Afrika Bambaagiaa

Un diario semiserio e semi no di due fantastiche settimane in Namibia
Scritto da: Corrado Benanzioli
afrika bambaagiaa
Partenza il: 05/08/2016
Ritorno il: 21/08/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
“Afrika Bambaagiaa” Namibia, Agosto 2016.

È da febbraio che mi sento porre una domanda che segue quella classica “Dove andrete in vacanza quest’estate?” ed è questa: “Perché la Namibia?”. Ho avuto modo, in questi mesi, di elaborare diverse risposte, argute almeno quanto la domanda posta:

– Pare che facciano una torta di mele strepitosa in una cittadina namibiana;

– Confido nello sbalzo termico tra giorno e notte per temprare il fisico;

– Mi piacciono gli animali, anche vivi;

– Non ci sono zanzare;

– Devo testare l’acchiapparagni appena acquistato su Amazon;

– Volevo vedere della sabbia e quella di Cattolica non mi bastava;

– Ci piace guidare a sinistra e sullo sterrato;

– Ci sarà Tom Cruise che girerà in zona l’ennesimo film su “La mummia”, ma non nella parte della mummia;

– Devo prendere confidenza con i felini prima che Linda si trasferisca da me con la sua gatta;

– Ci siamo tagliati lo stipendio, abbiamo abolito le auto blu (io ne ho una nera e Linda una gialla) e, con quello che abbiamo risparmiato, potevamo finanziare piccole imprese o fregarcene e farci una vacanza a cinque stelle;

– L’alternativa era svuotare la cantina e mettere a posto il garage;

– Costa meno del Parco Zoo Safari del Garda; – Lo ha deciso Linda.

Chissà perché le persone credono solo all’ultima risposta che, tra parentesi, è quella più irreale. Ma vabbè.

Venerdì 5 agosto – Primo giorno

Mentre un aereo a Orio al Serio atterra serenamente sulla tangenziale, qui a Venezia la gente si accalca ai check-in, neanche fosse un giorno di agosto con il bollino rosso.

Per la prima volta Linda ed io viaggiamo con dei borsoni al posto dei comodi trolley, questo perché non avrebbero trovato posto nel bagagliaio dell’auto noleggiata e, soprattutto, perché in versione “Sex and the City incontra Mr. Bean” saremmo stati fotografati più noi degli animali selvaggi. Guardando bene questi due scomodi ed enormi porta kalashnikov (nel mio caso pure mimetico, ma è un prestito di mio fratello e perciò sono giustificatissimo…) non sembrerebbero meno ingombranti delle valigie, ma è una cosa che verificheremo solo all’autonoleggio. Male che vada faremo un salto a casa a cambiarli…

Il girone dei viziosi nell’aeroporto di Venezia è ben individuabile, nel caso foste interessati: si tratta di una stanza a vetri, con all’interno gente che fuma sigarette vere e che gioca alle slot machine. A ben vedere mancano solo le donnine nude. La nebbia di nicotina avvolge i frequentatori, come se fossero intenti ad esprimere il loro ultimo desiderio prima del decollo. Incoraggiante, ma tanto noi non fumiamo e giochiamo solo a Tabù.

L’aereo che ci porterà a Francoforte è in ritardo, ma l’attesa nella città tedesca sarà di circa quattro ore e mezza prima di imbarcarci su quello che poi ci condurrà a Windhoek, la capitale della Namibia, quindi siamo abbastanza tranquilli. Ed ecco che la tranquillità svanisce in volo, tra vuoti d’aria e scossoni emozionanti come un’attrazione di Gardaland, ma senza le ore di coda sotto al sole, causati dal maltempo; a tenerci tranquilli ci pensa l’equipaggio tedesco tutto rigorosamente maschile, empatico, affabile ed affidabile come l’ispettore Derrick. Ci vengono offerti anche degli squisiti biscotti scozzesi al burro, che si differenziano da quelli francesi al burro e da quelli danesi al burro perché sono fatti in Scozia. Buoni, pure il mio colesterolo ha fatto la ola.

Il wifi all’aeroporto di Francoforte funziona bene, così approfittiamo per alienarci con i social e per comunicare tra noi a monosillabi neanche fossimo dei calciatori miliardari, caricandoci per le prossime due settimane durante le quali le connessioni ad Internet ci saranno solamente alla sera. Forse. Questa è la vera “prova d’amore” degli anni 2000: condividere il tempo con la persona amata senza Whatsapp e social vari.

Ma ora direi di chiudere la giornata, perché non abbiamo ancora fatto nulla e ho già scritto anche troppo, mi dicono dalla regia.

Buona serata, a domani!

Sabato 6 agosto – Secondo giorno

Sono stanco, stanchissimo. Userò le ultime forze per scrivere queste mie memorie; nel caso non ce la dovessi fare, lascerò in eredità la mia testa di scimmia da collezione, contenente i DVD dell’intera saga de “Il Pianeta delle scimmie”, a… No, vabbè, adesso non esageriamo: già c’è Linda che ne minaccia l’estinzione in vista del suo trasloco da me, quindi direi di tornare al diario di viaggio e di metterci cuore e peli di primate in pace. Dicevo che sono stanchissimo: da Francoforte a Windhoek ci vogliono circa dieci ore di volo ed io neppure con la dose massima di sonnifero riesco a dormire. Al limite mi rimbambisco un po’, il che è anche peggio e, comunque, nessuno nota la differenza. Voliamo con la Condor, compagnia tedesca della Lufthansa, su un aereo nuovo nuovo: neanche il tempo di arrabbiarci perché ci accorgiamo solo prima dell’imbarco di avere il posto 42A io e 42C Linda (“Ma come, non ci ha messo neppure vicini quella -segue epiteto impronunciabile- del check-in?!!), che scopriamo che il posto B non è proprio contemplato. Non chiedetemi il perché, magari sarà una forma di superstizione come il 13 per gli americani. File da 2-3-2, quindi un aereo non grandissimo, ma per fortuna abbastanza confortevole; ci sono pure i monitor nuovi e ben contrastati, non come quelli di altri aerei che sembrano aver sbagliato candeggio.”Benissimo, ora ci guardiamo qualche film, così risparmiamo la batteria dell’iPad!”; titoli disponibili: una vecchia commedia con Adam Sandler, Toy Story 3, un episodio di una sitcom, un episodio di un cartone animato. Fine. Eh?!? Ah, ma certo, se si vogliono vedere altri film c’è la possibilità di pagare 8 euro a testa, con tanto di cuffiette in prestito! Controllo le lingue disponibili e… Ok, ora non è che voglia fare il classico italiota rompiscatole, ma ci sono almeno 6/7 lingue per ogni programma, ma non l’italiano. Spengo il monitor domandandomi quanti saranno i passeggeri della Condor a gustarsi “Deadpool” in suomi e accendo il fidato iPad. Le gentili hostess ci servono la cena che consiste in una pasta alla Norma come solo i tedeschi sanno cucinare, formaggino, pane, insalata russa alla vinaigrette ed un budino al cocco che esplode all’apertura probabilmente a causa della pressurizzazione. Lo so che è inutile ironizzare sui pasti in volo perché non se ne salva uno che sia uno, ma finché ai piani alti non capiranno che potrebbe bastare anche un semplice tramezzino piuttosto di certa roba che verrebbe rifiutata persino da quello chef che pubblicizza le patatine spacciandole per cibo gourmet…

Atterriamo all’alba nell’aeroporto internazionale di Windhoek che ha le dimensioni più o meno di quello del Playmobil e non in scala; il personale di terra ci scansiona la faccia con una telecamera termoqualchecosa (cercano malati di Ebola?), poi compiliamo il foglio dove si dichiara che siamo turisti e non spie al servizio segreto di sua maestà il denaro ed infine passiamo i controlli con una sorridente e simpatica poliziotta. I bagagli ci sono, ora non ci resta che incontrare la ragazza che ci darà le chiavi dell’automobile a noleggio ed i voucher per le sistemazioni concordate, cambiare qualche euro nella moneta locale e mettersi, finalmente, alla guida! No, aspetta, ma dov’è il volante?!? Giusto, qui si guida all’inglese, ma senza tè delle cinque e pure sullo sterrato per gran parte del percorso previsto. Mi aspettano oltre quattro ore così prima di arrivare al Waterberg Plateau e senza aver dormito. “Kaffèèèè!!!”, direbbe qualcuno da sopprimere.

Pausa toast con caffè, pausa shopping con contrattazione passiva che ci vede uscire gloriosi ben sapendo di essere stati fregati (entrambi odiamo contrattare: non abbiamo fatto altro che ringraziare ed uscire, ma ci inseguivano perché eravamo gli unici polli in zona…), pausa “Aspetta che faccio una foto inutile a quel facocero!” e finalmente si giunge all’agognato Waterberg Camp nel quale trascorreremo la nostra prima notte africana. Le receptionist hanno tutte un muso lungo che pare gli sia morto il leone, ma dopo aver compilato solo sei moduli ed esserci riservati l’escursione in jeep della durata di quattro ore che sarebbe partita da lì ad un’ora, otteniamo le chiavi del lodge. Bello, non c’è che dire, però mi sono subito pentito di aver lasciato a casa l’Acchiapparagni e tra poco vi dirò il perché.

Dopo aver schivato qualche babbuino (la Direzione del posto si raccomanda di non dar loro confidenza, perché poi potrebbero illudersi e farsi strane idee, tipo trasferirsi e cominciare una convivenza) saliamo sulla jeep insieme ad una famiglia francese di sei persone ed il conducente ci porta sull’altipiano di Waterberg alla ricerca di animali da fotografare. La scena che ci si presenta non è esattamente quella di Jurassic Park, ma grazie anche allo stratagemma delle pozze d’acqua (artificiali!) riusciamo a vedere dei bufali, dei bufali, dei bufali e anche dei bufali. Proprio quando stavo cominciando ad invocare John Wayne ecco che spuntano due elegantissime giraffe, madre e figlia: si abbeverano con i bufali di cui sopra, in perfetta armonia. Bello, davvero. Alla fine del percorso riusciamo a vedere anche delle antilopi e lo Springbok (la famiglia è sempre quella, la principale differenza sta sempre nelle corna: c’è chi le porta con nonchalance e chi meno…). Gli animali più rinomati della zona dovremmo trovarli all’Etosha, per oggi vediamo di accontentarci.

