Non tutto in Africa è nero

Di Alfiero Ciampolini Firenze - Francoforte - Windhoek - Città del Capo (Sud Africa) - Joannesbourgh - Firenze. -Premessa- A chi mi chiedeva perché quest’anno in Namibia e Sudafrica, io rispondevo semplicemente che la mia ambizione era e resta quella di toccare comunque tutti i Paesi del Pianeta. Simile risposta nascondeva, con troppa...
Scritto da: Alfiero Ciampolini
non tutto in africa è nero
Partenza il: 26/07/2002
Ritorno il: 14/08/2002
Viaggiatori: in gruppo
Di Alfiero Ciampolini Firenze – Francoforte – Windhoek – Città del Capo (Sud Africa) – Joannesbourgh – Firenze.

-Premessa- A chi mi chiedeva perché quest’anno in Namibia e Sudafrica, io rispondevo semplicemente che la mia ambizione era e resta quella di toccare comunque tutti i Paesi del Pianeta.

Simile risposta nascondeva, con troppa evidenza, una scarsa attrazione per l’Africa, sopratutto per la Namibia, contrariamente ad un certo interesse che, viceversa, nutrivo per il Sudafrica. Insomma, bisognava comunque andare e dunque andare anche in Namibia. Con l’alibi del forte incremento di turismo (si fa per dire, come capirete in seguito), non riusciamo a prenotare sull’Air Namibia e dunque si è costretti ad allungare il volo, via Johannesburg, con la South African Airways, partendo fortunatamente da Firenze, con un volo Lufthansa, che copre il primo tratto fino Francoforte.

-23 Luglio- Si parte il 23, debitamente istruiti anche dalle tante informazioni acquisite da Elena e Beppe, carissimi amici appena rientrati da un analogo tour. Si parte ben equipaggiati, perché ci dicono che in Namibia, specialmente durante la notte, fa molto freddo, essendo questa la sua stagione invernale.

Arriviamo a Francoforte puntualissimi a metà pomeriggio ed è prevista un’attesa di oltre quattro ore prima del decollo successivo. Per fortuna, al momento del check-in, ci viene proposto da una solerte funzionaria della South African, nostra connazionale, di volare direttamente sulla capitale Windhoek, giustappunto con l‘Air Namibia. Ci viene garantita ogni certezza a proposito dei bagagli e pertanto si accetta, dato che così anticiperemo il nostro arrivo di oltre cinque ore, in pratica quasi una giornata. Si oltrepassano svariate dogane, tant’è che alla fine gli stessi addetti rinunciano persino ai dovuti controlli. Si vola per tutta la notte insieme a pochi turisti italiani; i più sono nordeuropei, specialmente tedeschi giacché, com’è noto, la presenza tedesca in Namibia è stata ed è così preponderante che, per non pochi aspetti, sembra proprio di vivere in una realtà fra lo svizzero e il bavarese.

-24 Luglio- Dopo una tranquilla notte trascorsa in aereo e dopo una colazione che ci viene servita alle cinque del mattino, alle sette (le otto locali) arriviamo all’aeroporto internazionale di Windhoek e purtroppo incorriamo nell’unico vero disguido dell’intero viaggio: due valigie di Cristina e Pietro non hanno viaggiato con noi, malgrado le assicurazioni che ci avevano solennemente garantito a Francoforte e malgrado anche la mitica efficienza, della quale si parla, a proposito del suo aeroporto, il più trafficato del mondo. Si svolgono i normali e gli straordinari accertamenti del caso, con una Cristina tutto sommato tranquilla, quasi da far intendere che comunque non saranno andate perdute e dunque prima o poi arriveranno, magari alle ore tredici quando, via Johannesburg, arriverà il volo della South African, quello sul quale avremmo dovuto viaggiare anche noi.

In non più di mezz’ora si sbrigano le operazioni relative alla consegna del nostro pulmino (l’unica prenotazione effettuata da Firenze) e quindi si parte subito alla volta della “grande metropoli“, che dista 45 chilometri. Tre ore a disposizione sono sufficienti sia per un primo rapidissimo attraversamento della città, sia per le necessarie prenotazioni di ingresso ai parchi Etosha e Waterberg. Per fortuna tutto fila liscio e si ha così modo di assaggiare positivamente l’organizzazione namibiana che, come capirete anche in seguito, dimostra di funzionare quasi alla perfezione.

Windhoek, che si traduce in “angolo ventoso”, si trova esattamente al centro del Paese, collocata su un altopiano, costituisce anche il mosaico etnico della Namibia: vi si incontrano Herero (caratteristiche le donne, con i loro abiti ottocenteschi coloritissimi e con il turbante in testa), Owambo, Kavango, Damara, Nama, San e naturalmente europei. I San, popolo nomade, pronto a sopportare le condizioni ambientali più dure e ostili, furono i primi abitanti; nel 1500 furono sostituiti dai Khoi-Khoi, mentre un secolo dopo ebbero il sopravvento gli Herero. I primi visitatori europei furono i portoghesi, alla ricerca di una rotta per le Indie, mentre questa terra restò nei secoli di scarso interesse. Namib significa “vuoto”. La Namibia era conosciuta come una vasta pianura arida, il “Paese dell’acqua asciutta” o la “Terra che Dio creò in un giorno di rabbia”, come disse qualcuno che non so chi fosse. Fu nel 1883 che Adolf Luderitz (un noto e potente mercante di Brema che aveva contratto interessi su queste terre) riuscì a convincere il cancelliere tedesco, Otto von Bismarck, ad imporre prima una sorta di protezione sull’intera Regione, quindi a garantirne successivamente uno status di protettorato. La reazione delle locali popolazioni fu sconfitta in via definitiva nel 1908, ma nel 1919, con il Trattato di Versailles, la Germania si vide costretta a rinunciare a tutte le sue pretese coloniali. Nel 1921, la Società delle Nazioni l’affidò all’amministrazione del Sudafrica e soltanto dal 1990 la Namibia è Stato indipendente. A mezzogiorno, io Gianni ed Enrico si torna in aeroporto e si ritirano i bagagli effettivamente arrivati. Intorno alle due, dopo aver fatto un po’ di rifornimenti alimentari, si parte per il Nord e a metà pomeriggio si tiene una breve sosta per la visita a uno dei numerosi mercati che durante il viaggio avremo modo di frequentare, quello di Okalandia che, in verità, non promette granché. All’ora del tramonto, esattamente alle 17.35, si giunge nei pressi del Waterberg Park e si pernotta all’interno del “Barnabè De La Bat”, un attrezzato ed efficiente Rest Camp (una catena di strutture alberghiere e ricettive, di proprietà pubblica -privata, che mi permetto assolutamente di consigliare). Le camere sono essenziali, ma ordinate e pulitissime. A me sembra soltanto insufficiente la dotazione di una sola coperta per la notte, ancora fortemente condizionato dal gelido notturno che ci avevano trasmesso Elena e Beppe. Ebbi addirittura una discussione con il personale di servizio che si ostinava a insistere (avendo pienamente ragione) che una coperta sarebbe stata più che sufficiente. E così effettivamente fu.

La cena non poteva che essere consumata all’interno del loro ristorante (peraltro niente male), in quanto la catena è autosufficiente in tutto e per tutto, così come la cena non poteva che essere consumata entro le venti, perché a quell’ora in Namibia tutto (o quasi) si ferma, dato che la vita segue giustamente cadenze e orari naturali: tutto si svolge dall’alba al tramonto. E come avrete già intuito, alle nove di sera sono rarissimi coloro che ancora non stanno dormendo. -25 Luglio- In questa stagione l’alba è alle sei e venti, orario che coincide esattamente con l’inizio della visita al Parco. Quindi, sveglia alle cinque e mezzo e partenza alle sei. La visita a questo Waterberg Plateau Park è organizzata (l’unica dell’intero viaggio) dal centro servizi, ha una durata di circa tre ore e si svolge utilizzando mezzi fuoristrada scoperti, sia per consentire la più ampia visibilità, sia per mettere alla prova tutti noi poveri cristi che, ancora un po’ assonnati, non riusciamo a capacitarci fino in fondo del perché di tanta cattiveria, inflitta a veri e propri sprovveduti innocenti. Il freddo è polare, il vento taglia letteralmente la faccia ed anche il sole, che si sta alzando, non riesce assolutamente ad intiepidirci. Questa volta avevano ragione Elena e Beppe. Come avrei voluto abbracciare un’ampia coperta di vera lana, anziché quella striminzita che ci poggiamo appena sulle ginocchia! Eppure siamo ben bardati: giacca a vento, cappello, vestiti pesanti, guanti. Per fortuna, dopo circa un’oretta si giunge nel parco, il fuoristrada rallenta, il sole nel frattempo comincia a stemperare, si avvistano i primi animali e quindi tutto diventa più sostenibile.

Il parco è costituito da un grande altopiano di arenaria, che si erge 150 metri al di sopra della pianura, un ottimo davanzale per dominare la vista dell’intera vallata; questo è in realtà il suo vero pregio, dato che gli animali intravisti rappresentano un’inerzia rispetto a quanto ci riserverà, di lì a poco, il Parco Etosha. A metà mattinata si parte alla volta della prossima destinazione: il Resort Namutoni, appena all’interno del Parco Etosha. Si sceglie la strada più interna e più lunga, transitando dalla città di Tsumeb, vecchia capitale mineraria, oggi ormai trasformata in una moderna cittadina dagli aspetti quasi “caraibici” per la freschezza dei suoi ben tenuti prati d’ingresso, permanentemente innaffiati, malgrado la nota carenza di acqua. Alle cinque del pomeriggio siamo a Namutoni e subito si parte per una prima visita al parco, dove si cominciano ad avvistare tante diverse specie di animali. A me spetta guidare, dato che sono l’unico a non cimentarmi con le foto. Gianni, Pietro e Sandra stanno accanitamente appiccicati ai finestrini, giacché le rigide regole del parco non autorizzano a scendere, così come impongono di rientrare non oltre il tramonto, che decidiamo di goderci affacciati alla terrazza gremita della torre dell’antico forte, oggi trasformato nel nostro Resort.

