In Trentino per la ferrata Tridentina

Weekend a base di cibo e divertimento con la scusa di salire la via ferrata piuùfamosa delle Dolomiti
Scritto da: smarcell
in trentino per la ferrata tridentina
Partenza il: 17/09/2011
Ritorno il: 18/09/2011
Viaggiatori: 3
Spesa: 500 €
Questo è il racconto della salita alla Via Ferrata Tridentina, una delle piu’ famose e frequentate vie ferrate delle Dolomiti. In rete si trovano decine di resoconti dettagliatissimi su questo percorso, ma quello che state per leggere è un racconto un po’ fuori dagli schemi. Se cercate qualcosa che vi dica dove si trovano gli appigli, dove dovrete mettere le mani e i piedi, e come cambia la pendenza, insomma quelle cose del tipo “si inizia con una facile ascesa sul traverso, e dopo due placche equipaggiate con 10 metri di corda si percorre una facile cengia dopo la quale il sentiero si impenna in un tratto mediamente esposto che superiamo aiutandoci su facili roccette”, ovvero uno di quei racconti dettagliatissimi e, secondo me, sostanzialmente inutili, quello che state per leggere non fa per voi. Questo è piuttosto il diario di tre amici che hanno deciso di trascorrere un fine settimana in montagna, con il pretesto di salire la Ferrata Tridentina. Perche’ il vero motivo per cui tre quarantenni quasi cinquantenni (sorvoliamo su questi irrilevanti dettagli), colleghi di lavoro, di nome Stefano (il sottoscritto), Andrea e Alessandro hanno deciso di fare una cosa del genere e’ quello di passare due giorni in totale cazzeggio. La salita alla Ferrata Tridentina e’, alla fine, solo una dignitosa giustificazione.

L’incontro e’ a Reggio Emilia, dove abita Andrea, padrone del camper che ci portera’ sui tornanti del Passo Gardena, in Alto Adige, tra la Val Gardena e la Val Badia, da dove parte la Ferrata Tridentina. Camper che, ovviamente, ci ospitera’ nella notte antecedente questa impresa alpinistica estrema. Alla partenza facciamo l’inventario dei viveri: latte, caffe’ e biscotti per la colazione, e il cibo per la cena, evento che contende alla salita della ferrata il primato di momento catartico di questa due giorni. La cena prevede un ragu’ di salsiccia amorevolmente cucinato dalla moglie di Andrea, e un salame che, dice Alessandro, quando lo assaggeremo ci costringera’ a rivedere tutte le nostre priorita’ nella vita. E poi birra, ovviamente, che si sa, gli alpinisti, prima di ogni grande salita, tracannano pinte di birra. Sebbene i biografi ufficiali tacciano su questo aspetto, pare che anche Compagnoni e Lacedelli, la notte prima dell’attacco finale al K2, si siano fatti fuori un cartone di Moretti a testa, ruttando fragorosamente nell’aria rarefatta.

Il camper di Andrea, bisogna dirlo per amore di cronaca, non e’ proprio un mostro di velocita’. Ai 100 emette un rombo tipo 747 in fase di rullaggio, e il proprietario ha vivido il ricordo di quella volta in cui, in particolari condizioni di asfalto perfetto e leggero vento a favore, ha sfiorato i 110 chilometri orari. Come a sancire una barriera fisicamente insuperabile, la tacca dei 120 e’ coperta di muschi e licheni (i muschi e licheni, lo si sa fin dalle elementari, vanno sempre assieme). In ogni caso trovo il viaggio molto piacevole, visto che e’ la prima volta che vado in camper e, soprattutto, perche’ non guido. Infatti starsene a cazzeggiare seduto su un divanetto mentre il camper macina strada e’ un’esperienza veramente rilassante. Il salame intanto troneggia misterioso e austero nella zona cucina, come il monolite di 2001 Odissea nello Spazio.