Cena all’unico ristorante della zona alle ore 18,15 (pare che qualche tedesco sul Lago di Garda per questo stia ancora ridendo mentre è intento a pasteggiare con un cappuccino) e poi in camera.

E qui torniamo al mio rammarico per aver lasciato a casa l’arma definitiva: oggi tre aracnidi tigrati ci stavano osservando con i loro mille occhi mentre poggiavamo a terra i borsoni! Ma che cavolo, siamo o non siamo due persone adulte e consenz… no, aspetta che mi agito… Dicevo: siamo due persone adulte e ben più grosse di loro, quindi dico a Linda di prenderli e di buttarli fuori! Macché, le va bene solo con uno perché gli altri sono sul soffitto (sicuramente pronti a sferrare l’attacco quando meno ce lo aspettiamo!); la tecnica del bicchiere e del foglio di carta funziona sempre per catturarli, ma il mostro si agita ed è velocissimo e spietato. Ve la faccio corta: il secondo lo abbiamo espulso prima di andare a dormire, mentre il terzo mentre sto scrivendo è ancora lì che… No, aspetta, ma dove cacchio è andato?!?

Buonanotte, domattina sveglia alle 6,31!

Domenica 7 agosto – Terzo giorno

Mi sono innamorato di un animaletto tenero tenero e la cosa mi destabilizza non poco; cioè, passi l’imminente mia prima convivenza con una donna e con una gatta, ma adesso pure questo? Sì, insomma, è da quando siamo usciti per andare a far colazione che non facciamo che incontrare dei cerbiatti bonsai, con orecchie ed occhioni grandi grandi, che sembrano spuntati da un cartone animato della Disney: sono i Dik Dik ed ogni battuta sul gruppo musicale sono certo che sia già stata fatta. Sono così belli che il desiderio di averne uno tra le braccia sta mimando seriamente ogni mia parvenza di mascolinità. Non mi riconosco più, al rientro dalle vacanze dovrò farmi fare qualche esame, c’è troppa tenerezza in me: sicuramente avrò il glucosio alle stelle. Insieme a questi esserini meravigliosi ci sono anche decine di buffe manguste, una delle quali si infila pure sotto all’auto tentando di raggiungere il motore, prima di uscire sconsolata (chissà che pensava di trovare…) e si fanno tutti fotografare senza alcun timore di fronte al classico turista esagitato con macchina fotografica. Cioè noi.

Ci aspettano circa quattro ore di auto, per fortuna su strada asfaltata, prima di giungere all’Etosha Park, ma i tempi si dilatano non appena vediamo all’orizzonte un Despar (un Despar?!?); Linda ed io abbiamo qualche problema con i supermercati e ci fiondiamo dentro senza pensarci due volte tra persone del posto vestite di festa (la messa della domenica!). “Quante cose che non ci sono da noi! Dai, metti nel carrello queste indispensabili patatine alla cipolla e formaggio, ma non scordarti quei biscottini al limone e zenzero, mi raccomando! Guarda, una fondamentale barretta di mandorle, cioccolato bianco e mou!”. La scena, più o meno, è stata questa. Usciamo con una sporta colma di puttanate (scusate, ma il “dizionario dei sinonimi e contrari” non mi ha fornito un termine alternativo sufficientemente soddisfacente) ed acceleriamo per giungere, finalmente, al lodge poco fuori al parco.

All’entrata solite firme, chi-siete-quanti-siete-un-fiorino, e poi ben 13 chilometri di sterrato per arrivare alla reception. Posto magari scomodino, ma bellissimo, romanticissimo e pure fichissimo. Sui cuscini del letto troviamo pure due cioccolatini tipici del luogo: dei Ferrero Rocher. Siccome siamo due strateghi dell’ottimizzazione dei tempi, lasciamo giù i bagagli in stanza e ripercorriamo i 13 chilometri per uscire dalla tenuta ed entrare all’Etosha.

Una registrazione, una strisciata della carta di credito ed un pieno dopo, stiamo già avvistando un bel rinoceronte, ma il bello deve ancora venire e soddisferà le sole due ore che abbiamo a disposizione prima della chiusura che avverrà al tramonto (cioè alle 17,30): attorno ad una grande pozza d’acqua (naturale!) c’è un gruppo di giraffe “sul chi va là” a causa di un leone che si sta abbeverando e facendo un paio di bagnetti. Foto, foto ed ancora foto sentendoci dei fotografi del National Geographic, mentre in realtà servono solo a fermare nel tempo questi incredibili ricordi.

Rientriamo circondati da animali come neanche Biancaneve e, dopo una doccia ed un cambio d’abito, siamo pronti per la cena. Cena a lume di candela e all’aperto perché qui la temperatura è già più calda rispetto alla sera precedente. Essendo questo Etosha Aoba un lodge a gestione privata e non governativa come quello della prima notte, le differenze ci sono tutte e non solo per la qualità del cibo. “Hai notato che il cameriere ha ripetuto la descrizione della portata per due volte, prima a me e poi a te? Io l’ho visto fare solo nei film!”. “Erano film ambientati in ospizio..?”. Alle volte so essere molto romantico.

Rientriamo in stanza e la luce calda e soffusa prima che ai momenti d’ammmore mi fa sospettare che qualcuno stia cercando di nasconderci qualcosa e, infatti… Niente, anche questa notte ci toccherà dormire in compagnia di qualche ragno, qualcuno vivo, qualcun altro un po’ meno. È la dura legge della giungla.

Buonanotte!

Lunedì 8 agosto – Quarto giorno

Ora non vorrei che all’Isis venisse in mente di reclutarla, ma come fa esplodere i borsoni Linda… Dopo tre minuti che è in stanza ci sono le sue cose ovunque e raccogliere la mattina schegge di beauty-case, mutandine e barbatrucchi vari è qualcosa che va al di là di ogni mia comprensione. Lei la chiama “occupazione del territorio”, io semplicemente “casino”, forse perché limito le fuoriuscite dalla mia borsa alle cose essenziali che mi serviranno da lì a breve, tipo le due gocce di Chanel N.5 prima di andare a dormire.

La giornata di oggi è stata come una lunga puntata di Quark, purtroppo per Linda condotta da me che conducevo l’auto e non da Alberto Angela. Quasi nove ore alla spasmodica ricerca di animali, alcuni dei quali felici di posare per qualche scatto ed altri incazzosi perché si violava la loro privacy, tipo quell’elefante che ha caricato noi ed un altro paio di auto (abbiamo battuto la ritirata in retromarcia, per dire…). Ma veramente vorreste sapere quali animali abbiamo visto, magari con un’accurata descrizione, abitudini alimentari, ambientali, sessuali ecc.? No, appunto. Vi basti sapere che abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere, a parte il ghepardo che pare sia come beccare un quadrifoglio in una confezione d’insalata Bonduelle (ok, io ci trovai una lumaca, ma questa è un’altra storia) e che Linda “Nostra Signora degli Animali” è rimasta in fibrillazione per tutto il giorno. E tanto mi basta.

Dopo oltre 300 chilometri di strade sterrate all’interno dell’Etosha, arriviamo all’Etosha Safari Lodge giusto in tempo per una doccia e per cenare al tramonto (sì, sempre poco dopo le 18, giusto per non perdere le buone abitudini…). Il posto è carino, ma nulla a che vedere con la sistemazione di ieri. Già, al lusso ci si abitua facilmente, lo avevo sentito dire… Cena a buffet con il sottofondo di un ragazzo del posto che, con la sua chitarra, riesce a propinarci pezzi che vanno dal folklore locale a Bob Dylan e tutto con un unico accordo. Una cosa mai sentita e che mai più vorrei sentire. Gli applausi poco spontanei del pubblico mangiante cominciano a sembrare quelli registrati delle sitcom. O ce ne andiamo o lo picchiamo. Il wi-fi pare funzionare solo per i mocciosi turisti tedeschi che ci stanno guardando sghignazzando compassionevolmente; siccome abbiamo una certa dignità e il rabdomante di segnale già lo fece Pieraccioni nel suo secondo film, lasciamo perdere e andiamo in stanza. Finalmente un po’ di intimità e di tempo per noi da dedicare a… Ok, va bene, ad un paio di episodi di una serie televisiva.

Buonanotte…

Martedì 9 agosto – Quinto giorno

Lasciato alle spalle l’entusiasmante safari fotografico all’Etosha, oggi ci aspettano più di 500 chilometri in circa cinque ore di auto per giungere a Opuwo, paesino nel quale soggiorneremo all’Opuwo Country Lodge per ben due notti, il tempo di visitare un villaggio Himba e le Epupa Falls.

La strade asfaltate in Namibia sono veramente in ottime condizioni, forse perché poco utilizzate: potrebbe passare anche una buona mezz’ora prima di incrociare un’auto e, probabilmente, sarebbe di qualche turista che sta commentando che era da mezz’ora che non incrociava qualcuno. 120 km/h da rispettare non tanto per la paura di incrociare qualche pattuglia (tanto la polizia non c’è, ha solo qualche posto di blocco fisso per chiedere in quanti siamo – il che fa già abbastanza sorridere -, da dove veniamo, dove andiamo e, senza chiedere il fiorino già menzionato, la poliziotta di turno ci lascia sempre passare sconsolata per il nostro inglese turistico fatto di risposte alla Totò e Peppino), quanto per non rischiare di investire capre, asini, struzzi, babbuini, sciacalli, mucche, elefanti… Gli animali, se non si era ancora capito, sono il leitmotiv del viaggio, vivi o spiaccicati che siano. “Vedi, Linda, quelli sono escrementi di elefante: l’ho visto in un documentario.” “Perché, tu hai visto un documentario sugli elefanti?!?” “No, era un documentario sulla merda degli elefanti…”. Perdonatemi, però ogni tanto me le tira fuori; ogni scusa è buona per Linda per tirare in ballo la sua vasta conoscenza e cultura acquisita in anni di frequentazione televisiva della famiglia Angela: “Sai, Alberto è sposato e ha tre figli, si è laureato con ben 110 e lode e…”. Robe scientifiche così, insomma.

