Crimea, mosaico di culture

Viaggio nel tempio del turismo balneare russo, alla ricerca di città abbandonate, residenze imperiali zariste e ricordi di antiche civiltà
Scritto da: mapko64
crimea, mosaico di culture
Partenza il: 23/06/2012
Ritorno il: 08/07/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
Per lungo tempo l’Unione Sovietica ha rappresentato un mondo inaccessibile, avvolto da un alone di mistero. Da qualche anno, caduta la cortina di ferro, la curiosità mi ha spinto a visitare le repubbliche nate dal dissolvimento del vasto impero. In questo viaggio ho esplorato la Crimea, una specie di quadrilatero ormeggiato sulla sponda settentrionale del mar Nero. La penisola oggi fa parte dell’Ucraina quasi per uno scherzo del destino: quando negli anni cinquanta Krusciov la staccò dalla Russia per donarla all’Ucraina, pensava di compiere un gesto simbolico senza troppe conseguenze, poiché si trattava solo di ridefinire un confine regionale. Dopo il crollo del comunismo, le frontiere invece sono diventate reali e la Crimea si è trovata nella repubblica Ucraina, nonostante la maggioranza della sua popolazione si proclami russa e la sua storia sia legata al popolo tartaro, di ceppo turco.

Ancora oggi, dopo più di venti anni dal crollo del comunismo, l’integrazione con il resto del mondo mi è parsa scarsa. La gente parla solo russo e le orde di vacanzieri sono composte esclusivamente da ex cittadini dell’Unione Sovietica. L’aspetto delle città è cambiato, i locali in “stile occidentale” sono presenti ovunque, ma nelle piazze principali le statue di Lenin sono rimaste al loro posto. La sensazione di essere un corpo estraneo, non sempre gradito, mi ha accompagnato spesso. Che cosa sarà mai venuto a fare un italiano nel tempio delle vacanze balneari russe? In realtà la storia di questa regione è ricchissima ma, come accade in occidente, questo a volte sfugge al frettoloso vacanziere balneare, alla ricerca di sole e divertimento spensierato.

Bakhchisaray è stata per secoli la capitale del khanato tartaro, erede dei mongoli dell’Orda d’Oro. Al termine della seconda guerra mondiale Stalin deportò l’intera popolazione tartara in Asia Centrale, accusandola ingiustamente di collaborazionismo con i nazisti, per quanto avesse tutte le ragioni per cercare di liberarsi dal giogo russo. Dopo la sua morte, Krusciov riconobbe l’ingiustizia, ma i rientri di massa sono avvenuti solo in seguito al crollo dell’Unione Sovietica. Passati cinquanta anni e due generazioni, per i tartari non è stato facile tornare nella terra d’origine; i problemi d’integrazione con russi e ucraini sono stati notevoli, ma oggi Bakhchisaray sta vivendo una sorta di rinascimento culturale con la comunità tartara alla ricerca delle radici perdute.

La storia della Crimea comunque è ancora più antica. Nell’epoca classica i greci fondarono sulle sue coste numerose colonie. Per secoli Chersoneso fu la più importante; oggi il sito archeologico non conserva monumenti eccezionali, ma la sua posizione sul mare, l’estensione dei grandi quartieri abitativi e i resti delle basiliche cristiane sparsi qua e là, lo rendono veramente affascinante. Durante la mia visita la spiaggia del sito era affollatissima: un regista non avrebbe potuto concepire una situazione migliore per il turista del XXI secolo, una manciata di rovine archeologiche e tanto mare! Altrettanto affascinante è la città di Kerch sulla punta orientale della Crimea, affacciata sullo stretto che conduce al mare di Azov. Gli antichi ponevano proprio qui, in corrispondenza del Bosforo Cimmerio, una dei confini tra Europa e Asia; oggi lo stretto è tornato a essere un confine, separando Ucraina e Russia. La città è ricchissima di storia; l’affascinante kurgan dove fu sepolto un monarca del regno ellenistico del Bosforo, unisce gli elementi nomadi di un tumulo scita a quelli greci di un sepolcro monumentale.

Tra le città, più di Yalta consacrata alle vacanze balneari, mi ha colpito Sebastopoli, per la sua atmosfera solare, quasi mediterranea, con i viali ricchi di edifici neoclassici e allietati da aiole fiorite. In passato la presenza della flotta sovietica del mar Nero, sostituita ora da quella russa, ha portato ricchezza e benessere; il futuro appare incerto ma per ora la bandiera russa sventola ovunque.

Al di fuori della Crimea, Odessa ha rappresentato l’inizio e la fine del mio itinerario. La città è stata fondata solo alla fine del Settecento quando la regione fu sottratta ai turchi. La zarina Caterina incoraggiò l’immigrazione da tutta l’Europa, contribuendo a creare una popolazione cosmopolita con un forte elemento ebraico. In poco tempo, grazie alle attività commerciali del porto, Odessa divenne la terza città dell’impero zarista, arricchendosi di edifici monumentali e splendidi viali alberati. Dopo la caduta del comunismo, oggi sta riacquistando il “tempo perduto”, tornando a essere un luogo piacevole da godersi passeggiando senza pensieri. Anche in questo caso, come in Crimea, l’elemento russo prevale su quello ucraino, ma per il visitatore occidentale è difficile accorgersene.

La curiosità e la vicinanza a Odessa mi hanno spinto a fare una puntata anche in Moldavia, considerata la nazione più povera d’Europa. Durante un fine settimana ho fatto in tempo a visitare Chisinau e il sito di Orheiul Vechi. La capitale non mi è parsa così povera come viene dipinta. Ho incrociato pochissimi mendicanti, auto moderne, gente dignitosa, bella gioventù con ragazze dalle minigonne cortissime. Il centro è pulito e ordinato, con molti viali alberati e bei parchi. Anche le strade in Moldavia mi sono sembrate migliori che in altre repubbliche ex-sovietiche, ma ho percorso solo una piccola parte del paese e si sa che lo sguardo del visitatore a volte può essere molto superficiale. Sicuramente la Moldavia mi è parsa a forte vocazione rurale, ma anche per questo priva di certe mostruosità legate all’industrializzazione selvaggia. Una sorpresa sono state le belle case dei villaggi nelle campagne.

Ed ora il diario di viaggio.

Sabato 23 giugno: Odessa – Chisinau

La mattina, raggiunta Odessa via Istanbul, sfrutto il tempo a disposizione per ritirare i biglietti dei treni acquistati su internet. Lungo il percorso in taxi dall’aeroporto non incrocio i soliti casermoni del mondo ex-sovietico, ma solo edifici un po’ malmessi. In stazione, chiedendo in giro, trovo subito lo sportello al quale trasformare i voucher in “biglietti reali”. Alla stazione dei bus l’operazione è un po’ più complicata: anche in questo caso ho un voucher per il bus Odessa – Chisinau, ma una cassiera mi segnala il posto sbagliato, scrivendomi un indirizzo in cirillico al quale corrisponde un ristorante. In realtà ero nell’edificio giusto, ma dovevo solo cambiare sportello. Fa un caldo notevole.

Il bus per Chisinau parte puntuale alle undici; è mezzo vuoto, con varie famiglie con bambini. Per lasciare l’Ucraina attraversiamo paesaggi piatti e monotoni, in mezzo a distese coltivate spesso ingrigite dalla recente mietitura del grano, finché scavalchiamo un fiume imponente: è il Dniestr. Il giro che stiamo facendo serve per evitare la Transnistria, regione secessionista della Moldavia, che si trova proprio tra il confine ucraino e il fiume. Proseguendo verso nord seguiamo la sponda del fiume. La campagna non è bella: c’è sempre qualche traliccio arrugginito della rete elettrica a intristirla. Poco dopo raggiungiamo il posto di controllo ucraino prima del confine, un casotto lungo la strada. Un poliziotto raccoglie i passaporti, mentre i passeggeri rimangono a bordo. I finestrini del bus sono sigillati (a parte una striscia in alto che si apre a compasso) e l’interno presto diventa una vera sauna; solo l’autista si azzarda a scendere e non oso seguire il suo esempio. Il bambino al mio fianco gioca con una macchinetta di Saetta McQueen, personaggio del film “Cars”, proprio come mio figlio in Italia, effetti della globalizzazione. Dopo quaranta minuti ritornano i passaporti; siamo salvi, possiamo andare! Ora il fiume corre proprio a fianco della strada e qualcuno pesca con la canna. Il posto di controllo moldavo è un piazzale con una pensilina e questa volta nell’attesa ci sediamo sulle panchine all’ombra. In un casotto faccio pipì a pagamento in un buco. Quando ripartiamo controllo l’orologio: il passaggio del confine è durato più di due ore. Subito facciamo una breve sosta nel paesino di Palanka, per acquistare un po’ di frutta da un gruppo di donne che si sono appostate lungo la strada. Le casette hanno parti di legno e sono carine, con tetti spioventi decorati da una specie di puntale. Insieme al paesaggio, ora più collinare, mi sembra che siano cambiati anche i volti della gente, non più slavi. Ogni tanto i campi di grano cedono il posto a vigneti, seguiti poi da immense distese di girasoli e alberi da frutta. Quando riprende la pianura, procediamo spediti su una buona strada; il traffico è scomparso, ci accompagnano due filari di alberi. Dal bus la Moldavia non sembra poi così povera; certamente è un paese rurale e per questo senza certe mostruosità, opera dell’uomo. Tuttavia, se è considerato il paese più povero in Europa, ci sarà un motivo e non ho certo la pretesa di comprendere una nazione guardandola dal finestrino di un autobus! Nel frattempo i campi di grano diventano un mare giallo. Nella cittadina di Causeni le insegne sembrano in italiano, a ricordarmi che il moldavo e il romeno sono lingue neolatine. In molti paesi, noto la presenza di un pozzo, spesso affiancato da un crocefisso tutto colorato riparato da una tettoia.

Finalmente il traffico e alcune ciminiere annunciano l’avvicinarsi della capitale. La comparsa di grandi casermoni è il segno inequivocabile che siamo arrivati! Due palazzi a gradoni, sui lati della strada, formano una sorta di triste portale della città. Prima di raggiungere la stazione nord degli autobus, nostro punto di arrivo, attraversiamo un’area periferica con grandi fabbriche abbandonate che cadono a pezzi. Il viaggio è durato cinque ore. In stazione acquisto senza problemi il biglietto del bus notturno di dopodomani per Simferopol in Crimea: il giovane allo sportello parla inglese.

A Chisinau ho prenotato due notti in un appartamento. Marisha ha gestito tutti i contatti in modo efficiente dall’Inghilterra, dove ora vive; ad accogliermi trovo la mamma che parla solo russo e moldavo. L’appartamento si trova al settimo piano di un palazzone; l’interno risistemato è piacevole, mentre le oscillazioni dell’ascensore sono un po’ inquietanti. Con due passi raggiungo piazza dell’Indipendenza (già piazza della Libertà), dove sorge il Monumento ai Lottatori e Liberatori, innalzato nel 1969 come tributo all’Armata Rossa che liberò la Moldova dall’occupazione nazi-fascista. Una donna si protende in avanti con le braccia allargate, in segno di liberazione, vigilata da un soldato. Sulla piazza sorge l’hotel Chisinau, uno dei principali della città, mentre il grande edificio che ospitava il National giace in stato di abbandono con tutte le finestre prive dei vetri.

Dalla piazza inizia Boulevard Stefan Cel Mare, asse principale di Chisinau, nel primo tratto non privo di brutti casermoni dell’epoca sovietica, poi ricco di edifici risalenti all’impero zarista, anche se con un tocco provinciale. In versione molto ridotta, mi ricorda viale Rustaveli di Tbilisi in Georgia. Una deviazione mi porta fino al Museo Nazionale delle Armi; nel giardino di un palazzo è ospitata una piccola collezione di armi e mezzi corazzati risalenti al dopoguerra, eredità sovietica. Un cannone è utilizzato come “addobbo” della birreria che si è installata nel cortile. Il Boulevard raggiunge poi piazza delle Grandi Adunate Nazionali, vero centro cittadino. Davanti al palazzo, un tempo sede del partito comunista moldavo, si tenevano le manifestazioni di massa dell’era sovietica, mentre oggi sono stati allestiti i maxi-schermi per gli europei di calcio, una sorta di villaggio sportivo con birrerie all’aperto. Sull’altro lato della piazza sorge l’ottocentesco Arco di Trionfo, uno dei pochi monumenti sopravvissuti alle distruzioni della seconda guerra mondiale, costruito per commemorare le vittorie zariste contro i turchi. Nel parco subito dietro si trova la cattedrale della Nascita di Nostro Signore. L’esterno neoclassico, con colonnato, timpano e cupola, nasconde all’interno una tipica architettura ortodossa, con le pareti coperte di affreschi, l’iconostasi dorata e un grande lampadario che pende dal soffitto. Tutto però è troppo nuovo per essere affascinante: la ricostruzione della chiesa è terminata solo nel 1996.

In un angolo della piazza sorgeva la statua di Lenin, ma ormai è stato sostituito da Stefan Cel Mare (1433-1504), il più grande sovrano della Moldavia, autore di mirabili vittorie contro gli ottomani. Stefano il Grande solleva una croce e regge uno spadone; la corona e il mantello lo fanno somigliare al re delle carte da poker, ma i baffoni gli conferiscono un’aria più austera. Una targa ricorda che la statua è stata installata nel 1990, subito dopo il crollo del comunismo. Dietro si apre l’ingresso di un altro parco, un piacevole spazio ombreggiato da alberi. Nei vialetti con busti di moldavi famosi, per me emeriti sconosciuti, i giovani siedono sulle panchine sfruttando la Wi-Fi per collegarsi a internet e le prese elettriche per ricaricare le batterie. Una grande fontana assomiglia a una torta nuziale multilivello e ben si presta a fare da sfondo alle foto di spose e invitate. Alcune indossano scarpe con tacchi vertiginosi che nessuna oserebbe in Italia! Questi due parchi nel cuore del centro cittadino costituiscono senz’altro l’elemento più piacevole di Chisinau, apprezzato da persone di tutte le età, inclusi i bambini che hanno a disposizione vari spazi giochi.

Per cena scelgo il caffè del museo delle Belle Arti; nel piacevole cortile la cena è accompagnata dalla musica dal vivo.

Domenica 24 giugno: Chisinau – gita a Orheiul Vechi

Giornata dedicata a una gita a Orheiul Vechi, sito ricco di storia per le popolazioni che si sono succedute nel corso dei secoli. Il bus per l’attuale città di Orheiul parte dalla stazione centrale e corre spedito. Scendo al bivio per Ivancea; un tizio dorme in macchina e non si scompone al mio arrivo. Chiedo a una signora dove posso trovare un taxi per Butuceni, il villaggio con le attrattive principali e lei mi indica proprio la macchina. Svegliato il dormiglione, mi accordo sul prezzo per sessanta lei (circa quattro euro). Altre tre persone approfittano della situazione per farsi portare in auto a Ivancea. In Moldavia il turismo è inesistente: in un altro paese il tassista avrebbe subito abbordato il “ricco occidentale”, cercando di accordarsi anche per il ritorno.

L’area di Orheiul Vechi, frequentata da millenni, è costituita da due promontori ciascuno limitato su tre lati da un’ansa del fiume Raut. Il tassista mi porta fino al promontorio di Butuceni, il più stretto. Subito un cartello segnala che sul vasto pianoro sono state individuate tracce di fortificazioni risalenti a popolazioni tracio-geto-dace (X-II sec. a.C.), insieme a una cittadella e a un santuario, ma non riuscirò a individuarle. Per primo raggiungo un cimitero; un’edicola protegge un crocefisso di legno tra due donne dipinte (probabilmente Maria e Maddalena), mentre sotto è attaccata una scaletta con due piccoli birilli appesi! In mezzo alla spianata sorge un moderno campanile, bianco con il tetto di ardesia; di fianco una croce in pietra, a picco sul fiume, sovrasta le grotte un tempo abitate dai monaci. Sul lato opposto le case dai tetti grigi del paese di Butuceni sembrano nascondersi tra gli alberi. Proseguendo nel pianoro raggiungo la chiesa dedicata all’Ascensione di Maria, riedificata dopo essere stata distrutta dai sovietici nel 1944. Tutto intorno sono ancora in corso i lavori per sistemare gli edifici destinati ai monaci. La candida costruzione è sormontata da due piccoli campanili, con cupolette a cipolla decorate da stelle dorate su sfondo azzurro. La chiesa è affollata per la funzione domenicale: donne con il fazzoletto in testa riempiono tutti gli spazi fino all’ingresso, non riesco nemmeno a entrare! Nel frattempo è spuntato il sole a illuminare il bel paesaggio: il fiume con le sue anse fa inversione di marcia proprio davanti al pianoro. Tutto intorno monti rocciosi, in basso la piana coltivata. Sceso fino a Butuceni, passeggio tra case con verande di legno e bei tetti spioventi di tegole di ardesia. Un pozzo in pietra è coperto da un tavolato di legno e una coperta. Una casa è stata trasformata in un museo, che riproduce una tipica abitazione contadina. L’edificio principale, destinato alla residenza, ha un bel tetto di giunchi; al suo interno un piccolo telaio e sulle pareti tappeti con disegni geometrici. Nel cortile, un locale a volta in pietra era utilizzato per conservare il vino, a fianco si trova la cucina, mentre una piccola costruzione con tetto di giunchi forse era un pollaio.

Risalito sul pianoro, vicino al campanile incontro un gruppo di turisti tedeschi. Ne approfitto per chiedere alla loro guida dove si trovi il monastero rupestre, considerato la principale attrazione di Orheiul Vechi. Mi indica una porta chiusa proprio sotto il campanile che aprirà solo alle undici. Chiedo anche notizie sul villaggio medievale segnalato nelle guide, ma mi risponde che è sparso sul pianoro; i resti però mi risultano di difficile individuazione. Nell’attesa torno alla chiesa; ora è meno affollata e riesco ad affacciarmi. Il pope dalla barba bianca tiene in mano la croce mentre predica; una donna copre i pantaloni con una gonna improvvisata.

L’attesa si prolunga e mi siedo all’ombra del campanile insieme alle comitive locali. Un ragazzo parla inglese e mi conferma che l’apertura sarebbe prevista per le undici ma l’orario è solo indicativo. Un belga, che lavora a Chisinau, sta facendo una gita accompagnato da una guida moldava che va a informarsi al monastero. I monaci devono prima completare la cerimonia, poi verranno ad aprire. Ne approfitto per visitare il cimitero subito davanti. Le tombe sono molto semplici: spesso le croci sono formate da due tubolari incrociati che terminano con una “decorazione” a tre cerchi. Alcune sono ortodosse, con il secondo braccio diagonale, altre hanno l’aspetto delle nostre. La guida del belga mi spiega che il bagno turco e il “famoso” villaggio medievale in realtà si trovano verso il paese di Trebujeni.

A mezzogiorno finalmente arriva un monaco dalla lunga barba vestito di nero ad aprire la porta. La cappella rupestre nell’Ottocento divenne la chiesa parrocchiale del villaggio e per raggiungerla più agevolmente fu realizzato il tunnel con la scala che costituisce l’attuale ingresso. Tutto il complesso è scavato nella roccia. Nell’ambiente principale la luce proviene dalle finestre verso la gola; uno spazio laterale ospita l’iconostasi di legno intarsiato e un pilastro centrale. Uscendo verso il fiume, un terrazzamento consente di affacciarsi di sotto. Un ultimo ambiente dal soffitto basso è suddiviso da pareti in piccole celle, destinate sicuramente al riposo dei monaci.

