Viaggio in Mustang

Un viaggio letterario che di certo non si fa "per caso"
Patrizio Roversi, 30 Gen 2019
viaggio in mustang
Mi capita spessissimo di incontrare persone che mi dicono – Beato te! Tu sì che riesci a viaggiare… – Francamente è un complimento ambivalente (contiene infatti una certa dose di invidia) che non mi merito, e soprattutto contiene da parte di chi lo fa una dose di autocommiserazione che mi pare del tutto fuori luogo. Infatti presuppone che viaggiare, per la maggioranza dei “comuni mortali”, sia impossibile o quasi. Il che non è vero. Oggi viaggiare non è così difficile: tutti possono farlo. Non a caso la filosofia dei turistipercaso è proprio quella del “se ce la facciamo noi possono farcela tutti”. E’ vero, qualche viaggio può risultare caro, ma se si decide di investire nel viaggio un minimo di risorse (spesso meno di quel che si pensa) per il resto di viaggi davvero estremi, oggi, ne restano pochi. Uno di questi, apparentemente, è il Mustang: c’è un biglietto d’ingresso piuttosto caro e bisogna andare a quattromila metri. Eppure io ci sono stato, e non è stato un viaggio difficile. Rappresenta appunto uno dei viaggi più belli che io abbia mai fatto. Una delle tre mete in cui mi sono ripromesso di tornarci, portandomi Zoe, mia figlia. Ci sono stato con Piero Verni, Presidente di Italia-Tibet, autore di diversi libri dedicati a questa zona, e con sua moglie Kharma, tibetana. Si atterra a Kathmandu, la capitale del Nepal, nel paesino di Jomoson, accanto al massiccio dell’Annapurna. Ma poi si va a piedi. C’è un unico sentiero che attraversa tutto il Mustang, da Jomoson fino a Lo Manthang. Il tragitto di andata (poi si deve calcolare il ritorno) dura una settimana. È un sentiero a volte talmente stretto (in pratica una cengia) che di fatto nel Mustang non è permessa nemmeno la semplice tecnologia della ruota. Le uniche ruote che ho visto sono quelle che fanno girare i rotoli delle preghiere, accanto ai Chorten, i piccoli templi buddisti che spesso hanno l’aspetto di una torta di panna farcita. In effetti nel Mustang ti viene fame spesso, sarà per l’aria o per la fatica che si fa. Tutti i bagagli vengono portati a spalla dagli Sherpa, oppure a dorso di mulo o di cavallino. Io ci ho provato a salire su un cavallino, però sono subito sceso terrorizzato: cadere da cavallo equivaleva a precipitare lungo ghiaioni vertiginosi. Tra l’altro il mio bagaglio era particolarmente pesante, perché una volta tanto mi ero portato molti libri. Il fatto è che nessun Paese è tanto letterario quanto il Mustang. Non che abbiano scritto in molti sul Mustang, anzi. Ma è un luogo mitico, che ti porta ad approfondire le radici di questo mito, attraverso la testimonianza di chi lo ha alimentato. In Mustang non ci vai per caso: arrivi fin là solo se hai letto un libro. Per cui, se dovessi darvi una ricetta letteraria su come “prepararsi lo stomaco” prima di viaggiare in Mustang vi direi che innanzitutto ci vuole una buona dose di Segreto Tibet di Fosco Maraini, il primo italiano (ed europeo) a venire qui e a fotografare e descrivere questo posto magnifico, sulle tracce del suo amico Giuseppe Tucci. Il tutto si amalgama con quello che scrive sul Mustang Tiziano Terzani nel capitolo contenuto nel suo libro Asia. Quindi si spolvera il “piatto” con un po’ di notizie prese da Ultimo Tibet di Piero Verni, appunto, il mio prezioso accompagnatore. Il Mustang ci ho messo sei giorni di cammino per attraversarlo tutto, attraverso villaggi dai nomi difficili: Kagbeni, Tanghe, Tsarang. Non è stato facile venire direttamente in contatto con la gente. Erano gentilissimi, erano anche disposti a chiacchierare con Kharma, che parlava la lingua. Siamo entrati in qualche casa e in qualche locanda. Ma, anche per non consumare le poche risorse del posto, il turista deve portarsi dietro tutto: dal combustibile per cucinare fino alle vettovaglie. Erano le nostre guide a farci il campo, ogni sera. Dormivano sotto le tende, in un recinto per gli animali, vuoto. E la cucina era quella da tipico trekking anglosassone: riso, uova ecc. Ho potuto solo gustare, almeno nella prima parte del viaggio quando l’influenza nepalese si faceva ancora sentire, un po’ di Dhal (cioè lenticchie e riso) e qualche Momo (ravioloni di carne o di verdura, fritti o bolliti). Per il resto, ho visto preparare lo Tsampa (farina di orzo o di frumento, condita con burro di yak). Di yak purosangue non ne ho incontrati, pare che ormai si trovino solo più in alto, nel Tibet vero e proprio. Ho visto invece molti bovini mezzosangue, mezze mucche e mezzi yak, che già avevano un aspetto poco rassicurante. Per tornare ai miti e ai libri: la cosa che più caratterizza il Tibet (e quindi il Mustang) è il famigerato The al burro di yak. Ne parlano e ne scrivono tutti, come di una prova molto difficile da superare per il viaggiatore. Per darvi un’idea: col burro di yak ci fanno le statue. Quindi assomiglia più ad un minerale malleabile piuttosto che a qualche cosa di commestibile. Alla fine il famoso the tibetano, il Po-cha, l’ho assaggiato. Si tratta di the nero nero, salato, con dentro sciolto il burro. Beh… dopo averne letto tanto male, pensavo peggio. Se, invece di aspettarvi un the, pensate di bere un brodo, si può anche sopravvivere ad una tazza o due…

Patrizio Roversi