Le strade, dicevo. Sull’asfalto mai una buca, mai un rattoppo di quelli tanto amati da ciclisti e motociclisti (tanto qui praticamente non esistono), centinaia di chilometri dritti dritti da far invidia ad una Route 66 a caso, con segnali stradali che avvisano del pericolo di attraversamento animali come delle più piccole curve, tanto sono rare; tutto attorno un nulla sconfinato fatto di terra ora rossa, ora bianca, popolata da migliaia e migliaia di enormi termitai ora rossi, ora bianchi, con piccoli alberelli che ogni tanto hanno qualche foglia arancione o gialla (adesso in Namibia è inverno), ma per lo più sono solo “bush” spogli e tristi che prendono il colore della polvere alzata dalle auto. E poi le abitazioni: baracche di fango e paglia, di terra e lamiera, così piccole che ti domandi come possano viverci intere famiglie, mentre la tua prima preoccupazione quando vedi un appartamento è capire dove posizionare lo schermo del videoproiettore. Paesi come questo tirano fuori tutta la retorica che altrove aborrirei, ma ti fanno veramente comprendere che essere nati dove siamo nati è stata solo un’enorme botta di culo e non certo un merito. Fine del pippone, con buona pace di legaioli e affini che non vogliono conoscere nulla al di fuori del proprio paesello.

“Mi raccomando, fate sempre il rabbocco al serbatoio, non aspettate la cittadina successiva per fare benzina!”. “Cittadina”… Da noi un quartiere è venti volte più grande: se va bene qui c’è un mini-market, qualche casa ed una dozzina di distributori, con così tanti addetti al rifornimento che pare di fermarsi ad un box di Formula 1 dove, solitamente, ci arrivo con i tergicristalli in movimento perché devo ancora imparare che se il posto del guidatore è opposto al nostro lo è anche tutta la strumentazione. Faccio ridere gli gnu, ma proprio non mi entra in testa. “Diesel? 95?”, dove 95 sta per gli ottani della benzina che costa praticamente la metà rispetto che da noi e, per questo motivo, i nostri rabbocchi lasciano sul volto degli inservienti una smorfia come per dire “Che pezzenti, si sono fermati per fare dieci euro…”.

Per la prima volta, da quando siamo partiti, dormiremo in un lodge dove il turismo è prevalentemente italiano. È strano, ma gli italiani in vacanza all’estero sono sempre abbastanza snob o diffidenti nei confronti dei loro connazionali che stanno vivendo la medesima esperienza; stavo domandandomi le motivazioni di questa assurda cosa, quando il solito fenomeno di un “Gruppo Vacanze Piemonte” poco prima di cena ha cominciato ad intonare a squarciagola “O sole mio”. Dopo questa illuminazione Linda ed io abbiamo iniziato a parlare in tedesco ed io il tedesco non lo so proprio.

Linda è passata da “che belle le zebre” a “che buone le zebre” nell’arco di un pranzo saltato; il paffuto cuoco dietro al buffet ci consiglia caldamente la carne di questo animale, come quella del simpatico Springbok che già avevamo avuto modo di assaggiare (ed è veramente eccezionale). Lo so, ipocrisia e bla bla bla, ma non è certo questa la sede per disquisire sull’argomento “Vegans vs Chissenefregas”; la “ciccia”, in nazioni come la Namibia, è sempre la portata principale e la tenerezza provata per alcuni animali di solito va di pari passo con la tenerezza della loro carne.

Ed ora a nanna che domattina la sveglia sarà prima delle sei, perché ci aspetta una lunga visita guidata (la nostra automobile non ce la potrebbe fare) ai posti citati all’inizio. Buonanotte!

Mercoledì 10 agosto – Sesto giorno

Aspettativa verso realtà: pensavamo che l’escursione l’avremmo fatta in jeep con un equipaggio di varie nazionalità, invece siamo su un piccolo pulmino con un gruppetto di sei italiani più o meno imparentati tra loro. Si comincia con l’aria condizionata troppo-fredda, troppo-calda, troppo-tiepida e non si sa dove andremo a finire. 180 chilometri di sterrato non esattamente piacevole ed altrettanti per il ritorno ed io cosa ho fatto? Ho lasciato per la prima volta le cuffiette in stanza, privandomi della possibilità di ascoltare in loop quella decina di brani caricati sul telefono che ormai abbiamo già imparato a memoria quando lo colleghiamo alla presa USB dell’auto. Ok, avrei avuto anche qualche serie televisiva da vedere, ma sembra di stare su quelle pedane vibranti per dimagrire (e non chiedetemi come ci capitai sopra una volta -solo una volta, lo giuro!- perché tanto non ve lo direi) e la nausea è sempre di lì a venire già tentando di guardare la strada davanti a me, figuriamoci il display dello smartphone.

Riprendo a scrivere al termine della giornata, dopo una veloce cena a buffet che non ho concluso con un dolce. Cioè, lo ripeto: non ho preso alcun dolce. Io, sì, proprio io. Grazie alle ore ed ore di auto vibro ancora tutto e di questa cosa penso che potrebbe rallegrarsene solo Linda stanotte.

La domanda fondamentale è: valeva la pena di impiegare una giornata di viaggio per quasi 400 chilometri di sfiancante sterrato insieme ad altre persone (che poi non sono state affatto male, scremando qualche commento di dubbio gusto di qualcuno). Uhm… Allora, la visita/invasione al piccolo villaggio Himba mi ha consentito finalmente di fotografare qualche essere umano dopo tanta natura e la cosa, per quanto apparentemente un po’ artificiosa, mi ha fatto bene anche solo per entrare in contatto con una popolazione che non esiste al solo scopo di soddisfare il voyeurismo turistico (sono in 120mila…). Certo, mentre fotografavo il bimbo in braccio alla madre mi ripetevo di continuo “Non voglio la foto del bimbo con le mosche, non voglio la foto del bimbo con le mosche…”, ma le mosche non volevano proprio andarsene. Mentre le donne sono ricoperte da una patina arancione realizzata con burro e terriccio rosso, più altri ingredienti che riescono a tenere alla larga gli insetti, i piccoli purtroppo ci convivono. Nulla di male per loro, ma per me che di foto così ne ho viste a migliaia storcendo il più delle volte il naso per quella sensazione mista tra il “che bravo ad aver colto il momento!” ed il “che stronzo di sciacallo!”, non è stato proprio il massimo. Che poi lo so che quel maledetto scatto lo posterò anch’io… Forse. Boh.

Altri chilometri e giungiamo alle cascate Epupa, un’oasi di verde accanto al fiume, dove troviamo ristoro per un tardivo pranzo con i “packet lunch”. Belle le cascate, vero, ma forse non così imperdibili trovandosene tante altre sparse per il mondo, anche di più grandi/alte/larghe/ecc. Va bene, lo ammetto: sto scrivendo dopo una giornata che mi ha veramente stordito e che mi ha lasciato addosso uno sgradevole malessere; magari tra qualche giorno sarò un po’ più lucido ed obiettivo.

Rientriamo in stanza sognando una bella doccia calda e… è scomparso del mobilio sul quale avevamo appoggiato dei vestiti (che ci sono stati spostati)! Ci guardiamo e scoppiamo a ridere, ma in questo Opowo Country Lodge un po’ strani lo sono: ieri, dopo aver visto per la prima volta la camera, Linda è andata alla reception e, con estrema gentilezza, ha posto le seguenti domande ad una ragazza dietro al bancone: “Ma non avevamo sulla prenotazione una camera matrimoniale? Ci sono due letti separati e non avvicinabili…”. Risposta: “No, qui non esistono camere con letti matrimoniali”. “Ah. Per caso avreste da imprestarci un adattatore per la presa elettrica?”. Risposta: “No”. “E un phon?” Risposta: “No”.

La cosa che abbiamo notato in questa breve permanenza in Namibia, è che è più facile trovare uomini sorridenti e cortesi che non donne. Ma siamo pronti a ricrederci e a non diffondere un inutile luogo comune. Nel frattempo, però, abbiamo saputo dal gruppo di turisti di oggi che tutti sono in camere con letti matrimoniali. Per l’adattatore, invece, eravamo pronti con le mille prese internazionali accumulate nei vari viaggi, pensando che quelle inglesi andassero benissimo; macché, pur somigliandoci qui hanno uno standard tutto loro. Ora Linda, notoriamente liscia, è riccia. E fa riderissimo con quella sua espressione abbattuta, ma a me piace ugualmente un sacco.

Ed ora scusate, ma vado a conquistare il letto perché sono veramente a pezzi. Buonanotte!

Giovedì 11 agosto – Settimo giorno

“Ed il settimo giorno giunsero ai cancelli del Paradiso, ma non prima di essere passati attraverso le fiamme dell’Inferno”.

Dopo due giorni nello stesso Lodge, dove a Linda non pareva vero di poter spargere le sue cose ovunque senza ricevere alcuna bonaria critica da parte mia, eravamo pronti ad affrontare altre centinaia di chilometri con la nostra macchinetta, ma prima rifornimento e piccola spesa essenziale. Al distributore di benzina “Puma” di Opuwa pare che ci sia la svendita di carburante, tanto le pompe sono affollate; scegliamo la coda più corta che si rivelerà la più lenta di tutte e, mentre siamo in attesa circondati dalla vita frenetica dei paesani che sembrano muoversi senza una meta ben definita, due ragazze del posto identificano subito i due turisti (ma come, si nota così tanto?!!) ai quali vendere un paio di braccialetti. Finalmente è il nostro turno ed il solerte addetto fa il pieno al nostro serbatoio e pure alle sue scarpe perché la pompa non ha alcuna intenzione di smettere di erogare. Con l’odore della benzina ancora nelle narici, entriamo nel supermercatino adiacente il distributore, cercando di confonderci con la popolazione locale costituita da donne Himba, Herero ed altre con vestiti più occidentali. Ok, siamo gli unici bianchi, ma se per noi non è certo un problema figuriamoci per loro. Troviamo il famoso adattatore per le prese europee, dei biscotti alla menta, altri al mango ed alcune schifezzuole che dell’essenzialità hanno tutto, almeno secondo il nostro distorto punto di vista.