Dopo non resta che una bella doccia e un meritato riposo, in attesa della cena. L’acqua però scorre fredda e ancora psicologicamente infreddoliti dall’ esperienza mattutina (anche se è stato caldo per tutta la giornata), soltanto alcuni hanno il coraggio di provare. Ma mentre si sta commentando questo disagio, ci avvisano, con tanto di invito speciale, che a tutti noi malcapitati è offerta una cena come forma di risarcimento, decidendo così saggiamente di non farsi troppo “coglionare“. Alle sette (d’ora in poi vi dirò all’ora di cena e capirete) siamo tutti comodamente al ristorante e scopriamo che qui la cena è a libero buffet, sul quale immediatamente ci abbuffiamo, sospettando che tutti i molti presenti siano anch’essi invitati-speciali, mentre in realtà soltanto noi siamo i fortunati. Un menù ricchissimo: dalle ostriche al baccalà, dal magro alle cotolette … e poi tante verdure, dolci, ecc. Ecc. Naturalmente si è subito individuati, tant’è che pur non avendo avvisato del nostro invito-speciale, i camerieri capiscono e ce lo chiedono.

Una cena che serve anche per la colazione del mattino successivo. Prima di coricarci si passa un’oretta presso il lago del Resort, dove sono soliti abbeverarsi, in questa stagione di secca, gruppi numerosi di animali. Alla solita ora siamo a letto; la sveglia è per le cinque e trenta e la partenza alle sei e venti, l’ora dell’alba. -26 Luglio- La frenesia (capirete quanto giustificata!) di immergerci nel cuore dell’ “animalato” Etosha ci sollecita ad un risveglio addirittura anticipato e dopo un caffè sorseggiato in camera, qualche minuto prima dell’alba il motore è già acceso. Si parte ed è subito uno spettacolo impressionante e assolutamente inimmaginabile, sopratutto per la quantità e la varietà delle specie di animali incontrati. C’è bisogno, niente meno, di ricorrere alle istruzioni della guida per riconoscerli tutti e con alcuni familiarizzeremo soltanto in seguito. Giraffe, kudu, gazzelle, zebre, elefanti, sciacalli, springbok, iene, antilopi, orici, bufali, impala, gnu. Sono sparsi ovunque, anche se i più si raccolgono intorno alle poche pozzanghere, ormai quasi essiccate; siamo nella stagione secca e non piove assolutamente mai. Per gli animali è una sofferenza, per noi “intrusi”, viceversa, il periodo migliore, proprio perché questi sono costretti a radunarsi intorno alla poca acqua residua.

La lunga mattinata vola letteralmente e intorno a mezzogiorno siamo al Resort di Halali, dov’ è previsto il pernottamento. C’è ampia soddisfazione, ma come capita a chi non è capace di accontentarsi mai, la soddisfazione è mista ad un po’ di delusione per non aver ancora incontrato i tanto attesi leoni. Nell’Etosha ne vivono circa 200, ma il parco è enorme e vattelappesca dove si saranno cacciati. Il nostro gruppo, tuttavia, è per natura ottimista; decide intanto di riempire il serbatoio, prevede una breve sosta per uno spuntino e programma di ripartire immediatamente dopo. Ma proprio mentre si svolgono queste operazioni, il benzinaio ci offre alcuni spunti, indicandoci la località di Rietfontein come una delle più probabili per incontrare i leoni; probabilità confermata da parte di una coppia di Udine, già incontrata all’aeroporto di Francoforte. Di corsa si arriva al laghetto e insieme a tanti altri animali, eccoti anche quattro leoni spaparanzati, all’ombra di alcuni cespugli, chiaramente in riposo e in attesa della caccia serale. Un paio stanno giocando e ci sembra (chissà!) che addirittura si sentano gratificati dall’essere così attentamente osservati. Quando si dice del re della foresta, o anche del deserto! Proseguendo sul nostro cammino, durante la sosta successiva, si è avvicinati da alcuni escursionisti tedeschi che molto gentilmente ci avvertono che di lì a poco, in località Sueda, ne hanno avvistati ben sette. Presi dall’entusiasmo, mentre tento di innescare la marcia, ringrazio lasciandomi andare ad una improvvisa risposta spontanea ”…allora nos vamos …” e si corre a Sueda dove, ancora più fortunati, se ne incontrano ben otto. Questa volta sono vicinissimi, appena a qualche decina di metri. Sembrano riposare all’ombra (si fa per dire, sono le tre del pomeriggio!) di qualche duna, poi si alzano per ritemprarsi a un piccolo rigagnolo, dunque tornano a sdraiarsi, certamente consapevoli ma anche incuranti di essere oggetti di osservazione.

L’Etosha Nazional Park è indubbiamente uno dei migliori luoghi al mondo per gli animali, una vasta depressione, circondata da foreste e praterie che rappresentano un habitat ideale: sembra che vi vivano oltre 100 specie di mammiferi, circa 350 di uccelli ed una ventina di rettili.

Si trascorre il resto del pomeriggio in altre visite, anche se ormai c’ è ampia soddisfazione per aver visto, in una sola giornata, un così alto numero di animali. Alle cinque siamo di nuovo al Resort, stanchi sfiniti, e tuttavia nessuno è disponibile a perdersi un altro straordinario tramonto. Stanchi, anche per aver trascorso ben undici ore in pulmino senza poter scendere, a eccezione di una rapida e abusiva uscita necessaria a soddisfare bisogni fisiologici, che le regole vorrebbero soddisfatti in apposite toilette. Appena salutato il sole, io, Enrico e Pietro decidiamo di curiosare la “waterhole” (pozza d’acqua) del Resort, punto di avvistamento comodo e gradevole. Dall’elencazione avrete notato che non ci siamo ancora imbattuti nel rinoceronte; dunque, come su prenotazione, eccone due. Arrivano, bevono con calma e ripartono, senza assolutamente curarsi delle decine di persone raccolte sulle gradinate naturali dell’”waterhole”. Alcuni si sono appostati con tutta l’intenzione di trascorrervi diverse ore: piazzano le loro poltroncine, si preparano una vera e propria cena, predispongono tutta la strumentazione, sia per gli avvistamenti che per la documentazione fotografica.

Purtroppo il tempo stringe e soprattutto vogliamo sbrigarci con la cena e tornare a occupare una buona posizione per gli spettacoli notturni. La cena nel Resort è, anche stasera, servita a buffet, che si presenta ancora una volta ben vario e di ottima qualità, tanto che cominciamo a preoccuparci per il nostro peso forma. Pagato il conto degli ottanta dollari namibiani (circa otto euro), si torna spediti al luogo delle osservazioni. L’illuminazione, correttamente curata, trasforma questo “belvedere” in un luogo particolarmente suggestivo. Ma il culmine della spettacolarità si raggiunge quando, a gruppetti di 3 o 4 alla volta, in appena una mezz’oretta, ancora come su appuntamento, circondano la “waterhole” ben trentadue elefanti, di tutte le età e di tutte le dimensioni. Uno spettacolo unico e credo riscontrabile soltanto qui. Arrivano da lontano? Chissà ! Arrivano con passo lento ma deciso e già in lontananza si capisce che hanno in mente un’unica direzione. Vengono ad abbeverarsi innanzi tutto, ma sono convinto non soltanto per questo. Si danno appuntamento qui come loro naturale luogo di ritrovo. Un po’ come loro punto di aggregazione, dove ci pare socializzino perfino i loro sentimenti. Quelli buoni, ma anche quelli meno, tant’è che di quando in quando si assiste a veri e propri scontri, probabilmente non legati soltanto alla contingenza dell’abbeveraggio, quanto piuttosto a ruggini più o meno antiche, dove anche la gelosia svolge sicuramente la sua parte. E’ in tutta questa animazione che si percepiscono struggimenti di “coccole” che le madri riservano ai loro tenerissimi cuccioli, preoccupandosi anche di proteggerli, intercalandosi fra quest’ultimi e il luogo dell’agitazione. Una scena da film quasi irreale, che si potrebbe immaginare come il risultato di una superba regia teatrale. E invece tutto è naturalmente naturale.

Malgrado le preziose scene tentino di trattenerci, nessuno può dimenticare l’intensità del programma del giorno seguente, anche se questa resterà una delle giornate più faticose ed emozionanti. -27 Luglio- Si parte, ancora una volta all’alba, verso Okaukuejo. Il paesaggio ripropone sostanzialmente le medesime caratteristiche della savana già vista, con gli stessi colori secchi, tendenti al giallastro, semmai più rinverdita man mano che ci si avvicina ad Okaukuejo, porta di uscita dall’Etosha.

Ci stiamo dirigendo verso la regione del Damaraland, in direzione Oceano. La prima città è Outjo, dove ci si ferma per alcuni acquisti alimentari (il nostro pranzo) e dove si trova anche il tempo di scambiare qualche chiacchiera con alcuni abitanti. Io ne sento un bisogno particolare; dopo tanta natura e tanti animali, anche l’incontro con qualche umano non è da disprezzare. La conversazione si incentra sul nostro Paese e ancora una volta (capita spesso, viaggiando) nessuno sa quasi niente di noi, mentre tutti sanno di Roberto Baggio ed ancor più di Paolo Maldini, del quale mi chiedono notizie… che naturalmente io non sono capace di fornire. L’organizzazione commerciale risponde ai criteri della globalizzazione: abbondano i prodotti delle più diverse catene multinazionali, mentre purtroppo scarsi e quasi vuoti sono i piccoli negozi locali.

Prima di raggiungere Khorixas, capoluogo del Damaraland, si devia verso il Vingerklip (tradotto significa “Dito di roccia”); un imponente rilievo, al centro di un’ampia vallata, detta anche“Arizona della Namibia”. Poi, in piena calura, dopo un tratto di strada fra i più impervi, intorno all’una si raggiunge la reclamatissima “Foresta pietrificata”. Si tratta dei resti di una foresta, forse trasportata qui da qualche alluvione, i cui tronchi, giunti alla ragguardevole età di 260 milioni di anni, hanno deciso da tempo di pietrificarsi. Si segue un itinerario che ci consente di attraversare un’area ricca i alberi semisepolti, molti dei quali si confondono (perché appunto pietrificati) con il terreno arenario della foresta.

La zona è attrezzata di un’area pic-nic, cosicché l’occasione è ghiotta per un bel pranzetto dal gusto nostrano: tonno coop, pomodori, frutta, verdura namibiana…. E subito dopo ci si muove verso Twyfelfontein (“sorgente incerta”), la più significativa e spettacolare rappresentazione di opere d’arte rupestre dell’intero Continente. Gli autori sono stati principalmente cacciatori nomadi San, circa 6.000 anni fa. Sono ben evidenti i graffiti incisi sulla roccia che rappresentano specie varie di animali, ma anche disegni e sagome umane. E’ incredibile l’ottimo stato di conservazione. Il paesaggio d’intorno è molto diverso da quello del Nord: le ampie pianure sono mosse da colline, piccoli vulcani e anche da montagne che sembrano segate dal vento e dalla sabbia.

