Orrore e tesori della Cambogia
Phnom Phen non è molto diversa dalle altre città asiatiche in cui siamo stati. Carina ma nulla di eccezionale. Il palazzo reale si trova giusto a ridosso del fiume. Sfortunatamente era chiuso nei giorni in cui eravamo li, quindi non possiamo esprimerci a riguardo. Turisti ed expats (stranieri che vivono in città, per lo più per motivi di lavoro) si ritrovano nei locali a ridosso del fiume,a pochi passi dal palazzo reale. Qui c’è la possibilità di scegliere tra una grande varietà di pub, club e ristoranti, anche se a farla da padrone sono locali con nomi come Pussy-cat o Beer & Girls, pieni di provocanti e giovani ragazzine in cerca di occidentali ricchi e frustrati. La solita tristezza insomma… Gironzolando per la città o perdendosi in uno dei suoi numerosi mercati, mai deludenti in Asia, è difficile non notare la giovanissima età della popolazione cambogiana. A quanto pare l’età media dell’intera popolazione è di appena 22 anni… Hei, nemmeno alla mia università c’era una media così bassa, contando che è pieno di trentenni che devono ancora terminare la triennale (ogni riferimento a cose, persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale) 🙂
Alla base del fatto che il 70% del paese sia sotto i 30 anni vi è una delle pagine più buie della storia del ventesimo secolo, il genocidio commesso dai Khmer Rossi contro la loro stessa popolazione. Quanto avvenuto qui in Cambogia, appena poco più di 30 anni fa, sembra impossibile; la furia e l’idiozia dei Khmer Rossi ha sterminato un quinto della popolazione cambogiana nel delirante tentativo di attuare la più radicale rivoluzione della storia, trasformare la Cambogia in una gigantesca cooperativa agraria, completamente indipendente dal resto del mondo. L’idea era quella di creare una popolazione di ubbidienti soldati in grado di riporare la Cambogia agli antichi fasti dell’impero Khmer. Per far ciò, secondo Pol Pot ed i suoi seguaci, era necessario cancellare ogni collegamento con il passato ed ogni traccia di opposizione, oltre ad eliminare ogni tipo di influenza con il mondo esterno, capitalista e, perciò, malvagio. Portare un orologio od indossare gli occhiali, erano già motivi sufficienti per essere torturati ed uccisi. Chiunque possedesse un qualsiasi titolo di studio, incluso medici ed infermieri, veniva ucciso; anche parlare una lingua straniera era ragione sufficiente per essere giustiziati. La Cambogia era diventata un immenso campo di concentramento. Tutta la popolazione, inclusi i bambini, era obbligata a lavorare nei campi dalle 8 alle 14 ore al giorno, tutti i giorni e con ogni condizione climatica, per poter vendere riso alla Cina in cambio di armi. Gli anziani, i disabili e chiunque non fosse in grado di lavorare o di tenere i disumani ritmi lavorativi, era d’intralcio alla rivoluzione ed andava eliminato. Tutte le città, inclusa Phnom Phen, erano diventate delle vere e proprie città fantasma; l’intera popolazione era stata trasferita nei campi. Contro gli abitanti delle città si accaniva maggiormente la furia dei Khmer Rossi; era giunto il momento di pagare lo scotto degli anni vissuti nell’agio delle città, mentre la maggior parte della popolazione faticava ogni giorno lavorando nei campi. Oltre due milioni di persone hanno perso la vita tra l’aprile del 1975 ed il gennaio del 1979, quando l’esercito vietnamita ha finalmente liberato la Cambogia dalla tirannia di Pol Pot e dei suoi uomini.
Per chi volesse meglio approfondire questo argomento, consigliamo due libri, entrambi molto toccanti ed impossibili da dimenticare: Killing Fields, di Dith Pran, e First They Killed My Father, di Loung Ung (sfortunatamente siamo in grado di fornirvi solo i titoli in inglese, ma le librerie potranno procurarvi facilmente l’edizione italiana).