Arriviamo a Passo Gardena che e’ gia’ buio (siamo in settembre inoltrato), e fatichiamo un po’ a trovare il tornante giusto dove c’e’ il parcheggio della Tridentina. Io sono l’unico che lo conosce, e mi ricordo che e’ sulla destra, scendendo da Passo Gardena, ma ci sono stato di giorno, quando il cartello e’ ben visibile e il parcheggio lo vedrebbe chiunque. A un certo punto, pur ostentando sicurezza (tranquilli, e’ qui fra poco, sono sicuro!), comincio a tradire una leggera apprensione, perche’ me lo ricordavo piu’ vicino al passo. Alla fine vediamo il parcheggione all’ultimo momento, prima dell’ennesima curva, immerso nel buio della notte senza luna. Nel parcheggio, una sterrata enorme, che nelle domeniche di agosto si riempie di macchine, non c’e’ nessuno, a parte una Opel Corsa con la luce di cortesia accesa, e un tipo all’interno che, da solo, guarda fisso davanti a se completamente privo di espressione. Escludiamo all’unanimita’ che stia contemplando la sua immagine riflessa all’interno del parabrezza, e propendiamo per l’ipotesi che non sia proprio da solo, e che qualche altra misteriosa presenza si muova con destrezza al di sotto della zona visibile della vettura. Parcheggiamo sufficientemente distanti come ci impone la nostra discrezione.

Il parcheggio e l’assestamento del camper mi appare un po’ laborioso, a me che ho zero esperienza in materia. Andrea mi chiede di controllare una livella a bolla mentre fa retromarcia, e apporta ritocchi impercettibili alla posizione delle ruote, in modo che il camper sia perfettamente in piano. Non chiedo spiegazioni per tanta pignoleria, dato che a me sembra parcheggiato perfettamente, e suppongo ci sia un qualche motivo legato alla meccanica o alla struttura portante dei camper, completamente sconosciuto alla mia Multipla. Una volta trovata la posizione e spento il motore, Andrea ci dice che altrimenti se non ne’ in piano non si dorme bene.