La zona non è molto dotata di strutture ricettive; l’unica soluzione per restare sul posto è quella del lodge locale (la catena lodge rappresenta la sistemazione alberghiera più “in”). Questo nostro si presenta molto bene, ben inserito ambientalmente, ottimi servizi collettivi, ma con camere tutt’altro che eccezionali.

A cena si incontrano di nuovo gli amici di Udine, che ci raccontano delle loro disavventure con il pulmino, disavventure che neppure ci viene la voglia di commentare; qualcuno di noi si limita semplicemente a toccarsi. A conclusione della cena si assiste a un imprevisto (per noi, naturalmente) spettacolo di musica gospel, che si svolge fra i tavoli del panoramico ristorante. Il complesso, composto da cuoche e camerieri, intende così anticipare il proprio ringraziamento per quel po’ di meritatissima mancia che ogni volta si aggiunge al conto finale. Un conto, quello della cena-buffet, che raramente supera cento dollari namibiani a testa, ovvero circa dieci Euro, incluso l’ottimo vino sudafricano, che di volta in volta il nostro esperto Pietro sceglie e pregusta per conto di tutti.

-28 Luglio- Con la partenza da Twyfelfontein abbandoniamo l’entroterra per avvicinarci e incontrare l’Atlantico. Il primo tratto di strada, avendo deciso di percorrerne uno secondario, è il peggiore dei tanti percorsi, ma Gianni (stamani tocca a lui) riesce a destreggiarsi molto bene. Si percorre una pista bianca che, contrariamente a tante altre sterrate, ha un sottofondo molto rovinato. Ne parlo proprio perché, invece, abbiamo attraversato normalmente piste molto ben tenute, sulle quali non è stato difficile tenere una velocità anche fino a 100-120 km. Orari. Una velocità sostenuta, resa possibile anche dal fatto che in alcune zone siamo riusciti ad incontrare perfino una macchina ogni 20-30 km.

La tappa successiva è la cittadina (anche questa “ina”, “ina”) di Uis. Il paesaggio è inizialmente delle medesime caratteristiche di quello incontrato fra Outjo e Twyfelfontein, successivamente ci si addentra in uno sconfinato e pianeggiante deserto terroso.

Poco prima di arrivare a Uis, un’intera famiglia di sei persone ci chiede un passaggio, affollando così il nostro pulmino. Mi siede accanto una ragazza ventiduenne, già madre di una bimba di tre. E’ l’occasione per scambiarci considerazioni; si discute del loro Presidente, che non amano troppo soprattutto perché non di origine Damara. Si capisce però di essere in presenza di un popolo che ha voglia di sfidare le avversità, tutt’altro che piegato su se stesso, tutto sommato anche in discreta armonia con la popolazione bianca che, “naturalmente”, controlla e governa ogni reale potere, a partire da quello economico-finanziario. L’impressione che ne ricaviamo è quella di una realtà che può farcela, che vuole e deve farcela. In Namibia non abbiamo registrato condizioni sociali di livello drammatico. Sembra che le condizioni di vita (senza dimenticarci che siamo comunque in Africa) siano addirittura accettabili. Insomma, un Paese tutto sommato “prospero”, in rapporto agli standard africani. Ci avvertono che la mendicità è bandita, come fatto educativo, proprio perché alla comoda rinuncia sia contrapposta la voglia di fare, la fierezza e l’orgoglio di tentare. Naturalmente, in Namibia, è e sarà tutto assai più facile, anche in considerazione della scarsa popolazione (appena un milione e mezzo su un territorio quasi tre volte l’Italia, anche se in gran parte desertico).

Arrivati ad Uis, ci salutiamo e siccome io mi “butto” sempre con il mio inglese, saluto con un “Good wife”, volendo intendere “Good live”, generando così una grande risata collettiva.

Dopo Uis, si intravede all’orizzonte un’intensa coltre di nubi: è l’oceano. Il clima, che fino a questo momento abbiamo trovato fra il tiepido e il caldo (tanto da doverci rimproverare il fatto di non aver messo in valigia abbigliamenti estivi), si fa improvvisamente più fresco e soprattutto ventoso. L’oceano è anticipato da spiagge dai confini infiniti. Impossibile quantificare le distanze, perfino quelle indicate sulle carte risultano spesso approssimative. E poi, tutto è vuoto. Se qualcosa predomina, predomina il vuoto, tanto da diventare quasi “ingombrante”. I pochi pescatori che si incontrano sono come annullati dal vuoto che li avvolge. E’ uno dei tanti scenari irripetibili: una costa assolutamente spoglia, dove nel lontano 1486 il capitano portoghese Diego Cao, alla ricerca della via per le Indie, ebbe a sostare e dove fece erigere un “padrao” in pietra calcarea, ovvero un omaggio al Re, per conto del quale si era messo a solcare il mare.

Si costeggia l’oceano per raggiungere Cape Cross, dove è insediata una colonia di otarie. Impressionante! Vengono qui a riprodursi… e si vede. La quantità delle varie specie animali è sempre difficilmente calcolabile, ma questa volta le coste di Cape Cross sono come aggredite da centinaia di migliaia di otarie e foche, che danno vita a una sorta di affollato condominio. Sono di tutte le età e tenerissimo è il rapporto fra madri e figli, che si percepisce non soltanto nell’occasione dell’allattamento. Il loro dialogare è rumoroso, ma struggente; talvolta scattano anche risse feroci. Usano un linguaggio naturalmente incomprensibile a noi poveri umani, eppure efficace per i richiami. Assistiamo a una scena incredibile: un piccolo esce dall’acqua preoccupato di aver smarrito la madre; la chiama, lei risponde, si avvistano (malgrado la moltitudine), lui corre e le sale sulla groppa, come segno di riconoscimento e affetto. Si capisce fin troppo bene che si sentono disturbate dalla nostra presenza invasiva ed ancor più dai nostri schiamazzi, dettati semplicemente dalla meraviglia. Non gradiscono e ci rispondono con urla chiaramente esacerbate. Sembra che durante la notte altri animali, gli sciacalli, facciano purtroppo di tutto per cibarsi dei loro cuccioli innocenti.

A metà pomeriggio si arriva finalmente in una città vera: Swakopmund, dopo aver attraversato Henties Bay. Si sceglie subito una tipica pensione frequentata (si scoprirà) soprattutto da persone anziane. Un luogo ameno che infonde serena tranquillità, con uno splendido giardino fiorito, naturalmente gestito da una coppia di tedeschi, questa volta tutt’altro che antipatici. Si scoprirà più tardi che agli inizi del novecento era stato costruito con destinazione prima a ospedale e poi a lazzaretto.

Si passa quindi a una prima visita della città, iniziando dal lungomare, stasera minacciato da una forte mareggiata. Il clima è nebbioso, umido e ventoso. E’ così di norma e quindi quello soleggiato del giorno successivo rappresenterà un vero e proprio regalo. La presenza di popolazione di origine tedesca è così massiccia e presente (ad esempio nella gestione di tutte le attività commerciali), che porta Sandra a scommettere sul fatto che qui possano essersi riparati anche tanti ex-nazisti. All’inizio nutro forti dubbi in proposito, finché in un negozio scopro una svastica che ha tutta l’aria di essere davvero autentica.

Per la cena si sceglie “Il Napoletano” dove, con troppa lentezza, ci serve un bravo giovanotto di 23 anni, che traduce il suo nome in qualcosa che assomiglia a “Naftalino”. Ci dice che il ristorante era stato in passato di un italiano, ci serve portate abbondanti, ma mentre la pizza è ottima (siamo al Napoletano!), il pesce lascia molto a desiderare. Stasera si va a dormire tardissimo: sono oltre le dieci e l’unico motivo è che ci hanno servito troppo lentamente.

-29 Luglio- Appena consumata la colazione, in mezzo alle nonne e ai nonni (i pensionati del “lazzaretto”), si parte per la visita della città, approfittando dello splendido clima solare che raramente, come già si è detto, si preoccupa di riscaldare Swakopmund. Una città vera, la principale località di villeggiatura, anch’essa completamente tedesca, ornata da palme e merletti mitteleuropei. Una città assai piacevole, pervasa da giardini fioriti e da edifici coloniali. Una città che ama definirsi niente meno che il “ Paradiso sul mare della Namibia”.

I negozi sono molto riforniti, si fanno acquisti di vario genere compreso di antiquariato e ancora una volta si riscontrano nostalgie di un passato chiaramente nazista. Intorno a mezzogiorno ci si sposta a Walvis Bay, percorrendo un lungo oceano straordinariamente calmo, una zona di villeggiatura locale, con insediamenti turistici assolutamente accettabili. Curiosità vuole che ci si informi anche dei prezzi e si scopre (senza troppa sorpresa) che il costo di un discreto appartamento, all’interno di uno dei complessi di villette “svizzere”, si aggira intorno ai 15-20.000 Euro. Walvis Bay è una baia movimentata, anche per la presenza di numerosi stormi di flamengos, che approfittano della bassa marea per cibarsi dei molluschi rimasti intrappolati sulla spiaggia. Gli aironi rosa sono spettacolari e il massimo del fascino lo garantiscono quando, volando, dispiegano interamente le loro ampie ali. E ancora una volta impressiona la moltitudine, le uniche moltitudini di animali capaci di riempire il vuoto del vuoto deserto. Su questa baia ci concediamo un po’ di relax, il tempo per uno spuntino mentre assaporiamo il profumo denso e acre dell’oceano. Purtroppo non riusciamo a visitare Sandwich Harbour, raccomandato da Stefania, perché raggiungibile soltanto con un fuoristrada. Si potrebbe raggiungerlo prenotando un’escursione organizzata, ma si decide di rinunciarvi: sarà questa l’unica località impossibile di tutto il viaggio. La successiva visita alla Duna 7 rappresenta nient’altro che un assaggio della spettacolarità che ci riserveranno, nei giorni successivi, quelle del Namib Desert. La zona è attraversata dal Kuiseb, dove ancora oggi si riscontrano, soprattutto a Rooibank, presenze dei Khoi-Khoi Topnaar, progenitori degli attuali Nama. Sandra (notoriamente appassionata ed esperta di culture e tradizioni popolari) insiste per una visita. Purtroppo, però, non riusciamo a riscontrarne traccia. Niente Khoi-Khoi, ma uno splendido e romantico tramonto sull’oceano, alle 17.40 in punto. Ci voleva e noi ci si mette. La cena stasera è prenotata presso un noto ristorante specializzato in pesce, che non delude assolutamente e ancora al prezzo di circa dieci Euro. Questo è lo standard, mentre più variabile è quello del pernottamento, che varia soprattutto a seconda delle zone: può oscillare, per una camera doppia, fra i 15 ed i 40 Euro, per categorie identiche o comunque similari.