Ormai ho completato la mia esplorazione del pianoro di Butuceni; ridiscendo quindi a valle fino all’edificio sulla strada che ospita un piccolo museo. Nelle vetrine sono esposte statuette antropomorfe in terracotta (IV-III millennio a.C.), ceramiche della cultura tracio getica (VII-II secolo a.C.), oggetti in osso del periodo mongolo dell’Orda d’Oro (XIV secolo). Al museo acquisto una guida in inglese con l’indicazione delle varie attrattive della zona. Se la avessi presa prima…

Il bus per Chisinau partirà solo alle quattro e in giro non si vedono taxi; decido quindi di continuare le esplorazioni a piedi. La ragazza della biglietteria mi dà qualche consiglio. Percorrendo la strada dalla quale sono arrivato con il taxi, il costone di Butuceni mi appare tutto costellato dai buchi scavati dai monaci nel corso di secoli. Risalgo poi il promontorio di Pestera, sul quale sorgeva la città medievale di Sehr Al-Cedid (Nuova Città), fondata nel 1330 durante il dominio dell’Orda d’Oro. Dopo che i mongoli abbandonarono la regione (1369), l’area assunse il nome di Orheiul e fece parte del regno di Moldavia, prosperando sotto Alessandro il Gentile (1400-1431) e Stefano il Grande (1457-1504), finché nel XVI secolo la popolazione si trasferì nell’attuale città di Orheiul. In cima, in corrispondenza del bivio per Trebujeni, si trovano i resti della cittadella centrale. Oggi è tagliata dalla strada ed è sopravissuta solo una parte delle mura in pietra che la recintavano con l’evidenza delle torri circolari. Il palazzo è stato di nuovo interrato, mentre l’edificio dove sono stati trovati due cannoni dell’epoca di Stefano il Grande è poca cosa. Lo spettacolo migliore lo offre il panorama sul paese di Trebujeni, oltre il fiume: le case hanno tetti di ardesia che spuntano in mezzo al verde, la chiesa è una macchia gialla e azzurra. Sopraggiungono due ragazzi, uno con una grande falce sulle spalle. Decido di proseguire verso Trebujeni; in mezzo ai campi raggiungo i resti di una grande moschea risalente all’epoca dell’Orda d’Oro, nient’altro che le basse mura di un quadrilatero. Più pittoresca è la chiesa, dalle forme mosse: le mura, conservate per un’altezza di un metro e mezzo, permettono di riconoscere bene la pianta con le due absidi sui lati corti (XIV-XVI sec.). Disceso al Raut, prima del paese incrocio i resti di un grande bagno termale tartaro. Le mura bianche risplendono al sole, mostrando una pianta articolata in molti ambienti. I pavimenti non ci sono più, lasciando scoperto il sistema di riscaldamento a ipocausto.

A Trebujeni trovo il solito crocefisso: Maria e Maddalena ai lati, in basso una scala con martello, tenaglie e un teschio, sopra due angeli. Il monumento ai caduti del 1941/5 parla di un’armata “romana”, facendomi sorgere il sospetto che commemori i caduti della “parte sbagliata”! A quei tempi la Moldavia faceva parte della Romania e i romeni combatterono a fianco dei nazisti. L’interno della chiesa cade a pezzi. Con un colpo fortunato, scopro che alle tre è previsto un bus per Chisinau e non mi lascio sfuggire l’occasione per tornare “comodamente” nella capitale.

A Chisinau raggiungo subito il Museo Nazionale di Etnografia e Storia Naturale. Ospitato in un grande edificio, espone materiale molto eterogeneo. Dopo alcune belle borracce di legno e pelle, seguono una serie di animali impagliati tra cui un imponente avvoltoio. Un grande plastico della Moldavia consente di apprezzare come la Transnistria, tra le due guerre mondiali unita all’Urss mentre la Moldavia era sotto la Romania, sia veramente una striscia sottile di terra. Il fiume Prut segna il confine con la Romania. Una targhetta indica ogni paese; individuo Trebujeni e riconosco la bianca chiesa di Butuceni. Una sala è tutta affrescata con una biosfera, una rappresentazione simbolica della natura e della storia umana, sintetizzata dai templi antichi fino ai grattacieli moderni, mentre il cielo si squarcia per fare spazio a una donna di luce. Al piano di sotto si passa alla preistoria, con le varie ere geologiche durante gran parte delle quali la Moldavia era sommersa dal mare. Una grande vertebra cervicale apparteneva a un Diplodoc, un femore a un Tarbosaurus, ma il pezzo forte è l’intero scheletro di un Deinotherium! L’esemplare di questo gigantesco elefante estinto è stato scoperto nel 1966; aveva le zanne ricurve verso il basso e mangiava quattrocento chili di vegetali al giorno. Il museo è piacevole; spesso le pareti sono dipinte in tema con gli argomenti. Si passa poi ai primi manufatti umani del neolitico. All’età del bronzo appartiene un idolo di pietra con una testa da marziano (cultura tracio getica). Si risale in una grande sala affrescata, dove i personaggi con costumi tradizionali riproducono la scena di una festa popolare danzante. La sala centrale ha un soffitto con vetri colorati stile art noveau. Il giro termina con una serie di radio a valvole, uguali a quella di mio nonno. Il museo chiude alle sei, ma l’ultimo ingresso è previsto mezzora prima. Un custode mi dice qualcosa in tono arrabbiato. All’uscita chiedo la toilette (sono le 17:30) ma mi rispondono seccati che non c’è, poi appena esco chiudono il museo e se ne vanno tutti.

La sera in piazza della Grandi Adunate la gente si prepara alla partita Italia – Inghilterra. Qualcuno ha portato con sé l’union jack. Nell’attesa i maxi-schermo sono già accesi e la musica rap è a palla, mentre i giovani bevono birra ai tavoli degli stand. La luce del sole illumina ancora la bandiera moldava, uguale a quella romena ma con lo stemma nazionale in mezzo. L’aquila moldava sopra il palazzo del governo ha sostituito la stella comunista. Una pietra scura segnala il luogo sul quale sorgerà un monumento alle vittime del comunismo.

Lunedì 25 giugno: Chisinau – bus notturno per Simferopol

La cattedrale del Grande Santo Martire Teodor Tiron (1858) nei pressi di piazza dell’Indipendenza presenta la classica struttura, con il campanile a punta davanti e la cupola a cipolla dorata dietro. Sono le nove del mattino di lunedì ed è in corso la messa; i fedeli sopraggiungono alla spicciolata. All’interno sulle pareti gli affreschi sono anneriti, la bella iconostasi ha dipinti in stile rinascimentale, mentre una grande icona della Madonna coperta di argento lascia intravedere solo l’incarnato scuro. Durante la messa cantata, i fedeli s’inginocchiano davanti alle icone baciando per terra. Il sacerdote prende il vangelo con la copertina di argento, lo bacia e ne inizia la lettura cantata.

Al mercato centrale faccio colazione per pochi lei. In quello che un tempo era il mercato kolkosiano della città si trova di tutto, ordinatamente diviso per settore. I banchi dei latticini sono pieni di formaggi freschi ma i più numerosi sono quelli della verdura, dove donne grassocce vendono i loro prodotti. Tornato su Boulevard Stefan cel Mare, rivedo i suoi edifici monumentali: il Teatro Nazionale, la Sala del Grande Organo davanti alla quale una bancarella è stata allestita proprio sotto uno dei due leoni, il giardino del Vernissage con il mercatino di quadri e cianfrusaglie. Il grande Palazzo del Municipio, giallo e bianco, è in stile gotico veneziano con tanto di torre con l’orologio (1902). Nella piazza delle Grandi Adunate la statua di Stefan questa volta è in pieno sole e sembra alzare la croce al cielo in segno di trionfo contro il comunismo che in passato regnava nella piazza. Proseguendo sul Boulevard, i palazzi del parlamento e delle presidenza sono due edifici moderni multipiano, insolite sedi per le istituzioni. Tornando sui miei passi, raggiungo, lungo la strada intitolata a Puskin, la chiesa di Santa Teodora costruita nel 1895 in stile neobizantino da un architetto italiano. L’interno dopo il nartece presenta un unico ambiente, un grande quadrato con le pareti coperte di affreschi dall’aspetto moderno. Dalla bassa cupola veglia il Pantocrator, mentre il grande lampadario nel mezzo è veramente brutto. Il pavimento di marmi colorati appare troppo lucido. Proseguendo nella mia passeggiata raggiungo il Museo Archeologico. Davanti, la lupa con i gemelli ricorda la Dacia Traiana. Il museo purtroppo è chiuso per lavori di ristrutturazione e non posso vedere i reperti trovati a Orheiul.

Allontanandomi dal centro, percorro la strada Ismail, trafficato asse cittadino, fino al Monumento alla Gloria Militare, costruito nel 1975 per commemorare il trentesimo anniversario della vittoria sul nazismo. Al centro della vasta area si leva la Piramide delle Cinque Armi, simboleggiate dagli altrettanti pilastri color ruggine che la costituiscono. In mezzo la fiamma eterna è guardata da due soldati. Grandi bassorilievi raffigurano soldati della Guerra Patriottica del 1941-45. Alcune lapidi ricordano i caduti, diventati poi eroi per l’Unione Sovietica. Dopo l’indipendenza è stato aggiunto un altro monumento, molto più piccolo, dedicato ai caduti nel 1992 “per l’integrità nazionale”, durante la guerra con la Transnistria. Da lontano sembra la raffigurazione di una Madonna con il Bambino, ma avvicinandomi scopro che il volto di donna con i capelli al vento stringe in realtà un piccolo Cristo con una corona di spine, mentre una lacrima le riga una guancia.

Terminata la visita, vorrei raggiungere il MoldExpò, nel quale ho letto è stata confinata la statua di Lenin. Chiedo a una giovane passante: parla inglese e mi segnala la giusta combinazione di bus. Tornato in centro, il bus #127 mi porta direttamente a destinazione. In un grande parco sono stati costruiti vari edifici per ospitare esposizioni ma oggi in giro non c’è anima viva. La statua di Lenin in granito, che si trovava al posto di Stefan, è stata trasferita nel piazzale davanti all’edificio principale. Un laghetto è sfruttato dai locali per prendere il sole e fare il bagno.

Ormai è venuto il momento di raggiungere la Crimea, destinazione principale del mio viaggio, anche se mi spiace lasciare la Moldavia: in pochi giorni mi sono affezionato a questo piccolo paese. Il pomeriggio il bus per Yalta parte puntuale alle quattro; è un granturismo con aria condizionata, finestrini sigillati e sedili comodi (per fortuna visto che ci dovrò passare quindici ore!). Durante il tragitto verso Odessa rivedo due elementi caratteristici dei paesi moldavi: il pozzo e il crocefisso con le due donne di fianco e il teschio di sotto. Procediamo lenti e l’aria condizionata è del tutto insufficiente a rinfrescare il mezzo. La modernità a volte fa solo danni: sarebbe molto più semplice poter aprire i finestrini, senza arrivare ai bus indiani privi di vetri! Fa un caldo tremendo e così lo spettacolo che mi scorre davanti agli occhi dal finestrino mi coglie in una sorta di stordimento con la mente che vaga come nel dormiveglia: le sterminate distese coltivate e il dondolio del lento procedere del bus contribuiscono alla mia catalessi, senza mai concedermi il dono del sonno.

Finalmente raggiungiamo il confine. Vediamo quanto impiegheranno a controllare cinquanta passaporti! I moldavi sono velocissimi e i passaporti tornano indietro dopo soli venti minuti, ma poi bisogna aspettare un altro quarto d’ora per la sosta pipì. Gli ucraini sono molto più lenti, impiegano il doppio del tempo. Alla fine questa volta le operazioni per passare il confine hanno richiesto un’ora e mezzo.

Controllando i timbri sul passaporto mi accorgo che i valichi di frontiera sono diversi rispetto all’andata. Nei piatti paesaggi agricoli, non mi ero accorto di alcuna deviazione. Procediamo verso nord (!) quando ripassiamo un punto di confine (Udobne) tra Ucraina e Moldavia, per fortuna senza dover subire altri controlli. Sulla destra, a est corre un fiume; passano altri cinque minuti e ripassiamo un altro confine. Ora sulla sinistra riconosco il Dniestr; dovremmo essere sulla strada dell’andata che costeggia il fiume. Sulla sponda qualcuno si è appostato con le tende. Quando alle nove scavalchiamo il Dniestr, il sole basso sull’orizzonte si nasconde dietro le nuvole. Passa mezzora e finalmente raggiungiamo la stazione di Odessa, dove ci fermiamo per una sosta molto gradita.

Martedì 26 giugno: Bakhchisaray

La notte in bus trascorre tra le varie fermate nelle stazioni, durante le quali tutti i passeggeri ne approfittano per scendere a prendere un po’ di fresco. La mattina alle cinque è già giorno. Quando il sole sorge, abbiamo cambiato direzione di marcia: procediamo verso sud in mezzo a sterminate praterie. Alle sette, puntuali dopo quindici ore di viaggio, arriviamo a Simferopol, capitale della Crimea e nodo centrale dei trasporti per tutte le principali località della regione. L’autista mi segnala il mezzo per Bakhchisaray e dopo dieci minuti sono di nuovo in viaggio. Questa volta il tragitto è breve e dopo quaranta minuti sono già arrivato a destinazione. Il marshrutka per il centro passa proprio davanti alla stazione. Scendo lungo Lenina, asse principale della città, all’altezza del palazzo del khan. La guesthouse “Dilara Hanum” si trova alla fine di una strada che risale un versante della vallata; naturalmente non c’è nessuna insegna e per individuarla non mi resta che chiedere in giro. E’ gestita da una famiglia tartara e la padrona di casa mi accoglie con un caffè turco, molto gradito dopo la notte in bus.

Bakhchisaray è stata per secoli la capitale del khanato tartaro di Crimea. Il monumento più rilevante è proprio il palazzo del khan, insieme al Topkapi di Istanbul e all’Alhambra di Granada l’unica reggia di un sultano islamico in Europa. L’ingresso attuale si apre su Lenina: il portale, coperto da un tetto sporgente, è intonacato di bianco con due affreschi geometrici attorno alla trifora centrale. Sopra i corpi laterali sporgono alti camini in pietra. Una volta entrato, mi trovo davanti a una grande corte, la Piazza del Palazzo. Nonostante molti edifici siano stati distrutti dopo la conquista russa, ancora oggi il colpo d’occhio è affascinante: sembra di tornare in un antico mondo perduto dal sapore turco. A destra sorgono i principali edifici residenziali, mentre a sinistra si trova la grande moschea.

Inizio la mia visita dalla parte residenziale. La Corte degli Invitati è rallegrata da un giardino con due fontane; quella addossata a una parete è un’edicola con una specie di bifora e getta l’acqua in una vasca con due fiori a bassorilievo. L’elemento più bello è il Demir Qapi (Porta d’Oro), progettato dall’architetto veneziano Alvise Lamberti da Montagnana (1503-4). Invitato a Mosca per costruire un tempio nel Cremlino, durante il viaggio fu arrestato insieme agli altri componenti della spedizione dal principe di Moldavia Stefan cel Mare, a causa dei suoi dissidi con Mosca. Solo l’intervento del khan tartaro Menli Giray riuscì a ottenere il rilascio dei prigionieri. Raggiunta Bakhchisaray, l’architetto si trattenne per un anno, costruendo in segno di ringraziamento il magnifico portale, una vera commistione di stili e culture. Nelle linee potrebbe essere la porta di una nostra chiesa rinascimentale, mentre nelle decorazioni ricorda certi fregi dell’arte classica, con fiori, foglie e vasi bianchi su sfondo rosso. Le due iscrizioni dorate in arabo riportano all’elemento islamico; il tridente in mezzo all’iscrizione centrale è il tamga, simbolo della dinastia Giray. Passo poi alla divan hall, cuore della vita politica del khanato. Nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, l’assemblea del popolo vi proclamò il governo della nazione indipendente dei tartari, destinato ad avere vita breve. Oggi solo una parete ha conservato gli affreschi originali, delicati vasi tra finestre traforate, mentre il soffitto di legno dipinto mantiene il suo splendore. In un angolo della successiva corte coperta, la delicata Fontana d’Oro reca iscrizioni dorate su un marmo candido; una di esse, citando il corano, ricorda il dono divino dell’acqua pura. Nella corte si trova la maggiore attrazione turistica del complesso, la Fontana delle Lacrime. Costruita nel 1764, non è certo la più bella: le due rose, rossa e gialla, le conferiscono un certo tocco da cimitero. La sua notorietà è legata alla romantica vicenda immortalata da Puskin nel poema “La Fontana di Bakhchisaray”. Il khan Qirim Giray, coraggioso guerriero, s’innamorò perdutamente di Dilara, tanto da considerare la bella principessa la gemma più preziosa di tutta la sua vita. La felicità del khan tuttavia durò poco perché una donna dell’harem, gelosa, avvelenò la povera Dilara. Qirim Giray fece costruire un mausoleo per la sua amata, che visiterò più tardi, e vi collocò accanto la fontana, trasferita solo più tardi nella corte dove si trova attualmente. Nel passaggio dell’acqua da una vaschetta all’altra, si è voluto individuare un preciso simbolismo. Il grande fiore di marmo rappresenterebbe un occhio dal quale stillano le lacrime, che riempiono la coppa del cuore di dolore e tristezza (la tazza più in alto nella fontana). Il tempo allevia le pene del cuore e il dolore (la coppia di vaschette più piccole) ma il ricordo ravviva la pena di nuovo (la grande coppa nel mezzo). Così sarà finché avrà fine il pellegrinaggio in questo mondo e si arriverà alla soglia dell’eternità (la spirale in basso). In realtà si tratta solo di una spiegazione leggendaria. La figura di Dilara stessa è avvolta nel mistero: la sua immagine come una giovane bellissima è solo una leggenda. Il fatto che sia sta sepolta in un mausoleo speciale lascia pensare piuttosto che si tratti di una donna morta in tarda età, venerata per la sua pietà. Da un lato della corte accedo all’incantevole summer house, una veranda con divani disposti su tre lati, finestre a vetro, una fontana nel mezzo e un bel soffitto di legno. Completa l’insieme la piccola moschea del khan, con il mihrab multicolore e le pareti a rombi verdi. Passando in un altro giardino, raggiungo l’harem; oggi si presenta come un grande edificio dalle pareti colorate di legno, ma in realtà è sopravissuto solo uno dei quattro palazzi, quello destinato alla madre e alla moglie più vecchia. Quanto si vede nelle tre sale è frutto di ricostruzioni: il salotto più bello ha un caminetto e un soffitto di legno colorato con stelle raffigurate dentro quadrati.

Terminata la visita della parte principale del complesso, dalla Corte degli Invitati raggiungo una serie di sale, un tempo utilizzate come salotti, nelle quali è stata allestita una mostra della cultura tartara: libri in arabo, vesti tradizionali, foto d’epoca. Un grande piatto d’ottone ritrae un guerriero con elmo a punta su un cavallo con corazza; intorno sono raffigurate capre, uccelli e altri guerrieri. La sala allestita come un salotto delle donne espone un telaio, un abito tradizionale e una culla. L’affollamento di turisti è notevole.