Preparativi per la cena. Mentre l’acqua bolle decidiamo di attaccare il salame come aperitivo. Il quale salame, nel frattempo, si e’ disteso sul divanetto e ci guarda lascivo come la Maja Desnuda, lanciandoci messaggi inequivocabili del tipo “fai di me quello che vuoi”. Alessandro lo adagia sul tagliere con rispetto, come se fosse un collier di Bulgari, e comincia ad affettarlo, confessandoci che conosceva personalmente il maiale. Ci passa una fetta a testa come se ci desse la comunione, mentre la salivazione e’ gia’ a mille. La assaporiamo in rispettoso silenzio ma, tempo un paio di secondi, ci arriva il flash al cervello. Siamo improvvisamente colti da frenesia alimentare come gli squali, e ne facciamo fuori meta’ in due minuti. Smaltita l’adrenalina iniziale, la cena scorre piacevole (e come potrebbe essere altrimenti?) tra tortiglioni al ragu’, birra e, naturalmente, rutto libero. Prepariamo meticolosamente la roba per il giorno dopo (abbiamo intenzione di partire presto, verso le 7) e andiamo a letto. Ad Andrea spetta il matrimoniale sopra il posto di guida, mentre io e Alessandro siamo su due divanetti trasformati in letti dal dubbio comfort. Prima di dormire, pero’, l’imprescindibile pipi’ sotto le stelle. Mentre porto a termine l’operazione rifletto su come un semplice cielo stellato spinga gli uomini (intesi qui come maschi) a condire un gesto tutto sommato decisamente volgare (fare pipi’ in un parcheggio all’aperto di notte non e’ certo elegante) con pensieri in quache modo avvolti da un velo di poesia, del tipo osservare incantati il firmamento stellato e riflettere stupiti sull’immensita’ del cosmo (anche perche’, detto tra noi, se guardassimo in basso non ci sarebbe nessuna immensita’ di cui stupirsi). Dietro questa scorza da duri si celano esseri romantici e sensibili. “Tough and tender”. Comunque durante l’operazione ho anche modo di constatare che il cielo e’ perfettamente pulito dalle nubi. Sebbene faccia freddo, per il giorno successivo le previsioni prevedono tempo sereno stabile: una signora alta pressione, insomma, di quelle che rassicurano i montanari della domenica come noi. Tornando nel camper noto anche che Il tipo che al nostro arrivo era “da solo” nella Opel Corsa, adesso se ne e’ andato a casa. Anche i tipi piu’ ascetici e contemplativi quando arriva la sera sentono il richiamo del focolare domestico ! Mi sistemo nella branda, avvolto nel sacco lenzuolo, e do il mio contributo ai rumori molesti che immancabilmente costituiscono la colonna sonora di queste situazioni. Naturalmente la colpa e’ tutta dello sbalzo di pressione, dalla pianura ai 2000 metri. Giusto il tempo per le solite quattro battute scontatissime che tre uomini possono dire quando dormono assieme in una stanza buia, del tipo “mammamia che piedi freddi che hai!”, e mi addormento pensando alla canzone di Marco Ferradini, quella che fa “ma che bello questo weekend in montagna, senza le donne e senza la tv”. Quella che poi alla fine dice “ma che scassamento di minchia questo weekend in montagna senza le donne e senza la tv”. Marco Ferradini, per chi non lo sapesse, era un cantante degli anni 80 famoso per due cose. La prima era essere sosia di Jackson Browne, cantautore americano di tutt’altra bravura, e la seconda e’ per aver inciso “Teorema”, canzone anche questa con affermazione perentoria iniziale (prendi una donna, trattala male) e ritrattazione della stessa nel corso del brano. Brano che il mio compagno di appartamento all’universita’, nel 1982, ha ascoltato ininterrottamente per tutto l’inverno rischiando l’incaprettamento.

Sveglia la mattina presto, verso le 6 e 30: il parcheggio vede gia’ alcune auto di tedeschi in azione. Colazione con caffelatte e biscotti, indossiamo i nostri capi firmati dalle migliori marche di materiale di montagna e siamo pronti a partire. Notiamo subito che abbiamo parcheggiato il camper in retromarcia a nemmeno un paio di metri dalla sponda di una specie di laghetto che al buio era completamente invisibile. Ci mancava solo di finire col camper in uno stagno in retromarcia, per glorificare la canzone di Ferradini. Fa ancora freschino, ma dopo pochi metri di sentiero ci rendiamo conto che al sole si sudera’, e ci alleggeriamo del pile in eccesso. Sono le 7 e 30 di mattina, e in 10 minuti di sentiero normale arriviamo all’attacco della ferrata piu’ famosa delle Dolomiti.