Ogni volta che affronto uno sterrato namibiano mi scappa la frase “magari la prossima volta prendiamo un’auto con quattro ruote motrici”, ma questo perché ho sempre detestato guidare sulla neve e la sensazione è più o meno quella, in più aggiungiamoci l’effetto “nebbia in Val Padana” ogni volta che si incrocia o si viene superati da un’altra automobile per la nube di polvere che alza. Posto di blocco. L’investimento di circa 90 euro per ottenere la patente internazionale forse l’ho ammortizzato oggi, quando un poliziotto ha deciso di fermare la nostra auto per un controllo, probabilmente una delle dieci che gli passeranno davanti durante la giornata. La solitudine si combatte anche così. Gentile, educato, tante buone cose e saluti a casa. Siamo ancora lì che cerchiamo di tradurre le risposte che gli abbiamo dato, che veniamo fermati poco più avanti per un “controllo veterinario”. Ebbene sì, può succedere anche questo e no, non mi hanno chiesto se mangio Chappy o croccantini; mentre un tizio con la lancia del “ramato” disinfetta i nostri pneumatici, una robusta donna in divisa ci fa domande del tipo “Trasportate carne?”, ma prima che Linda le risponda “A parte questo bel pezzo di manzo alla guida, no”, ci fa aprire il bagagliaio e dopo un fugace sguardo al suo interno lo richiude, confidando che nei nostri borsoni non ci sia alcuna zebra, viva o morta. In pratica si tratta di un controllo sanitario per impedire la diffusione di malattie animali da una zona all’altra dello Stato, ma non chiedetemi come una spruzzata alle gomme possa scongiurare la cosa perché ancora non l’ho capito, ma la tizia sembrava piuttosto convinta di quello che stava facendo.

Le indicazioni per il Vingerklip Lodge sono molto chiare e inforchiamo l’entrata galvanizzati dalle foto che avevamo visto su un depliant. Il paesaggio nel quale è immersa la struttura sembra una sorta di Monument Valley africana, solo con meno gente. Consegna del voucher, registrazione, chiavi e telefono cellulare. “Telefono cellulare?!?”. Già, ci servirà nel caso dovessimo contattare la reception, perché dormiremo nell’esclusiva villetta “Heaven’s Gate” in cima al monte, isolati da tutto e da tutti (a parte il minuscolo e grazioso ristorantino a circa 500 metri che ci sfamerà a colazione e cena), con una piscinetta che inizia dentro la stanza e finisce sul patio, con vetrate ovunque, divanetti, doccia a vista, wc a vista (vabbè…), candele profumate, frigo con birra e spumante a disposizione senza sovrapprezzo… In pratica la copula è obbligatoria per contratto. “Fantastico, dov’è l’ascensore?”. Le fiamme dell’inferno: “passeggiata” di circa un quarto d’ora con dislivello di quasi 200 metri, ma la pena da scontare è solo cominciata, perché la piccola funivia che dovrebbe trasportare i bagagli si è rotta proprio ieri. Alle volte il caso. E quindi? Quindi ci mandano un ragazzino che strabuzza gli occhi quando vede i nostri borsoni; uno se lo carica sulle spalle lui e l’altro io, sottovalutando ampiamente la cosa. Due anni a zigzagare tra le richieste di Linda di accompagnarla in montagna, cedendo solo in occasioni molto soft e con ottimo cibo alla meta a mo’ di carotina per l’asinello, ed ora mi trovo con 18 chili sulla schiena ad affrontare una cosa che uno nelle mie precarie condizioni psicologiche e fisiche non dovrebbe neppure sognarsela. Va bene, ho un pochino esagerato per la parte psicologica (o fisica?), ma vi giuro che è stato massacrante ed il giovane era messo quasi peggio di me (tiè!): non conosco le imprecazioni namibiane, ma dubito che quelle ascoltate fossero un mantra per darsi forza. Gli offriamo una birra, gli diamo la mancia, lo salutiamo e poi bruciamo i nostri vestiti bagnati da migliaia di calorie. Che ci sia sempre un contrappasso per ogni cosa già lo sapevo, non c’era bisogno di sottolinearlo anche in questa occasione, ma l’incisione sul cancello “Heaven’s Gate”, dopo aver infilato il piede nell’acqua della piscinetta disturbando i ballerini di “Holiday on ice”, mi è sembrata tanto “Hell’s Gate”. “Ma sì -rincuoro Linda preoccupata per la mia lingua a penzoloni, per gli spasmi muscolari e per il braccio sinistro informicolato- dobbiamo starci due notti, cerchiamo di goderci questo posto magnifico! A proposito, non è che scenderesti fino giù a prendere l’adattatore che abbiamo scordato in auto..?”.

Dall’eremo vi auguro la buonanotte, anche se posterò questa parte del diario di viaggio solo domattina quanto rotoleremo a valle: qui non c’è wi-fi, perché Internet distrae dall’amore, vero Linda? Linda?? Macché, già dorme…

Venerdì 12 agosto – Ottavo giorno: “Quella villa sul dirupo”

Di film horror in vita mia ne ho visti parecchi, a differenza di Linda che li evita accuratamente con la solita scusa di chi ne ha paura, ovvero “Sono cose da ragazzini…”, detto tra la sufficienza ed il timore di venire sfidata alla visione di qualche pellicola grondante sangue. Insomma, per farla breve: vuoi per il vento che fischia, vuoi per la struttura in legno scricchiolante, vuoi per l’essere isolati da tutto e da tutti, vuoi per le luci sul vialetto che ad un certo punto si sono spente, vuoi per tutte queste vetrate che sarebbero un invito per qualsiasi maniaco, Linda si è un po’ inquietata. La cosa è durata poco, il tempo di addormentarsi sulle note della rassicurante canzoncina che le ho cantato, che faceva più o meno così: “Fischia il vento ed urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar…”. E poi sono rimasto da solo. Alla sola luce dell’iPad, ben sapendo che avrebbe attirato ogni sorta di insetto e di mostro. Ma soprattutto di insetto. Tiro la zanzariera, ma è troppo corta e rimane aperta quel tanto che basta per far entrare il vento che proviene dalla piscinetta (quella mezza fuori e mezza dentro l’appartamento) e, magari, pure dei ragni giganti scampati ad un qualche esperimento nucleare di alcuni scienziati pazzi namibiani. Sì, lo so che queste cose capitano solo in America, ma vuoi mai… Troppi film horror, troppi film horror, troppi film horror. Mi metto gli auricolari e mi guardo un film sull’iPad; dunque, vediamo cosa ho caricato… uhm, thriller, horror, horror, thriller… Va bene, ho capito: prendo del sonnifero e non se ne parla più fino a domattina. La luce di una magnifica alba entra dalle vetrate (da tutte le vetrate!) pennellando i nostri scultorei corpi ancora adagiati sul talamo; Linda si alza per prima, va a lavarsi la faccia e poi mi fa: “Non ti dico che cosa c’è nella piscina…”, che sta un po’ a significare “Non vedo l’ora di dirti che cosa c’è nella piscina…”. Mi alzo e… Sì, un ragno gigante brutto brutto brutto, ma stecchito, annegato. Ecco, lo sapevo e, di sicuro, sarà stato pure radioattivo!!!

Colazione. “Amore, pane bianco o pane nero?” “Linda, non sei politicamente corretta, sappilo”. Neppure mi risponde e mi guarda attraverso, perché dietro di me ci sono un paio di buffi e paffuti animaletti, neanche tanto piccoli a dire il vero, che sembrano una via di mezzo tra dei toponi e dei castori senza dentoni e ci osservano con estremo interesse attraverso le vetrate del ristorante mentre facciamo colazione. Vicino a loro ci sono anche degli scoiattoli che però non sono scoiattoli. Chiediamo al cuoco, unica persona oltre a noi presente, cosa sono, ma ci dice dei nomi per noi incomprensibili e che non memorizzeremmo mai. Sono tanti, sempre di più, chi al sole e chi a guardarci. Provo a raccontare a Linda che tempo fa ho visto un film che parlava di castori assassini, ma stranamente si è dimostrata disinteressata.

Prendiamo le borse con il necessario per affrontare la lunga giornata culturale (mica siamo qui solo per divertirci, che diamine!) e chiudiamo la villetta, certi che la chiave difficilmente potremo perderla, visto che è attaccata ad un portachiavi enorme. L’escalation delle dimensioni dei portachiavi di questa vacanza credo che avrà il suo culmine quando, tra qualche giorno, ci consegneranno la chiave di una stanza attaccata al collo di uno gnu. Vivo.

Ci siamo presi tardi, perché abbiamo tanta strada sterrata da percorrere oggi, circa 300 chilometri sui 400 previsti tra andata e ritorno per visitare, in ordine:

– Petrified Forest, ovvero una foresta pietrificata con alberi pietrificati che, però, non fanno frutti pietrificati: pensavamo che fosse più vasta e più “forestosa”, ma grazie anche alla non più giovane, ma arzilla, guida Suzanne la visita si dimostra interessante. Scopriamo anche l’esistenza di una pianta grassa nastriforme che affonda le sue radici fino a cinque metri nel sottosuolo, vivendo centinaia di anni e, cosa buffa, è distinguibile nel sesso (c’è nella versione maschile e femminile e indovinate chi ha dei pistilloni anzianotti eppure ancora funzionanti…). C’è anche una pianta grassa velenosissima che, con le sue escrescenze lattiginose, può causare allucinazioni e portare alla morte. Un cosuccia da coltivare sul balcone di casa, insomma.

– Twyfelfontein: altra visita guidata obbligatoria (sempre con i soliti tre moduli da compilare all’entrata, che non ci sbagliamo!) per una passeggiata sotto il sole cocente per vedere delle incisioni rupestri degne di un ottimo fumettista di qualche “annetto” fa. Promossa anche questa visita.

– Organ Pipes, ovvero una passeggiata tra delle colonne di basalto. Prima di poter dire “Ma sì, in Irlanda ce ne sono di più belle”, ammettiamo che pure queste non sono affatto male, anzi.

– Burnt Mountain: qui solo giretto in auto per ammirare una collinetta di terra nera che ricorda la Sardegna d’estate dopo un incendio, ma che in realtà deve questo suo colore a delle antiche eruzioni vulcaniche. Al rientro dalle ultime due tappe diamo un passaggio a due donne, una delle quali è la guardia del posto che ci ha dato il biglietto d’entrata. Durante il breve tragitto si scatenano in domande personali su di noi, perché le comari sono comari ovunque, e mentre io sfoggio un sorriso da paresi durante la guida, Linda risponde con estrema fantasia; ancora qualche chilometro e le avrebbe invitate al nostro matrimonio (tranquilli, ho scritto “fantasia”).