A Phnom Phen bisogna visitare il Tuol Sleng Museum; una volta questa era una scuola superiore, successivamente trasformata dai Khmer Rossi in una prigione conosciuta col nome di S-21. Al suo interno venivano detenuti e torturati, prima di essere uccisi, coloro sospettati di tramare contro la rivoluzione. Oltre 100 persone al giorno venivano massacrate fino alla morte; i Khmer Rossi, per risparmiare sui proiettili, non sparavano alle loro vittime ma le uccidevano dissanguandole, oppure a colpi di martello o con altri attrezzi agricoli. I neonati ed i bambini più piccoli venivano spesso uccisi di fronte ai propri genitori, per convincerli a confessare le loro colpe e fare i nomi dei loro complici. Intere famiglie hanno perso la propria vita qui dentro o nei vicini Killing Fields (Campi di sterminio). Pensate che, quando l’esercito vietnamita ha liberato la prigione, al suo interno vi erano 17.000 detenuti e solamente 7 erano ancora in vita. Ad oggi solamente 3 sono ancora vivi. Durante la nostra visita alla prigione, abbiamo avuto la fortuna di incontrare uno di essi, il Sig. Chum Mey, che ci ha raccontato la sua incredibile esperienza, rendendo ancora più vivo e forte il nostro sdegno ed il nostro dolore. Grazie ad un traduttore che seguiva una squadra di rugby australiana in tournee in Cambogia, siamo riusciti a comprendere le parole dei suoi racconti, ma i suoi occhi, che ancora si riempiono di lacrime al ricordo dei familiari e degli amici scomparsi, la sua voce, che trema per la paura che ancora lo perseguita, non hanno bisogno di nessuna traduzione. Avevamo entrambi una gran voglia di abbracciarlo. Così piccolo e minuto nella sua statura, apparentemente indifeso, eppure talmente forte da essere sopravvissuto all’orrore ed essere riuscito ad andare avanti, talmente forte addirittura da perdonare i propri carnefici. Non riusciamo proprio a capire come sia possibile perdonare… Per noi sarebbe impossibile, probabilmente. E’ estremamente importante ascoltare le testimonianze direttamente dalla viva voce dei sopravvissuti, sono più incisive ed istruttive di qualsiasi libro o lezione di storia.
Come ulteriore smacco a questa povera gente, si aggiunge la lentezza della giustizia nel perseguire i colpevoli delle atrocità perpetrate dai Khmer Rossi, con il silenzioso benestare dei governi che si sono succeduti alla testa del paese, in qualche modo sempre collegati con personaggi di spicco alla guida dell’esercito di Pol Pot. Pensate che i primi processi contro alcuni capi dei Khmer Rossi sono iniziati solamente tre anni fa, ed esclusivamente a carico di un esiguo numero di persone, mentre tutti gli altri l’hanno ormai fatta franca. L’attuale governo ha inoltre dichiarato di non essere più interessato a continuare la ricerca di altri colpevoli, volendo voltare per sempre la più nera pagina della recente storia cambogiana, facendo tirare un bel sospiro di sollievo a tutti i criminali che hanno preso parte al massacro durante quei terribili anni e che sono ancora in circolazione.
Un’amica di Simona, Brigitta, che lavora per una ONG qui nella capitale, ci spiega alcuni aspetti della cultura di questo popolo. Nonostante siano tutti gentili e sorridenti, i cambogiani, almeno quelli di città, sono molto diffidenti. E’ estremamente difficile stringere rapporti di amicizia, ricevere un invito ad andare a casa di qualcuno, oppure farsi raccontare qualcosa del proprio passato o delle proprie famiglie. Questa è una naturale conseguenza della diffidenza e della paura che attanagliava tutti i cambogiani durante gli anni della dittatura di Pol Pot. Per avere qualche minima chance di sopravvivenza era necessario rimanere nell’ombra, non farsi notare e, soprattutto, non confidarsi con nessuno, per evitare i frequenti tradimenti da parte di vicini ed amici. Le persone non scambiavano nemmeno più informazioni con i propri parenti dato che meno si sapeva e meno si poteva comunicare agli aguzzini in caso di cattura e di tortura.