-30 Luglio- La partenza da Swakopmund è, come previsto, alle otto in punto; la prossima tappa saranno le mitiche dune di Sossusvlei, che decidiamo di raggiungere già nel pomeriggio. Il paesaggio è particolarmente accattivante. Il primo impatto è con il deserto del Kruiser (quanti deserti!); un deserto particolare, che si apre con ampie valli contornate da coloratissime colline di pietra e che assume colori diversi a seconda delle diverse tracce di sole. Prevalgono colori rossastri (quelli delle colline) che compongono scenari lucenti, distinti dai colori gialli e verdognoli dell’ampia distesa desertica. Un paesaggio, in questo periodo di siccità, dove l’unica vegetazione è garantita dalla presenza di piccole piante che ci dicono appartenenti alla famiglia delle acacie.

Man mano ci avviciniamo alle dune, i promontori diventano sempre più arrotondati per la frequente presenza di forti venti. Su tutti si erge il massiccio del Gamsberg, dopo il quale il paesaggio varia ulteriormente, assumendo colori sempre più forti e contrapposti, con prevalenza del rosso e del verde. Anche la sabbia comincia a colorarsi di rosso e in mezzo a questo spettacolo di colori vivaci, fanno la loro prima presenza i dromedari.

Nel primissimo pomeriggio siamo a Solitarie, il nome di un villaggio che dice già tutto. Solitarie rappresenta una tappa obbligata per i necessari rifornimenti, a cominciare dalla benzina, che comunque si trova più frequentemente di quanto in genere si dica. Di li a poco c’è la Guest Farm “Weltevrede” dove pernotteremo; si depositano in fretta i bagagli e subito di corsa ai cancelli del parco Sossusvlei, posti in località Sesriem. Di corsa, perché c’è il rischio che, approssimandosi il tramonto, non ci consentano di entrare. E invece! L’ingresso alla valle costituisce davvero una delle meraviglie delle meraviglie. Un deserto curatissimo, come un parco naturalistico inglese; il colore prevalente è un intenso rosso rosato.

Dopo i primi 45 km. E dopo numerosissime soste per consentire ai nostri specialisti di fissare gli scenari più meritevoli, eccoci arrivati alla famosa Duna 45. Abbiamo ancora un’ora di tempo prima del tramonto, momento in cui dobbiamo assolutamente uscire. Si decide di non proseguire e di concederci invece la scalata della 45. Il clima è perfetto, un’ideale temperatura secca e ventilata. In non più di mezz’ora si conquista la cima, dalla quale si padroneggia uno scenario impossibile da rappresentare. Al tramonto si chiude il sipario e lo spettacolo è rinviato all’indomani mattina.

Si rientra alla nostra Guest Farm, dove alle 19 in punto è servita la cena-buffet. Una cena simpatica, consumata al lume di candela (la corrente scarseggia in questo pieno deserto e alle 21 si spenge del tutto); l’atmosfera è gradevole e familiare, anche perché sono proprio i proprietari-gestori a sbrigare i servizi necessari, facendosi in quattro per soddisfare ogni nostra esigenza.

Dopo cena si esce all’aperto e si è letteralmente estasiati dall’intensa luminosità del cielo stellato: sembra avvolgerci fino a costituire una cappa brillante, che osa sprofondare fin sotto terra. Anche chi ha già provato analoghe emozioni “desertiche” non può che subire il fascino di questa prova della natura. Alle 21 tutto finisce e noi ci stendiamo sui nostri letti (le camere restano aperte, perché in questa Guest Farm non usano chiavi), pronti per la prossima levataccia. -31 Luglio- La porta di ingresso per accedere all’oasi di Sossusvlei apre all’alba, alle sei e venti. La nostra Guest Farm dista circa mezz’ora, dunque la sveglia è alle cinque. Se ci eravamo coricati avvolti in quella magica volta celeste appena descritta, adesso siamo svegliati dal fragoroso frastuono di una improvvisa tempesta di vento e sabbia, quasi a volerci coinvolgere in una tipica esperienza che il deserto è solito, spesso, riservare ai suoi clienti. Il vento, d’altronde, è insieme motore e principale artefice della stessa costituzione delle dune.

Siamo nella Namibia centrale, la regione più arida in assoluto, quasi interamente coperta da enormi dune. Anche queste sono classificate come appartenenti a diverse famiglie: si va da quelle paraboliche a quelle trasversali, da quelle seif a quelle a stella, da quelle barcane a quelle a collinetta. Queste nostre dune del Namib-Naukluft Park sono considerate le più alte del mondo, sono composte da sabbie variopinte di quarzo e hanno sfumature che vanno dal color crema all’arancio, dal rosso al viola. Colori caldissimi e vivaci, che riscaldano queste speciali sculture naturali che nessun maestro di architettura sarebbe capace di inventare. Percorrendo l’ ampia valle si scoprono chilometri e chilometri di monumenti, di architetture viventi, animate dalla dinamicità del vento. Si scoprono anfiteatri, quinte teatrali, come se tutto fosse predisposto per dare vita a una grandiosa rappresentazione spettacolare.

Si oltrepassa la Duna 45 e dopo venti chilometri si lascia il pulmino per percorrere gli ultimi cinque chilometri con un fuoristrada, che ci accompagna fino ai piedi della pittoresca Sossusvlei, di fronte alla quale si comprende perché sia stata più volte scelta come teatro di numerose scenografie cinematografiche. Il vento spira sempre fortissimo e se ciò rende ancora più movimentato lo scenario, rende anche più ardita la scalata dei 300 metri di altezza della duna. Ci si riesce in quattro: Cristina, Pietro, Enrico ed io, insieme a qualche altro visitatore. Un’impresa al limite della nostra capacità di resistenza, ma ben ricompensata dalle emozioni che si provano dall’apice della cresta. La visita continua, anche approfittando del fatto che la tempesta sta ormai addolcendosi e dunque diventa accessibile anche Dead Vlei, che ci impegna per circa sei chilometri fra andata e ritorno. Quando ormai è oltre mezzogiorno, si riprende la strada per l’uscita e si ripercorrono i 65 chilometri per tornare a Sesriem. E’ l’occasione per gustare un paesaggio assolutamente diverso da quello del mattino; la diversa intensità del sole concede sfumature che consentono paesaggi illuminati da striature e venature permanentemente cangianti.

A metà pomeriggio, anche se profondamente provati, nessuno è disposto a rinunciare alla visita del Canyon di Sesriem, nei pressi dell’uscita dal parco. La buona volontà, tuttavia, non sempre consente di resistere. Gianni, più di qualsiasi altro, ci riesce, fino al punto che Pietro propone di sottoporlo a una prova antidoping.

Ricordate? Ci siamo alzati alle cinque … e se dunque dopo dodici ore si prende posto nel nostro ”Hammerstein Lodge”, nessuno potrà rimproverarci di essere degli sfaticati. Peraltro, data la buona qualità dei servizi offerti da questo Lodge, se ne approfitta per un po’ di riposo e per un po’ di bucato; Pietro stende addirittura una lunga corda per accelerare il tempo necessario (comunque brevissimo) per asciugarlo.

Si consuma la cena insieme a un’altra tavolata di tedeschi sgradevoli, intenti a osservare criticamente (questo è quanto si percepisce) ogni nostra azione o atteggiamento un po’ più creativo rispetto al loro tremendamente pedissequo. Eppure l’ambiente, gestito da una giovane coppia tedesca, non sembra imporre regole troppo rigidamente ostili a un comportamento rilassato. Dopo cena, raccolti sulle poltrone della hall, i più sprofondano profondamente in un sonno profondo. -1 Agosto- La sveglia è questa volta a un’ora decente; oggi dobbiamo raggiungere Luderitz, la capitale della costa meridionale. Il lungo elenco degli animali incontrati non contemplava ancora il leopardo, che incontriamo proprio nei pressi del nostro lodge. Non vive propriamente allo stato brado, ma all’interno di un’area recinta, naturalmente disposto a familiarizzare con chiunque si avvicini. Con noi accetta di giocare (almeno ci sembra) e quando ci si incammina per rientrare, sarà lui a rincorrerci, manifestando disapprovazione per la nostra scelta di abbandonarlo. Ci stiamo dirigendo verso sud e il paesaggio cambia notevolmente, specialmente in questa zona più interna; troviamo un terreno abbastanza ricco di acqua, che alimenta una discreta vegetazione. I colori sono più vellutati, predomina il verde che rende questo tratto di paesaggio inconsueto: colori tiepidamente intensi e man mano che si avvicina la città di Aus il verde intenso cangia in un verde pastello, per assumere poi un’intensità più grigiastra, argentea, tendente al celeste cenerino. Qualsiasi movimento è assente e non si incrocia più di un’auto ogni 50 chilometri. Ad Aus le condizioni atmosferiche cambiano di nuovo e si comincia a percepire l’effetto “benefico” delle nebbie dell’oceano, che consentono le prime fioriture, la crescita di foraggi e dunque anche pascoli di bovini e ovini. Fra le particolarità floreali di questa zona vi è il “kokerboom”, una specie di aloe che pare cresca soltanto qui. Proseguendo verso Luderitz, prende infine il sopravvento una dorata depressione desertica che ci accompagna fino all’oceano: laggiù nell’estrema lontananza, fra dune rosate e algida nebbia, il paesaggio assume aspetti spettrali, è sassoso, selvaggio, aspro, inospitale. Per nostra fortuna ci accompagna uno splendido sole, un preziosissimo e impagabile compagno di viaggio. Ne approfittiamo, prima del tramonto, per un’ accurata escursione alle numerose, incantevoli baie (Grosse Bucht, Essy Bay, Halifax Point, Guano Bay, Diaz Point, Radford Bay, Agate Bay). Siamo esattamente nel punto dove il giorno di Natale del 1487 approdò Bartolomeo Diaz, dopo aver ridisceso questo tratto di costa che volle battezzare “Areias do Inferno”, conquistando così l’odierna Luderitz, cui diede il nome di “Angra das Voltas”(Baia delle giravolte). Di fronte a Diaz Point si erge un isolotto, Halifax Island, che ospita la colonia di pinguini più famosa dell’intera Namibia, avvistabili senza troppe difficoltà dalla costa. E così incontriamo anche i pinguini. Poi il sole ci lascia e tutto finisce. Si sceglie l’albergo e si prenota un tipicissimo “bistrò”, che è stato consigliato a Stefania e Cristina da un signore norvegese (da lungo tempo a Luderitz). Rammento ancora questo piccolo ristorante affollato, affollato anche di soggetti un po’ speciali, da studiare (se ne avessimo avuto il tempo), ma soprattutto rammento la felicità per essere stati finalmente raggiunti da una telefonata di Silvia, che sta trascorrendo le sue vacanze in California. -2 Agosto- Nella sala della colazione si incontra, al mattino, una coppia di Brescia; sono anch’essi in vacanza, ma provengono dal Sudafrica, dove vivono alcuni mesi all’anno in una loro villa, nei pressi di Durban. Una villa acquistata con 80 milioni di vecchie lire e custodita da personale di servizio al costo di ben 10 Euro mensili. Ci intratteniamo con loro il tempo necessario per acquisire alcune utili informazioni sul nostro prossimo passaggio in Sudafrica, non dimenticando che alle 10.30 abbiamo prenotato la visita di Kolmanskop, una visita che va introdotta con alcune informazioni generali. Si deve sapere, infatti, che la vita e la storia di Luderitz è stata fortemente beneficiata dall’essere parte dell’area diamantifera, che da qui si estende fino all’Orange, in Sudafrica. Le prime scoperte risalgono al 1908 e dopo una prima fase durante la quale anche gli abitanti locali ne beneficiarono, furono successivamente alcune grandi società che, come sempre accade, si organizzarono per l’estrazione. Intorno agli anni ’20, la nuova società “Consolidated Diamond Mines” si insediò a Kolmanskop, distante dieci chilometri da Luderitz.