Tornato nella piazza centrale, posso ammirare le raffinatezze della summer house anche dall’esterno. La grande moschea è tornata in funzione, dopo essere stata chiusa ai tempi del comunismo. Per entrare mi tolgo le scarpe; un signore sta insegnando il corano a due bambini. Il vasto ambiente dall’aspetto semplice ha un insolito soffitto piatto di legno scuro; leggendo le spiegazioni apprendo che non è originale, poiché, un tempo, la moschea era coperta da una selva di cupole. I due minareti, alti quasi trenta metri, costituiscono un elemento di riferimento nella città. A fianco della moschea si trova il cimitero dei khan. Subito incrocio la tomba di Qirim Giray (1717-1769), il khan della Fontana delle Lacrime, il cui regno fu un’epoca di grande fioritura artistica, una sorta di “rococò della Crimea”. Molte tombe sono semplici sarcofagi dai quali si levano due lapidi; quella sormontata dal turbante reca l’iscrizione, a volte nella forma di un poetico epitaffio. Dietro il cimitero si trova l’hamman Sari Guzel (“Bellezza Gialla”), in funzione per quattrocento anni fino al 1924, quando era ancora in uso dai cittadini. Oggi l’interno appare molto rifatto: ci sono persino le prese elettriche!

Dalla piazza centrale per accedere alla Torre del Falcone devo pagare ancora un biglietto, ma la vista dall’alto giustifica la spesa: subito sotto il palazzo dell’harem e la Sala d’Estate, dietro la grande piazza e sullo sfondo le montagne rocciose che chiudono la vallata, con le case di Bakhchisaray che risalgono fino a metà altezza dove il verde cede il posto alla roccia. Dall’alto i tetti rossi di tegole appaiono molto pittoreschi. I khan erano grandi appassionati della caccia con il falcone e per questo la parte più alta della torre, seconda per altezza solo ai minareti, è una grande voliera di legno con pareti chiuse a graticcio.

La mia visita del complesso è ormai completata. Dietro si trova un parco dedicato ai caduti della seconda guerra mondiale, collocato in questa posizione non per caso dai sovietici, sul posto dove un tempo sorgevano i magnifici giardini del palazzo. In un angolo in fondo sorge il semplice mausoleo (durbe) di Dilara Bikec. Qui si trovava originariamente anche la Fontana delle Lacrime.

Prima di proseguire la mia esplorazione di Bakhchisaray mi rifocillo con un chebureski (fagottino ripieno di formaggio), comprato a una bancarella; è l’una e il muezzin fa sentire il suo richiamo dai minareti. L’islam dei tartari è reale: in una piccola moschea, lungo la strada verso la città rupestre, dalla porta socchiusa intravedo un fedele che invoca Allah, inchinandosi davanti al mihrab. Durante la scarpinata, incrocio molte case distrutte; un tizio è seduto su un muretto tamponato da una pila di sacchi di sabbia. Alla fine raggiungo un’area nella quale sono in corso scavi archeologici. Il mausoleo in pietra bianca ospita le tombe dei primi khan della Crimea, quando i sultani non erano ancora vassalli degli ottomani, ma comandavano un vasto impero erede dell’Orda d’Oro mongola. Il portale presenta belle decorazioni con corde intrecciate. Nei pressi sorgerà un memoriale dedicato a Gasprinsky, intellettuale tartaro promotore della modernizzazione del suo popolo tra Ottocento e Novecento. Nella medersa Zyndzhyrly, anch’essa in pietra chiara, attorno alla corte centrale si aprono le celle che oggi ospitano un’esposizione. Tra le ceramiche il pezzo più bello è un vaso con due teste; quella grande di sileno, con foglie di uva tra i capelli, fa da corpo, quella più piccola di donna, funge da becco (250 d.C.). Uscendo non mi accorgo della catena che pende in mezzo alla porta e prendo una bella testata. Subito incolpo l’incuria dei lavori in corso, per poi scoprire che la catena si trova in quella posizione non per caso: tutti, inclusi i khan, dovevano chinarsi entrando nella casa di Dio. Sono stato punito per avere peccato di orgoglio! Una targa ricorda che la medersa è stata restaurata nel 2009 grazie a fondi turchi.

La mia passeggiata prosegue raggiungendo il monastero Uspenski, costruito addossato alla parete rocciosa della gola. Dal basso si vede solo la scala che porta a un portale coperto da una cupola dorata, scavalcato il quale la vista si apre sulla costruzione scavata nella roccia, sormontata da mosaici (o dipinti?) che raffigurano la Madonna con il Bambino tra santi dai paramenti orientali. Anche se molto più piccolo, il monastero mi ricorda quello di Ostrog in Montenegro. Il colpo d’occhio è bello, con la gola rocciosa costellata di buchi. In basso, nel fondovalle è in costruzione una grande chiesa, la cui cupola dorata già splende al sole; speriamo che non si esageri con i nuovi edifici rovinando lo spettacolo naturale. La scala per raggiungere la chiesa termina davanti a una porta chiusa, dove la gente si affolla con le candele in mano. Un serafino di sole ali è scolpito a fianco dell’ingresso; il volto è insolitamente pensoso. Finalmente la porta viene aperta. Una breve scala porta in un ambiente scavato nella roccia. Il pavimento moderno a mosaico è brutto, mentre il soffitto di pietra grezza, alto un paio di metri, conferisce un certo fascino al luogo. In fondo l’iconostasi è anch’essa di pietra; due colonne di lato sono state lasciate al momento dello scavo. I fedeli baciano le icone, anche se molte sono coperte da panni. La luce filtra dalle finestre scavate nella parete che chiude l’ambiente verso la vallata.

Terminata la visita del monastero, ormai è venuto il momento di raggiungere la città rupestre di Chufut Kale. La stradina asfaltata si trasforma in un viottolo di sassi ma è impossibile perdersi, basta seguire le bancarelle di souvenir! Improvvisamente si piega a sinistra, salendo verso la cima della montagna, dove sorge la città abbandonata.

Il pianoro protetto da tre profonde vallate ha rappresentato per secoli una sistemazione ideale per mettersi al riparo dalle tante invasioni di popoli ostili. Secondo una leggenda la fortezza sarebbe stata fondata, come anche Mangup Kale, dall’imperatore bizantino Giustiniano, a protezione della città di Chersoneso. Nei secoli successivi fu abitata dai discendenti di alani e goti cristianizzati. L’ultimo potente governatore dell’Orda d’Oro, Tokhtamysh, vi si rifugiò alla fine del Trecento, mentre in seguito la città fu testimone della fondazione del khanato di Crimea, prima che la capitale fosse trasferita a Bakhchisaray. Quando fu abbandonata dai tartari, vi si stabilirono i karaiti, come paguri che s’insediano nelle conchiglie vuote, osserva Ascherson nel suo bel libro “Mar Nero”. Vi rimasero fino all’Ottocento, giustificando il nome attuale di “Fortezza Ebrea”; dopo la loro partenza, la città è rimasta deserta. La storia dei karaiti è molto interessante. Un’ipotesi li considera i discendenti di un gruppo di origine ebraica, stanziatosi in Crimea dove avrebbe adottato la lingua turca parlata nell’area. Poiché lasciarono il levante prima della canonizzazione del Talmud, accettano solo l’insegnamento della Bibbia, distinguendosi in questo dal filone principale del giudaismo rabbinico. Un’altra ipotesi, accettata nel corso della storia dai karaiti stessi e dagli altri popoli con i quali sono venuti in contatto, sostiene invece che siano un’etnia turca convertita alla religione giudaica (come i kazari). Tali li considerarono anche i nazisti che per questo li avevano esclusi dalla Soluzione Finale, anche se poi non mancarono di sterminarli. Ai nostri giorni piccoli gruppi sono presenti in Ucraina, Polonia e, soprattutto, in Lituania, dove li avevo già incrociati a Trakai, vicino Vilnius.

Prima di accedere alla città, noto una tettoia: ripara una lunghissima galleria, scoperta di recente, che consentiva alla città di rifornirsi d’acqua anche durante gli assedi. Gli archeologi vi hanno dissotterrato un incredibile tesoro di monete (veneziane, genovesi di Kaffa, egiziane, ecc.), conservato non so dove. La strada di accesso alla città è ancora al suo posto, anche se ormai è diventata un viottolo di sassi sconnessi fino alla porta sud, aperta in un imponente muraglione. Varcata la porta, ci si trova di fronte una serie di pareti rocciose, un vero e proprio groviera di abitazioni rovinate, scavate nei secoli, collegate da scale e passaggi. Arrivato in cima al pianoro, dietro un alto muro ecco la sorpresa: due kenasse, case di preghiera karaite, praticamente intatte (XIV-XVIII secolo). La più grande presenta un porticato di pietra, con colonne e archetti sopra un recinto di lastre decorate da bassorilievi di fiori; l’altra più piccola ha un porticato di legno. I tetti di tegole sono integri, certamente frutto di un restauro, ma il risultato è affascinante. Purtroppo gli edifici sono chiusi. Le due kenasse si affacciano a picco sul versante sud del pianoro, dal quale domino il sentiero per il quale sono arrivato. La valle in basso è tutta coperta di alberi, mentre in alto spiccano le pareti a strapiombo che limitano i pianori e sopra di nuovo gli alberi. Nel punto più alto di Chufut Kale sorge il mausoleo di Dzhaanicke Khanym, figlia di Tokhtamysh, ultimo khan dell’Orda d’Oro (1438). Nella “facciata” ritrovo il motivo delle corde intrecciate sui lati dell’arco, mentre un’iscrizione a caratteri cufici corre attorno alla porta d’ingresso. L’interno è un semplice ambiente a cupola che ospita il sarcofago; il pavimento è cosparso dalle monete lasciate dai turisti. Raggiunta l’estremità nord del pianoro, il panorama è mozzafiato: la roccia precipita verticalmente e di fronte si estende un’altra montagna dalle pareti brulle ma con un pianoro tutto coperto di alberi. La valle in basso è attraversata da una strada bianca che sembra il letto asciutto di un ruscello. Tornando sui miei passi, proseguo verso est attraverso un arco delle mura difensive che attraversavano la città nel mezzo; si conserva ancora un tratto con grandi conci squadrati. Poco oltre, la casa di Firkovich (1787-1874) è un grande edificio di pietra con il tetto di tegole. Lo studioso karaita vi abitò fino alla morte; fu un grande viaggiatore e collezionista di antichità, libri, manoscritti e iscrizioni. Da qui raggiungo la porta orientale delle mura esterne, in direzione della Iosefata Valley. Purtroppo però è chiusa e devo tornare indietro. Ne approfitto per un’occhiata alle rovine della moschea costruita da Canibek, khan dell’Orda d’Oro (1346). La presenza del piccolo mihrab rende inconfondibile la destinazione dell’edificio. Lungo la strada di ritorno non mi sfuggono i solchi dei carri sul lastricato e la presenza di marciapiedi rialzati per i pedoni, proprio come a Pompei.

Tornato al sentiero nella valle, proseguo attraverso il bosco, fino al cimitero karaita, poeticamente denominato Iosefata Valley. Attraversato un arco, si apre una visione con centinaia di tombe coperte da iscrizioni ebraiche, sparse in mezzo agli alberi; molte sono piegate dal tempo. Il luogo è affascinante ma un po’ inquietante: questa volta la mia sola compagnia sono le generazioni di karaiti defunti nel corso dei secoli.

La sera a Bakhchisaray in giro non c’è anima viva, evidentemente i turisti visitano la città con un’escursione dalle località balneari sulla costa. Nel grande ristorante non ci sono altri clienti; passeggiando incrocio giusto qualche locale. Ripenso al popolo tartaro: immaginavo gente dai lineamenti mongoli, invece ho incrociato persone dai tratti turchi, come anche la cucina. Chissà se il langman (zuppa di carne con noodle) che sto mangiando appartiene alla tradizione locale, oppure è stata “importata” durante la cattività uzbeka?

Mercoledì 27 giugno: Bakhchisaray – gita a Mangup Kale

Per visitare con i mezzi pubblici la città rupestre di Mangup Kale, una ventina di chilometri da Bakhchisaray, bisogna raggiungere il paese di Zalesnoye e poi proseguire a piedi. Alla stazione però scopro che il bus partirà solo tra molte ore e così decido di prendere un taxi (120 hryvnia la spesa). L’autista tartaro non è molto socievole, non spiccica una parola. Superata Zalesnoye, ci addentriamo in una valle chiusa da belle montagne coperte di boschi, fino a un laghetto dove i gitanti si godono il sole. Sulla sinistra inizia una strada sterrata e un cartello riporta la piantina di Mangup Kale. Il tassista mi lascia qui; alcune case formano il paesino di Khadzhi-Sala. I locali sono prodighi di consigli: un tizio mi presta una cartina in russo della città rupestre, che non potrò restituirgli al ritorno. Un chiosco funge da biglietteria.

Mangup Kale si trova sopra una montagna, che si protende con quattro punte, come dita di una mano, separate da profonde gole. Fortificata dall’imperatore bizantino Giustiniano, nel VI-VII secolo fu abitata da popolazione gote e alane. In seguito per un paio di secoli fu sotto il controllo dei kazari, popolazione turca convertita all’ebraismo che costituì un vasto impero tra il mar Nero e il Caspio (VIII-IX secolo). Il periodo di massimo splendore si ebbe comunque nel XIV e XV secolo, quando divenne la capitale del principato di Theodoro, alleato all’impero bizantino di Trebisonda. A quei tempi la città era abitata da cosiddetti “greci di Crimea”, discendenti da greci, goti e sarmati. Mangup-Theodoro fu conquistata dai turchi nel 1475, diventando un avamposto del potere ottomano in Crimea fino all’annessione all’impero russo. Gli ultimi abitanti, una piccola comunità di karaiti, abbandonarono il sito alla fine del Settecento.

Per raggiungere la cima, alla biglietteria mi segnalano il sentiero tra le prime due dita. La salita in mezzo al bosco diventa sempre più ripida: in meno di un’ora, supero trecento metri di dislivello. In cima il panorama domina la valle, con il laghetto che appare lontanissimo. Sul pianoro, percorso un breve tratto, sono già sull’altro lato, davanti a una vallata verdissima che ripete la struttura dei monti di questa regione, lasciando vedere la roccia solo nei precipizi sotto i pianori boscosi. La vista si spinge lontana fino al mare. Gli abitanti di Mangup Kale dall’alto dominavano la situazione e potevano scorgere con largo anticipo eventuali invasori dal mare.

Finalmente esco dal bosco e sbuco in un grande pianoro erboso. Lo spazio a disposizione è molto maggiore rispetto a Chufut Kale. Spira un dolce venticello e bianche farfalle accompagnano la mia passeggiata, insieme al cinguettio degli uccelli. Non è facile orientarsi sul pianoro; seguo la direzione sud-est incrociando una torre diroccata, fino alla chiesa di San Costantino (XV-XVI secolo). Della cappella sopravvivono le pareti laterali con grandi conci di pietra. Un cartello con le spiegazioni riporta la mappa del sito. Mi rendo conto allora che salendo devo avere sbagliato strada. Il percorso “giusto” prevedeva un anello sul pianoro, nel quale invece mi sono inserito circa a metà. Decido quindi di retrocedere verso la valle per vedere le attrattive che mi sono perso. Per primo raggiungo il palazzo dei principi di Theodoro, costruito da Alessio nel 1425 e distrutto dai turchi nell’assalto del 1475. Rimangono solo pochi resti, tra cui un’ampia corte, le basi di quattro pilastri e una torre. La successiva grande basilica risale addirittura all’epoca di Giustiniano ed è rimasta in funzione fino alla conquista turca. Oggi sopravvivono solo poche pietre in mezzo all’erba che consentono comunque di ricostruire la pianta a tre navate con altrettante absidi. Continuando la discesa in mezzo al bosco incrocio una sinagoga, la kenassa dei karaiti, affascinante in mezzo alla vegetazione; si è conservata solo un’alta parete concava nella quale sono state riutilizzate decorazioni a bassorilievo con motivi di corde intrecciate (l’aspetto è più quello di una torre che di un luogo di preghiera). Sono sul sentiero giusto, quello che avrei dovuto percorrere all’andata: comincio a scendere dolcemente verso la gola, quando in mezzo agli alberi spuntano le tombe del cimitero karaita. Molte sono ribaltate ma le scritte ebraiche sono inconfondibili; hanno la forma di un sarcofago con due lapidi iscritte sui lati, sopra una base a due gradini. Poco dopo raggiungo il limite della città antica, il grande muro di fortificazione a protezione del vulnerabile accesso dalla gola. Mi torna in mente la descrizione della visita a Mangup di Ascherson.

La salita dai prati del fondovalle fino alla vetta di Mangup Kale richiede un’ora; sono seicento metri di arrampicata, sudore e fatica finché le mura sbrecciate di una città non si profilano all’improvviso tra gli alberi. Da qui il percorso diventa più agevole, ma la foresta si trasforma in un cimitero. Centinaia e centinaia di tombe di pietra galleggiano su un mare di foglie morte; inclinate, storte, ribaltate, coperte di profonde iscrizioni in caratteri ebraici. Poco prima di arrivare sulla cima di Mangup c’è una sorgente di acqua gelida, deliziosa. Poi gli alberi si aprono e si esce dalla foresta su un altopiano di erba bassa e schiacciata che profuma di timo. La vetta cosparsa di edifici in rovina, alcuni con torri e archi, altri poco più che fondamenta di muri, sono i resti di basiliche e sinagoghe, delle porte accesso alla città e delle torri di guardia. Il mondo, con la terra e il mare, si stende giù a valle. La gente veniva a stabilirsi a Mangup quando aveva paura o voleva restare sola con Dio, o entrambe le cose.

Neal Ascherson – Mar Nero (1995)

Ora non mi resta che tornare indietro per proseguire il giro nel verso “corretto”, seguendo la numerazione dei cartelli. Sul pianoro, quasi a quota seicento metri, supero la basilica di Costantino e raggiungo il versante sud, dove sorge una serie di strutture scavate nella roccia. La vista si apre di nuovo ampia su vaste distese boscose. Oltre la piccola basilica a tre navate, mi colpisce un bacino per pressare l’uva; il succo colava attraverso un beccuccio nella vasca di raccolta più piccola. Potenza delle comunicazioni del XXI secolo: mi trovo in un posto, un tempo isolato dal resto del mondo, ma sono raggiunto al cellulare dal CAF di Roma che mi comunica che posso andare a ritirare il modello 730! Naturalmente prendo tempo! Un’abitazione (?) è scavata nella roccia: si scende per una scaletta fino al grande ambiente, dotato di “balconcino” affacciato sul dirupo.

La cittadella del XIV secolo si leva imponente sull’ultima punta del pianoro; distrutta dai turchi, poi fu ricostruita. Entrando nell’edificio diroccato, le finestre del piano alto sembrano aprirsi nel cielo. L’equilibrio è precario ma i conci degli archi sono ancora perfettamente levigati. Le turiste non resistono alla tentazione di farsi fotografare in tutte le finestre. Passato sull’altro lato, scopro che la facciata conserva le decorazioni dei portali: le solite corde intrecciate, insieme a stelle e motivi geometrici. Dal palazzo un muro prosegue fino al precipizio. Oggi ci si può camminare sopra arrivando in punta, una visione eccezionale a volo d’angelo su montagne di boschi e oltre la pianura fino al mare! Dopo che i turisti se ne sono andati, scattate tutte le foto, mi siedo ad ammirare lo spettacolo. Il percorso sopra il muro sembra un trampolino per un tuffo nel vuoto, progettato per lanciarsi con il deltaplano. Sulla sinistra il terzo dito di Mangup Kale si protende nella valle; nel pianoro i puntini colorati delle persone. Di fronte le montagne boscose terminano con la solita parete verticale di nuda roccia, subito sotto la gola tra il terzo e il quarto dito, quello su cui mi trovo.