Il ritardo temuto la mattina si fa certezza nel pomeriggio e, come se non bastasse, sbagliamo anche strada allungandola di alcuni chilometri. Però vediamo una pozza con degli elefanti intenti ad abbeverarsi, probabilmente gli ultimi che vedremo in questo viaggio. Rientrare con il buio non si deve mai fare, perché l’illuminazione non esiste ed in mezzo alla polvere delle strade bianche si può trovare qualsiasi animale e non vorrei mai investirne uno, specialmente delle dimensioni da una capra in su. Accelero cercando di mantenere il controllo dell’auto ben conscio di non aver mai partecipato ad un rally, mentre con un occhio osservo il sole cadere in picchiata. L’ultimo raggio di luce ci illumina il vialetto del lodge e, esausti, parcheggiamo finalmente l’auto. Un ultimo sforzo per arrampicarci sulla montagna e riusciremo anche a cenare, anche se un po’ svogliatamente. Entriamo in stanza, doccia e Linda crolla che sono le 20,52. Tardissimo.

Dalla romanticissima villa sul dirupo è tutto, ora tirerò la zanzariera e dormirò con la bomboletta d’insetticida sotto al cuscino: ragni avvisati, mezzi gassati. Buonanotte, o buongiorno che sia!

Sabato 13 agosto – Nono giorno: “Abbasso la foca”

Per dovere di cronaca: i ragnoni nella piscinetta dell’eremo questa mattina sono diventati due. Grandi, sì; brutti, sì; ma pure parecchio stupidi, se contavano di poter nuotare a stile libero senza incrociare tutte quelle zampe incasinandosi fino ad annegare. Nuoto sincronizzato una bella cippa, insomma. L’evoluzione della specie è rimandata a data da destinarsi.

Non posso pensare di dover portare giù per il dirupo i borsoni ed arrivare al parcheggio già distrutto e madido di sudore come un Rocky all’ottava ripresa, ma senza i suoi addominali, anche perché la schiena mi fa ancora male dalla salita di due giorni prima; perciò altre mance e due persone del lodge gentilmente si occupano dell’incombenza. Dobbiamo passare dal paesino di Khorixas per fare rifornimento, altrimenti rischiamo di non arrivare a destinazione. Pessima idea, anche se alternative non ce ne sono: gli imprevisti in viaggio si possono presentare anche sotto forma di distributori di benzina che ti fanno attendere un’ora e mezza perché l’autocisterna sta trasferendo il carburante con una cannuccia da cocktail. L’unico addetto che sembra partecipe del disagio non sa più come fare per intrattenere i clienti in coda: lava i vetri e controlla la pressione dei pneumatici a tutte le auto, ma il tempo scorre e davanti ai nostri occhi comincia a svanire l’unica tappa della giornata che avevamo in programma, ovvero le foche di Cape Cross.

Si riparte, ma sappiamo che lo sterrato ci costringerà ad una velocità di crociera da anziano con il cappello nella nebbia mantovana. Facciamo buon viso a cattivo gioco, perché pure queste cose fanno parte di una vacanza, specialmente se itinerante. E poi è anche così che ci si gode questo straordinario Paese, fermandosi quando ci va di fermarci, che sia per una foto o solo per sgranchirsi le gambe o, magari, per abbracciarsi e darsi un bacio con gli occhi lucidi dall’emozione per quello che si sta vivendo insieme. La zona desertica che attraversiamo è da togliere il fiato, con quella lunga fila di pali elettrici che si perde in un orizzonte piatto e silenzioso. Ai margini della strada alcune carcasse di automobili fanno da ideale scenografia e stimolano grattatine ai gioielli di famiglia.

Ci fermiamo al segnale di Stop e dobbiamo prendere una decisione: a destra per le foche, a sinistra per Swakopmund dove alloggeremo. Non c’è tempo, perlomeno non a sufficienza per andare e tornare prima del buio, quindi con tristezza ci dirigiamo verso la cittadina tedesca. Certo, sapere che dormiremo a “Villa Margherita” ci fa sentire un po’ più anziani, ma scopriremo poi che il posto è veramente bello e molto confortevole. Nel frattempo, però, troviamo il tempo per una passeggiata sulla sabbia, questa volta in riva al mare, per fotografare il relitto di un peschereccio su quale decine di uccelli hanno messo casa. A Linda non par vero di poter correre ed urlare di gioia mentre evita le onde che si infrangono sulla battigia ed io non so se essere felice per lei o se chiamare per un TSO.

Swakopmund è un’anomalia per la Namibia, nel senso che qui va molto il biondo teutonico. Sì, insomma, i tedeschi abbondano e questo si rispecchia nel paesaggio urbano, ma evidentemente pure gli italiani non scherzano: dove alloggiamo noi era (o è, ancora non lo abbiamo capito) di proprietà di una coppia di connazionali, così come è di un italiano il ristorante adiacente, il Cosmopolitan, presso il quale abbiamo già una prenotazione per le ore 20, noi che da quando siamo partiti non abbiamo fatto altro che cenare ad orari da casa di cura. Siccome la carne di ogni tipo è sempre stata la portata principale, questa volta decidiamo di darci al pesce: dribbliamo le voci sul menù tipo “pasta all’amatriciana”, “sushi” e “bisteccona” e andiamo direttamente alla parte ittica locale. Se non fosse per i lunghi tempi di attesa (pare che la coppia a fianco del nostro tavolo fosse lì ad aspettare da tre giorni la seconda portata), il posto sarebbe da promuovere a pieni voti: le due cameriere namibiane, bellissime e bravissime, non sfigurerebbero in un ristorante parigino di alta classe, ma ovviamente è la qualità dei piatti che ci convince in pieno. La musica in sottofondo a base di brani della Mannoia, Paoli, Venditti, Elisa, ecc. ci ricorda che l’Italia si sta avvicinando sempre più, perciò tiriamo fuori i tappi per le orecchie.

Buonanotte, a domani!

Domenica 14 agosto – Decimo giorno: “Il tiè nel deserto”

Tutte le ciambelle nascono col buco, ma mica tutti i buchi nascono con le ciambelle. Voi come definireste un biondo ragazzotto, che dovrebbe farci da guida, che si presenta in ritardo all’appuntamento, scalzo, che chiede altri due minuti per andare in bagno, che parla concitato, che fa lo spiritoso dicendo che c’era traffico (cosa che qui devono ancora inventare), ma che poi ammette di aver fatto baldoria la sera prima? Beh, di primo acchito io lo chiamerei “simpatico cazzaro”, ma…

Procediamo con ordine: ieri sera Linda, con l’aiuto di una responsabile del posto dove soggiorniamo, si assicura che l’orario della partenza sia quello concordato mesi fa, ma al telefono le viene risposto che ora è alle 9 e non più alle 10. Buono a sapersi, vuoi mai che giungiamo a Walvies Bay che sono già tutti partiti… Arriviamo alle 8,50 e l’addetta all’organizzazione dell’escursione sulle dune di Sandwich Harbour ci dice che siamo in anticipo di oltre un’ora, perché l’appuntamento è alle 10. Ottimo. Facciamo cose, vediamo gente ed arriva l’ora concordata forse sì o forse no. E qui entra in scena il simpatico cazzaro; ma sarà veramente un cazzaro? Lo scopriremo solo soffrendo. Parte guidando la sua nuova 4×4 brillante più che mai, ma la cosa dura il tempo di arrivare su un lembo di sabbia che attraversa, come un ponte naturale, una zona bagnata dall’oceano da entrambe le parti fino a raggiungere delle dune; trattenendo il fiato riusciamo a percorrere tutto il tratto non senza difficoltà, però la seconda macchina che ci seguiva non ce la fa e rimane impantanata e bisogna tornare per soccorrerla. Noi turisti sprovveduti (Linda, io ed una simpaticissima coppia italiana con figlio adolescente) ci guardiamo molto dubbiosi; il ragazzo ripercorre il tratto, estrae il cavo di traino e, miracolosamente, ce la fa a salvare il collega ed il suo equipaggio; però ora nessuna delle due automobili può rischiare di rimanere bloccata facendo retromarcia, quindi il nostro prode autista ci rassicura con una frase che più o meno suona come “My experience, trust me!” (Trad.: “Tranqui, ghe pensi mi!”) ed accelera sterzando verso l’acqua per aggirare l’altro mezzo, affondando nella sabbia bagnata con una pendenza preoccupante. Scendiamo tutti. Scambio di cortesia: ora è l’altro autista che, con il cavo di traino, cerca di salvare noi. Un tentativo dopo l’altro e pure questo fuoristrada va, appunto, fuori strada impiantandosi anch’esso in mezzo metro d’acqua e sabbia senza possibilità alcuna di riemergere. Quindi abbiamo questa scena: due cazzari, perché alla fine ne abbiamo avuto la conferma con i fatti, che non sanno se ridere o se imprecare tra loro, mentre un’auto è nell’acqua sulla destra della stradina di sabbia e l’altra è nell’acqua sulla sinistra. E tutti noi turisti a piedi che scattiamo foto per questa situazione grottesca che manco due stunt-man ciechi avrebbero saputo organizzare meglio. Peccato che i mezzi sostitutivi giungeranno solamente dopo due ore e mezza di attesa sotto al sole in mezzo al nulla, mentre il vento freddo ci fischia nelle orecchie (le due auto, invece, dovranno attendere ancora più a lungo una specie di grosso trattore che si può muovere anche in acqua). Ieri abbiamo dovuto rinunciare alle foche, ma oggi non possiamo pensare di non riuscire a vedere le grosse dune di sabbia del Namib che si tuffano nell’oceano. L’auto sostitutiva è guidata da un giovane virgulto di Cape Town che pare un vichingo o il buttafuori di una discoteca tedesca, in trasferta per uno stage (pare che esista un’università del Turismo) ed è la seconda o terza volta che si addentra in questo paesaggio. E si vede. Non riuscendo a scalare una collinetta, dopo il quarto tentativo scende per sgonfiare gli pneumatici. Continuiamo bene, la cosa si fa sempre più incoraggiante. Alla fine, per fortuna, riusciamo a fare quasi tutto, compreso un pranzo tra le dune e a scalarne una, pur sotto un forte vento, per ammirare il maestoso e suggestivo paesaggio; sputo sabbia, affondo nella sabbia, respiro sabbia, mi riempio i boxer di sabbia e vengo attraversato da un orecchio all’altro da raffiche di vento e sabbia, cercando di proteggere la mia amata macchina fotografica sotto la felpa perché, da genio quale sono, ho scordato nella borsa in stanza la protezione (una via di mezzo tra un manicotto di plastica ed un preservativo giant-size) che acquistai proprio per occasioni come questa mesi fa su Amazon. Una giornata di cazzari e di fenomeni, già, però comunque splendida. L’ottimismo è la sabbia della vita.