A questo punto la narrazione richiede una parentesi per descrivere cos’e’ una via ferrata. La via ferrata, diciamolo senza pudore, e’ in ultima analisi l’alpinismo del “vorrei ma non posso”. Anzi, diciamolo forte, la via ferrata e’ la scalata per chi non e’ capace di scalare. Immagino che un vero alpinista la veda come un abominio, cosi’ come un velista vede con disgusto il motoscafo cabinato con le ragazze sdraiate a prendere il sole (anche se in genere non sono le ragazze la cosa che lo disturba di piu’). La via ferrata e’ un percorso su roccia attrezzato con cavi o funi, ancorati tipicamente ogni qualche metro. Lungo il percorso, nei tratti piu’ ripidi, capita anche di trovare, fissati alla parete, scalette di ferro, pioli o staffe su cui mettere i piedi per agevolare la salita. L’alpinista che vorrebbe ma non puo’ cosa fa a questo punto? Si mette un imbrago al quale sono saldamente legati due spezzoni di corda di un metro circa ognuno, al termine dei quali e’ ben fissato un moschettone, che egli aggancia al cavo. In questo modo puo’ procedere anche su percorsi ripidi, persino verticali (come nel caso della Ferrata Tridentina, ad esempio) con la sicurezza di essere legato e di non poter precipitare. I due spezzoni di corda, e non uno, servono a garantire che almeno un moschettone sia sempre legato al cavo. In piu’ il tripudio di scalette e ferri vari infilati nella roccia offre una grande scelta di appigli artificiali, oltre a quelli naturali della parete rocciosa. Dove sta il problema, quindi ? Beh, i puristi della montagna storcono il naso innanzitutto perche’ riempire di ferraglia una parete per far salire il turista della domenica equivale a snaturare, se non addirittura violentare, la montagna. E’ un po’ come mettere una scala mobile sul fianco di una piramide Maya. L’altro aspetto che non piace ai vari Messner e’ che la ferrata non e’ vera arrampicata, perche’ tipicamente chi sale si aggrappa al cavo e non alla roccia. Oddio, nessuno impedisce di arrampicare usando gli appigli di roccia invece che issarsi sulla corda a forza di braccia, ma e’ tutto un altro impegno e, vi garantisco, lo fanno veramente in pochi ! E poi, come qualunque attivita’ umana con una certa dose di rischio che all’improvviso diventa in qualche modo popolare, anche su una via ferrata l’homo sapiens e’capace di qualunque azione tesa a smentire appieno l’appellativo “sapiens”. Mi hanno raccontato di tipi che salgono senza imbrago, e con la corda infilata nei passanti dei jeans. Ci sono quelli che salgono coi mocassini, e c’e’ gente che solo a meta’ strada capisce che non aveva capito cos’e’ una via ferrata e decide di tornare indietro passando sulla testa degli altri che salgono dietro di lui. Gente che procede slegata per spavalderia, o per superare gli altri, perche’ sull’autostrada come su una via ferrata loro non stanno dietro a nessuno, e quelli che “fammi la foto da slegato qui sul bordo del burrone dai, che la metto su facebook !”. Insomma, non c’e’ limite alle trovate dei vari Rambo della montagna, quelli che poi leggi il loro nome sul giornale tipicamente preceduto dall’appellativo “incauto escursionista”.

E poi bisogna dire che la via ferrata e’ solo in apparenza sicura. E’ vero, se uno non fa cazzate, tipo usare il cordino stendipanni per legarsi, nel caso di caduta non precipita a valle. Pero’, se si cade, lo si fa finche il moschettone non si arresta contro il primo ancoraggio che incontra. E se questo ancoraggio e’ anche solo tre o quattro metri piu’ in basso, beh, cadere per tre o quattro metri sotto l’effetto della forza di gravita’, e magari arrestarsi contro uno spunzone di roccia (tipicamente sono oggetti che abbondano, in montagna), puo’ essere appena appena fastidioso. Magari non necessariamente fatale, ma un pelo antipatico si. Facciamo allora che, per andare sul sicuro, in una via ferrata non bisogna mai, assolutamente mai, per nessun motivo, cadere! In questo senso e’ quindi molto piu’ sicura l’arrampicata sportiva classica, soprattutto se si arrampica per secondi, perche’ in questo caso, se si perde l’appiglio, la corda che il capocordata tiene dall’alto e’ comunque praticamente sempre tesa, e se si cade si precipita solo per qualche decina di centimetri, giusto lo spazio per dar modo alla corda di tendersi. Su una via ferrata invece no. Quindi bisogna essere consapevoli che la protezione che abbiamo e’ in un certo senso una falsa protezione, e che una ferrata richiede il massimo dell’attenzione.