Le mura della cittadella chiudono la punta dell’ultimo dito, proteggendo un’area nella quale sono state scavate numerose abitazioni e una chiesetta con abside. Proprio sull’estremità sorge un edificio del quale non è chiaro l’utilizzo (forse una prigione o un monastero). Oggi, aperto su tutti i lati, è battuto dal vento; sembra di essere sulla prua di una nave.

E’ tempo di tornare indietro. Leggendo le guide mi ero fatto l’idea dell’esistenza di una strada alternativa ai sentieri, anche se più lunga (del resto ho incrociato un paio di jeep), ma non sono riuscito a individuarla. Intorno a me vedo solo precipizi! Rinunciando anche a provare il sentiero tra il secondo e il terzo dito, preferisco tornare da dove sono venuto, confortato dal fatto che questa volta non posso perdermi. Per scendere al fondovalle, quasi quattrocento metri più in basso, impiego meno di un’ora, rivedendo i vari edifici lungo il percorso. Verso la fine del sentiero individuo il punto dove ho sbagliato strada: c’è una biforcazione ma il sentiero giusto è nascosto e così sono andato a destra finendo fuori strada verso il primo dito.

Raggiunta la valle, pranzo davanti a bassi tavoli alla turca, gustando shashlik e chai. Il tè è alla turca, zuccherato con delle caramelle che bisognerebbe tenere in bocca, ma che io preferisco sciogliere nella tazza. Terminato il pranzo, si pone il problema di come tornare a Bakhchisaray; appena arrivato al piazzale davanti al lago, vedo arrivare un autobus. Chiedo all’autista dove sia diretto: mi risponde che va proprio a Bakhchisaray! Una fortuna incredibile! Si tratta di un modello cittadino con reggimano e porte automatiche. Durante il tragitto, a una fermata in mezzo al nulla sale una raffinata bellezza slava che tiene Gesù in mezzo al seno generoso, secondo l’usanza locale!

A Bakhchisaray passeggio tra i vicoli attorno al palazzo, ma le attrazioni segnalate sulla mappa che ho acquistato all’ufficio turistico sono introvabili. Il fiume asciutto è pieno di spazzatura, molte case cadono a pezzi. Nel laboratorio Usta ritrovo invece un pezzo di storia e tradizione. Ayder Asanov è nato nel 1928 a Bakhchisaray ma fu deportato nel 1944 in Uzbekistan, insieme a tutta la sua gente. Ha fatto ritorno nella sua città natale negli anni novanta ma solo dopo altri dieci anni, nei quali ha lavorato come operaio, è riuscito a riprendere la tradizione familiare di gioielliere. I suoi lavori in filigrana riproducono disegni tradizionali e gli hanno permesso di vincere vari premi internazionali. Il mio ingresso nel laboratorio non turba minimamente le attività. In una prima sala un signore e un ragazzo lavorano i vasi al tornio. Alcuni pezzi sono esposti, ma senza l’indicazione del prezzo e non viene fatto il minimo tentativo per cercare di vendermeli. Nella stanza dei gioiellieri Ayder è al lavoro insieme a una giovane e una donna. Solo quest’ultima sembra notare la mia presenza e mi regala un opuscolo che racconta la storia di Ayder e dell’artigianato tradizionale. La mia presenza si prolunga: Ayder, forse intuendo il mio interesse non superficiale, apre una valigetta dalla quale estrae splendidi lavori filigranati, collane, medaglioni e orecchini. Quando chiedo i prezzi, tira fuori una piccola bilancia per pesare l’argento. Alla fine acquisto un paio di orecchini finemente lavorati, un regalo per mia moglie Stefania in dolce attesa. La vicenda di Ayder mi ha veramente toccato il cuore, come anche la sobrietà di questo popolo, un po’ chiuso ma di grande valore.

Tornato alla guesthouse, mi godo la sua bella posizione. La casa è l’ultima lungo la strada che risale il versante orientale della valle. Dietro i prati si levano curiose formazioni rocciose addossate une alle altre, giganteschi macigni levigati in equilibrio apparentemente precario. Due in particolare ricordano profili umani con marcate sopracciglia. Sopra la roccia più alta sventola una bandiera rossa con una scritta. Un sentiero conduce fin su, ma dopo tanto camminare preferisco ammirare lo spettacolo comodamente seduto nel giardino della guesthouse.

Anche questa sera ceno al “Caffè Musafir” e di nuovo sono l’unico cliente nel grande locale. Tutto il business deve essere concentrato sul pranzo dei gruppi in gita al palazzo del khan.

Giovedì 28 giugno: Sebastopoli

Il viaggio in bus da Bakhchisaray a Sebastopoli è breve. La stazione dei bus si trova a fianco di quella ferroviaria, davanti alla quale è “parcheggiata” una locomotiva che trasporta un carro armato con la stella rossa. La città di Sebastopoli si estende su una penisola, lungo una sorta di fiordo che il mare forma incuneandosi nella costa, un porto naturale utilizzato fin dai tempi dello zar per ospitare navi da guerra. Durante l’era comunista la città era inaccessibile agli stranieri.

L’ostello prenotato tramite internet si trova in un appartamento lungo Bolshaya Morskaya, a due passi dalla cattedrale. Preso possesso della mia camera privata, inizio l’esplorazione della città proprio dalla chiesa, Pokrovskiy Sobor. L’esterno presenta solo due colori, l’oro delle guglie e il bianco delle pareti, con la cupola dorata che si allunga verso l’alto. L’interno, per quanto moderno, è piacevole per i toni delicati degli affreschi. Dalla grande cupola pende un bel lampadario dorato, mentre nell’abside, dietro l’iconostasi, un affresco ritrae una grande Maria vestita di rosso che tiene in mano un panno bianco con una croce (il sudario?). E’ in corso la messa: i fedeli, quasi tutte donne, si profondono in segni della croce secondo il rito ortodosso. Percorrendo il viale fino in fondo, in direzione opposta al mare, raggiungo il parco che si estende sopra una collina. È pieno di ricordi che celebrano la guerra di Crimea (1854-5), persa dai russi, ma con onore e per questo sempre viva nei ricordi! Un monumento ritrae il generale Totleben, anima della difesa di Sebastopoli e autore dell’idea di affondare le navi all’imboccatura dell’insenatura per impedire l’ingresso alla flotta anglo-francese. Ritratto con il cappello in mano, è circondato da soldati con baffoni che scavano trincee e sfoggiano fucili dalle lunghe baionette. Il memoriale principale è il Panorama, un grande edificio circolare al cui interno è rappresentato un episodio dell’eroica difesa di Sebastopoli, durata 349 giorni; si tratta dell’assalto alla collina Malakhov, cuore della resistenza russa, avvenuto il 6 giugno 1855 e terminato con una grave sconfitta degli anglo-francesi (la scelta non è casuale!). Lo scenario è costruito in modo che lo spettatore possa avere una visione a 360 gradi, come se si fosse trovato sopra la collina durante la battaglia. L’effetto tridimensionale è realizzato attraverso un fondale sulla parete circolare con dipinti che ritraggono gli eserciti che si scontrano, la città bombardata dalla quale si levano cortine di fumo e la baia con le navi, mentre in primo piano sono ricostruite le barricate di sacchi di sabbia con i cannoni. La visione del campo di battaglia è impressionante! La rappresentazione ha un incredibile effetto di profondità. Mi soffermo a guardare i particolari: in lontananza scene di colonne di soldati, feriti e carri, subito sotto le casette di legno dei soldati con i panni stesi, i cadaveri davanti a un altare di fortuna. Nell’anello inferiore, dalle finestre di vetro si gode un’altra visuale all’altezza delle barricate; le spiegazioni in inglese aiutano la comprensione. Non mancano citazioni di nomi di combattenti e della prima “sister of mercy” russa.

Tornato in centro, sulla collina tra Morskaya e Lenina, assi principali della città, la cattedrale di San Vladimiro è tutta ricoperta dalle impalcature dei restauri. Davanti, un grande monumento raffigura Lenin con un braccio alzato verso il mare e un giornale nell’altra mano; negli angoli quattro soldati. Sul lungomare, di fronte al museo della flotta russa, la zarina Caterina sopra una colonna sembra volerci ricordare che fu proprio lei a conquistare Sebastopoli, strappandola ai turchi nel 1783. Il museo è chiuso perché oggi in Ucraina è la festa della costituzione. Nella grande piazza Nakhimova sulla punta della penisola, due monumenti ricordano ancora una volta gli episodi bellici per i quali Sebastopoli è famosa. Uno ritrae l’ammiraglio Nakhimov, comandante delle forze zariste di terra e di mare durante l’assedio della città nella guerra di Crimea, morto per mano di un cecchino mentre ispezionava le truppe sulla collina Malakhov. L’ammiraglio tiene in una mano un cannocchiale. Dall’altro lato della piazza, un bassorilievo ritrae un muscoloso tipo sovietico con un pugno alzato e un braccio teso per arrestare il nemico. Il memoriale è dedicato all’eroica resistenza della città ai nazisti nel 1941-2. Di lato sono citate le città sovietiche decorate con la medaglia al valore, tra cui naturalmente Sebastopoli (oltre Mosca e San Pietroburgo). Un altro monumento sembra una sorta di “hall of fame” che, accanto a una targa con una grande medaglia dell’Ordine Lenin, espone foto a colori di persone dall’aspetto recente (chi saranno mai?). In fondo alla piazza, attraversato un bianco colonnato, raggiungo il molo; alcune imbarcazioni fanno il giro della baia e decido anch’io di unirmi ai turisti. Dall’insenatura principale si stacca la baia meridionale, la più riparata su cui si affaccia la penisola della città. Qui sono ormeggiate le navi da guerra, un alternarsi di bandiere russe e ucraine (una addirittura le ha tutte e due). Molte sono arrugginite, sembrano dei ferrivecchi e non fanno più paura; significativamente la più grande è la nave ospedale. Un sottomarino tutto nero non sembra messo meglio. La baia in compenso è priva di ogni fascino per le navi ormeggiate e i brutti edifici. Tornati sull’insenatura principale, risaliamo verso l’imboccatura sul mare aperto. Sulla sponda settentrionale spicca un obelisco, sicuramente qualche memoriale, mentre sul lato della città si leva un grande soldato con un braccio alzato e un fucile puntato. A pochi metri dalla penisola, una colonna sormontata da un’aquila è stata collocata sopra uno scoglio, a ricordo delle navi affondate all’imboccatura della baia durante la guerra di Crimea.

Il pomeriggio, raggiungo alla periferia della città il sito archeologico di Chersoneso, la più importante colonia greca in Crimea. Appena entrati spicca la struttura del piccolo teatro, ancora utilizzato per le rappresentazioni; alla cavea si è sovrapposta una chiesa dalla pianta a croce con abside a gradini. Per primo esploro il settore meridionale della città, dove si trovano i resti di una grande cisterna rettangolare, risalente alla tarda antichità; sul lato opposto della strada antica, i resti di un’insula. Più avanti mi sembra di riconoscere una chiesa con tanto di nartece, anche se il cartello solo in cirillico non mi aiuta. Subito dopo la struttura si ripete in un inconfondibile edificio con nartece, tre navate e tre absidi. I resti non superano il metro di altezza come spesso accade a Chersoneso. Tornato nell’area centrale del sito, raggiungo il mare. Il colpo d’occhio è spettacolare: i bagnanti affollano la piccola spiaggia di sassi e subito dietro si levano le rovine della città antica. Sono sopravissuti alcuni isolati di un quartiere di abitazioni, del quale grazie alle mura di sassi è possibile ricostruire la pianta. Sopra le basse rovine spiccano i resti della basilica (VI-X sec.): la facciata è conservata fin sopra i tre portali. Quello centrale ha una bella cornice aggettante. In quello che un tempo era lo spazio interno, sono state rialzate alcune colonne dai bei capitelli corinzi, intorno alla navata centrale. Proseguendo il giro, continuo ad attraversare quartieri abitativi affacciati sul mare. Davanti a una casa riconosco un forno, un grande arco è ancora in piedi, in alcuni cortili si trova ancora il pozzo. Una piccola cappella conserva l’altare e due arcosoli nelle pareti laterali (X-XIII sec.). Una campana, realizzata con il ferro ricavato da un cannone della guerra di Crimea, è collocata su una collinetta affacciata sul mare. Nella grande basilica del V-VI secolo un gazebo segna il “vero” luogo, dove Vladimiro il Grande, principe dei Rus di Kiev, sarebbe stato battezzato, segnando la nascita del primo stato slavo orientale di fede cristiana, un evento molto importante per la storia di russi e ucraini (988). Le cronache raccontano che Vladimiro aveva deciso di abbandonare il paganesimo, ma era incerto quale religione scegliere. L’islam fu scartato per il suo divieto di consumare alcol, inaccettabile per un russo, l’ebraismo perché la perdita di Gerusalemme fu considerata come un segno del mancato favore di Dio; così alla fine la scelta cadde sul cristianesimo, con la preferenza del credo ortodosso per il fascino esercitato dai riti che gli inviati del principe osservarono in Santa Sofia a Costantinopoli. Il momento è magico: Stefania durante l’ecografia ha sentito il battito del nostro secondo figlio e mi manda un SMS. Ci sentiamo per telefono: sono commosso. Mi trovo in una città nella quale l’umanità ha vissuto per millenni e ora anch’io sto dando il mio piccolo contributo alla “storia umana”. Tante persone, “senza nome” come me, sono vissute per generazioni a Chersoneso, ma è solo grazie a loro che oggi noi siano qui. Speriamo che i nostri figli e discendenti possano continuare a mantenere il ricordo delle epoche passate: nella loro memoria sopravviveremo anche noi, come fanno oggi nella mia gli abitanti di Chersoneso. Termino il mio giro raggiungendo la punta della penisola su cui sorgeva la città (in greco Khersones significa penisola), dove rimangono le basi delle mura di un grande edificio a tre navate con due narteci, affacciato sul mare.

La moderna chiesa di San Vladimir domina il paesaggio di Chersoneso. All’interno alcune foto mostrano l’edificio distrutto durante la seconda guerra mondiale; in uno scatto del 1998 compare Putin sotto la campana. La chiesa si trova al piano sopra la cripta; è un grande ambiente arioso con un impressionante lampadario che pende dalla cupola. La struttura non sembrerebbe ortodossa se non fosse per l’iconostasi: la pianta è a croce latina, nella cupola il Pantocratore è sostituito da una colomba nel sole.

Termino in bellezza la visita di Chersoneso con un bagno in mare. La spiaggia non è da tropici e non manca qualche alga, ma l’acqua sembra pulita. Chersoneso non ha i monumenti eccezionali di altri siti archeologici ma, affacciata sul mare, è veramente affascinante. La spiaggia è affollatissima. Mi soffermo ad assaporare le atmosfere: il sole del tardo pomeriggio scende verso il mare, il colore dei bagnanti ravviva il bianco delle rovine vegliate dalla cattedrale moderna, mentre il mare si fa sempre più blu.

Per tornare in città prendo il marshrutka #2 che all’andata non avevo potuto utilizzare perché non sapevo dove passasse in centro. Il capolinea è proprio a Chersoneso e mi lascia a due passi dall’ostello.

La sera l’animazione si concentra intorno al Molo dell’Artiglieria, dove i locali si succedono uno dopo l’altro. Lo struscio prosegue nei piacevoli vialetti alberati di Boulevard Primorsky. Per me è un vero bagno di folla dopo le esperienze dei giorni passati. Sebastopoli è stata una piacevole sorpresa, una città solare dalla luce mediterranea.

Venerdì 29 giugno: Sebastopoli – gita a Balaklava

Raggiungere Balaklava da Sebastopoli con i mezzi pubblici è semplice: il marshrutka #12 mi porta fino al grande crocevia denominato 5KM, alla periferia della città, dal quale parte il #9 per Balaklava. Per primo voglio visitare il Museo dei Sottomarini: chiedo quindi indicazioni per il “muzei” e mi fanno scendere prima del capolinea in centro, in corrispondenza di un incrocio dove un trenino mi porta a destinazione. Il percorso in realtà è breve, avrei potuto farlo a piedi.

A Balaklava il mare s’infila nella costa formando una specie di piccolo fiordo, un perfetto porto naturale utilizzato già nell’antichità dai pirati, come racconta Omero nell’Odissea. I sovietici vi costruirono una base per i sottomarini nucleari, una galleria bunker che si apre nel fianco della montagna. Sull’altra sponda la fortezza genovese di Cembalo veglia dall’alto di brulle colline, sopra l’imboccatura dell’insenatura. Oggi è possibile visitare la base, anche se non per conto proprio; scelgo il giro guidato a piedi, preferendolo a quello in barca. Nell’attesa mi affaccio sull’acqua piena di meduse del canale che entra nel bunker. Il tour dura circa un’ora; durante le varie soste, con le spiegazioni esclusivamente in russo, mi attardo per scattare le foto. Percorriamo una serie di gallerie in cemento armato scavate nel cuore della montagna; grandi porte blindate dividono le varie sezioni, fino a incrociare i canali per i sottomarini. Qua e là sono esposti modellini di sommergibili, torpedo e altre armi. Alla fine si raggiunge una piccola mostra che, oltre i tempi dell’URSS, ricorda con una serie di foto i negoziati per la divisione della flotta del mar Nero tra russi e ucraini; scatti più recenti mostrano la flotta ucraina e le sfilate congiunte russo-ucraine a Sebastopoli. Un ragazzo del gruppo, Alessio, parla un po’ inglese e cerca di fare conversazione con me. Vive a Novosibirsk; con la famiglia ha viaggiato per quattro giorni in macchina, percorrendo 4600 chilometri pur di raggiungere Yalta ambita meta per le vacanze.

Terminata la visita, risalgo a piedi l’insenatura. Questo lato è deturpato da una grande cava, con i macchinari annessi e la ferrovia. La città sorge sull’altra sponda, con le barche dei ricchi ormeggiate al molo e la fortezza genovese di Cembalo in alto. La passeggiata pedonale è piena di locali per mangiare, mentre piccole barche affollate di bagnanti devono offrire gite verso qualche spiaggia oltre l’imboccatura. L’effetto è un alternarsi di bello e brutto, con alcuni “mostri” edilizi sull’altro lato dell’insenatura. Lo spettacolo più affascinante è offerto dall’ascesa alla fortezza. Le mura con tre torri risalgono la montagna. Dalla cima, dopo una ripida salita, si gode una vista magnifica. Da quassù Balaklava appare incontaminata, tutta avvolta attorno al fiordo punteggiato di barche. L’imboccatura, circondata da rocce a strapiombo, è attraversata da una processione di barche che solcano l’acqua turchese, mentre verso l’interno il bunker e la cava appaiono piccoli, senza disturbare più di tanto il paesaggio. Il mare aperto è una tavola a chiazze blu e turchesi, la costa uno spettacolo di monti rocciosi. Della fortezza genovese in cima, invece, rimane ben poco; la terza torre è tutta avvolta dalle impalcature.