Kolmanskop è oggi una “città fantasma”, perché abbandonata definitivamente nel 1956, soprattutto a seguito della scoperta di più interessanti giacimenti nella zona di Oranjemund, verso il confine col Sudafrica. La presenza delle dune e di un fortissimo vento tagliente ha fatto sì che la vecchia città sia stata quasi interamente sepolta dalla sabbia. La visita consente di renderci conto di quanto fosse stata importante e soprattutto di quanto danaro corresse, se si pensa che era stata dotata persino di un casinò, così com’era dotata di un ottimo teatro per ospitare la borghesia delle trame commerciali e finanziarie, ma anche (come ben si vedono documentate nella mostra allestita all’interno di un piccolo e prezioso museo) per ospitare manifestazioni e festeggiamenti politici, specialmente durante il regime nazista. La visita ci impegna per due ore, quindi intorno all’una si rientra a Luderitz per visitare la zona del porto, invaso da una consistente flotta di pescherecci, impegnati in una prosperosa attività di pesca, anche per il fatto che le acque costiere della Namibia sono fra le più ricche del mondo.

Nel primissimo pomeriggio si lascia provvisoriamente l’oceano (lo ritroveremo in Sudafrica) per rientrare all’interno, verso il Fish River. Fino ad Aus si ripercorre la medesima strada dell’andata e dunque l’occasione è propizia per mettere in programma una visita ai famosi cavalli selvatici del deserto, gli unici al mondo. E’ complicato spiegarvi il perché si trovino qui. Le teorie sono le più svariate: abbandonati dai tedeschi nel 1915 perché in ritirata durante l’invasione sudafricana, introdotti dal guerriglieri Nama, discendenti da cavalli trasportati dall’Europa all’Australia con una nave qui naufragata. Il fatto che circa 200 cavalli possano vivere e riprodursi in una zona così desertica è davvero singolare. Si dice (e non si sbaglia) che negli anni in cui le piogge sono più abbondanti, i cavalli assumono un aspetto più florido, anche se all’acqua è stato provveduto trivellando un pozzo artificiale. In mezzo al deserto è stato costruito un punto di avvistamento, per fortuna oggi frequentato soltanto da un’altra coppia, che ha tutta l’aria di svolgere una ricerca impegnativa e particolare, date le numerosissime osservazioni, le riprese e le foto a ogni e qualsiasi movimento dei pazienti cavalli.

Arrivati a Seeheim, si prende verso una regione fra le più remote e desolate. Anche la pista questa volta presenta qualche problema, non tanto per la scarsa manutenzione, quanto per un traffico (che traffico!) appena più intenso, dato che ci si sta avvicinando al Fish River. Purtroppo siamo già oltre il tramonto e dunque, dopo una giornata fra le più faticose, non resta che fare conoscenza con il nostro Resort di Ai-Ais (in lingua nama significa “caldo che scotta”), un villaggio termale, all’estremità sud del Fish River Canyon National Park. E qui avremo ancora una grande e soprattutto piacevolissima sorpresa: da una porta della camera si accede direttamente a un complesso di acque termali, dotato di piscine, getti e quant’altro da renderlo così invitante che ci gettiamo immediatamente, persino in mutande. Che rilassatezza! Che meraviglia! Che privilegio! Si tenta addirittura di compromettere un cameriere dell’attiguo ristorante, chiedendo se non fosse possibile prenotare la cena per le otto. La risposta è la stessa di sempre: alle otto tutto sarà completamente chiuso. Insomma, anziché posticipare un po’ gli orari (data la presenza di turismo), questi sono addirittura anticipati. C’è semmai da aggiungere che questi villaggi Resort o Rest Camp sono molto attrezzati per consentire a ogni ospite di organizzarsi autonomamente il pranzo e la cena, tant’è che a metà pomeriggio i più si scoprono già affaccendati, intorno al proprio barbecue.

Alle sette, molto ben restaurati, siamo a tavola e si conclude la giornata con una lunga dissertazione sulla nota vicenda dei “compagni di merenda” di S. Casciano, naturalmente introdotta da Pietro, sia per conoscenza di particolari, che per competenza giurisdizionale. -3 Agosto- Si dorme, come detto, ad Ai Ais, ma l’inizio dell’itinerario per un’ideale visita del River si trova all’estremo opposto, ad Hobas. Si parte ancora una volta all’alba … e fin qui nessuna novità. Il Fish River Canyon è considerato il secondo Canyon del mondo, dopo naturalmente il “Grand” dell’Arizona. Ho visitato anche quest’ultimo e posso dire che si tratta di confronti impossibili. Il Fish River ha caratteristiche diverse e mentre per dimensione perderebbe ogni confronto con l’altro, proprio perché molto meno “Grand”, c’è da dire che rispetto all’americano, assume una sua specificità soprattutto perché molto più “connaturato” al territorio, nel senso che apre voragini meno dirompenti, più tortuosamente articolate, più inserite e ordinate con il contesto territoriale complessivo. In questo periodo invernale è ridotto a poco più che a un susseguirsi di pozze d’acqua, mentre scorre abbastanza impetuoso fra marzo e aprile. La sua origine è antichissima, si parla di centinaia di milioni di anni fa; è facile immaginare, dunque, come improbabile la leggenda degli antichi San, che riteneva scavato dal serpente Koutein Kooru, mentre tentava di sfuggire ai cacciatori. Si arriva a Hobas intorno alle nove e appena entrati nel parco, ci indirizziamo al primo dei tanti punti di osservazione: il Viewpoint, che offre un panorama eccellente. Una gola profonda che porta il nostro orizzonte fino all’ansa del fiume chiamata “Hell’s Corner”, l’Angolo dell’Inferno. Poi si parte per Main Viewpoint ed è ancora un altro spettacolo… e poi ancora altri punti ed altri ancora. Si incontrano anche i coraggiosi escursionisti dei cinque giorni, questo il tempo necessario per percorrere gli 80 chilometri fra Hobas ed Ai Ais. Confesso di provare un po’ di invidia e anche se il poco tempo a disposizione non ci consente di più, si decide comunque di avventurarci lungo un ripido sentiero, che sembrava doverci condurre al River in quattro e quattr’otto. La realtà sarà molto diversa, dovremo rinunciarvi, senza però pentirci di aver percorso e attraversato un tratto di paesaggio magnifico.

All’una, dopo esserci alleggeriti ancora di un po’ di tonno coop e carne simmenthal, ci spostiamo in altra zona e a metà pomeriggio si prende la via del ritorno con l’obiettivo di rientrare non troppo tardi, anche allo scopo di concederci qualche altra ora di relax nella piscina termale della sera precedente. Strada facendo si fa sosta al Canon Lodge, un ambiente così troppo “leccato” da proporsi come esageratamente falso. La cena ci è servita ancora all’interno del Resort e in attesa delle lente portate (stasera è tutto pienissimo) ci si dilunga prima in un’accesa dissertazione a proposito di come siamo soliti leggere a letto, poi si decide (contrariamente a quanto si era programmato in precedenza) di puntare, all’indomani, direttamente su Windhoek: un viaggio da 700 chilometri. -4 Agosto- Potrebbe sembrare un’impresa il viaggio di rientro a Windhoek, purtroppo inevitabile giacché, pur trovandoci quasi sul confine del Sudafrica, dobbiamo tornare nella capitale per riconsegnare il nostro amato pulmino. E’ un viaggio che invece scorre tranquillo sulla strada principale della Namibia, senz’altro più tranquilla della nostra Autosole. Anzi, c’è da aggiungere che se avessimo immaginato che tutto scorresse così tranquillamente, avremmo potuto inserire nel programma anche la visita al Kaokoveld, l’unica regione significativa rimasta esclusa. Il paesaggio cambia ancora una volta e man mano che ci si avvicina a Windhoek diventa collinare, fortemente abitato da pascoli anche intensivi. Abbiamo sufficiente tempo a disposizione e pertanto quando si è prossimi a Kalkrand (fra Mariental e Rehoboth), si decide una deviazione per “tentare” una visita della Jena Farm, una fattoria dove le donne Nama producono, (ovviamente con particolarità artigianali) una vasta gamma di prodotti tessili, generalmente di biancheria da letto e da cucina. Purtroppo però non si è tenuto conto del fatto che oggi è domenica e quindi tutto è chiuso.

Durante il nostro percorso si è incuriositi da due bambini, dall’età di circa 10 anni. Ci chiedono un passaggio per Hoachanas, che malgrado si sperasse prossima, in realtà dista oltre 10 chilometri e questi avrebbero dovuto percorrerli a piedi, peraltro appesantiti da non so che cosa da trasportare. Due ragazzini splendidi, anch’essi incuriositi dalla nostra disponibilità, accentuata vieppiù dall’aver loro fatto omaggio di due berretti californiani. Sono convinto che saranno ancora adesso a raccontare i particolari di questa loro inusuale avventura.