Tuttavia, nonostante sia assolutamente sconsigliato cadere se si ha un qualche tipo di progetto futuro nella vita, a me su una ferrata succede una cosa abbastanza incredibile. E cioe’ che il solo fatto di avere un cavo che mi tiene attaccato, e che mi impedisce di precipitare a valle, mi da sufficiente sicurezza per procedere senza paura anche con un baratro di 100 metri sotto di me. Ogni tanto ci penso, mentre salgo, che se non avessi questa assicurazione fittizia alla parete (fittizia perche’ so che non la devo, mai, assolutamente mai mettere alla prova), sarei completamente paralizzato dal terrore di cadere, io che pratico il “free-divaning” molto piu’ frequentemente del “free-climbing”. Invece con il mio kit da ferrata salgo veloce e senza esitazione, incurante del fatto che tra me e le case di Colfosco giu’ in basso ci sono alcune centinaia di metri di aria senza niente in mezzo. Misteri della psiche umana!

La prima meta’ del percorso e’ la piu’ semplice e meno esposta. Ad un certo punto il sentiero si biforca e offre l’ultima possibilita’ per tornare a valle su un percorso normale, prima di affrontare il secondo tratto della ferrata, quello piu’ esposto e piu’ impegnativo. Noi, in quanto veri uomini, ringraziamo l’offerta e andiamo avanti. Guadagnamo (parentesi: il correttore automatico di word mi da errore con guadagnamo, mentre e’ contento con guadagniamo !) quindi quota velocemente, salendo verticalmente mentre aggiriamo la Torre Exner, nel gruppo del Sella, una delle meravigliose cime delle nostre meravigliose Dolomiti che, detto per inciso, sono in assoluto tra le montagne piu’ belle della terra. Il percorso e’ a tratti quasi verticale, o sale in diagonale su una parete comunque molto esposta. Nonostante questo il tracciato e’ in realta’ molto sicuro, nel senso che i cavi sono ben tenuti, e sempre ben assicurati alla roccia, senza tratti esposti non protetti, e nei tratti verticali ci sono scale metalliche e pioli piantati nella roccia, che faranno incazzare i puristi della montagna, ma sono molto comodi per quelli come noi che sono un po’ meno puri. Grazie a tutte queste “facilities” e agli incomprensibili effetti rassicuranti del moschettone legato al cavo mi rendo conto di non pensare mai al precipizio che e’ sotto di me. Anzi, a volte mi fermo e scatto foto ai miei amici, e l’unica ansia di una certa rilevanza che mi pervade e’ di non far cadere la macchina fotografica. La giornata e’ perfetta, il cielo azzurro, limpido, la temperatura e’ quella giusta. Questo settembre ci sta regalando giornate fantastiche. Sotto di noi sentiamo fischiare le marmotte, che sicuramente, in marmottese, si stanno gridando: “attenzione, ci sono altri tre di quei tipi che ci hanno rotto i coglioni per tutta l’estate!”. Davanti a noi un gruppo di ferraresi ci precede tra un “maial” e l’altro. Stiamo attenti a non stare proprio sotto di loro, per evitare qualche sasso che potrebbero far cadere, unico vero rischio concreto in un percorso come questo. Non vogliamo mettere alla prova la resistenza dei nostri caschetti. Suppongo pero’ che nei periodi estivi di massimo affollamento questo sia un problema non da poco, come di sicuro sono un problema i tempi di attesa dovuti all’affollamento. Anzi, mi sento di sconsigliare vivamente questa ferrata nelle domeniche di luglio-agosto, a meno che non si parta molto presto, perche’ ho il sospetto che la sua salita equivalga a una coda sulla A14.