Tornato a Sebastopoli, il marshrutka #12 mi lascia davanti al Museo Navale. L’esposizione, illustrata da spiegazioni unicamente in russo, inizia con modellini di grandi velieri che espongono la bandiera della marina zarista, bianca con una croce di Sant’Andrea blu. Molti ricordi sono legati alla guerra di Crimea. Una foto del 1901 ritrae un gruppo di reduci ormai anziani, uomini dalle barbe bianche e donne con il fazzoletto in testa, che sfoggiano le loro medaglie. Si passa poi ai tempi della prima guerra mondiale, con alcuni equipaggi di navi; una cartina illustra le operazioni di guerra nel mar Nero contro i turchi. Il piano superiore è dedicato all’epoca sovietica: sono accolto dalla bandiera della marina dell’URSS, bianca con stella e falce e martello, accompagnata dalle foto di Lenin, Trotsky e Stalin. La grande sala centrale è dedicata alla seconda guerra mondiale: sulle pareti è dipinta la costa stilizzata del mar Nero, mentre sotto sono esposti i ricordi delle varie operazioni belliche con le foto dei protagonisti. L’effetto è retorico ma coinvolgente. Ampio spazio è dedicato all’assedio di Sebastopoli del 1941-2. I russi sembrano gradire più il ricordo delle resistenze eroiche, concluse tragicamente (guerra di Crimea, invasione nazista), piuttosto che quello delle vittorie. L’ultima sala più piccola è dedicata alla liberazione del 1944; molte foto sono successive e ritraggono militari carichi di medaglie.

Più tardi decido di fare un’escursione alla sponda settentrionale della baia, sfruttando il traghetto di linea che fa la spola avanti e indietro dal Molo dell’Artiglieria. Costa venticinque hryvnia, quanto fare la pipì! In Ucraina i mezzi pubblici sono decisamente economici, mentre i bagni sono tutti a pagamento! Allontanandoci dalla città si ha una bella visione nella luce del pomeriggio. Approdiamo sull’altra sponda proprio davanti alla grande Mikhaylovskaya Battery. L’imponente forte oggi ospita un museo dedicato alla storia militare di Sebastopoli. Nell’esposizione mi colpisce una cartina in latino che indica il mare di Azov con il nome di “Zabacche olim Meotis Palus”, mentre il mar Nero è il “Pontus Euxinus”; riconosco anche lo stretto di Caffa e le città di Chersonesus e Caffa o Teodosia. Anche questa volta molti ricordi sono legati alla guerra di Crimea: stampe di quegli anni ritraggono il primo giorno dell’assedio e la flotta anglo-francese che cannoneggia la città. Tra le bandiere degli alleati c’è anche quella del Regno di Sardegna, il tricolore con lo stemma dei Savoia. Come ci hanno insegnato a scuola, la mossa politica consentì all’astuto Cavour di sollevare la questione italiana nel consesso europeo. Un plastico riproduce la carica della Brigata Leggera (25 ottobre 1854), episodio entrato nella storia militare inglese. In realtà più che un plastico sembra una battaglia di soldatini! In una stampa il lungo corridoio dove mi trovo ha le stesse stufe in ghisa di oggi; il forte durante la guerra fu utilizzato come ospedale. Si passa poi a periodi successivi con mitragliatrici della prima guerra mondiale, bandiere con la scritta CCCP insieme a falce e martello. Una cartina illustra il fronte di guerra tra comunisti e nazisti; un filmato tristissimo gli onori alle tombe dei caduti, i fiori gettati in mare per i dispersi, le autorità che onorano i vari monumenti commemorativi. Terminata la visita, mi rinfresco con un bagno nella piccola spiaggia sotto il forte, proprio davanti al molo d’imbarco.

A Sebastopoli Boulevard Primorsky verso il mare è allietato da fiori ed alberi, mentre sull’altro lato si allineano edifici intonacati di bianco con classici colonnati. Proseguendo la passeggiata oltre il Molo dell’Artiglieria mi dirigo verso il grande monumento che ritrae un soldato e un marinaio, rivolti verso l’imboccatura della baia. Il marinaio ha pantaloni a zampa di elefante, un braccio alzato mentre con l’altro punta il fucile. Non posso però raggiungerlo perché il molo è sbarrato; in compenso mi sdraio sui tavolati di legno a disposizione dei bagnanti. Il sole si nasconde dietro le nuvole e mi godo il fresco, ritemprato dal bagno sotto il forte, mentre i locali si tuffano in acqua dal molo.

La sera al “Barkac”, lungo il Molo dell’Artiglieria, i camerieri sono vestiti da marinai e le tende sono sostituite da reti per la pesca.

Sabato 30 giugno: Yalta

La mattina il bus per Yalta è un granturismo. Lasciata Sebastopoli, la strada in condizioni perfette attraversa montagne coperte di boschi. Dopo mezzora compare il mare; proseguiamo alti in un bel paesaggio, disturbato solo dalla striscia di palazzi sulla costa. Il bosco degrada verso il mare, una tavola azzurra e turchese, racchiusa sui lati da montagne rocciose che formano varie insenature. Una chiesa spunta con la sua cupola dorata in mezzo al bosco. Superati vari saliscendi, in mezzo al verde appare improvvisamente una città di alti palazzi, distesa in un’ampia insenatura. I palazzoni che mancavano a Sebastopoli ricompaiono a Yalta.

Yalta è il tempio delle vacanze balneari di Russia e Ucraina. Nell’Ottocento Charles Marvin scese dal piroscafo che lo portava da Batumi a Odessa per visitarla.

Yalta sta diventando ogni anno una località balneare sempre più preferita dai russi, acquisendo attrazioni che nel tempo senza dubbio provocheranno un afflusso di visitatori provenienti dall’Europa. I due nuovi grandi hotel, Edimburgo e Russia, in riva al mare, e le numerose ville sulle colline nella parte posteriore, testimoniano, senza alcun riferimento alle statistiche, la crescente prosperità di Yalta. Quando la rete ferroviaria sarà estesa da Sebastopoli a Yalta, e i russi potranno risparmiarsi le paure di un viaggio in mare di poche ore, il numero dei visitatori crescerà immensamente, poiché l’aria ha i poteri curativi di quella della Svizzera, il paesaggio è incantevole, in particolare per gli abitanti delle pianure piatte e ghiacciate della Russia, e innumerevoli miracoli si dice siano stati prodotti dalla “cura dell’uva”, per la quale la Crimea è famosa. Per tutto il giorno, negli alloggi, nelle strade, nei negozi, nei bagni, sulla banchina del porto e nei giardini pubblici si può vedere la gente mangiare uva. Il terreno è disseminato ovunque con pelli di uva. Mangiando poco altro che uva e pane e conducendo una vita all’aria aperta, gli invalidi sono in grado di sbarazzarsi di molti disturbi, e tornare a casa pieni di gratitudine verso Yalta. Di tutte le cure, la cura dell’uva è sicuramente la più piacevole, soprattutto se effettuata in un ambiente così affascinante come quelle della Crimea…

Quasi tutti i granduchi russi possiedono ville lungo la costa, che si estende da qui in direzione di Sebastopoli, e anche la maggior parte della nobiltà. Tutte sono elegantemente situate, e spesso circondate da splendidi giardini, che sono aperti al pubblico quando i proprietari sono assenti.

Charles Marvin – The Region of the Eternal Fire (1883)

Una corsa in marshrutka mi porta fino alla piazza del cinema Spartak, vicino alla quale si trova l’albergo Sparta, ma è troppo presto per prenderne possesso della camera prenotata. Così lasciato il bagaglio, ritorno alla piazza e con il marshrutka #5 raggiungo il palazzo di Livadia, alcuni chilometri dalla città lungo la costa occidentale. Il bianco edificio si trova in mezzo ad ampi giardini; la facciata rinascimentale di marmo appare abbastanza semplice. Il palazzo fu completato nel 1911 come residenza estiva per la famiglia imperiale, che però se lo godette per pochi anni, ed è famoso per avere ospitato la conferenza del 1945 tra Roosevelt, Churchill e Stalin. Avevo letto che spesso viene chiuso al pubblico per ospitare incontri al vertice, così non rimango troppo sorpreso quando scopro che oggi non è possibile visitarne gli interni! M’informo: domani dovrebbe essere aperto, tornerò! Oggi si può accedere solo al piccolo museo delle cere. Una sala ospita le figure di Stalin, Roosevelt e Churchill, mentre un televisore proietta un filmato della conferenza. Una seconda stanza è dedicata all’ultima famiglia imperiale, con le figure in cera dello zar Nicola II e della zarina insieme ai cinque figli. Alessio, il più piccolo, era il solo maschio; gravemente malato di emofilia, poteva morire per ogni taglio; di fianco la figura enigmatica di Rasputin con la lunga barba nera. Ascoltando la canzone di sottofondo riconosco i nomi dei componenti la famiglia; tutti trovarono la morte a Ekaterinburg nel 1918, fucilati dai bolscevichi.

Dietro il palazzo sorge la cappella, nella quale nel 1894 fu celebrato il funerale di Alessandro III, Nicola II giurò fedeltà al trono russo e la moglie, una principessa tedesca, si convertì all’ortodossia prendendo il nome di Aleksandra Fedorovna. L’iconostasi decorata con bassorilievi e le colonne in mezzo alla navata sono di marmo bianco lucente. Di fronte alla cappella, una sala ospita una piccola esposizione dedicata alla seconda guerra mondiale. Un retorico filmato di RAI3 con sottotitoli in italiano presenta la grande battaglia sul fiume Dniepr, come quella decisiva della guerra. I tedeschi ritirandosi hanno fatto terra bruciata, accanendosi non solo contro obiettivi militari come le fabbriche, ma anche contro i monasteri; fanno saltare i ponti sul fiume, Hitler ordina di resistere a ogni costo. Tra i ricordi esposti, la “postazione di guerra” di un ufficiale con un piccolo tavolo sul quale sono aperte mappe dei fronti, un telefono, una radio e una giacca appesa alla sedia. Seguono le uniformi di vari eroi sovietici; il più famoso è stato decorato con ben tre medaglie dell’Ordine Lenin.

Dietro il palazzo inizia il Cammino del Sole, lungo quasi sette chilometri, progettato per consentire allo zar e alla sua famiglia di passeggiare godendo i benefici effetti del clima salubre della Crimea. Il nome attuale è stato coniato dai sovietici in sostituzione di quello originale, Cammino dello Zar. Il percorso in mezzo al bosco si dipana quasi pianeggiante per non affaticare i reali. Qualche volta la vista si apre sul mare, mentre ogni cento metri una targa segnala la distanza percorsa e quanto manca alla fine. La passeggiata all’ombra è molto piacevole, anche se ogni tanto è interrotta da qualche attraversamento stradale e disturbata da costruzioni moderne. Superata metà percorso, si apre una bella visuale sulla costa verso Yalta, con i monti boscosi e il mare turchese. Lontano oltre la città il monte Ayu-Dag; la Montagna dell’Orso sembra veramente un orso sdraiato che beve l’acqua del mare e giustifica le leggende che ha fatto nascere.

Improvvisamente in basso sul mare appare il piccolo castello denominato Nido di Rondine su cui incombe, per un gioco prospettico, un moderno edificio multipiano. Un cartello indica la deviazione che porta giù, così abbandono la passeggiata zarista per buttarmi in picchiata verso il mare (siamo a circa centocinquanta metri di quota). Tuttavia poco dopo, il sentiero sbuca nella strada costringendomi a seguire i tornanti fino al piazzale che funge da parcheggio. Una fregatura; avrei potuto completare il Cammino dello Zar e poi prendere un bus per raggiungere il Nido di Rondine. Nel parcheggio regna il caos: i bus scaricano i turisti, mentre gli automobilisti sono alla ricerca di un posto libero. Da qui, infatti, si prosegue solo a piedi, scendendo una scala di cemento affollata di gitanti e bancarelle di souvenir. Arrivato a destinazione, sono travolto dalla foga dei russi nel farsi fotografare: spesso mi devo spostare per fargli posto o attendere uno scatto prima di passare. Il castello è veramente piccolo; fu costruito nel 1912 da un magnate tedesco per la sua amante, ma distrutto durante la guerra è stato ricostruito solo nel 1970. Non resisto alla curiosità di entrare, sborsando trenta hryvnia per vedere pochi quadri in tre sale. La visuale migliore si ha arrampicandosi sulle rocce; il piccolo maniero neogotico è appollaiato su una scogliera, con pareti verticali alte decine di metri sopra il mare. Tutto intorno, la natura sarebbe all’altezza, mare turchese, faraglioni, rocce a strapiombo, ma l’uomo è intervenuto aggiungendo molto cemento. La spiaggia della piccola baia è quasi nascosta da un’oscena terrazza; dal molo i traghetti per Yalta fanno la spola avanti e indietro.

Una corsa in marshrutka mi porta fino ad Alupka, dove sorge lo spettacolare palazzo Vorontsovsky, disegnato nell’Ottocento da architetti inglesi per il ricchissimo governatore regionale. La facciata verso le montagne è ispirata a un castello scozzese e anche gli interni risentono della moda britannica. Il gabinetto ad angolo, tutto rivestito di legno, è molto aggraziato, la luminosa living room ha pareti celesti sulle quali si intrecciano fiori bianchi stuccati, mentre completano l’arredo divanetti tappezzati di giallo, un pianoforte bianco e vari tavolini. Si passa poi al giardino interno, una grande veranda con le pareti coperte di vegetazione. Al centro statuette di marmo lucido sono collocate su alti piedistalli: raffigurano Urania, l’Apollo del Belvedere e una bambina. La sala destinata ai pranzi di gala è un altro grande ambiente con pareti ricoperte di legno; porte, pannelli e un balconcino presentano decorazioni neogotiche. L’ultima sala ospita un grande biliardo. Uscendo verso il mare cambia tutto: alla facciata Tudor del lato verso i monti, si contrappone una facciata islamica con un grande iwan¸ anche se i sei leoni lungo la scalinata riportano allo stile imperiale britannico. Churchill, che risedette in questo palazzo durante la conferenza di Yalta, notò la sua somiglianza con uno di essi, sottolineando che gli mancava solo il sigaro! Dalla scalinata la vista si apre sul mare, mentre dall’altro lato incombe l’alta mole rocciosa del monte Ayi-Petri.

Terminata la visita, scendo nei giardini che digradano verso il mare, fino a un paesaggio di rocce sulle quali si sono appollaiati i bagnanti. Una soluzione più tranquilla è offerta da una spiaggia di sassolini, ideale per i bambini poiché i macigni hanno formato una sorta di piscina naturale. Ne approfitto anch’io per un bagno veloce.

Per tornare a Yalta ricorro al fedele bus #32. Durante la guida l’autista è impegnato nella raccolta dei soldi dei passeggeri. L’operazione non è semplice perché le tariffe sono diverse, secondo le tratte percorse, e bisogna dare il resto a tutti. I soldi passano di mano in mano perché il bus è stracolmo. Tutto è basato sulla fiducia, senza inutili biglietti! Nei momenti tranquilli l’autista si rilassa conversando al cellulare; insomma uno stile di guida che in Italia farebbe rizzare i capelli!

La sera sul lungomare di Yalta mi siedo sotto la statua di Lenin, uno dei pochi posti tranquilli. Lenin è rimasto al suo posto ma tutto intorno è cambiato. Ora alle sue orecchie arriva la musica a tutto volume del concerto rock, mentre ai suoi occhi non può sfuggire l’insegna di McDonald. Sono arrivato fin qui da Spartak, snodo del traffico cittadino, percorrendo un’unica striscia pedonale: prima Puskinskaia, lungo uno dei due fiumi di Yalta, poi Lenina, il lungomare cittadino. Tutto il percorso era affollatissimo per lo struscio di un sabato sera estivo. I locali si succedono uno dopo l’altro, la musica è a tutto volume. Sulla spiaggia ci si può imbarcare su motoscafi illuminati che corrono all’impazzata sull’acqua. Non manca neppure una sessione di fuochi di artificio. Si avvicina la finale degli europei di calcio, Spagna – Italia che si giocherà a Kiev; un maxischermo è stato allestito proprio sul lungomare. Se la gente sapesse che sono italiano potrei diventare una sorta di attrazione, non credo che in giro per Yalta ce ne siano molti altri! La ressa è incredibile, sembra di essere nell’ombelico del divertimento estivo. Ce n’è per tutti i gusti: parchi giochi per i bambini, locali per i giovani, animali esotici in vendita, uomini statua, donne in costume e chi più ne ha più ne metta! Mi accorgo anche che mi trovo in una città più “trendy”: le donne non sfoggiano tutte la “divisa nazionale”, la minigonna vertiginosa, ma si vede un po’ di tutto. Quando poi incrocio una giovane con tacchi altissimi e gambe al vento, spesso poco dopo spunta un bambino e la mamma si mette in posa per una foto. Russe e ucraine amano farsi fotografare come dive e spesso sono proprio i figli a immortalarle così. Tutto il contrario che in Italia, dove siamo noi adulti a voler sempre fotografare i bambini.

Domenica 1 luglio: Yalta

La domenica mattina a Yalta la passeggiata pedonale è già affollata. Lungo Puskinskaia incrocio un paio di statue: Puskin in foggia ottocentesca sfoggia lunghi basettoni, mentre il cineasta Aleksandr Khanzhonkov è stato un pioniere del cinema russo, fondatore nel 1911 del primo studio cinematografico del paese. Il lungomare è baciato dal sole; il colpo d’occhio verso terra è particolarmente bello, con montagne boscose che incorniciano la grande baia, anche se spesso sono nascoste da alberi o edifici. Sono le nove del mattino ma i fazzoletti di spiaggia tra i moli in cemento sono già affollati di bagnanti. Proseguo la passeggiata fino alla statua di Lenin, ai piedi del quale in un campetto attrezzato si sta svolgendo una partita di calcetto, mentre le giostre sono ancora ferme.

Tornato fino a piazza Spartak, una corsa in marshrutka mi riporta al palazzo Livadia. Oggi è aperto e posso visitarne gli interni. Al piano terra accedo subito alla White Hall, dove si tennero le riunioni plenarie della conferenza (4-11 febbraio 1945). La grande sala ha un soffitto a cassettoni stuccato e prende luce da finestre su due lati, ma ciò nonostante non appare particolarmente luminosa. Una teca espone l’edizione della “Pravda” con la celebre foto di Roosevelt, Stalin e Churchill. In mezzo, il tavolo circolare della conferenza con le bandierine delle tre nazioni. La waiting room, tutta rivestita di legno, era la sala di ricevimento di Roosevelt e qui si tennero gli incontri bilaterali con Stalin, durante i quali si decise l’entrata in guerra dell’URSS contro il Giappone. Nelle foto mi colpisce il volto scavato del presidente americano, che sarebbe morto dopo soli due mesi; per i suoi problemi di salute la delegazione americana durante la conferenza fu alloggiata nel palazzo. La billiard room in stile inglese, rivestita di legno chiaro, era la sala da pranzo. Il primo piano invece è dedicato ai ricordi dell’ultimo zar e della sua famiglia. La grande scrivania imperiale era collocata con le spalle alla finestra affacciata sul mare. Un arazzo ritrae la coppia imperiale con l’infelice figlio maschio Alessio. Le sale, benché raffinate, non sono eccessivamente lussuose, mentre le foto di famiglia lasciano pensare come si possa cadere in basso quando si è tanto in alto! Sembrano il ritratto di una famiglia felice, che poteva avere tutto quanto voleva, ma passati pochi anni trovarono tutti la morte dopo una tremenda prigionia.