Appena subito dopo il tramonto siamo alla periferia della capitale e qui si registra un’insolita novità. Provate a indovinare: ci si addentra in un traffico intenso, composto da una coda di ben sette od otto auto. Un autentico, inverosimile fatto eccezionale. Così come accade che, avendo voluto provare fino in fondo la capacità di resistenza del nostro pulmino, questi decida di lasciarci a piedi per esaurimento del carburante. Ha voluto ammonirci perché la prossima volta non si approfitti della sua generosità. E tuttavia lo ha fatto, da bravo compagno di viaggio, a non più di trenta metri da un distributore. Windhoek è stasera completamente piena e quindi, dopo vari tentativi a vuoto per riservarci una pensioncina in centro, si decide per il grandioso Safari Hotel, non troppo caro e con splendidi servizi. Per la cena si torna nel cuore della città, al rinomato Gran Canyon Spur, dove ci servono ottimi piatti, appena guastati da una clientela composta da tanti tipi diversi e fra questi anche da un gruppo di italiani cafoni e strafottenti, che addirittura hanno a che rifarsela con delle diligentissime cameriere, che hanno l’unica colpa di non comprendere bene la nostra lingua o meglio sarebbe dire un inglese parlato incomprensibilmente da questi nostri buzzurri. -5 Agosto- Una parte della mattinata se ne va per svolgere alcune operazioni di rito, come la conferma del volo aereo, alcuni acquisti, la spedizione delle ultime cartoline, la riconsegna del pulmino. C’è tuttavia il tempo per una visita della città, che non ci impiega più di un paio d’ore: l’area pedonale centrale con il suo pullulare di piccole bancarelle di artigianato, lo Zoo Park, la Cattedrale, la vecchia Corte Suprema, il Parlamento. Anche Windhoek è caratterizzata da un’architettura coloniale di stampo tedesco, mista a costruzioni moderne dai colori iper vivaci.

Intorno alle quattro del pomeriggio ci avviciniamo alla stazione dell’autobus, che alle cinque in punto parte per Città del Capo. Un autobus abbastanza comodo, non tanto per la disposizione complessiva, quanto piuttosto perché dispone di numerosi posti vuoti. Il servizio offerto dalle hostess che ci accompagnano è impeccabile, così com’è accettabile il caffè e il thé che ci servono con regolare frequenza. La prima sosta, intorno al tramonto, è a Rehoboth, mentre la cena consiste nel rifornirsi in un “autogrill”, nei pressi di Mariental, di quanto necessario per passare la notte.

Alle 23 giunge l’ora del sonno, si spengono le luci e tutti ci predisponiamo. Il nostro sonno però, quello mio e di Sandra, è ostinatamente disturbato dall’insistente chiacchiericcio di una sgradevole coppia che ci siede vicino e che non riusciremo a zittire per tutta la notte, neanche con ripetute e decise proteste; quelle di Sandra ancora più risolute delle mie. Stiamo oramai per abbandonare questo straordinario deserto, questo deserto dove il deserto è deserto davvero. Un deserto dove, come dice Paul Bowles (autore del “Tè nel deserto”) “… una volta che un uomo è stato là e ha vissuto il battesimo della solitudine non può farne a meno”. Un Paese fatto di deserti muti, un Paese dove domina l’assoluto, dove qualcuno dice che non potremo non tornare, perché l’assoluto non ha confini e non ha prezzo. Un Paese così assoluto dove anche vivervi è quasi impossibile. Un Paese dove non tutto è “nero” e dove il “bianco”è naturalmente innaturale. Dove il “bianco” è presenza invasiva e naturalmente, innaturalmente dominante.

-6 Agosto- Esattamente alle tre si giunge sul posto di frontiera. Tutti si svegliano, con l’eccezione di noi (e dei nostri due persecutori) che non ci siamo ancora addormentati. Si continua a lamentare con vigore questo nostro stato di disagio, ma non ci sarà verso di dissuaderli, almeno fino all’ora dell’alba, quando anch’essi finalmente cedono. Anzi, osano addirittura lamentarsi delle nostre lamentele, domandandoci perfino perché abbiamo osato venire fin qua.

L’impatto con l’alba è con un’alba luminosissima, che illumina un fresco paesaggio ondeggiante, verdeggiante e desertico insieme. Appena arrivati a Garies, una bianca cittadina dalla tipica architettura mediterranea, ci fermiamo per consentire ai più di soddisfare bisogni e necessità oramai impellenti. Il sole impera in un limpido cielo turchino e il paesaggio sottolinea che ci siamo ormai messi alle spalle il deserto della Namibia. Si incontrano i primi vigneti, i pascoli sono abbondanti, i terreni fertili, verdi e copiosamente fioriti.

Nell’inerzia obbligata dallo stare in pullman, si lavora a dettagliare alcuni aspetti del programma dei prossimi giorni. L’intensità dei nostri programmi non consente tempi morti.

Poi ancora chilometri e chilometri e ancora territori sempre più fertili, specialmente in quest’ ampia valle, circondata da montagne con le cime innevate, dove l’acqua discende e penetra abbondante, fertilizzando questi grandi latifondi terrieri, le tipiche “Farm” del Sudafrica.

Intorno alle dieci del mattino siamo a Piketberg, a 130 chilometri da Cape Town, la nostra meta più ambita. Quando giungiamo a non più di 50 chilometri si intravedono le prime nubi oceaniche, come già era capitato avvicinandoci a Luderitz. E quando all’una arriviamo alla periferia, si ha subito la percezione di imbatterci in una capitale esclusiva, avvolta da colline splendide che rendono particolare il suo habitat naturale.

Il pullman fa capolinea alla Stazione centrale, non troppo lontano da un albergo che si prenota dall’ufficio turistico senza alcuna difficoltà. Si tratta dello storico “Metropole Hotel”, posto sulla altrettanto storica “Long street”, la via centrale del centro storico, come fosse, che so, la nostra via Tornabuoni. Depositati i bagagli si parte per il quartiere di Waterfront, attraversando a piedi un discreto pezzo di città, una città che ci sembra di avere già in mano e che suscita da subito un’ottima impressione complessiva. Una capitale, una metropoli a vera dimensione umana, con tanti quartieri verdi e soprattutto piacevole è l’atmosfera di un tempo davvero sorprendentemente eccezionale. Eccezionale, soprattutto perché mite e molto più luminoso di quanto guide e passanti ci avessero rappresentato. Al tramonto siamo tutti sul lungo oceano, un po’ infreddoliti, è vero, ma soprattutto per l’irruenza del vento, che spira forte a prescindere dalle condizioni climatiche più o meno dolci.

Poi si torna all’Alfred Waterfront, un lungo porto pieno di tipici locali, di bar e ristoranti, dove si consuma musica, fortemente inspirata da intensi motivi di jazz. Un quartiere che naturalmente attrae tutto il turismo in transito da Cape Town, un quartiere recentemente restaurato e recuperato, ma anche conservato secondo regole che hanno saputo integrare insieme una sostenibile fruizione turistica con un’accettabile vivibilità umana. Per la cena si sceglie uno dei ristoranti più “inn”, il “Green Dolphin” e sarà una cannata. La causa, principalmente l’aragosta. A notte fonda (sono già le undici), si riprende la via per il nostro Metropole. -7 Agosto- Le prime ore della mattinata si passano a prendere confidenza con questa straordinaria città. C’è chi ha tentato paragoni con altre, come Rio, S. Francisco, Sidney. Paragoni e confronti impossibili, anche se c’è chi ritiene che nessuna di loro possa vantare una posizione così spettacolare.

Siamo nel centro del centro, come si è già detto, e sotto casa, neanche a farlo apposta, si svolge ogni giorno un tipico “mercatino delle pulci”, la nostra prima meta. Ma anche i primi acquisti, soprattutto di “Silver” o “Plate Silver”, che qui abbonda come segno del dominio inglese. Tutto, peraltro, a prezzi straordinariamente convenienti, sia al mercato che nei vari negozi d’intorno. E’ la nostra passione, che non dura però più di un’ora, dato che oggi merita approfittare della particolare clemenza del tempo per un’immediata visita alla “Table Mountain”, naturalmente usufruendo di una delle più storiche funicolari di tutto il mondo. Si sale e già salendo si gode la spettacolarità del dominare, dall’altezza dei 1.000 metri, la contaminazione di due oceani, l’Atlantico e l’Indiano. La “Table Mountain” è nota come la “ Tovaglia” che avvolge, con le sue nuvole, le montagne di Cape Town. Una leggenda “afrikaner” fornisce una spiegazione del fenomeno attribuendolo a un vecchio che, gran fumatore di pipa, tenta di fumare più del diavolo. Appena sull’altopiano, si inizia un percorso che ci sposta sui vari lati e dunque ci offre lo scenario delle diverse prospettive. Sembrano lì, a portata di mano, i vari quartieri della città: Sea Point, Clifton Bay, Signal Hill. Il nostro percorso ci consente anche di scoprire altre tipiche vegetazioni; pare che ben 1.400 siano le varie specie di piante da fiore presenti su questa montagna. Sinpatico è anche l’incontro con un nutrito gruppo di giovani sportivi di Valpolicella, che sono a Cape Town per un lungo periodo a praticare sport, addestrati da un loro allenatore di origine sudafricana.

Alle due del pomeriggio si rientra e si sceglie di visitare i “Botanical Gardens”. E siccome i più noti sono quelli di Kirstenbosch, il nostro taxista si dirige in quella direzione, fuori dal centro della città. Ne nasce un equivoco (causato dal fatto che a noi quei giardini sembravano in centro) e anche un’animata discussione, conclusa con l’imposizione di una sosta in una zona vicina sì a dei Giardini, ma non a quelli di Kirstenbosch. Si tratta di quelli centrali, i giardini della “Compagnia”, vicini al Parlamento e al “South African Museum”, un museo che visitiamo per apprezzare la sorprendente ricostruzione di scorci di vita delle comunità degli antenati “San”, nonché interessanti oggetti appartenenti alle più diverse culture indigene. Particolarmente suggestiva è la sala delle balene, dove sembrano animarsi attraverso i loro rumorosi richiami.