Giriamo attorno a uno spunzone di roccia e ci appare il famoso “ponte tibetano”, il passaggio che sicuramente contribuisce a rendere cosi’ famosa questa ferrata. Si tratta di un ponticello sospeso nel vuoto, lungo una decina di metri al massimo, che collega due pareti di roccia divise da un baratro che arriva fino giu’ a valle. Il ponticello e’ visibile anche dalla strada che sale da Colfosco verso Passo Gardena, e capita di vedere la gente che da valle lo guarda col binocolo e grida incredula: “guarda, c’e’ uno sopra, guarda!”, come si guarderebbe uno sbarcare sulla luna. Adesso io sono uno di quegli “uno”, ma, devo dire, non mi sento di avere compiuto nessuna impresa particolarmente estrema. Il ponte e’ infatti ovviamente ben ancorato alla roccia con cavi di acciaio, e ben protetto da altrettanti cavi dove assicurarsi. La percezione del turista sedentario nei confronti di questo tipo di imprese e’ un po’ esagerata, bisogna dire. Attraversiamo il ponticello piu’ volte andata e ritorno per fotografarci a vicenda “passo io e tu mi fotografi, poi passi tu e ti fotografo io, passiamo tutti e tre e ci fotografa uno di un altro gruppo”, in tutte le varie combinazioni possibili. Facciamo gli ultimi metri ormai su un sentiero normale, e arriviamo al Rifugio Cavazza al Pisciadu’, quota 2585 metri sul livello del mare. Ci abbiamo messo poco meno di 3 ore, senza ammazzarci di fatica. Ci aspetta un paesaggio fantastico, una panca al sole, una temperatura ideale, un birrone colossale, e un piatto di uova, spek, formaggio e patate che da solo contiene le calorie di un pranzo di matrimonio per 300 invitati. Il paesaggio nella parte alta del Gruppo Sella, dove si trova il rifugio, e’ arido, quasi lunare: una di quelle cose che rendono le Dolomiti cosi’ speciali. C’e’ anche una specie di laghetto, circondato da qualche residuo di neve sopravvissuto all’estate. Altre fotografie di rito, un paio di rutti per smaltire la birra (praticamente un atto dovuto), caffettino e siamo pronti per scendere.

Il percorso di ritorno non e’ quello dell’andata, ma decisamente piu’ semplice, anche se comunque e’ definito per escursionisti esperti, e scende per la cosidetta Val Setus, che sbuca anche lei al parcheggio dove abbiamo il camper. Il numero del sentiero, indicato sul cartello, e’ un biblico 666. Si procede giu’ per un ripido ghiaione, e in alcuni tratti ci sono delle corde da usare per aiutarsi come corrimano. In realta’ le corde sono quasi sempre all’altezza del ginocchio, e usarle e’ spesso piu’ scomodo che ignorarle. In questo tratto di discesa farebbero comodo i bastoncini, che pero’ stupidamente ho lasciato in camper per stare piu’ leggero. Passiamo accanto a un punto dove c’e’ uno strato di neve che non vede mai il sole, e che ha formato una specie di grotta di ghiaccio dal bel colore grigio azzurro. Ci fotografiamo sotto il tetto ghiacciato, sperando che il riscaldamento globale non decida di dargli il colpo di grazia proprio adesso. Mentre scendiamo si sentono i rumori delle orde di motociclisti che risalgono il passo, il cui sport preferito e’ sgasare sguaiatamente dopo ogni tornante. Dopo una giornata del genere, passata in un luogo dove la Natura (con la maiuscola) la fa da padrona, anche se contaminata da qualche scala di ferro di troppo, questi suoni tecnologici che riempiono la valle mi arrivano arroganti, quasi blasfemi nella loro irriverenza verso tanta bellezza. Se per i loro possessori quei suoni rappresentano un vanto, a simboleggiare la potenza loro e dei loro motori, da quassu’, al cospetto di queste cime fantastiche, a me appaiono in tutta la loro nullita’.

Percorriamo l’ultimo tratto del ghiaione e siamo al camper, dove proviamo l’esperienza dell’orgasmo simultaneo togliendoci gli scarponi. Ripreso possesso del camper, e indossati di nuovo gli abiti civili, spostiamo quindi l’attenzione verso quello che resta del salame, e nella frazione di un secondo abbiamo la consapevolezza che lo sventurato non riuscira’ a vedere il prossimo tramonto sulle dolomiti, che questa sera si preannuncia bellissimo.



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