Moto in vendita a Lusaka
di Nicola Chiacchio - Lusaka 26 Luglio 2002
Un uomo si avvicina alla moto. Mi domanda incuriosito di avviare il motore. Svogliatamente lo accontento. Una leggera pressione sul pulsante di start e il piccolo monocilindrico miracolosamente comincia a girare. L’insolito cliente, in questo surreale mercato dove mai avrei immaginato di improvvisarmi commerciante, non riesce a dissimulare un’espressione di meraviglia e soddisfazione, e dopo aver inutilmente cercato l’avviamento a pedale, mi domanda di accelerare. Controvoglia do gas. Un boato cavernoso, fuoriesce dal tubo di scarico consumato dall’umidità, e ridotto ormai ad inutile ornamento. L’uomo alludendo al boato di cui non intuisce il vero significato, sorride compiaciuto. Scarico made in Africa, sarei tentato di dire ripensando agli innumerevoli sassi delle mulattiere etiopiche, che l’hanno letteralmente sfondato in più parti, fortunatamente non visibili a gli occhi inesperti dei miei squattrinati clienti.
Mi chiede a quanto la vendo e io gli rispondo non meno di 1300 euro, lasciando margine ad un improbabile contrattazione. Apparentemente il prezzo é adeguato, ma l’uomo mi saluta e scompare nella folla. La scena si ripete con poche variazioni ormai più volte al giorno, da quando, circa una settimana fa, cacciato dalla Repubblica Democratica del Congo, ho deciso di vendere la moto senza fortuna e rientrare in Italia.
Lo Zambia, reddito pro capite annuo di 300 euro, minacciato da una grave carestia destinata ad aggravarsi con l’esaurimento degli aiuti internazionali, non è sicuramente il posto migliore per concludere affari. Le alternative non sono molte. Avrei dovuto vendere la moto a Lubumbashi, Congo, magari a quel somalo che parlava anche italiano, o meglio a quel commerciante, venuto dalla lontana Mbuji-Mayi, fin lì proprio per acquistarne quattro. Avrei potuto fargli un prezzo migliore, ma rapito dai racconti del gestore dell’albergo in cui alloggiavo, favoleggianti di una mitica città, Mbuji-Mayi, una sorta di eldorado per le due ruote, comprate a suon di migliaia di euro, o barattate con prodotti locali, come i diamanti, avevo rifiutato la sua offerta insolitamente generosa.
“Soldi sporchi”, mi ero detto pensando alla guerra civile che vede contrapposte le forze del figlio del defunto presidente Kabila a quelle dei ribelli del Congolese Rally for Democracy. Una guerra in cui sono coinvolti, a supporto dell’una o dell’altra parte, molti degli stati confinanti e non, tale da essere detta da alcuni storici come la prima guerra mondiale africana. Una guerra per il controllo delle immense risorse del paese, che ha già causato milioni di morti lugubremente accompagnati dall’indifferenza degli stati occidentali e dal silenzio dei nostri mass-media. Una guerra che vede compiersi inimmaginabili orrori evocati dai racconti dei sopravvissuti.
Accantonata l’alternativa angolana, probabilmente via verso il nord Africa più sicura di quella che passa per le foreste del Congo, mi sono ritrovato in Katondo street, Lusaka, tra venditori di cellulari, cambia valute, prostitute, ambulanti, mendicanti, e quant’altro la miseria umana è in grado di produrre, a vendere la mia fedele compagna di viaggio. Non è stato troppo difficile giungere fino a qui. A parte le rotture del telaio che hanno animato per qualche ora assonnati villaggi, l’abbandono dell’alternatore costatomi una notte sotto le stelle nel nulla apparente del paesaggio namibiano, sorprendentemente affollato da sciacalli incuriositi dalla mia tenda e dal suo contenuto, e qualche attacco acuto di diarrea, tutto si è svolto regolarmente.
Finanche l’attraversamento del Sahara, sebbene la moto fosse tra le meno adatte e non certo aiutata dall’usura delle gomme già utilizzate nei precedenti viaggi in Pakistan (1999) e in Nepal (2000), e sostituite solo a Città del Capo, su consiglio della locale polizia stradale, si è risolto senza inconvenienti tra lo stupore di occasionali compagni di viaggio forniti di ben altra cavalcatura. Quasi 6 mesi e 27.000 km attraverso 3 continenti e 17 paesi: Italia, Grecia, Turchia, Siria, Giordania, Egitto, Sudan, Etiopia, Kenya, Tanzania (Zanzibar), Malawi, Mozambico, Zimbabwe, Sud Africa (Città del Capo), Namibia, Zambia, DR Congo e ancora Zambia.
Una cavalcata incosciente attraverso il continente africano, in compagnia di una variopinta umanità che mi ha accolto, sfamato, incoraggiato, fregato, minacciato, salutato e il cui ricordo renderà probabilmente meno duro il ritorno all’assurdità della mia “vecchia” vita. Mesi di viaggio che hanno consunto ciò che sono stato, in una sorta di reincarnazione giornaliera verso l’ambito nulla di un nirvana. Valida terapia ad una sofferta esistenza, come una droga di cui accuso i primi sintomi di assuefazione, il viaggio mi ha condotto ad un punto al di là del quale non intravedo ritorno.
Vorrei lasciarmi andare, spingermi oltre; sparire senza lasciare traccia in qualche angolo sperduto del pianeta, in paziente attesa della definitiva liberazione. Un indefinibile istinto di sopravvivenza ancorato alla “normalità” in cui sono nato, mi trattiene. Chiudo gli occhi e avverto il vento caldo dell’Africa avvolgermi come il respiro di un inseparabile compagno, e mi sembra di sentire sussurrare…”quando vorrai tornare…Troverai sempre un volto amico ad aspettarti”.
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