgo volentieri l’attenzione dal suo parlare volutamente ricercato: mi faccio prendere da questo tornado di corpi avvolti in tessuti di pizzi e broccati e mi lancio in una danza allegra e liberatoria. Anche il novello John Malkovich si lascia trasportare dalla corrente umana che ha invaso improvvisa la stanza.

Usciamo dalla sala in una danza continua, il mio vestito si impiglia dovunque, capirete, non sono abituata a fare piroette con abiti stile direttorio. Andrea è davanti a me divertito, mi sembra molto a suo agio in questa situazione e in questo luogo. Noi e la nostra parata danzante passiamo di fianco a un tavolo di quercia immenso: al centro troneggia un’alzata di frutta di stagione, bellissima e matura…Sembra un quadro eppure è vera…Un grappolo d’uva nera occhieggia sulla cima…Lo afferro e con un gesto “botticelliano” inclino la testa all’indietro e lo porto alla bocca. Uff, che sbadata, mi giro per offrirne un po’ ad Andrea e…Andrea?… Mi guardo intorno: solo gente che balla tra risate e inseguimenti galeotti… Mi guardo intorno: solo musica stordente e profumi di frutta matura.

Mi guardo intorno ancora ed ancora: solo luci soffuse, maschere variopinte, colori in movimento. Di Andrea, nemmeno l’ombra.

Capisco al volo l’antifona, sulle mie labbra un mezzo sorriso. Mi dirigo veloce verso l’uscita, magari riesco a beccarlo, mi dico.

Corro fuori da una sala all’altra, l’orlo del vestito tra le dita per evitare rovinose cadute, poi imbocco il portone di Ca’ Dario. Sono fuori. Nessun Andrea all’orizzonte. Il mio occhio cade su qualcosa che luccica sui gradini dell’ingresso di fianco a me: è un pallore bianco e luminoso, è la maschera di Andrea.

Mi chino e raccolgo il suo “saluto” inconsueto: la guardo, così impenetrabile ed immobile e sorrido. Alla prossima, Andrea.



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