Tornato a Yalta, visito il Museo Storico lungo la Puskinskaia. Le casette di terracotta ritrovate a Gurzuf (I sec. d.C.) appartenevano ai Tauri, la popolazione più antica della Crimea. Sul capo Ayi-Thodor, vicino al Nido di Rondine, è stata scoperta una fortezza romana, Charax, che ospitava le legioni imperiali; da qui proviene una placca che raffigura un cavaliere trace e riporta un’iscrizione in latino. Si passa poi a goti e alani, alleati dei bizantini (III-IV sec. d.C.). I successivi avvenimenti fondamentali furono la conversione degli slavi al cristianesimo attorno all’anno mille e l’arrivo dei turchi nel 1475. Questa volta le spiegazioni sono anche in inglese. Seguono foto d’epoca, libri in arabo, tessuti e una stanza di cineserie! Un grande vaso corinzio è decorato con una rappresentazione dell’Amazzonomachia (320 a.C.), mentre alcuni reperti provengono dal teatro di Chersoneso.

A piazza Spartak incontro Anastassia; è nata nelle isole Sakhalin, sopra il Giappone, ma è sposata con un italiano di Fabriano e vive a Singapore. Finalmente posso parlare con qualcuno nella mia lingua. Insieme raggiungiamo in bus la dacha di Cechov, un bianco edificio circondato da un romantico giardino. Al piano terra, intorno alla sala centrale da pranzo, si aprono le varie stanze tra cui quella della moglie che sopravvisse cinquantacinque anni allo scrittore. Sono esposti ricordi della famiglia, ricca di artisti. Al primo piano si trovano la camera della mamma e lo studio, nel quale lo scrittore compose molte opere. Cechov morì nel 1904 in Germania, dove si era recato per curarsi; era malato di tubercolosi da molto tempo. Era una persona ospitale e la sua casa fu visitata da molte celebrità: una vetrina espone cartoline inviate dai suoi amici (Tolstoi, Gogol).

Terminata la visita, Anastassia mi indirizza sul bus per raggiungere Massandra, il marshrutka #29; ci salutiamo dopo il nostro breve incontro. Lungo la costiera a est di Yalta, chiedo all’autista del “dvorets” (palazzo); mi fa scendere in corrispondenza di una strada, che in salita mi porta in una ventina di minuti davanti a una visione sorprendente: un castello della Loira trapiantato in Crimea! Il palazzo di Massandra, noto anche come la dacha di Stalin che lo scelse come sua residenza estiva, fu fatto costruire dallo zar Alessandro III (1889) e si presenta come un castello turrito sorvegliato da due sfingi con testa di donna, davanti a un giardino fiorito. L’aspetto movimentato delle due facciate è ottenuto con due soli colori, giallo e grigio, attraverso una serie di torrette, avancorpi, guglie, verande e portici; l’effetto è tipicamente “romantico”. Gli interni sono in stile francese. Nella sala da pranzo, con pannelli di legno dai begli intarsi, il tavolo è ancora apparecchiato. Le porte di legno lucido presentano pannelli decorati da grovigli astratti, realizzati con legni chiari e scuri. Al primo piano sono esposti ricordi di Alessandro III. Foto più recenti ritraggono una visita del 2011 (forse una discendente dei Romanov?). Una “classica foto” ritrae Nicola II con i figli (le quattro femmine e Alessio) e la moglie. Un’altra presenta Alessandro II (1845-1894) sempre con la famiglia, la moglie Maria Fiodorovna (1856-1923) e i tre figli. Terminata la visita, lasciando il castello non posso non notare due giganteschi alberi a fianco del vialetto di accesso.

Tornato alla strada costiera, voglio raggiungere Gurzuf senza ripassare per Yalta. Alla fermata dopo un po’ sopraggiunge un moderno filobus; l’interno con aria condizionata è dotato di televisore. Il mezzo percorre un lunghissimo tragitto, lungo la costa a oriente di Yalta, ma io scendo a Gurzuf insieme a una famiglia ucraina. Con loro seguo la strada in discesa fino al paese, poiché la statale corre alta sulla costa. La vista è splendida: il paese sulla baia, la “roccia genovese” che la chiude e dietro la mole del monte “grizzly”, come lo chiama lui, il solo a parlare un po’ d’inglese. Tiene a precisarmi che la moglie è un soldato dell’esercito ucraino ed è in gita con tutta la famiglia da Alushta. Sul lungomare ritrovo però il solito cattivo gusto slavo: la bella spiaggia di ciottoli è coperta da pensiline di acciaio disposte tra i moli che sorgono ogni centinaio di metri. Non ho voglia di partecipare alla visita guidata del “Sanatorio”, in realtà un grande parco con un palazzo che ospita un museo dedicato al viaggio in Crimea di Puskin. Davanti alla scogliera genovese raggiungo la dacha di Cechov, che si rifugiava qui quando era stanco della vita eccessivamente mondana di Yalta, in un posto incantevole incastrato in mezzo alle rocce. Un’ucraina (o una russa?) con un vestito di luccichini si fa fotografare in tutte le possibili pose sulla terrazza, poi si toglie il vestito e rimane in bikini. Starà realizzando un servizio o si tratta solo del naturale esibizionismo delle slave? Dietro la dacha, la gente prende il sole aggrappata alle rocce, mentre in alto incombe un sanatorium in cemento, veramente fuori luogo! Davanti alla dacha non poteva mancare un romantico giardinetto. Nonostante gli schiamazzi dei ragazzi che fanno il bagno, il luogo trasmette grande pace e serenità. La casa è minuscola: in tutto tre camere affacciate sulla veranda; una stanzetta faceva da studio e camera da letto. Un’esposizione di foto ritrae attori delle commedie di Cechov (1901); un’immagine di Gurzuf riporta a quei tempi, quando il villaggio di pescatori doveva essere un posto sperduto e romantico. Mi siedo ad assaporare il paesaggio, distratto dai continui “servizi fotografici” delle ucraine, immaginando Cechov intento a mirare il tramonto, seduto nella veranda.

Raggiunta la spiaggia, la luce del tardo pomeriggio bacia la roccia genovese con il verde degli alberi che quasi nascondono le case; quella di Cechov è proprio l’ultima e s’intravede appena. Per tornare a Yalta prendo il marshrutka #31 che mi evita la risalita fino alla statale.

La sera, ceno a una tavola calda su Puskinskaia; il risparmio è notevole e la scelta dei piatti, tutti esposti con nome e prezzo, semplificata. Il cibo viene riscaldato nei microonde e la sua qualità è buona.

Lunedì 2 luglio: Yalta – Simferopol – treno notturno per Kerch

La costa a occidente di Yalta è dominata dalla mole del monte Ayi-Petri. La cima è raggiungibile tramite una funivia ma, sospettoso verso la sua affidabilità, decido di rinunciarci, limitandomi alla visita della cascata Uchansu, raggiungibile con il marshrutka #30 da piazza Spartak. Arrivato sulla statale, l’autobus però si ferma all’imboccatura della salita verso la montagna. L’autista mi segnala il foglio con gli orari delle corse prolungate fino alla cascata. La prossima è prevista fra un’ora! Tornando sulla mia decisione, ripiego quindi sulla funivia. Da piazza Spartak anche oggi prendo il marshrutka che percorre la costa occidentale, ma arrivato alla funivia scopro che è chiusa (per ristrutturazione o per riposo settimanale?). La massa rocciosa del monte Ayi-Petri si leva imponente fin oltre i mille metri con le cabine della funivia tristemente ferme. La nuda parete verticale sovrasta il bosco; con il binocolo individuo la cabina ferma a metà altezza nel vuoto; forse è meglio che la funivia non sia in funzione! Mentre mi aggiro con fare incerto nel piazzale, sono “agganciato” da un procacciatore che si propone di portarmi in cima in auto, allo stesso prezzo del biglietto della funivia (120 hryvnia A/R). Poi scompare e si ripresenta dopo un po’ in compagnia di altri turisti; tutti insieme saliamo su un van guidato da un suo amico. Per imboccare la strada che sale sulla montagna e poi prosegue fino a Bakhchisaray, torniamo verso Yalta. La giornata prosegue tra alti e bassi: ci fermiamo alla cascata Uchansu dove, pagato l’ingresso, percorro un sentiero fino a quella che sulle guide è indicata come la cascata più alta d’Europa. Oggi però c’è appena un filo d’acqua che precipita dall’alto! Ripresa la salita con il van, attraversiamo un fitto bosco finché, superati i mille metri, usciamo all’aperto. Da una terrazza panoramica la vista si apre su Yalta e lontano il “monte dell’orso”. La stazione superiore della funivia si staglia davanti a pareti rocciose a dente di sega.

Ripartiamo proseguendo in mezzo a prati sassosi fino al terminale della funivia, attrezzato per le esigenze dei turisti. Ho quasi due ore di tempo a disposizione. Alla fine sono stato fortunato: la combinazione di due eventi negativi, il bus che non mi ha portato fino alla cascata e la chiusura della funivia, ha prodotto la soluzione migliore per godermi la giornata. Spira un certo venticello ma non fa freddo. Il panorama è mozzafiato per la sua altezza: con il binocolo scorgo piccolissimo il Nido di Rondine, il mare turchese è la solita tavola, la costa una macchia verde di boschi interrotta dalle costruzioni dell’uomo. I turisti appollaiati sulle rocce sono impegnati a farsi fotografare; su alcuni alberi qualcuno ha legato delle strisce bianche.

Un sentiero a pagamento in mezzo alle rocce consente di arrivare fino in cima, a quota 1234 metri, dove la visione è degna di un’aquila. La vetta è segnalata da un tripode ricoperto di stracci colorati. Sulla roccia di fianco, isolata e poco più bassa, qualche ardito ha collocato una bandiera rossa su una punta e una croce sull’altra; arrivare fin lassù deve essere stata una bella impresa. Più in basso si estende sterminata la massa verde scura dei boschi, con la chiazza turchese del mare. Pochi colori per una meraviglia della natura. Mi stupisce questo mare senza una nave all’orizzonte, una visione di altri tempi. Tra la roccia isolata e la vetta dove mi trovo si scorge lontano il piccolo Nido di Rondine. Lontano e molto più basso, il monte dell’Orso appare poca cosa in confronto all’altezza di Ayi-Petri. Volgendo lo sguardo all’indietro, il paesaggio invece cambia completamente: un brullo altopiano ondulato con alberi solitari, rocce e prati.

Nel piazzale della funivia, all’orario concordato per il ritorno, il van non si presenta e anche la giovane coppia che ha viaggiato con me all’andata sembra incerta sul da fare. Per fortuna non ho pagato ancora nulla, nonostante fossi stato sollecitato, arrivati in cima. Sono circondato dalla “mafia” degli autisti, anche se il tono è abbastanza scherzoso: parlano, parlano con la coppia ma, quando faccio presente che preferirei tornare direttamente a Yalta, mi fanno capire di non preoccuparmi, andrò con uno di loro, pur di pagare i centoventi hryvnia pattuiti. Dopo un po’, infatti, si forma un gruppetto sufficiente a riempire un mezzo e partiamo, mentre la coppia, che deve raggiungere Alushta, rimane sul piazzale. Il nuovo autista è un istrione e fa divertire i passeggeri con le sue battute. Anche questa volta alla fine ci guadagno, perché mi faccio portare direttamente a piazza Spartak!

A Yalta mi è rimasta solo un’oretta di tempo, che sfrutto per una passeggiata attraverso le stradine dietro il lungomare; una è ancora intitolata a Togliatti. Superata la cattedrale dedicata ad Alexander Nevski, sopra la testa mi passano le cabine della funivia cittadina che sale sulla collina subito dietro. Percorrendo un’ultima volta Puskinskaia, mi accorgo che molti degli edifici più belli, in stile neoclassico, recano la scritta “sanatorium”; uno conserva ancora il profilo di Lenin.

Recuperato il bagaglio in albergo, raggiungo l’autostazione. Il bus per Simferopol è pieno. Percorriamo di nuovo il tratto di costa verso oriente, oltrepassando Gurzuf, ma riesco a vedere poco per l’affollamento del mezzo. Superata Alushta, dove scendono molti passeggeri, pieghiamo verso l’interno in mezzo a vasti vigneti. Poi prendiamo a salire, con belle montagne rocciose sulla destra. Per tutto il percorso sopra di noi corre la linea elettrica, i pali di cemento che la reggono sono numerati. Da Yalta a Simferopol si può viaggiare anche in filobus! Arranchiamo fino al passo e dopo la discesa proseguiamo in un paesaggio anonimo fino a Simferopol.

Il viaggio è durato un paio di ore e il bus mi lascia proprio alla stazione ferroviaria, dove mi attende il treno notturno per Kerch che partirà comunque solo fra tre ore. Sull’edificio domina un’imponente torre bianca, vagamente orientale ma sormontata dalla stella rossa. La stazione di Simferopol è piacevole: un grande edificio bianco con porticati dalle colonne corinzie, una riuscita commistione tra oriente e classicismo. Nella grande corte una fontanella con quattro colombe rallegra i passeggeri seduti all’aperto in attesa dei treni. Il clima in Crimea deve essere mite anche d’inverno, visti gli spazi aperti messi a disposizione, molto più piacevoli delle fredde sale di attesa. Non mi resta che procacciarmi la cena: pensavo a qualcosa di frugale ma è pieno di locali e così finisco per consumare un pasto completo.

Finalmente giunge l’ora di salire in treno; è quasi vuoto e nel mio scompartimento con quattro cuccette sono da solo. Mi sistemo quindi con tutta comodità. Alle 22:40 partiamo puntuali e mi metto subito a dormire poiché l’arrivo è previsto prima delle sei del mattino. Durante la notte però il dondolio del treno renderà difficoltoso il mio sonno.

Martedì 3 luglio: Kerch – Feodosiya

Alla stazione di Kerch, schivati un paio di tassisti aggressivi, prendo un marshrutka per l’autovokzal, dove riesco a individuare i lockers per lasciare lo zaino. Nella “camera cagnina” devo impostare una combinazione e poi l’addetta gira la chiave; spero di non avere fatto confusione con i caratteri cirillici. Per ora mi sono liberato del bagaglio e posso girare leggero; anticipando tutti gli aspetti pratici, acquisto anche il biglietto del bus per Feodosiya dell’ora di pranzo.

Una veloce corsa con il marshrutka #5 mi porta in centro; scendo appena vedo la statua di Lenin. Subito incrocio una bella sorpresa: la chiesa di San Giovanni Battista, affascinante edificio in stile bizantino. Le tre absidi sul retro, decorate con mattoni sopra gli archetti delle finestre, creano un bell’effetto di movimento. Sono le sette del mattino e in giro non c’è nessuno, a parte un paio di donne anziane piegate per terra a ramazzare. L’edificio in pietra nuda differisce completamente dalle altre chiese incrociate in Ucraina e riporta a un’epoca precedente. Si dice, infatti, che la chiesa sia la più antica di tutta l’ex Unione Sovietica, risalendo al 717. In realtà sembra essere costituita da due parti: quella posteriore più antica, dal tipico aspetto bizantino con la cupola centrale coperta da tegole, e la navata che si spinge in avanti fino alla facciata dalle forme rinascimentali. Al centro del grande piazzale si erge la statua di Lenin. Ancora una volta ho modo di osservare come i simboli del comunismo in Crimea, in particolare le statue di Lenin, siano rimasti al loro posto, al contrario di quanto è accaduto nelle altre repubbliche ex sovietiche. Lenin guarda verso lo stretto, oltre il quale si trova la Russia, ma ai suoi tempi era tutta Unione Sovietica. Alle sue spalle si erge la collina di Mitridate, sulla cui vetta si erge un obelisco con stella rossa, affiancato da due cannoni. Prima di affrontare la lunga scalinata che porta in cima, nel piazzale rallegrato da belle aiuole fiorite getto un’occhiata al monumento che ricorda la resistenza di Kerch contro i nazisti; anche questa città si è meritata l’Ordine Lenin per il suo eroismo. In cima alla collina sorgeva l’antica Panticapeum, città fondata dai greci a guardia dello stretto, il Bosforo Cimmerio (attuale stretto di Kerch) verso la Palude Meotide (attuale mare di Azov). La città fu per secoli la capitale del regno del Bosforo, una Bisanzio del nord, abitata da una popolazione multietnica, con una cultura tutta particolare frutto dell’incontro tra il mondo classico e quello dei nomadi delle steppe. Anche in questo caso le atmosfere di quei tempi sono rievocate nel libro di Ascherson. Oggi sono rimaste poche rovine, un muro con un arco formato da bei conci, mentre tutti i ritrovamenti più preziosi sono stati trasferiti a Mosca e San Pietroburgo. Ai tempi dei romani il regno divenne uno stato vassallo dell’impero, dopo essere stato protagonista nel tentativo di Mitridate del Ponto di opporsi all’avanzata di Roma in Oriente. Persa ogni speranza e minacciato da Pompeo, Mitridate si uccise proprio a Panticapeum. Quanta storia si cela sotto i prati erbosi di oggi!

Mi siedo di fronte allo stretto ad ammirare il panorama. Nel piazzale l’obelisco risale al 1944 ed è stato il primo monumento commemorativo della seconda guerra mondiale realizzato in tutta l’Unione Sovietica. A quest’ora c’è solo un gruppo di ragazzi che fa ginnastica con la corda, ma per terra è pieno di cicche e bottiglie, segno che il posto è molto “apprezzato”; la collina di Mitridate è uno dei pochi luoghi veramente sporchi che ho incrociato in Crimea. Oltre lo stretto, la bassa penisola di Taman è solo una linea ondulata. Gli antichi ponevano proprio qui uno dei confini tra Asia ed Europa, fino al Tanais (attuale Don) a nord del mare di Azov. Anche i geografi moderni hanno confermato questo confine che per motivi politici i più spostano sul Caucaso. Davanti a Kerch lo stretto si allarga e l’Asia sembra lontana! Solo un paio di navi solcano le calme acque. Il fascino solitario del luogo accresce in me l’idea di essere arrivato a un limite e che il mio viaggio volga al termine; ormai è tempo di prendere la via di casa verso Occidente.

Ridisceso in piazza Lenin, scopro leggendo una guida che il suo spazio è stato ottenuto abbattendo una fortezza turca. Nel frattempo la chiesa di San Giovanni Battista ha aperto e posso visitarla. All’interno si vede chiaramente come intorno alla chiesa antica sia stata costruita una più recente: l’edificio originale ha perso la facciata, in corrispondenza della quale oggi si trovano colonne isolate, ma conserva le alte mura in pietra culminanti nella cupola e nelle tre absidi. Le parti “moderne” si distinguono facilmente perché sono imbiancate a calce. Dalla piazza parte via Lenin, piacevole strada pedonale, dove faccio colazione al “Petit Apetit”, agevolato dal menù in inglese.

Le altre attrattive di Kerch sono sparse nei dintorni della città; mi accordo quindi con un tassista per visitare la fortezza di Yeni-Kale, Tsarsky Kurgan e il museo Adzhimushkay. Per il giovane Alexander si prospetta un bel guadagno e così mi propone una breve deviazione lungo la strada per visitare alcune rovine antiche sul mare. Ben poca cosa ormai!

La fortezza turca di Yeni-Kale sorge nel punto più stretto del passaggio verso il mare di Azov. Dal lato russo, infatti, una sottile striscia di terra si protende nel mare limitandone la larghezza. Il forte è piccolo, con quattro torrette angolari sporgenti, ma faceva parte di una fortificazione più vasta, le cui mura risalgono la collina subito dietro. La Russia questa volta è a portata di mano. Mi torna alla mente un altro confine creato dal disfacimento dell’Unione Sovietica, quello tra Estonia e Russia a Narva con i due forti affacciati uno di fronte all’altro a un tiro di schioppo.