Rientrando a Villa Margherita ci fermiamo a far carburante, con ben quattro ragazzi in divisa rossa della Total che ci lavano i cristalli e, dopo questo ennesimo pit stop ferrariano, ci fermiamo anche al bancomat, protetto e controllato da due guardie (eh, d’altronde gli sportelli erano tre, forse erano anche sottodimensionati…).

Cena ad uno dei due ristoranti rinomati della cittadina, il “The Tug”, dove incontriamo nuovamente i nostri tre compagni di “disavventure nel mondo” e ci uniamo a loro per una piacevole serata. Pesce buono, ristorante mediamente più caro rispetto alla media, ma sempre meno che da noi in Italia.

Domani si ritorna ad altre ore ed ore di guida, perciò meglio che provi a dormire perché i simpatici uccellini della zona sono peggio dei galli e cominciano simpaticamente a fracassare gli zebedei ben prima delle sei del mattino. Però sono belli, eh, che poi non si dica che non amo gli animali, vero Linda? Seee, vabbè, buonanotte…

Lunedì 15 agosto – Undicesimo giorno: “Ferragosto, noia mia non ti conosco”

Facciamo colazione per il secondo giorno sulle note di alcuni soporiferi brani di Fiorella Mannoia e, dopo averla subita già due sere prima al ristorante, abbiamo la conferma che i namibiani hanno dei gusti strani e, di certo, non hanno il ritmo nel sangue. Va bene, detto da due che, dall’inizio del viaggio, si alzano ogni mattina con “Felicità” di Albano e Romina impostata come sveglia sull’iPad il giudizio musicale perde leggermente di credibilità, me ne rendo conto… E, dopo questo straziante coming out, siamo pronti per rimetterci nuovamente in marcia.

Carichiamo l’auto che è ancora al suo posto, perché la guardia notturna ha fatto il suo dovere. Eh già, proprio così. La sera prima le ho chiesto come fosse la zona e mi ha risposto “tranquilla”, poi alzo lo sguardo e sopra ai muri perimetrali di Villa Margherita abbonda il filo spinato che neanche nella casa di un Salvini qualunque. E fuori c’è la guardia per tutta notte. Ed è una zona tranquilla. E vabbè. Pensavo che solo in Sud Africa avessero queste simpatiche “tradizioni”, invece di case e ville blindate ne abbiamo viste parecchie. Foto feticcio anche di questa stanza, tra l’altro l’unica fino ad ora con un televisore (che è rimasto rigorosamente spento per non rischiare di inciampare su qualche canale italiano) e partiamo per fermarci qualche chilometro dopo alla Duna 7, dove Tom Cruise, con un set hollywoodiano, sta girando l’ennesimo film su una mummia. La fonte era così sicura (famoso sito di cinema consultato prima di partire per la vacanza) che qui non c’è anima viva. E neppure morta, se si confidava nella mummia.

Si prosegue, anche perché i chilometri da fare sono tanti (aspetta, dove l’ho già sentita questa..?) e le foto da scattare non previste ancora di più, a parte quelle nei punti fissi, tipo al cartello con la scritta “Tropico del Capricorno”, un classico che non muore mai alla faccia di Henry Miller (no, non l’ho letto, ma le dotte citazioni mi danno un certo tono…) e Solitaire, ovvero una stazione di servizio (con carburante esaurito, maledizione!) ed un famoso locale che sforna più torte di mele di Nonna Papera, conosciuto in tutta la Namibia ed oltre (devo dire buona, sebbene quella di mammà rimanga ancora insuperata…).

Desert Homestead Lodge a Sesriem è una bella sorpresa, forse perché dalla strada non ci ha fatto questa grande impressione: invece la camera è arredata con estremo gusto e la cucina è veramente ottima. Certo, rimane sempre il problemino del wi-fi che funziona così così per un solo smartphone su due, ma tanto a noi non interessa nulla, perché a parte aggiornare il diario di viaggio, controllare Facebook, scrivere su Whatsapp, videochiamare su Skype e… Ok, vado a nanna. A domani, buonanotte!

Martedì 16 agosto – Dodicesimo giorno: “Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande”

La giornata che stiamo per vivere sarà in Cinemascope, perché la magnificenza di ciò che vedremo ha bisogno di un certo spazio e non la si può contenere in semplici ricordi con colori sbiaditi. Traducendo quest’inutile frase, sarà una giornata piena di cose belle che passa subito in pole position tra ciò che abbiamo visto fino ad ora. Colazione alle 5,30 e partenza alle 6 in punto per la visita guidata nella zona di Sossusvlei. Già dalla sera prima il paesaggio si era fatto immenso, con montagne di una varietà di colori mai visti prima ed ogni foto che abbiamo fatto non potrà rendere minimamente idea di ciò che ci siamo trovati di fronte, ma qui la cosa si fa più seria: colline di sabbia rossa (e non più giallo-oro come quelle della costa) alte 200 metri ed oltre, con le lunghe ombre dell’alba che ne disegnano il profilo. L’equipaggio questa volta è composto, oltre che da noi, da una coppia di tedeschi con due figlie anch’esse tedesche (alle volte il caso…); sono simpatici e conoscono il nostro lago di Garda perché ci passano da anni le vacanze, un po’ come mezza Germania, ma in questa occasione evidentemente si sono spinti leggermente più in giù. La guida, pensando di farci piacere, si ferma e scava con le mani nella terra fino ad estrarre un ragno bianco tutto appallottolato che si stava facendo una pennichella; all’improvviso si apre come una molla e comincia a correre impazzito sul braccio del molestatore di aracnidi, il quale ci assicura che non è velenoso. Quasi un peccato. Se io fossi stato svegliato così, un qualche modo per diventare velenoso lo avrei trovato.

Arriviamo a Big Daddy, la montagna di sabbia più alta della zona che è da scalare anche solo per potersene vantare con gli amici; ora, siccome da parte mia la cosa sarebbe poco credibile, mi sono risparmiato parte della fatica arrivando più o meno alla pancia del “grande papà”; questa volta, che non c’è un filo di vento, mi sono ricordato della protezione per la macchina fotografica facendo ridere tutti perché lunga come un bermuda e, dopo aver scattato alla cieca (provate voi a guardare dall’oculare attraverso un sacchetto…) quel centinaio di foto tutte uguali, insieme al resto della truppa mi sono buttato giù dalla ripida fiancata di soffice sabbia, fino ad arrivare ai bordi di Dead Vlei, la caratteristica zona bianca con alberi rinsecchiti che, se digitate “Namibia” su Google, vi apparirà tra le prime immagini. E come rinunciare ad un altro centinaio di scatti? Appunto, non ci ho rinunciato e, di sicuro, maledirò quel momento quando al ritorno dovrò farne una selezione, praticamente come sempre accade.

Pausa a tarda mattinata per un “brunch” all’ombra di un grande albero, con una scelta che va dal formaggio francese allo champagne perché, per far colpo sui turisti, qui si usa così. Cerco una fetta di polenta con soppressa ed un chinotto, ma alla fine mi devo adeguare a quello che c’è. Lo so, dura la vita ecc.

Si riparte per il Sesriem Canyon che, come dice la parola stessa, è un sesriem. Ok, è un canyon. Passeggiata nella singolare gola e rientro al lodge per le 14,30 circa, dove recuperiamo al volo l’auto e ci mettiamo in moto per raggiungere il posto più assurdo e lussuoso di questa vacanza.

Il Wolwedans Dune Camp ci è stato proposto perché “ne vale assolutamente la pena” e noi, forti della massima “Si vive una volta sola, ma speriamo che la reincarnazione non esista perché altrimenti ci toccherà pagare i debiti della vita precedente”, abbiamo accettato quasi senza battere ciglio (nel senso che un po’ traballava autonomamente per il costo del tutto). Dall’entrata alla reception ci sono 20 chilometri di strada che va dal “roccioso con spuntoni che distruggerebbero i mezzi di Mad Max”, alla sabbia che impantanerebbe il cavallo di Lawrence d’Arabia; questa credo che sia per una sorta di “selezione all’ingresso”, cosa confermata dalle auto che poi troviamo nel parcheggio, alcune anche con 36 ruote motrici. Ma dalla reception alla sistemazione non ci si va da soli e ci vogliono altrettanti minuti, questa volta di Land Rover con tanto di pilota. Quello che ci si presenta davanti non è una “sistemazione per le prossime due notti”, ma il paginone centrale di una rivista di architettura & arredamento di design: una parte comune con piscina, salotto con poltrone in pelle umana, posto per un falò notturno attorno al quale assaporare un calice di vino mentre attorno orici e springbok osservano allibiti, spazio per pranzo e cena, il bar e poi le “villette”, il tutto su palafitte con struttura in legno e, per dare quel senso di avventura che non guasta, gran parte delle pareti è realizzata con una verde tenda da campo. In pratica: camera grande con letto matrimoniale, bagno con doccia e servizi ed il retro con sdraio e sedie ed una vista da sogno. Sì, mi sento proprio in campeggio.

Nel frattempo l’accompagnatore si offre di portarci a vedere il tramonto, perché siamo arrivati troppo tardi per unirci alle guide ufficiali; ci chiede cosa vogliamo da bere e si parte. Sorseggiando una birra credo di aver assistito ad uno dei più bei tramonti della mia vita, con la terra rossa punteggiata da grigi cespuglietti a far da incredibile scenografia, domandandomi se lo spettacolo fosse fruibile anche a chi non ha pagato il biglietto di entrata.