Ci fidiamo del giudizio di Brigitta che è qui ormai da oltre un anno anche se, come prima impressione, i cambogiani ci sono sembrati molto aperti ed ospitali. Vedremo se gli incontri che faremo in giro per la Cambogia nelle prossime settimane ci aiuteranno a farci un’idea più precisa riguardo la povera e ancora sofferente popolazione di questo martoriato paese.
La nostra seconda tappa è Siem Reap dove andremo a visitare una delle Sette Meraviglie del mondo, anche se alcuni dicono che sia l’ottava… Comunque sia, i templi di Angkor sono davvero una meraviglia.
Il biglietto d’ingresso è un pò caro, 20 $ a persona per un giorno, ma ne vale assolutamente la pena. Iniziamo il nostro tour dei 400 Km quadrati che compongono l’area archeologica di Angkor quando è ancora buio; non possiamo proprio perderci il momento in cui il sole lentamente va a prendere il suo posto nel cielo spuntando proprio alle spalle del tempio simbolo della Cambogia. A causa del buio (consigliamo di portare una piccola torcia elettrica) fatichiamo un pochino a raggiungere il laghetto ai piedi del tempio. Aspettiamo circa trenta minuti prima che il sole inizi a schiarire lentemente il cielo, colorando di blu lo sfondo dietro Angkor Wat, il tempio visto tante volte in televisione ed in fotografia, che ora prende forma minuto dopo minuto davanti ai nostri occhi. Le fotografie si sprecano, perchè ad ogni istante le sfumature di colori regalateci da una bellissima alba sembrano essere sempre più perfette. Quando il sole è già alto, noi ci soffermiamo ancora un pò ad ammirare la bellezza del tempio, prima di addentrarci ed esplorare il suo interno.
Dopo aver visitato Angkor Wat, ci dirigiamo verso gli altri templi; i più impressionanti, a nostro parere, sono Bayon, con le centinaia di facce sorridenti, raffiguranti il re Avalokiteshvara, che osservano i turisti da ogni angolo, e Ta Phrom, forse il più bello di tutti, dove la natura mostra la sua forza ricoprendo ogni mattone di un sottile strato di muschio, creando una suggestiva aurea verde brillante, e facendo “colare” giganteschi alberi sulle mura del tempio che, come fossero giganteschi boa, avvolgono la costruzione in un silenzioso e distruttivo abbraccio.
La sera stessa andiamo a fare baldoria nella zona turistica di Siem Reap, nella cosiddetta Pub Street. Qui è possibile trovare una gran quantità di locali, alcuni anche molto carini. Dopo una giornata ad Angkor Wat, perchè non trascorrere la serata ad Angkor What?, un locale dove è possibile fare due salti ed incontrare altri turisti ed expat. Occhio solo se fate le ore piccole perchè la città si svuota e rimangono in giro solo giovani ragazzini in cerca di soldi facili; hanno cercato di derubarci più volte, aprendo borse e zainetti e cercando di allungare le mani nelle tasche e verso qualunque cosa di valore. Non vi agitate, non sono pericolosi, però possono rappresentare lo spiacevole epilogo di una bellissima giornata.
Ora andiamo per un paio di settimane a vivere con una famiglia in un piccolo villaggio sulle rive del Mekong, insegnando inglese ai piccoli bambini provenienti da famiglie molto povere. Sarà un pò dura, senza elettricità ed acqua corrente… Ma in questo modo avremo, finalmente, l’opportunità di osservare da vicino come vive la stragrande maggioranza della popolazione cambogiana, oltre a metterci nuovamente in gioco, pronti ad affrontare un’altra piccola sfida personale.
A presto!!!
Luca & Aga
P.S. Se volete vedere più fotografie: Luca ed Aga vagabondi…su Facebook!! Ciao