Retrocedendo verso la città raggiungiamo lo Tsarsky Kurgan. I kurgan erano tombe a tumulo scite; ne sono state trovate moltissime nella steppa. Nei tempi passati, spesso erano gli unici rilievi del paesaggio, come racconta fra Guglielmo di Rubruc che nel Duecento raggiunse la Mongolia attraversando queste terre. Lo Tsarsky Kurgan è la sepoltura di un sovrano del regno del Bosforo (IV sec. a.C.). Dall’esterno la collinetta ha il classico aspetto di un tumulo scita, ma l’interno è greco: si tratta di un’opera veramente spettacolare. Il grande corridoio di accesso ha le pareti in bugnato che verso l’alto si restringono attraverso file di blocchi di pietra, sporgenti una sopra l’altra (come nelle casette che costruisco con i Lego insieme a mio figlio!). Rispetto al monumentale corridoio la camera è piccola: la pianta quadrata diventa circolare in alto con una “cupola” fatta di anelli sempre più piccoli. Assomiglia a un cappello frigio o forse a un seno. Ascherson così descrive il monumento.

Quello che apparve ai nostri occhi è sicuramente una delle meraviglie archeologiche del mondo. Un taglio profondo, a forma di V, con le pareti in muratura, porta nel cuore della collinetta. Alla fine di questo corridoio rastremato c’è una porta che si apre sul buio, una fessura incorniciata da grandi mensole di arenaria, l’accesso al mondo sotterraneo. E’ come il crepaccio oscuro che conduce all’antro della Sibilla a Cuma, vicino a Napoli. E’ anche, inevitabilmente, il grembo della Dea Madre. Un gioco di prospettive, cercato, ottenuto con un sottile restringimento delle lastre di pietra, fa sì che la distanza fino alla porta sembri minore di quanto è in realtà, così che ciascun passo avanti sembra farci correre verso il buio che c’è in fondo.

Neal Ascherson – Mar Nero (1995)

All’uscita un cartello mostra una serie di splendidi gioielli, che immagino siano stati scoperti nei vari kurgan sparsi nella regione. Nello Tsarsky Kurgan invece non fu trovato nulla poiché era stato saccheggiato già nell’antichità. Nell’Ottocento sopra la collina di Mitridate fu inaugurato un museo delle antichità nelle forme di un tempio greco, ma gli oggetti di maggiore valore furono trasferiti all’Hermitage di San Pietroburgo; quelli rimasti a Kerch furono saccheggiati al tempo della guerra di Crimea durante l’occupazione inglese della città e molti alla fine sono confluiti nelle collezioni del British Museum e del Louvre.

Terminata la visita, ci dirigiamo poco lontano verso il museo Adzhimushkay. Una sorta di grande portale in pietra si leva nella piana erbosa, una massa notevole costruita come accesso monumentale alle catacombe che si estendono nel sottosuolo. Vi sono scolpite gigantesche figure di partigiani. Alexander è il primo tassista veramente simpatico. E’ sposato con una bambina e parla solo due parole d’inglese. Ha preso a cuore il mio tour e cerca di spiegarmi ogni cosa. Mi racconta storie di partigiani e mi porta verso delle grandi buche nel terreno, spiegandomi che sono state prodotte dalle bombe piazzate dai nazisti per uccidere la gente nascosta nelle catacombe. Per visitarle devo unirmi a un gruppo per un tour guidato. Poiché sono da solo, la cosa non è semplice, ma con l’aiuto di Alexander alla fine ci riesco. Sottoterra la temperatura è di soli dieci gradi; per fortuna mi ha consigliato di affittare un giaccone militare. All’arrivo degli invasori nazisti, diecimila persone si rifugiarono in queste catacombe. Resistettero a lungo ma poi i tedeschi usarono gas e bombe; per loro non ci fu scampo, solo in pochi ne uscirono vivi. È impressionante pensare alla loro vita là sotto e alla fine che hanno fatto. Il tour è incentrato sul concetto della lotta partigiana contro i fascisti (termine utilizzato al posto di nazisti). Mi colpiscono alcuni particolari: un elmetto utilizzato per raccogliere lo stillicidio dell’acqua, un pozzo profondissimo, un lettino operatorio. Un’area è piena di peluches colorati e un bambino ne aggiunge un altro. Davanti al memoriale in granito ai caduti, decorato con la stella di Lenin, spegniamo tutte le torce e facciamo silenzio per un momento di raccoglimento. Il buio assoluto è impressionante.

Ormai ho completo le varie escursioni e mi faccio portare da Alexander alla stazione dei bus. Sembra curioso di conoscere l’opinione su Kerch di un cittadino della “mitica” Rym; è molto orgoglioso della sua città. Alla fine mi saluta con grande affetto che ricambio. Nel piazzale dell’autostazione sorge un altro tumulo scita, Melek Kurgan. La sua visione sullo sfondo dei bus è unica al mondo! È più piccolo, probabilmente la sepoltura di un bambino, ma molto interessante. La facciata è decorata da un timpano, preceduta dal corridoio che conduce alla camera quadrata. Questa volta anche la copertura rimane tale, una sorta di Lego a piramide.

Consumato al volo un hot dog e recuperato senza problemi il bagaglio nella “camera cagnina”, sono pronto per prendere il bus per Feodosiya. Il tragitto si svolge in una monotona pianura erbosa. Il tempo è peggiorato, per la prima volta durante il mio viaggio comincia a piovere. I paesi che attraversiamo nella lunga penisola di Kerch appaiono rurali. Improvvisamente sbuchiamo sul mare, una serie di spiagge frequentate dai bagnanti. Siamo arrivati a Feodosiya, la genovese Caffa principale città della Crimea orientale.

Preso possesso della camera nell’albergo, raggiungo il lungomare cittadino ma il mare non si vede neppure, nascosto dalla ferrovia. La via pedonale è tutta una successione delle solite bancarelle; davanti alla piccola stazione non può mancare la statua di Lenin.

Nella passeggiata verso la fortezza genovese, incrocio una semplice chiesa armena, risalente al Trecento. Nelle pareti in nuda pietra riconosco varie khatchkar, le croci tutte lavorate tipiche dell’architettura armena, insieme a iscrizioni nel loro inconfondibile alfabeto. Di fronte si trova la tomba di Ayavazovsky, apprezzato pittore armeno vissuto nell’Ottocento e nativo di Feodosiya. La fortezza genovese affacciata sul mare un tempo doveva essere imponente; Caffa era il porto principale di tutta la Crimea. Oggi rimangono parti delle alte mura, con torri diroccate dalle finestre tamponate. Il contesto tuttavia è molto degradato, con il filo spinato che chiude la visuale verso il mare ed alcune auto abbandonate ridotte a rottami. Subito fuori, da una chiesa in mezzo a un cimitero si levano dei canti; l’edificio di pietra ha le sembianze di una chiesa armena. Nel frattempo il cielo si è fatto scuro e minaccia un acquazzone che si scatenerà, infatti, poco dopo. Anticipando la cena mi rifugio nel “Mercury”, dietro il “Krym Kino Teatr”, per un’altra cena tartara.

Mercoledì 4 luglio: Feodosiya – trekking alla riserva di Kara Dag – Sudak

La visita del parco di Kara Dag, nei dintorni di Feodosiya, è consentita solo ai gruppi accompagnati da guida. Seguendo i consigli della Lonely Planet, ieri su lungomare cittadino ho chiesto informazioni alle signore delle gite organizzate, appostate per i turisti. Tutte mi proponevano la gita in barca al parco, solo una più sveglia ha capito le mie intenzioni. Naturalmente parlava solo russo, per cui ha cominciato a chiedere ai passanti se qualcuno conoscesse l’inglese. Alla fine ha fermato una ragazza costringendola a fare da interprete. Mi ha spiegato che la gita parte da Kurotne e c’è un marshrutka dalla stazione in centro la mattina alla sette, scrivendomi tutto su un foglietto e segnandomi la stazione su una cartina. Dopo cinque minuti le sono ripassato davanti e mi ha fermato di nuovo, portandomi da una “collega” che organizzava proprio l’escursione che volevo fare. Ho aderito volentieri, pagando settanta hryvnia per il trasporto e facendomi segnare sulla mappa il luogo dell’appuntamento.

Oggi alle 6:50 nel luogo convenuto c’è un certo assembramento; da qui partono, infatti, gite organizzate per tutta la Crimea e gli agenti sono impegnati a chiamare all’appello i partecipanti. Finalmente è il turno di Kara Dag: siamo una decina di persone. Nel percorso verso Kurotne la guida parla per tutto il tempo, ma poi, giunti a destinazione, il suo ruolo è finito perché siamo aggregati a un gruppo condotto da una guida ufficiale del parco.

Nel piccolo museo un plastico permette di rendersi conto che ci troviamo nell’area di un antico vulcano affacciato sul mare. Nell’esposizione spiccano una gru dalle grandi ali, un avvoltoio, un’upupa con la cresta, tutti impagliati. Finalmente arriva il momento di iniziare il trekking; siamo una quarantina di persone e naturalmente sono l’unico che non parla russo. Il primo tratto si svolge all’ombra degli alberi, in leggera salita. Ci fermiamo per una sosta durante la quale l’istrionica guida si esibisce tra l’altro in una serie di canti. Poi iniziamo una ripida salita; molti escursionisti sono in ciabatte ma non si fanno problemi. La vista si apre su quella che deve essere stata la caldera del vulcano, con pinnacoli di roccia isolati sparsi qua e là; una roccia sembra un profilo umano. La vista è spettacolare ma le sorprese non sono finite: salendo, improvvisamente appare il mare, uno spicchio di azzurro racchiuso tra due pareti verticali che formano una sorta di grande V. Una barca è ferma proprio davanti a noi; siamo saliti a quota trecento metri, sull’orlo della caldera verso il mare. Poco dopo in mare appare un grande arco di roccia, il simbolo del parco; di fronte a noi una parete meravigliosa, piena di pinnacoli di roccia uno dietro l’altro. L’ascesa prosegue tra scenari spettacolari. Superato un enorme macigno verticale, ci affacciamo sull’altro lato del promontorio, rispetto al punto di partenza, e le vista si apre sul golfo di Kokbetel, chiuso da una striscia di terra priva di alberi che si prolunga in mare per un bel tratto. Nel frattempo siamo arrivati a quota quattrocento. Il mare turchese è cosparso di macchie più scure. Ormai non ci resta che scendere in picchiata, lungo una sterrata sotto il sole cocente, fino a Kokbetel, dove le nostre fatiche si concludono in spiaggia. L’acqua però è piena di meduse e preferisco non fare il bagno. Nell’ultimo tratto un ragazzo russo che parla un po’ d’inglese cerca di fare conversazione con me, rimanendo stupito del fatto che sono italiano e addirittura di Rym (ormai ho imparato a chiamare Roma in russo, consapevole che altrimenti nessuno mi capirebbe!). Vuole assolutamente farsi fotografare con me; lo straniero occidentale è ancora una rarità da queste parti. E’ in vacanza a Feodosiya per due settimane.

Il pomeriggio, da Feodosiya il bus per Sudak in mezzora mi riporta a Kokbetel, affollata di villeggianti. La strada prosegue nell’interno in un paesaggio boscoso per un’altra ora. A Sudak la pensione “Kameliya” è la casa di una famiglia che ha attrezzato una dependance per i turisti. Preso possesso della camera, piccola ma carina, raggiungo Lenina, il corso principale, dove passa il marshrutka per Novy Svit. Il paesino dista solo pochi chilometri e ha una spiaggia considerata tra le più belle della Crimea. Prima però mi godo la visione della fortezza genovese, che visiterò domani, un vero spettacolo nella luce della sera con le mura che si arrampicano sopra le rocce a picco sul mare. La strada prosegue tortuosa e strettissima fino a Novy Svit. Dall’alto il colpo d’occhio è molto bello: una baia racchiusa come in un abbraccio da monti rocciosi che si protendono nel mare. Subito mi chiedo se anche la visione ravvicinata sarà all’altezza, visto la capacità degli ucraini di rovinare i paesaggi più belli! In effetti, questa volta la situazione appare più piacevole. Dalla piazzetta dove mi lascia il bus, percorro un sentiero in mezzo a una pineta, fino al lungomare. La spiaggia non è male e a quest’ora non è nemmeno affollata, anche se i grandi locali sopra i pontili danno un po’ fastidio. Le sdraio occupano tutti gli spazi al sole e non mi rimane che sistemarmi all’ombra di un locale. L’acqua è sporchina, con le stesse meduse di questa mattina. Tutti fanno il bagno tranquilli, probabilmente sono morte, ma io non me la sento di tuffarmi anche perché fa un po’ fresco, per i miei standard italiani. Mi sdraio invece sulla spiaggia per godermi lo spettacolo naturale della baia.

La sera, la passeggiata pedonale di Sudak è affollata all’inverosimile; rispetto alle altre città, noto una maggiore concentrazione di discoteche, anche se è ancora presto e le piste da ballo sono vuote.

Giovedì 5 luglio: Sudak – Simferopol – treno per Odessa

La fortezza genovese di Sudak è veramente spettacolare: le mura si estendono per alcuni chilometri a protezione di una cittadella a picco sul mare. E’ strano trovare in Crimea un castello medievale che non sfigurerebbe in Occidente! L’ingresso avviene attraverso due possenti torri merlate che proteggono la piccola porta. Curiosamente dal lato interno le torri sono prive di pareti, lasciando intravedere la loro struttura. Il grande spazio recintato dalle mura oggi si presenta come un vuoto pendio erboso, cosparso qua e là dai resti di antichi edifici, ma le spiegazioni solo in russo mi rendono difficile comprenderne la destinazione passata. Dalla guida apprendo che le torri sono intitolate a nobili genovesi. In un angolo sorge una piccola moschea quadrata, coperta da una bassa cupola metallica. Sicuramente in precedenza era stata una chiesa (XIII secolo). All’interno, nell’unico ambiente quadrato con due pilastri che riparano una sorta di nartece, riconosco la nicchia del mihrab. Sono esposti oggetti ritrovati nella fortezza: un bassorilievo ritrae San Giorgio, nelle vesti di un cavaliere con un cimiero dalle grandi piume, mentre uccide il drago; molte anfore sono state ripescate in mare, come testimoniano le foto con i sub. Al centro un bassorilievo della Madonna con il Bambino ha conservato tracce di colore. Proseguendo l’esplorazione della fortezza, dai bastioni mi affaccio sul mare. La spiaggia di Sudak è già affollata di bagnanti; il loro vociare allegro arriva fin quassù. Mentre salgo verso il giro più alto delle mura sul lato del mare, mi appaiono tre uomini di colore a torso nudo, con gonnellino leopardato e tamburi. Sono a disposizione dei turisti che vogliono farsi fotografare insieme, forse un lontano ricordo del traffico di schiavi che arricchì i mercanti del passato (ma certo non erano schiavi neri!). Una torre può essere visitata: al piano terra spicca il grande camino, mentre quello superiore, con pavimento e loggia di legno, ha un bel soffitto dalla volta ogivale in pietra e bifore affacciate su tre lati, dalle quali si godono magnifiche viste sul mare, la linea più alta di fortificazioni e la città. La torre più in alto appare come aggrappata alla roccia, sopra pareti verticali. Avvicinandomi scopro che per raggiungerla si può utilizzare un lungo cavo di acciaio al quale aggrapparsi. Non se ne parla! I pochi temerari che sono saliti fino in cima, in realtà hanno preferito scalare le rocce senza aiuti. Anche senza salire sulla torre, sotto la parete sopra la quale si erge, il panorama è splendido. Sul lato opposto alla città, la vista abbraccia la costa fino a Novy Svit, una serie d’insenature chiuse da montagne di granito chiaro che abbracciano un mare turchese, anche se non manca qualche macchia marrone un po’ sospetta a riva. Mi siedo su una roccia ad ammirare lo spettacolo, mentre un gabbiano mi volteggia intorno leggero.

I bus in Ucraina sono puntualissimi, i posti assegnati e ormai sono diventato un esperto, così alla stazione trovo subito il mezzo per Simferopol. Il viaggio si snoda tra colline boscose in un fondovalle pieno di vigneti, finché non sbuchiamo sulla strada proveniente da Feodosiya. Da qui proseguiamo per un’altra ora attraverso una monotona pianura.

Alla stazione di Simferopol, nell’attesa del treno notturno per Odessa, ritorno al caffè della volta scorsa e mi collego a internet. Questa volta il treno è pieno; nel mio scompartimento con quattro cuccette sono in compagnia di una signora e una famiglia con una bambina. Partiamo puntuali alle cinque. Il percorso si dipana attraverso una pianura sterminata; unica nota di colore gli immensi campi di girasoli. Fa un caldo bestiale anche perché i finestrini dello scompartimento non si possono aprire e l’aria condizionata non è prevista. Per questo passo gran parte del tempo nel corridoio, dove almeno c’è un po’ di ventilazione. La notte trascorre tranquilla: riesco a dormire fino alle quattro quando sono svegliato dall’addetto alla nostra carrozza, un’oretta prima dell’arrivo.

Venerdì 6 luglio: Odessa

Dalla monumentale stazione di Odessa in stile classicheggiate, una corsa del marshrutka #148 mi porta in centro, dove raggiungo facilmente l’ostello “Tiu Front Page”. Quando suono al campanello, sono le sei del mattino e mi viene ad aprire un omaccione assonnato. La camera privata che ho prenotato è già libera e così posso prenderne subito possesso. Una notizia eccezionale! Le pareti hanno una carta da parati con pagine di giornale (da cui il nome dell’ostello), sopra la quale sono stati applicati dischi in vinile; quella del gestore è ancora più originale, ispirata a “Playboy”. L’ostello è ospitato in un grande appartamento all’ultimo piano di un palazzo, con alti soffitti stuccati. Le due camerate sono quasi vuote, insomma una sistemazione molto piacevole, nonostante le scale del palazzo fatiscenti e maleodoranti. Sistemate le mie cose, ne approfitto per schiacciare un pisolino.

Odessa è una città giovane, con appena due secoli di vita, essendo stata fondata dalla zarina Caterina la Grande, dopo la conquista della regione sottratta ai turchi. Nell’Ottocento, lungo il suo viaggio in treno da Londra a Baku, Charles Marvin la visitò prima di imbarcarsi sul piroscafo alla volta di Batumi in Georgia.

Odessa è notevolmente migliorata dai tempi primitivi di fango e polvere, che spinse il poeta Puskin a paragonarla a un calamaio in inverno e una buca nella sabbia in estate. Le sue ampie strade quadrangolari sono ben pavimentate e piantate come viali con acacie; le alte case bianche, costruite in pietra ricavata dalle cave limitrofe, sono animate da bei negozi. Come città è meglio costruita e meglio pavimentata di San Pietroburgo e Mosca, e in molti altri aspetti è più avanzata rispetto a entrambe queste capitali. Quando il poeta Puskin – contemporaneo e ammiratore di Byron – vi risedette, la città era ancora nella sua infanzia, come Novorossisk, Poti, Batoum, ed altri punti della costa del Caucaso. Ci sono ancora persone che vivono nel sud della Russia che ricordano quando Odessa non esisteva. Sono passati soli novanta anni da quando il generale De Ribas e i russi presero d’assalto l’insignificante fortezza di Hadji Bey, e assicurarono il grande porto di Odessa all’imperatrice Caterina la Grande, e non è stato fino a qualche anno dopo l’assalto che i conquistatori iniziarono a sviluppare il luogo. Una volta che è stata avviata, tuttavia, la città si è sviluppata incredibilmente, acquisendo le sue caratteristiche galliche, dal fatto che i suoi primi governatori, De Ribas, Richelieu, e Langeron, furono francesi.