Ore 19,30 in punto la cena, altro che l’elasticità da barboni degli altri posti. Ci fanno accomodare ad una tavolata, illuminata da sole candele, insieme ad altre persone che, da come si comportano, troviamo strano che siano riuscite a spaccare il manico di scopa per sedersi. Ci sentiamo tanto Alberto Sordi e signora ne “Le vacanze intelligenti” e, a stento, non scoppiamo subito a ridere (cosa che faremo circa dieci minuti dopo, comunque…); la cuoca, il cuoco, il vice cuoco e la responsabile (naturalmente tutti namibiani) intonano una canzoncina di benvenuto e i nostri commensali applaudono felici e soddisfatti come solo in un film di Fantozzi. Linda ed io ci accodiamo meccanicamente fissandoci negli occhi. Il tutto sta diventando fastidiosamente surreale, ma i commenti tra noi si limitano a poche frasi sottovoce, perché accanto a noi siede un’altezzosa signora svizzera che capisce l’italiano. Ci viene servita la cena: sei micro portate (ottime) che alla fine ci fanno invocare un panino con salsiccia e cipolle dal Lurido. Il dubbio che forse siamo un pochino fuori posto comincia a venirci…

Rientriamo in camera e c’è un freddo bestia, perché “questa stanza non ha pareti, ma alberi, alberi infiniti”. Linda comincia a tremare, ma esulta quando trova una borsa dell’acqua calda sotto le lenzuola e così ci infiliamo subito a letto facendo qualche considerazione sul tutto.

Premesso che il posto è tra l’unico e l’incredibile, qui di seguito un elenco di ciò che è chic e di ciò che non lo è, eventualmente da aggiornare dopo il secondo giorno di permanenza: avere due lavandini ognuno con due rubinetti (acqua calda ed acqua fredda) è molto chic, mentre l’acqua tiepida non è affatto chic e non importa se vi ustionate o vi congelate; la luce elettrica è chic se ricavata dall’energia solare, ma le prese elettriche non lo sono, perciò i fili di tutte le lampade presenti andranno a finire in buchini nel pavimento di legno, fino a scomparire sotto la palafitta; il phon, quindi, non è chic, così come qualsiasi caricabatteria (per questi c’è un’angusta stanzina nello spazio comune con delle vecchie ciabatte elettriche); inutile aggiungere che i cellulari e qualsiasi altro apparecchio elettronico non sono chic; forse bere del vino con il mignolo alzato è ancora chic, ma che non pensiate di chiedere di lasciare in tavola la bottiglia, perché non si fa neppure con quella dell’acqua; mangiare troppo non è chic, mangiare poco sì; lo stuzzicadenti pare che sia chic e, forse, Stallone di “Cobra” era un po’ avanti con i tempi; i radical-chic, inutile dirlo, sono sempre chic; la serratura non è chic, infatti qui non esiste perché i ladri non sarebbero chic; fare sesso non è chic, anche perché ogni gelido spiffero che entra sotto al piumone è una lama che trafigge la libido; il tramonto è nazional-popolare, ma se gustato con una birra in mano, o dalla piscina con un paesaggio mozzafiato davanti, diventa chic; i Ferrero Rocher sul cuscino continuano ad essere chic; il freddo al naso è chic, così come un sicuro raffreddore, quindi Linda è chic.

Per ora penso che possa bastare, se sopravviveremo a tutto questo “chiccume” direi che potremmo aggiornarci a domani. Buonanotte da Fantasilandia!

Mercoledì 17 agosto – Tredicesimo giorno

Dopo una fresca nottata di riposo nella lussuosa e bellissima “tenda chic”, Linda si sveglia con il timore che nel frattempo io abbia avvisato i suoi vecchi compagni della Sinistra Giovanile. La paura passa una volta aperta la porta, dove si trova un vassoio con bustine di tè, di caffè, biscotti ed un termos di acqua calda, il tutto non come colazione che si farà poco più tardi, bensì come coccola di dolce risveglio. Inutile dire che il “breakfast” è di vari tipi e con ogni ingrediente possibile per assecondare le esigenze di tutti, ricchi e pesci fuor d’acqua.

Alle 8,30 saliamo sul fuoristrada con la guida, che è qui per scarrozzarci attraverso le distese di terra rossa della tenuta; vediamo zebre, springbok ed orici, ci facciamo una cultura sugli escrementi di questi ultimi (che un tempo qualcuno anche si fumava!), vediamo centinaia di cerchi del diametro di due, tre metri la cui origine è ancora sconosciuta (termiti nel sottosuolo o residui di piante velenose, comunque non gli extraterrestri…), ma soprattutto facciamo tante foto ad un paesaggio che, con l’aiuto delle grandi ombre provocate dalle nuvole, è ancora più incredibile di quanto già non lo sia.

Si rientra per pranzo, costituito da un antipastino e da una gustosa insalata mista e, nel frattempo, cerco Pozzetto e Verdone pensando di essere nel film “7 chili in 7 giorni”.

Pomeriggio di riposo. No, dico, ri-po-so. Sì, lo so che non sarebbe neppure da dire, però davvero questa è la prima volta che abbiamo qualche ora libera da escursioni o visite varie. Relax completo. Linda prende la cosa alla lettera e crolla sul letto, mentre io rimango fuori sdraiato all’ombra ad aggiornare il diario di viaggio.

In men che non si dica arrivano le sei. Osservando attraverso il calice colmo di vino bianco degli orici accarezzati dal caldo tramonto africano, con la luna piena e già ben visibile, il giochino dello “chic o non chic” comincia inesorabilmente a perdere d’interesse, senza contare il fatto che questa volta alla tavolata della cena c’è gente più “normale” e meno “snobbina”, tra coppie in viaggio di nozze o altre che festeggiano un qualche anniversario. Ad ogni modo qualcosina da aggiungere lo abbiamo anche oggi: il vassoio davanti alla porta della camera con termos per il caffè è chic, anche se con il freddo che c’è il caffè si vorrebbe versarselo addosso; la colazione “à la carte” è sempre chic, la colazione a buffet no; riciclare i salumi avanzati della colazione tagliandoli alla julienne e servirli a pranzo come un antipasto alla Benedetta Parodi è chic; chiedere del prosecco traducendolo in “sparkling wines” non è chic; il burro salato con un pezzetto di pane prima dei pasti è chic, domandare dell’altro pane no; andare a letto alle nove e mezza è chic, stare svegli fino a tardi per scrivere queste righe invece… uhm, “invece”..? Chissà, forse questa cosa non la scoprirò mai. Buonanotte!

Giovedì 18 agosto – Quattordicesimo giorno

Approfittando anche della temperatura più mite di questa nuova alba, Linda scatta fuori dal letto, apre la porta, prende il vassoio con biscotti e bevande calde e lo piazza sulla coperta; non le par vero di poterlo fare senza rischiare di irritarmi a causa della mia “fobia da briciole sul lenzuolo”, ma quando sono in altre camere che non siano la mia me ne frego bellamente e potrei anche farci un cenone di Calodanno. Certo, tra poche settimane il “mio” letto diventerà il “nostro” letto e quindi mi sa che dovrò rivedere alcune strategiche fobie…

Usciamo per la vera prima colazione, pensando già di prendere qualcosa di sufficientemente nutriente che compensi le porzioni minimal della cena precedente (sempre ottima, per carità!) e che non ci faccia provare i morsi della fame per l’ora di pranzo quando ancora saremo in auto per raggiungere il Kalahari Anib Lodge. Posso dire di aver mangiato le più buone uova alla Benedict della mia vita, anche perché non le avevo mai mangiate prima. Mentre il colesterolo delle uova, del bacon, del burro e del formaggio si fa allegramente strada nelle arterie, devo cercare di risollevare l’umore in fase calante di Linda, perché non se n’è ancora andata e già sente nostalgia del Wolwedans Dune Camp; provo a farle capire che il Che e Berlinguer non avrebbero approvato questo tipo di sistemazione, ma ormai è stata posseduta dal morbo del lusso sfrenato e c’è ben poco da fare.

Saliamo sulla jeep che ci deve accompagnare alla nostra auto e diamo un’ultima, commossa occhiata ai possenti orici e ai perfetti springbok che qui vivono in un vero paradiso senza il rischio di venire divorati, visto che per loro fortuna non ci sono predatori; infatti possono morire solo di vecchiaia o perché scivolano su una saponetta e sbattono la testa sul lavandino.

Qualche ora di auto, che ormai neppure più contiamo da tanto ci passano in fretta tra un’espressione di stupore per il paesaggio ed una fermata per qualche foto, ed arriviamo alla nostra penultima sistemazione, che questa volta rientra in canoni più terreni, anche se di tutto rispetto. Toh, il Kalahari Anib Lodge organizza un’uscita per ammirare gli animali della zona e godersi il tramonto, chi l’avrebbe mai detto..! Sia mai che ci perdiamo un’escursione (anche se dalle nuvole che osserviamo in cielo il “sundown” non dovrebbe essere questo granché), quindi altra jeep e si parte per un giretto di tre ore con aperitivo conclusivo su una collinetta. Con noi c’è una famiglia tedesca ed una giovane coppia di italiani che ha appena cominciato la vacanza namibiana: lui si affanna a cercare di fotografare springbok e kudu in lontananza e vorrei tanto dirgli di lasciar perdere, perché presto ed altrove ne vedrà a centinaia, più vicini e quasi fino a stufarsi, ma farei il guastafeste rovinandogli questo suo eccitante momento di scoperta e lascio perdere. All’inizio di questa avventura qualcuno lo disse anche a noi che alla fine ci saremmo stufati di vedere sempre i soliti animali, ma l’apparizione di tre giraffe fa svanire ogni dubbio: è sempre un incredibile piacere trovarsi di fronte a questi capolavori della natura e poco importa se a casa le foto mi sembreranno tutte uguali, perché quei momenti sicuramente non lo saranno stati.