Alle cinque del pomeriggio il gruppo si divide: Sandra ed io preferiamo restare nel centro storico, mentre gli altri optano per un ritorno all’”Waterfront”, anche per cogliere l’occasione per alcuni acquisti. La cena si consuma in un piccolo ristorante sulla Long Street, non troppo lontano dal nostro Hotel. Un ristorante neppure segnalato dalle guide, gestito da una giovane coppia di ragazzi ben affiatati, che riescono a soddisfare così bene le nostre esigenze, tanto da invogliarci a tornarvi di nuovo, la sera prima della nostra partenza. La zona della Long Street è anche una zona turistica e dunque anche presenziata da gruppi di ragazzi specializzati nell’elemosinare. Niente di male, abbiamo provato e sperimentato situazioni più concitate, anche se la peculiarità di questi è l’insistenza rispetto, ad esempio, a quelli indiani. Quel che è peggio è invece il fatto che la Long Street è anche un po’ il luogo dove si sperimentano fatti di microcriminalità, tant’è che mentre stiamo cenando si assiste a numerosi interventi della polizia, a varie perquisizioni e forse addirittura ad arresti veri e propri. Una piacevole passeggiata notturna ci conduce, infine, al nostro Hotel, dove ci accoglie personale simpatico e soprattutto particolarmente disponibile a risolvere ogni nostra domanda ed esigenza, domande ed esigenze, le nostre, non sempre semplicissime da soddisfare. -8 Agosto- Poco dopo le otto siamo già in movimento e la prima tappa è per la St. Georges Cathedral, cattedrale anglicana del noto Arcivescovo Desmond Tutu, costruita sul finire del 19° secolo, incapace, purtroppo, di suscitare particolari sensazioni. Poi si visita la Grand Parade, una vastissima piazza, in passato usata essenzialmente per le grandi parate militari, oggi destinata a parcheggio e sede di mercati. Il Castello si trova nei pressi, il più vecchio edificio di Cape Town. E’ il Castello di Buona Speranza che, costruito nella seconda metà del 1.600, oggi ospita due musei con collezioni di arredamento e dipinti, quest’ ultimi particolarmente interessanti anche perché documentano la storia e la vita della città. Poi si torna sul porto e mentre Gianni e Stefania decidono di trascorrervi qualche ora, noi visitiamo il quartiere Musulmano, lo storico sobborgo residenziale dei discendenti degli schiavi asiatici e dei prigionieri politici portati qui dagli Olandesi. Sono caratteristiche le ripide viuzze in acciottolato, così come particolari sono le case settecentesche dal tetto piatto e dai colori accesi, oggi abitate soprattutto da yuppies.

A metà pomeriggio si mette in programma un’escursione in mare. Alcuni prospettano un’avventura alla scoperta delle curiosità della costa …. E mentre di ciò si discetta, ci avvince l’idea di una visita alla “Ribben Island”, situata al largo del porto, storico luogo di detenzione fino ai nostri giorni. E’ noto come il più celebre prigioniero sia stato Nelson Mandela, che vi ha trascorso ben 18 dei 27 anni complessivamente scontati in carcere. Naturalmente si visitano le celle, dove si è accompagnati e introdotti da ex detenuti politici, che ci raccontano, con molta dovizia di particolari, le atroci sofferenze subite. La visita è molto interessante, anche se un po’ troppo lunga, tanto che il tempo a disposizione per la visita dell’isola risulterà alla fine un po’ scarso. Un’isola che mi piace definire speciale, proprio per questa innaturale combinazione fra le crudeltà inferte a migliaia di detenuti politici e la delicatezza di tutto quanto di più naturale vi scorre intorno. Impressiona soprattutto la diffusa presenza di pinguini, che padroneggiano le strade così come qualsiasi altro passante. Sì, un’isola speciale davvero, nella quale, peraltro, ci rechiamo quasi per caso, visto che le stesse guide più aggiornate citano la “Ribben Island”, appunto, quasi per caso, contrariamente invece a quanto meriterebbero le sue svariate opportunità. Il rientro è molto tranquillo ed il tramonto ce lo godiamo proprio durante il tragitto marino. Dopo una rilassante sosta in albergo, alle sette ci si incammina verso il “Mama Africa”, un tipicissimo ristorante dove è possibile accedere soltanto su prenotazione e dove si è coinvolti da una speciale musica africana, oltretutto ben rappresentata da un gruppo di giovani professionisti. La Long Street è, come si è detto, una strada ricercata e dunque anche usata come quinta teatrale … e proprio stasera si ha il privilegio di assistere alle laboriose operazioni di ripresa per la produzione di un’opera cinematografica. Nel pomeriggio, intanto, si è anche provveduto alla prenotazione di due auto (difficoltosa, in Sudafrica, la prenotazione di un minibus), per procedere l’indomani verso le nostre prime escursioni nella Regione di Cape Town.

-9 Agosto- Oggi, in Sudafrica, ricorre la festa della donna, festa che non pare particolarmente partecipata. Si parte di primo mattino per la nostra prima escursione in direzione di Capo di Buona Speranza. Si sceglie, all’andata, di percorrere la costa della False Bay, quella del versante orientale rispetto alla costa atlantica. Si incontrano piccoli borghi appoggiati sulle suggestive coste della Baia. Località di vacanza, anche perché questo lato della penisola è più riparato e garantisce acque a temperature adatte alla balneazione. Eccoci, dunque, a Muizenberg, a Kalk Bay, a Clovelly, a Fish Hoek, prima di arrivare a Simon’s Town. Località con buona frequentazione turistica, come si capisce dalla qualità dei suoi negozi, gestiti per lo più da europei, dove non mancano, ancora una volta, preziose botteghe di antiquariato e dove, ancora una volta, si insiste in ulteriori acquisti, ancora una volta a prezzi vantaggiosissimi.

Prima di raggiungere il Capo, si decide per un rapido pic-nic e mentre siamo alla ricerca di un luogo di sosta, veniamo accerchiati dai babbuini. Velocissimi, tentano di impadronirsi delle scorte alimentari che eventuali improvvidi osassero non custodire con particolare attenzione. Se ne ha una conferma in diretta: alcuni turisti che stanno consumando il loro spuntino sono costretti, in un battibaleno, a riporre tutta l’apparecchiatura in macchina, proprio mentre alcuni babbuini tentano di impadronirsene. Noi si decide di allontanarci di alcuni chilometri per pranzare sulla spiaggia di un villaggio completamente isolato, su una piccola baia dove si coglie l’occasione anche per un po’ di abbronzatura.

Esattamente alle due del pomeriggio si accede alla riserva, al parco naturale: si prosegue per un’altra decina di chilometri ed eccoci il Capo, che il cronista Francis Drake ebbe a definire “ … la cosa più maestosa e più bella che abbiamo mai visto su tutta la superficie della terra”. Esagerazione? Può darsi, ma la testimonianza resta. Il tempo è ancora una volta benevolo, anzi, splendido come raramente accade, per quanto attraversato da venti impetuosi. Il “Cabo da Boa Esperanca” fu così battezzato da Bartolomeo Diaz nel 1487, che lo doppiò mentre era alla ricerca di una rotta marittima verso i mercati delle spezie dell’India. Qui si incontrano e si scontrano due grandi correnti oceaniche: quella fredda del Benguela e quella calda di Agulhas. L’ultimo tratto di sentiero, dopo aver raggiunto il Cape Point con una funicolare, si percorre solo e soltanto a piedi, una passeggiata di circa un’ora che non tutti però riescono a sostenere. Noi ci riusciamo… e lo spettacolo della conquista della punta estrema ripaga ampiamente le fatiche sopportate.

Si attraversa di nuovo la riserva per tornare al punto di ingresso, poi la direzione è verso una famosa strada costiera ( purtroppo non ne ricordo il nome), che però è interrotta a causa di una frana. Non resta che fermarci a cena a Hout Bay, in un ristorante raffinatissimo, ospitato su una storica nave ormeggiata nella baia. Il rientro notturno è faticosissimo, la strada sulla costa atlantica è tortuosa e trafficata; offre scorci panoramici eccezionali che, tuttavia, in piena notte, non ci è dato apprezzare compiutamente. Vi rimedieremo nei giorni avvenire. -10 Agosto- All’1.30 della notte squilla in camera il “maledetto” telefono. Mi svegliano perché una delle nostre due auto parcheggiate in garage impedisce l’uscita di un’altra. Svegliano proprio me (non mi sarei offeso se avessero cercato di altri!) e così il mio incipiente raffreddore subisce un’accelerazione che mi accompagnerà per qualche giorno. Poi torno a dormire, anzi, a tentare di dormire… e alle 8.45, come programmato, si parte per la nostra escursione lungo l’Indiano. Si decide di puntare sulla costa della penisola di fronte alla False Bay, attraversando la città di Strand, quindi rientrando verso la città di Caledon. Un percorso molto tranquillo, riparato rispetto all’euforia dell’Atlantico e molto più connaturale a pregiate coltivazioni agricole. Intorno all’una siamo di nuovo sulla costa, dopo un tratto di strada percorso all’interno. Siamo a Stilbaai, una splendida spiaggia che si è messa in programma allo scopo di dedicarci un po’ di relax. Relax sì, ma con gli occhi (e soprattutto i binocoli) puntati su quell’inverosimile spettacolo offertoci da un gruppo di balene e balenottoli che, a pochi metri di distanza dalla spiaggia, sembrano divertirsi nel farci divertire. Giocano, sguizzano, spruzzano, inscenano una specie di goliardica rappresentazione sapendo di dover soddisfare l’esigente platea da noi rappresentata. Le balene ci mancavano… e c’è chi fra noi sostiene che ci abbiano offerto lo spettacolo più spettacolare. Pietro e Gianni, in veste di responsabili della documentazione fotografica, non trovano neppure il tempo per un caffè, che invece noi altri sorseggiamo al bar della spiaggia. Subito dopo, a metà pomeriggio, si raggiunge Mossel Bay, dove purtroppo si giunge troppo tardi per poter visitare il Museo intitolato a Bartolomeo Diaz. Peccato! Ma a tutto non si può riparare. Nella tarda serata, siamo finalmente a Herold’s Bay, una nota località turistica che però in questo periodo dispone di pochissimi alberghi aperti. Uno di questi sarà il nostro, dai più valutato come scadente. Si cena al ristorante dell’albergo, un ambiente tutt’altro che invitante, forse il peggiore fra quelli frequentati. Un ristorante dove si cena insieme a un’unica altra coppia, che ci propone il proprio vino, prodotto nella loro fattoria distante circa 200 chilometri, verso Cape Town. Promettiamo di visitarla, anche se poi non sarà così per colpa del tempo, come sempre tiranno. Si coglie l’occasione anche per le telefonate più impegnative e così da mamma scopro dei forti temporali che si sono abbattuti sulla Toscana e soprattutto su Firenze, così come apprendiamo che Silvia si sta dirigendo verso Los Angeles, l’insuperabile capitale dello spettacolo che visiterà per la terza volta. Sono le 22 e dunque non resta che cedere al sonno. -11 Agosto- Riesco a concedermi una notte profonda, che rimedia alla stanchezza accumulata. Alle otto in punto ci congediamo dall’ Hotel per Knysna. E’ un po’ l’epicentro della zona, soprattutto sotto il profilo turistico. La baia (una delle tante su questo tratto di costa) è particolarmente spettacolare. Noi ce la godiamo dall’alto, attraverso un affacciamento sulla stretta scogliera che consente l’immissione delle acque dell’Oceano all’interno della baia. Oggi è domenica e sono numerose le famiglie che, come al solito, si godono uno scampolo di vacanza intorno ai numerosi barbecue. Siamo all’interno di un’ampia area protetta, sia per quanto riguarda la riserva naturale che l’area lagunare. Ed è proprio all’interno di questa laguna che è stata sperimentata (con successo) la coltivazione delle assai apprezzate ostriche di Knysna.