Charles Marvin – The Region of the Eternal Fire (1883)

A due passi dall’ostello, l’alberata Piazza Soborna è dominata dalla chiesa della Trasfigurazione, una delle più grandi in tutto l’impero zarista. Ricostruita da poco, dopo essere stata distrutta dai sovietici, si presenta come una candida costruzione bianca e gialla, dominata dalla cupola e dalla guglia del campanile di aspetto nordico. Le linee neoclassiche non sembrano quelle di una chiesa ortodossa. L’interno a croce latina abbaglia per la lucentezza del marmo e dà l’idea di una chiesa appena finita, con gli ori lucidissimi. Sulla piazza si apre l’ingresso del Passaz (1898), una galleria che è un vero tripudio barocco di decorazioni, carica di sculture tra le finestre e sopra i balconi. Dall’altro lato si sbuca nel City Garden, altra piazza piacevolmente a giardino. In un angolo un insolito monumento rappresenta una poltroncina, a ricordo del romanzo satirico “Le Dodici Sedie” di Ilf e Petrov. La storia racconta le vicende di un nobile decaduto al quale la suocera confessa in punto di morte di aver nascosto i gioielli di famiglia in una sedia del salotto. Le sedie nel frattempo sono state espropriate dopo la rivoluzione e ora si trovano sparse per tutta l’Unione Sovietica. Inizia una ricerca spasmodica che riuscirà a rintracciare tutte le sedie ma non i gioielli. Nella piazza spiccano altri monumenti: un leone ha catturato un cinghiale, una leonessa allatta i suoi cuccioli, mentre un grande padiglione è a disposizione delle orchestre; Leonid Utyosov (1895-1982), famoso cantante jazz nativo di Odessa, è seduto su una panchina e lascia libero un posto che sembra fatto apposto per farsi immortalare con lui. Dalla piazza inizia Ulica Derybasivska, nel suo tratto pedonale piena di locali e luogo deputato allo struscio serale. La percorro tutta, fino a raggiungere la statua di De Ribas; il fondatore di Odessa, un nobile spagnolo al servizio dello zar, è ritratto con la piantina della città in mano, vestito con abiti del Settecento. Qualcuno gli ha legato alla vita una camicia bianca. Nella piazzetta due barboni dormono all’ombra; sono i primi senzatetto incontrati durante il mio viaggio.

Proseguendo la passeggiata tra la griglia di strade di Odessa, raggiungo la grande sinagoga, che ormai non ha più niente di antico; durante il comunismo era stata trasformata in una palestra. Una comunità ebraica è sopravissuta e oggi la sinagoga è affollata di uomini e ragazzi con la papalina. Entrato, sono subito dirottato verso il negozio, nel quale la merce in vendita reca scritte in ebraico.

Il piccolo museo dedicato a Puskin ricorda il suo soggiorno a Odessa, dopo tre anni passati a Chisinau, una sorta di confino che gli fu imposto per le sue idee liberali. L’esposizione include vari ritratti dello scrittore, il tipico donnaiolo dell’Ottocento con i basettoni e i capelli arruffati. Molte donne sono state sue amanti, tra le quali la moglie di Vorontsov, il governatore della città che avrebbe dovuto sorvegliarlo. Alcuni manoscritti sono pieni di schizzi; in uno riconosco la Vorontsova, confrontandola con il ritratto a fianco. Il soggiorno di Puskin sul mar Nero è fatto rivivere nel libro di Ascherson, incluso il suo viaggio in Crimea.

Proseguendo nella visita dei musei cittadini, passo al Museo Archeologico, ospitato in un grande edificio neoclassico. Appena entrati, una sala è dedicata ai giochi olimpici. Una piccola anfora da Olbia (IV sec. a.C.) ritrae un atleta nel gioco della palla (dietro la foto di un calciatore dei tempi nostri!). Nella grande sala centrale molti vasi greci e busti dell’epoca greco-romana sono donazioni della comunità greca di Odessa e provengono da Italia e Grecia. Riconosco un volto di Augusto. Altri reperti provengono da Olbia, colonia greca fondata da Mileto nel VI secolo a.C. sul fiume Bug, nell’attuale regione di Mykolaeiv. Il pezzo più interessante è una pittura tombale con un uomo disteso che regge un anello mentre una donna velata siede davanti a un tavolino con il cibo. Un’altra sala è dedicata ai ritrovamenti delle città di Tyras e Nikonoin alla foce del Dniestr. Due lastre tombali con cavaliere provengono da Panticapeum, un busto ritrae Mitridate. Seguono reperti da Chersoneso e dal regno del Bosforo. Al piano di sotto, un curioso totem proviene da Konia: si presenta come un alto pilastro con tre livelli di figure. In quello più basso, uomini con le mani alzate reggono le figure del secondo livello, mentre in quello più alto sui quattro lati sono raffigurati grandi personaggi le cui facce condividono un unico cappello a bombetta. Questa sezione dedicata alle popolazioni nomadi (sciti, sarmati) sarebbe ancora più interessante ma le spiegazioni sono solo in russo. Un modellino riproduce un carro scita; in una vetrina sono conservate parti di un’armatura con scudo ed elmo. Segue una parte dedicata allo stato medievale della Kyiv Rus, importante per le radici storiche di Russia e Ucraina: la sala con reperti dell’Antico Egitto è decisamente fuori tema!

L’edificio più celebre di Odessa è il Teatro dell’Opera, appena tornato ai passati splendori dopo il restauro. Disegnato dagli stessi architetti dell’Opera di Vienna, ha una struttura circolare alleggerita dalla delicata tonalità crema. Dall’Opera raggiungo Primorsky Boulevard, celebre passeggiata alberata ottocentesca. La piazza da cui inizia è dominata dal bianco colonnato del Municipio, mentre il cannone puntato verso il porto è un trofeo della guerra di Crimea. All’inizio del viale si erge un grande busto di Puskin. Proprio sul Boulevard si trovavano il palazzo e la banca degli Ephrussi, la ricca famiglia ebrea originaria di Odessa protagonista del libro “Un’eredità di avorio e ambra” di Edmund De Waal, ma già l’autore nella sua visita alcuni anni fa aveva trovato gli edifici in completo rifacimento. Il viale è immacolato; l’ombreggiata passeggiata centrale, un’oasi di ristoro nella calda giornata odierna. I lampioni riproducono le forme di quelli a gas di un tempo. Mi viene da chiudere gli occhi, immaginando dame e gentiluomini a passeggio più di un secolo fa. Cerco di individuare il palazzo con lo stemma della famiglia Ephrussi ma non ci riesco. Raggiungo allora la statua del duca di Richelieu, rappresentato in foggia di antico romano togato. Il nobile francese, fuggito dalla rivoluzione, fu il primo governatore di Odessa, importante promotore dello sviluppo della città. Da qui inizia la scalinata immortalata nel film “La corazzata Potemkin”. Naturalmente non è niente di eccezionale e solo il ricordo del film la rende così famosa. L’unica particolarità sono i giochi prospettici: dall’alto si vedono solo le terrazze, mentre dal basso solo i gradini, inoltre poiché questi si restringono in larghezza verso l’alto, la scalinata da sotto sembra più alta. Dalla cima la vista abbraccia il porto, mentre la cremagliera di lato è per i veramente pigri.

Nel Museo del Porto sono l’unico visitatore. Il custode accende le luci appena entro in una sala, per poi spegnerle subito dopo il mio passaggio. Le spiegazioni sono tutte in russo, per cui non mi resta che dare un’occhiata alle foto d’epoca che ritraggono signore a passeggio con l’ombrellino sulla scalinata e gli edifici sventrati della città nel 1944. Sceso verso il porto trovo il monumento ai marinai della rivolta del 1905, degradato a questa sistemazione per fare posto alla statua della zarina Caterina, nonostante le proteste dei nazionalisti ucraini! Il monumento realizzato nel 1965 ritrae un gruppo di marinai nel solito stile retorico del comunismo.

Il pomeriggio, passeggiando lungo il Boulevard Primorsky, osservo molti volti dai lineamenti non slavi; la tradizione cosmopolita di Odessa non è andata del tutto perduta. E’ in corso un concerto ed è veramente curioso vedere quattro neri, tre donne e un uomo, cantare e ballare canzoni popolari slave. Osservo di nuovo la scalinata: dall’alto è veramente triste, non c’è nemmeno un fiore a ingentilirla, solo una massa scura di granito e cemento. Unica nota colorata le ucraine tutte prese a farsi fotografare. Scendendo e attraversando la strada, effettivamente la scalinata sembra altissima e Richelieu sbuca come un gigantesco passante sull’ultimo gradino. Un cavalcavia consente di scavalcare la ferrovia e raggiungere il grande pontile affacciato sul porto. La schiera di gru gialle per scaricare i container è impressionante. Una curiosa scultura rappresenta un bimbo cicciottello dentro una specie di uovo (1995). Da quaggiù la scalinata Potemkin appare più gentile, circondata dagli alberi della collina sopra la quale corre il Boulevard. Il terminale marino è dominato dal grattacielo bianco e blu dell’hotel Odessa. Chissà dove sarà diretto il grande traghetto passeggeri intitolato a Mikhail Lomonosov, studioso e scienziato considerato il “Leonardo da Vinci russo”. Arrivato fino in punta, scopro che l’hotel è chiuso; voglio salutare il mar Nero che ha accompagnato tutta la seconda parte del mio viaggio. Improvvisamente si leva un vento forte che spazza via il calore tremendo della giornata (poco fa il termometro della stazione portuale segnava trentacinque gradi). Qualche nuvola compare sulla città, ma il faro bianco in mezzo all’acqua è ancora baciato dal sole. Il vento aumenta come a volere cacciare l’intruso straniero. Quando anche il mare s’increspa, prendo la strada del ritorno. Il vento mi sferza con la polvere che trasporta. Me ne vado! Me ne vado!

Sul Boulevard proseguo lungo il tratto che ancora non avevo esplorato, oltre la statua di Richelieu. Un palazzo bianco e crema è tra i più ricchi, carico di facce di donne, mostri e uno stemma sicuramente di qualche ricca famiglia che in passato vi ha abitato.

Per cena scelgo il “Kompot Cafè” sedendomi lungo Derybasivska, affollatissima per lo struscio serale. Le razze si mescolano: passa un’islamica con un fazzoletto, durante il giorno ho incontrato vari zingari e due sposi orientali intenti a farsi fotografare davanti all’Opera. Il borsch è squisito. Intanto continuo a osservare il passeggio: un tipo sui trampoli indossa una testa di asino e distribuisce volantini, ragazze in costume ottocentesco vendono fiori. Arriva anche il manzo Stroganoff a completare la mia cena russa! Una carrozza bianca è trainata da due cavalli dello stesso colore.

Sabato 7 luglio/Domenica 8 luglio: Odessa

La mattina Derybasivska è quasi deserta, ma il fedele “Kompot” è pronto a sfornarmi una colazione con canzoni francesi in sottofondo. Riprendo la mia esplorazione della città dal palazzo Vorontsov, in fondo la Boulevard Primorsky. Il governatore di Odessa, durante il soggiorno di Puskin, risedette in questo grande palazzo neoclassico, per la sua posizione bene in vista sopra il porto più volte danneggiato da bombardamenti. Ancora oggi una palla di cannone è conficcata in una parete, ricordo lasciato dalla flotta anglo-francese durante la guerra di Crimea. Dal piazzale parte il “ponte della suocera”, fatto costruire negli anni cinquanta da un ufficiale comunista per facilitare la visita della suocera o per non darle scuse per rimanere anche la notte, secondo le versioni. Sulla ringhiera gli innamorati hanno lasciato i loro lucchetti, come a Ponte Milvio a Roma. Superato il ponte, Ulica Gogoloya è ricca di architetture ottocentesche. Il gusto dell’epoca amava inserire nelle facciate atlanti o grandi sfere che sostenevano balconi, come in un palazzo lungo la via. Nell’edificio più ricco la profusione di decorazioni mescola vari temi, con schemi geometrici di mattoni gialli e rossi, volti di donne, leoni dalle fauci spalancate, grandi colonne corinzie; l’effetto complessivo non è certo aggraziato. In una casa della via risedette anche Gogol. Nei paraggi un palazzo dell’Ottocento ospita il Museo Regionale. Al primo piano vignette umoristiche d’inizio Novecento ritraggono lo zio Sam e i potenti del mondo, ai tempi della guerra russo-giapponese. Le spiegazioni sono solo in russo, ma le foto di lavoratori e i giornali d’epoca parlano da soli. Una cartina in latino della “Provinciarum Turco Tartaricum” reca la data 1756 e raffigura la Crimea con le varie città che ho imparato a conoscere. Un salottino è arredato con mobili d’epoca, un grande plastico riproduce l’Opera, una stampa della cattedrale mi permette di verificare come sia stata ricostruita uguale all’originale. Alcune piantine illustrano il progetto originale della città che doveva sorgere dal nulla.

Proseguendo nella mia giornata museale, raggiungo il Museo dell’Arte Occidentale e Orientale, che dovrebbe essere il più importante della città. Tuttavia già alla biglietteria mi annunciano che la sezione orientale è chiusa. Nelle sale dedicate alla pittura occidentale, apprezzo un vecchio San Girolamo di Ribera e un San Pietro del Guercino, anche lui anziano con una lacrima che gli riga il volto. Al primo piano posso visitare solo un grande salone stuccato, tutto il resto è chiuso per un restauro di cui si sente veramente il bisogno! Solo un paio di sale ospitano una mostra con belle foto dal Buthan. Non c’è traccia invece del dipinto di Caravaggio, rubato e poi ritrovato recentemente, e neppure dei due Apostoli di Haals, scoperti al mercato Pryzoz in possesso a una vecchietta che li ha ceduti per pochi soldi, dopo essere scomparsi ai tempi di Caterina, per il naufragio della nave che li portava in Russia.

Il Museo della Letteratura è senz’altro più interessante, anche se per apprezzarlo del tutto bisognerebbe essere un “intenditore”. Nella grande sala stuccata è in corso un concerto per archi, ma riesco appena ad affacciarmi prima di essere respinto dalle custodi. In compenso la musica accompagna tutto il mio giro attraverso le sale dedicate agli autori vissuti o passati per Odessa, dalla sua fondazione ai giorni nostri. In particolare riconosco alcune foto di Babel con gli occhialini. I suoi “Racconti di Odessa” sono uno spaccato eccezionale della vita nel ghetto ebraico negli anni a cavallo dell’avvento del comunismo. Nelle varie sale la mia attenzione è attratta da foto e stampe dei tempi che furono.

Il pomeriggio passeggio verso la stazione e il mercato. Lungo la striscia di giardini un grande monumento raffigura un guerriero che indossa pantaloni gonfi, seduto a fianco del suo cavallo alla cui sella mi sembra sia appesa la fodera di una pistola. Sopra un angelo. Chi sarà mai? Poco oltre un misero monumento ricorda le vittime di Chernobyl. Il mercato Pryzov è affollato nonostante il caldo. Si estende tra padiglioni e spazi all’aperto. Improvvisamente mi trovo di fronte la fermata dei bus per Chisinau, dove ebbe inizio il mio viaggio. Sono passate appena due settimane ma mi sembra una vita. Durante un’intervista al festival della letteratura di viaggio a Roma, Tony Wheeler, fondatore delle “Lonely Planet”, ha raccontato che tornato in Australia dopo mesi di viaggio via terra da Londra, poteva ricordare cosa aveva fatto ogni singolo giorno. Proprio questo, in contrapposizione alla routine della vita di tutti i giorni, è uno degli aspetti più belli del viaggiare.

Nella piazza della stazione spiccano le grandi cupole della Panteleymonivsky. Una sola ha riacquistato la doratura ma ho l’impressione che presto lo faranno anche le altre. Provo a entrare ma una corda davanti a una scala ferma la mia avanzata. Probabilmente la chiesa è al piano superiore, come San Vladimiro a Chersoneso, ma non lo saprò mai, anche perché ho i pantaloni corti ed è meglio non stuzzicare la suscettibilità delle babushka.

Con il tram #5 dalla stazione raggiungo la spiaggia di Arcadia, dove ritrovo il solito turismo balneare ucraino, accentuato nei suoi aspetti negativi dalla vicinanza della grande città. Questa volta la spiaggia è di sabbia ma l’acqua è piena di alghe! Superato il primo tratto, affollatissimo e invaso dalle strutture dei bar ristoranti, mi sposto più avanti raggiungendo una spiaggia libera, dove mi sdraio all’ombra per godermi un po’ di fresco in costume. Tutti fanno il bagno, ma io preferisco darmi solo una rinfrescata, facendo lo schizzinoso per le alghe. Arcadia è considerata uno dei templi del divertimento in Ucraina, ma la passeggiata dalla fermata del tram alla spiaggia mi ha solo proposto la solita successione di bancarelle e giochi da luna park. I locali probabilmente si animeranno più tardi per la movida serale.

Tornato in centro, per l’ultima cena del viaggio scelgo un ristorante ucraino: il “Kumanets” vuole riprodurre un villaggio rurale anche nell’abbigliamento dei camerieri. La cena è ottima: arrosto di maiale con carote, involtini di cavolo, dolce al formaggio, innaffiati da birra ucraina. Dopo cena passeggio di nuovo lungo Boulevard Primorsky, in un’atmosfera senz’altro più piacevole degli strusci balneari ucraini. Gli alberi sono illuminati da lampadine colorate e il solo sottofondo sonoro è il parlottare della gente, invece della solita musica da discoteca. Non ci sono auto, ma solo carrozze trainate da cavalli bianchi.

La mattina dopo torno al “Kompot” per un fragrante croissant. L’aria è tersa per il temporale di ieri sera e i colori sono luminosi come in una città del Mediterraneo. Rivedo il grande palazzo in costruzione sulla Derybasivska davanti al City Garden; ormai quasi completo, ricorda lo stile art noveau di molti edifici di Riga in Lettonia o i palazzi di Gaudi a Barcellona.

Odessa è priva di grandi attrazioni storico-artistiche ma la sia visita è stata piacevole, una città da godersi passeggiando senza pensieri. Il mio viaggio volge al termine. Sono emozionato, oggi rivedrò dopo quindici giorni, Stefania e Fabio, il nostro bambino di due anni e mezzo. Ai nostri giorni la lontananza è molto attutita dai cellulari, grazie ai quali in ogni momento puoi metterti in contatto con una persona cara, ma ciò non è vero per un bambino piccolo; come avrà preso la mia assenza, come accoglierà il mio ritorno? Lo saprò solo dopo vari scali aerei: la cancellazione del volo della compagnia ceca mi costringe a transitare per Varsavia e Milano.

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Chersoneso - Basilica

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Odessa - Passaz

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Odessa - Opera

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Novy Svit

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Mangup Kale

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Mangup Kale

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Mangup Kale

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Kerch

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Chufut Kale - Kenasse

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Sebastopoli - Museo Navale

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Riserva Kara Dag

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Chufut Kale - cimitero karaita

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Chisinau - Stefano il Grande

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Yalta - Palazzo Vorontsovsky

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Balaklava

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Chisinau - Arco di Trionfo

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Chersoneso

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Bakhchisaray - Palazzo del khan

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Bakhchisaray - Panorama

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Bakhchisaray - Palazzo del khan

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Sudak - Panorama

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Yalta - Nido di Rondine

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Sebastopoli - Tramonto

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Sudak - Fortezza Genovese

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Yalta - Statua di Lenin

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Yalta - Palazzo Massandra



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