L’abbiocchetto post cena (a buffet, però buona e varia) mi chiama e mi vedo costretto ad augurarvi la buonanotte prima di crollare sullo smartphone…

Venerdì 19 agosto – Quindicesimo giorno: “Segnali dal futuro”

I fotografi in vacanza, professionisti o amatori che siano, sono una brutta razza. In queste due settimane ne ho incontrati tantissimi e quasi tutti hanno la pessima abitudine di squadrarti dall’alto verso il basso, facendo il check completo dell’attrezzatura che ti porti al collo, perché se non ce l’hai grande e pesante sei solo da guardare con sufficienza. È “L’invidia del pene 2.0” ed il fatto che le loro opere non siano conosciute al mondo è solo perché per scelta non hanno mai volute inviarle al National Geographic. Molto più verosimilmente, invece, perché perdono più tempo ad acquistare sempre più nuove e costose macchine che a fotografare.

Peggio di loro, però, c’è solo un’altra tipologia di turista ed è l’ormai tristemente famoso “milanese imbruttito”: in due settimane non abbiamo incontrato italiani, ma praticamente solo milanesi. Qualcuno per fortuna si salva dai classici stereotipi, ma la maggior parte di loro è qui in Namibia solo perché fa curriculum: “perle ai porci”, insomma. Ne abbiamo avuta l’ennesima conferma nel pomeriggio quando, una volta arrivati al “Naankuse Lodge and Wildlife Sanctuary”, siamo usciti per una nuova escursione, questa volta per dare cibo a svariati animali “rinchiusi” in qualche ettaro di terreno (dai leopardi ai ghepardi, dai licaoni ai leoni e poi mi fermo qui perché non ho trovato altre assonanze), in quanto il posto è una fondazione per il loro recupero; sulla nostra jeep c’erano dei milanesi, ma proprio di quelli da vecchi film dei Vanzina, una cosa da prenderli a schiaffoni ogni volta che aprivano bocca per dire che qui avrebbero dovuto asfaltare o che gli animali sono grassi o che i babbuini “con quella roba rosa sul sedere non si possono vedere, fanno schifo”. Dieci giorni di tour organizzato quando sarebbero stati più adatti alla piscinètta del loro amico Brambilla. Ci scherzo, però in fondo sono convinto che anche loro servano a qualcosa durante questi viaggi, forse ad usarli come metro di paragone per riconoscere meglio chi è venuto in Namibia sì per divertirsi, ma anche per scoprire un mondo che non conosceva e con la voglia di stupirsi per ogni cosa.

Anticipiamo tutti i gruppi, sia quelli organizzati che quelli disorganizzati, e ceniamo non appena il personale ci dà il via, ovvero alle 18,30. Ottimo buffet e di corsa verso la camera, temendo d’incrociare alcuni facoceri che oggi abbiamo visto rincorrere il cagnolino di un ospite. Invece cosa troviamo? Troviamo il mio futuro prossimo alla porta, intento a grattarla per farsi aprire: sì, esatto, proprio un bel gattone. Segnali del destino? Di certo, almeno qui, se ne resterà fuori per questa notte.

Mentre finiamo di lavarci i denti dico a Linda che il fatto di non conoscere così bene l’inglese mi mette un po’ a disagio, perché vorrei tanto interagire di più con tutti, ospiti e non. Avendo il tempo sarebbe bello poter fare una full immersion (trad.: piena immersione) con un corso di alcune settimane a Malta o in una qualche città inglese per poter migliorare ciò che si è imparato a scuola e che ora, per motivi anagrafici, è caduto in prescrizione. Sì, ci sono sempre le scuole, ma chi ha voglia di rimettersi a studiare e di prendersi un impegno settimanale a fine giornata lavorativa? Allora Linda dice che potremmo cominciare a vedere dei cartoni animati in inglese con sottotitoli in inglese; le domando perché proprio i cartoni e lei mi risponde che utilizzano un linguaggio semplice e di più facile apprendimento. Entusiasta dell’idea le propongo di vedere insieme i cartoni animati di Willy il Coyote e lei spegne la luce senza neanche darmi la buonanotte.

Vabbè, good night a tutti, allora…

Sabato 20 agosto – Sedicesimo giorno: “Ultimo giorno”

Questa mattina, per la prima volta da quando siamo in viaggio, Linda ed io ci siamo separati. Lei ha deciso di partecipare ad un’altra escursione di un paio d’ore un po’ particolare: una passeggiata con due ghepardi. Io non avevo voglia di passeggiare. Ok, non avevo voglia di passeggiare con dei ghepardi che mi avrebbero fissato di continuo i polpacci. La cosa mi avrebbe messo in imbarazzo. Insomma, va bene che a breve mi dovrò abituare ad avere una gatta in casa, alle sue unghie e ai suoi denti, ma questa sarebbe stata un’esperienza d’urto, tipo quelle dove a chi odia il vuoto lo si getta da un aeroplano senza paracadute, o a chi detesta le melanzane lo si ingozza di Parmigiana, o a chi ha il terrore di tornare a lavorare gli si fanno terminare le ferie. Troppo, troppo anche per me.

Ormai Linda è diventata una tossica: è veramente drogata di escursioni, guidate e non, e vorrebbe farne il più possibile fino all’ultimo minuto della vacanza, cioè fino ad oggi pomeriggio; corro il serio rischio di doverne fare una anche in aeroporto. Ma come darle torto? A parte quella con i ghepardi che al solo pensiero comincio a rivalutare cose estreme tipo iscrivermi in palestra, abbiamo fatto delle cose che ci rimarranno per sempre e, se il tempo e l’età proveranno a cancellarcele, ci saranno sempre quelle migliaia di foto a rinfrescarci la memoria analogica.

Stiamo per salutare la Namibia. Linda è tornata sana, salva ed entusiasta dalla passeggiata con i due gattoni che le hanno fatto pure le fusa; chiudiamo le borse e lasciamo la stanza (forse la più bella che abbiamo occupato) in vista del momento meno divertente, ovvero le lunghe attese all’aeroporto e le ore ed ore di volo. Decidiamo di pranzare al lodge dopo aver valutato la possibilità di un giro nella capitale, subito scartata sia per i tempi che per il fatto che tutti ci hanno detto che non c’è nulla da vedere. Forse sarà l’ultima volta che assisteremo a qualcuno (turisti, non persone del posto) che prega tenendosi le mani prima di un pasto noi che, se proprio, preghiamo che tutto sia buono, così come sarà l’ultima volta che percorreremo chilometri e chilometri di sterrato, cercando di evitare le buche più dure e, soprattutto, di bucare (il tempo trascorso ad evitare asteroidi sui videogiochi anni ’80 ha dato i suoi frutti, tanto che mi sono beccato un “Good driver!” da una stupita addetta della compagnia di noleggio quando abbiamo restituito l’auto con la ruota di scorta ancora al suo posto). Come volevasi dimostrare la coda al check-in si era formata già da tempo, malgrado il nostro arrivo due ore e mezza abbondanti prima del decollo: la disorganizzazione regna sovrana in questo piccolo aeroporto, ma alla fine si parte con “solo” un’oretta di ritardo. Speriamo bene per la coincidenza a Francoforte e per i bagagli. Tra un film e l’altro sull’iPad, consumiamo anche un pasto a base di pasta al forno, una roba così oscena che se solo sul display non fosse apparsa l’altezza di 10.355 metri dal suolo saremmo saltati dalla finestra.

“Viaggio organizzato sì, viaggio organizzato no. Viaggio organizzato nì”.

Visto che qualcuno ci ha chiesto come abbiamo organizzato questa vacanza, qui di seguito qualche informazione. Un viaggio in Namibia si può fare solo in due modi, se non avete alcun aggancio o qualcuno che vi ospiti: prenotate da soli il volo e poi vi arrangiate con tende e campeggi (pare che siano molto validi), oppure prenotate da soli il volo e poi vi appoggiate ad un tour operator locale, perché tutte le sistemazioni in questo fantastico Paese sono opzionate da loro, quindi scordatevi di riuscire a muovervi facilmente sui vari Booking.com perché qui non funziona così. Come avrete già capito noi non siamo tipi da campeggio (ok, ok, parlo solo per me che poi altrimenti Linda mi tira fuori che da bambina ci andava sempre con i suoi genitori e poi mi toccherebbe ricordarle che alle comodità ci si abitua facilmente, come lei stessa ha provato al Wolwedans…), perciò abbiamo prima raccolto qualche informazione grazie al solito ed utilissimo Web e poi, su consiglio della mia commercialista che stava organizzando pure lei il medesimo viaggio, siamo andati a trovare Antonella di “Africa Chic” (ecco il perché di tutti quei “chic”!!!), che rappresenta un tour operator namibiano a Verona. Linda, da secchiona quale è, aveva già in mente cosa voler vedere, ma grazie all’esperienza e ai consigli di Antonella la vacanza ha preso finalmente forma. Sembra una sciocchezza, ma chi poteva sapere quante ore ci sarebbero volute, con una normalissima automobile, a percorrere 300 chilometri di sterrato? E che tipo di sterrato? Con sassi, sabbia o cosa? E i distributori di benzina dove li avremmo trovati? E un’escursione quanto tempo ci avrebbe impegnato? Queste ed altre preziose indicazioni, tipo quella di non guidare mai dopo il tramonto o di rispettare i cartelli stradali con la velocità massima percorribile perché non sono come da noi (nel senso che qui si rischia veramente la pelle anche per 10 km/h in più), ce le ha date lei. Non ho mai amato i viaggi organizzati, sebbene nella mia vita qualcuno lo abbia anche fatto (tipo in una Cina dove l’inglese non era contemplato in nessun luogo), ma questo in Namibia è stato diverso, perché era solo per noi due e basta, niente guide o accompagnatori se non quando obbligatori nelle già menzionate escursioni. No, non è certo una meta economica, perché gli standard sono piuttosto alti (i proprietari sono quasi tutti tedeschi e lavorano esclusivamente con il turismo), però se vi siete messi in testa di visitare questi luoghi magici sappiate che le scelte sono abbastanza obbligate, a meno che non abbiate una jeep e non ci dormiate sopra (conosco qualcuno che lo ha fatto e che anche per questo ha la mia massima stima, ma non è roba per me!).

Ora spengo tutto che qui in aereo c’è gente che dorme (ogni allusione a Linda è puramente voluta), vi auguro la buonanotte e vi ringrazio per averci seguiti e sopportati. Non so se ci verrà il “mal d’Africa”, ma so per certo che ci verrà il “mal di vacanza” e si sta già fantasticando sulle prossime possibili mete, quindi… a presto, speriamo!

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