Siamo oramai assolutamente immersi nella pubblicizzatisima “Garden Route”che abbraccia un lungo tratto di litorale, da Still Bay fino a Plettenberg Bay. Domina una foresta che avanza fino alla costa, dove si immerge in una barriera di dune e spiagge bianchissime. La foresta è caratterizzata da alberi giganti e fiori selvatici, quali eriche, gladioli, calle e agapanti. Purtroppo, lo scarso tempo a disposizione non ci consente di sperimentare una delle tante escursioni che normalmente vengono organizzate in loco e tuttavia non mancheremo di apprezzare la straordinaria predisposizione naturalistica dell’intero contesto ambientale.

A metà mattinata si sceglie di dirigerci verso George, la capitale della Garden Route. Una città che copre un’estesa area pianeggiante, molto verde, molto ordinata e rilassante. George è tuttavia penalizzata dall’essere vicinissima a Oudtshoorn e Cango Caves. La prima è la città capitale degli allevamenti degli struzzi (che alcuni di noi non mancheranno di assaggiare con profonda soddisfazione), le Cave sono fra le attrattive più straordinarie, ricche di stalattiti e stalagmiti, offrono un percorso dalla suggestione paragonabile a pochi altri fra quelli da me visitati. Ci accompagna, peraltro, una guida assai documentata, pronta a soddisfare ogni nostra curiosità storico- culturale.

All’uscita, su uno dei tanti prati, si consuma il quotidiano frugale pic-nic per poi trascorrere gran parte del pomeriggio all’interno di Canyon e parchi naturali, fino a oltrepassare un vero e proprio massiccio per penetrare nella rinomatissima area della strada dei vini. Stasera se ne attraversa un lungo tratto, nella speranza di poterci accomodare all’interno della foresteria di una delle numerose “Farms”. Ma è scesa la notte e non essendo questo un periodo turistico, si dovrà giungere fino a Villiersdorp, una piccola località, per pernottare alla “Huis de Villiers”, una Guest House molto accogliente.

Accoglienza e ospitalità enza possibilità di paragoni; la gestione familiare è condotta da una gentilissima signora che ci ospita come se davvero fossimo a casa nostra. Ci fa accomodare mentre si dedica alla preparazione di una cena improvvisata. Intanto ci serve vino, aperitivi e quant’altro occorra per farci sentire a nostro agio. Una vera casa dove chiunque acceda entra a far parte della famiglia. La signora è attivissima e mentre prepara ci racconta che soltanto da pochi anni svolge questa attività, dopo aver gestito un notissimo negozio di antiquariato a Cape Town. Tutto fila per il meglio e anche noi ci sentiamo davvero come a casa nostra, con la massima confidenza e disponibilità.

Io, purtroppo, non riesco a godermi interamente questa singolare serata a causa del mio fastidioso raffreddore. Per fortuna sarà questo l’unico vero “malanno” occorso a tutto il gruppo. -12 Agosto- Già la sera precedente, per la prima volta, abbiamo avuto a che fare con un po’ di pioggia. Durante la notte si scatenano veri e propri temporali, con vento tempestoso e lampi furibondi. Tuttavia si riesce a riposare comodamente in queste camere perfettamente arredate dalla signora, familiarissime, dove si respira un gradevole profumo di casa. Anche la colazione si svolge in questo clima e i prodotti consumati (marmellate di tutte le specie, dolci delicatissimi, salati vari) sono per lo più prodotti direttamente in casa. Non ricordo esattamente, ma il costo di tutto questo servizio è quasi ridicolo. Il marito ci chiede di lasciargli l’indirizzo; è innamorato di Firenze e non dispera di visitarla quanto prima. La signora parla correttamente il francese e dunque è soprattutto con Sandra che familiarizza, tanto che al momento della partenza si salutano con baci e abbracci particolarmente calorosi.

Si passa poi dall’ufficio informazione per acquisire l’elenco delle “Vinary”. Siamo all’interno della “Strada del vino” più importante del Sudafrica e non intendiamo perderci l’occasione di una visita accurata a una di queste straordinarie cantine. In realtà riusciremo a visitare soltanto alcuni veri e propri “salotti” di ingresso (sale di ricevimento, vendita diretta, sale di assaggio), ma non l’organizzazione interna, per il fatto che il periodo non è quello della vinificazione. E’ un peccato che fa dispiacere a tutti e in particolare a Pietro, l’esperto del gruppo. Si scopre anche che il prezzo dei loro vini (che vengono consumati giovanissimi) è imbattibile: siamo intorno ad 1/3 rispetto a quelli italiani… e la qualità è tutt’altro che disprezzabile. Vini che rappresentano e rappresenteranno sempre più una reale concorrenza per i migliori europei.

La capitale della “Strada del vino” è Stellenbosch, dove si arriva a fine mattinata. Si visita la città, tranquilla e graziosa, che in certi periodi dell’anno viene invasa dal turismo. Stellenbosch è però anche una capitale universitaria, proprio perché qui, alle porte di Cape Town, sono state trasferite molte facoltà. Un città, dunque, giovanissima e molto animata, come sempre riescono a renderla le studentesse e gli studenti universitari.

Dopo questa sosta il gruppo si divide: Stefania e Gianni preferiscono avvantaggiarsi per una distesa e accurata visita alle coste dei dintorni del Capo, mentre il resto sceglie la visita dei Giardini Botanici di Kirstenbosch, posti alla periferia della città. Godono di una posizione davvero mozzafiato sul versante orientale della Table Mountain. I 36 ettari di giardini si fondono coi 492 ettari di fynbos (flora locale) che rivestono le pendici del monte. Malgrado un po’ di pioggia, la visita scorre piacevolmente e si ammirano prevalentemente piante indigene. Vi si coltivano circa 9.000 delle 22.000 specie di piante sudafricane. I giardini sono disegnati con molta cura e suddividono in comparti le varie famiglie, facilmente e felicemente attraversati da vialetti perfetti. Si trascorre qui un paio di ore, anche se avremmo dovuto (se avessimo potuto) dedicarvene molte di più. Anche noi però vogliamo goderci un tratto di costa atlantica, anche per partecipare allo spettacolo per noi inconsueto che alcuni temporali pomeridiani ci offrono al momento di scaricarsi sulle coste dell’oceano.

Alle sei il gruppo si ricongiunge all’ Hotel, dove proprio a quell’ora si riconsegnano le auto noleggiate, dopo oltre 1.600 chilometri percorsi in quattro giorni. Le due ore successive sono interamente dedicate a riordinare le valigie, uno degli impegni più gravosi, date le numerose mercanzie. Si riesce un po’ alla meglio e per l’ultima cena si decide di tornare al ristorante della prima sera, dove alcuni di noi provano, con gustoso piacere e grande soddisfazione, la carne di struzzo, la carne di uno di quegli struzzi che pascolano, allo stato naturale, nella regione di Oudtshoorn che, appunto, ne è la capitale.

Un’ultima passeggiata sulla storica Long Street e poi si passa al riposo, per prepararci all’ultima impresa dell’indomani mattina.

-13 Agosto- Già prima delle otto, Gianni, Pietro ed io si corre diretti a visitare alcune delle “Township”, accompagnati da un taxista, mentre Enrico e le signore danno fondo utilmente agli ultimi “Rand”, la locale moneta. Vive in queste enormi distese di baracche una parte consistente della popolazione della città. E malgrado la prima impressione sia quella di uno squallido degrado (lo è in gran parte, naturalmente), in realtà, rispetto alle “Bidonville” di altre capitali, qui si vive nell’oro. Intanto perché dispongono di corrente elettrica, acqua e altri servizi essenziali, poi perché vi abitano cittadini abbastanza integrati col resto della città. All’interno si scoprono scuole, negozi, luoghi di ritrovo. Naturalmente sono baracche e alcune zone, intendiamoci, presentano i segni di un vero e proprio degrado. Tant’è che sono in corso di costruzione nuovi quartieri che dovranno sostituire le realtà più degradate. Si riesce a penetrare all’interno e a scoprire la conduzione di una vita (anche se non augurabile) abbastanza dignitosa. Noi stessi, curiosi turisti ficcanaso, siamo accettati senza difficoltà, anche se veniamo rimbrottati da una signora che, giustamente (i suoi condomini ci consigliano di non farci caso perché pazza) ci rimprovera di usarli come oggetti di curiosità, senza preoccuparci di fare alcunché di utile per migliorare le loro condizioni. E’ il richiamo di una donna tutt’altro che pazza; forse, si commenta, una delle poche avvedute e consapevoli fra le tante incontrate.

Alle undici siamo di ritorno, si fa l’ultima passeggiata e all’una si caricano i bagagli sul taxi per raggiungere l’aeroporto, da dove decolliamo puntualmente alle quattro del pomeriggio, lasciando Città del Capo in preda al freddo e ai temporali. Freddo e temporali dai quali noi, fortunati, siamo stati risparmiati. Arrivano mentre noi, puntualmente, partiamo.

Alle nove del mattino successivo, dopo lo scalo di Francoforte, si atterra come previsto a Firenze. E’ finita… e io aggiungo purtroppo! Anche se il distacco dal Sudafrica è per qualche minuto rinviato, ovvero per il tempo necessario a leggere, su “La Repubblica” di stamani, un documentatissimo articolo di un giornalista che proprio da Oudtshoorn (ricordate la capitale degli struzzi?) ci descrive puntualmente la storia di questa città e di questa regione. E’ finita…, si è conclusa un’esperienza che, almeno nel mio caso, ha superato le attese iniziali. Tutto ha filato per il verso giusto, senza contrattempi particolari, rispettando esattamente il programma concertato. Sarà forse perché questa è davvero una parte dell’Africa dove non tutto è nero? Chissà! Ma oggi, in attesa delle prossime verifiche, non posso che lasciare aperto l’interrogativo.



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