Il mio Marocco “on the road”

Prove tecniche di reportage
Scritto da: brabam
il mio marocco on the road
Partenza il: 30/11/2010
Ritorno il: 14/12/2010
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
30/11/2010 in viaggio per Marrakech

Confesso: non sono mai stato in Marocco.

Forse é tardi per farlo adesso, ma chi può dirlo? C’é un’età per viaggiare?

Un viaggio é prima di tutto motivazione, voglia, desiderio, ambizione, curiosità, coraggio.

No, non esiste un’età per farlo, esiste solo la determinazione a farlo

(Per questo viaggio, non preventivato e non preparato nei minimi particolari, ho preso al volo il consiglio di un’amica, Carmen, che mi suggeriva di appoggiarmi ad un ragazzo, Dave, peraltro del mio paese, Sestri Levante, grande conoscitore del Marocco, avendolo visitato in lungo e in largo, con ogni mezzo. Lo ha fatto diventare il suo lavoro invernale, mettendo a disposizione la sua conoscenza ed il suo camper, un robusto Volkswagen Transporter 4×4, adatto allo scopo. Ci siamo incontrati 15 giorni prima della partenza in un bar, abbiamo definito i termini dell’eventuale accordo e ci siamo salutati. Il giorno dopo l’ho richiamato, dicendogli che avevo deciso, che avevo prenotato l’aereo – partenza il 30.11.2010 e ritorno il 14.12.2010- e che ci si sarebbe incontrati a Marrakech il 30.11.2010 all’aeroporto. Lui con Monica, spagnola di Madrid, sarebbero arrivati via terra, facendo, nel lungo itinerario dalla Liguria al Marocco, una tappa in Spagna, a trovare i famigliari di lei)

La mia partenza é stata una svegliataccia dopo 2 ore di non sonno, per arrivare a Pisa e rispettare i tempi tecnici del check-in (tra l’altro già fatto online, come prevede la linea aerea low cost).

In aeroporto alla fila per l’imbarco incontro un amico messicano che si é trasferito nella mia cittadina per via del ballo (é ballerino ed insegnante di salsa) e dell’amore (si é fidanzato con una ragazza del posto). Superate le frasi di sorpresa e circostanza (“ciao…..ma che che ci fai tu qui?” oppure “ma lo sei o non lo sei?”) raggiungiamo l’aereo e ci facciamo il volo insieme, seduti in coda, circondati da uno stuolo di bambini piccoli che piangono e urlano tutto il tempo.

Arrivati a destinazione ci scambiamo gli indirizzi di Marrakech, con la promessa di vederci la sera stessa, prima di partire ognuno per le proprie mete. Non ci incontreremo.

All’aeroporto mi vengono a prendere Dave e la sua ragazza Monica, che saranno le mie guide nonché i miei compagni di viaggio.

L’accoglienza di Marrakech é un tripudio di gente che cammina e guida per strada e sui marciapiedi, come non avevo mai visto.

La strada non è ben delineata e non si capisce se il marciapiedi sia dedicato ai pedoni, o piuttosto ai motorini che sfrecciano accanto alle persone, incuranti del diritto di uso esclusivo pedonale.

Sulla piazza principale ci sono i carretti degli ambulanti che vendono frutta fresca, secca, spremute d’arancia (buonissime, ad un costo irrisorio 4 dh ognuna , che sono pari a circa 40 cent di euro).ed ogni altro ben di Dio. Piove, allunghiamo il passo e guadagniamo il nostro alberghetto in stile moresco, col patio d’ordinanza e le piante a rinfrescare. La camera é semplice ma accogliente, con le finestre rivolte all’interno, verso il patio, quasi a ricordare le nostre case di ringhiera.

Usciamo prima di subito, per condividere la vita di Marrakech e per fare pranzo, vista l’ora.

Ci sediamo in un ristorante coi tavolini all’aperto e ordiniamo cus cus di verdure, tajine con carne, pane e acqua. Per prima cosa imparo a mangiare col pane, anche se la forchetta aiuta nei casi più’ difficili. Dave mi spiega che il pane serve come pinza per agguantare i pezzi di patata e carne che stanno in mezzo alla pirofila in cui viene cotto il Tajine (che altro non é che carne stufata, per lo piu’ di montone, spesse volte di pollo).

Usciamo ben contenti e facciamo una sosta ad un banchetto delle aranciate: prima di allora non avevo mai bevuto una spremuta fresca, fatta al momento, così buona, e ad un prezzo ridicolo (4 dh al bicchiere = neanche 40 cent di euro).

Ci dirigiamo al suk e subito capiamo che é un labirinto, un dedalo di viuzze frequentato da pedoni e motorini, stracolmo di negozi e negozietti che vendono ogni genere di mercanzia, in prevalenza di produzione artigianale.

Indosso la maglia ufficiale della Sampdoria (la mia squadra del cuore… molti passanti e venditori mi salutano e gridano il nome di Cassano, inutile spiegare loro che l’idillio di Fantantonio con la Samp é finito) un po’ per esibizionismo, un po’ perché é il mio portafortuna di viaggio.

Un ragazzo intraprendente ci convince a seguirlo fin dentro l’erboristeria del fratello, dove gli occhi si perdono in un mare di colori, spezie, essenze, profumi, medicamenti e altre belle cose, che occorrerebbero giorni per vederle tutte.

Mi convinco a comprare un pezzo di deodorante al profumo di rosa, ed un unguento al profumo di arancia, ottimo come calmante.

Salutiamo e riprendiamo il nostro tour finché la voglia non viene meno.

Piove, vengono giù’ scrosci d’acqua che non si sarebbe detto. Il suk ha una tettoia che fa acqua da tutte le parti, e allora, per toglierci dall’impasse, corriamo a visitare un antico collegio coranico situato poco distante, dove i giovani venivano iniziati allo studio del corano e alla ferrea disciplina monacale.

Una volta usciti la pioggia non sembra volere cessare e allora Dave mi convince a seguirlo in un centro benessere dove fanno hammam e massaggi. Una volta dentro vediamo con nostra sorpresa che il patio ha una tettoia costituita da un telone di nylon trasparente da cui l’acqua scorre attraverso un tubo giallo, sempre di nylon, e va a scaricare in un tombino. E’ tutto troppo perfetto per essere vero, ma lo é.

Il gestore mi mostra una brochure dei servizi offerti ed opto per un trattamento marocchino a base di sauna con aromi, argilla e creme aromatizzate.

Una gentile ragazza, di bell’aspetto mi fa salire al piano superiore, dove si trova il vestibolo.

Mi spoglio, indosso una tunica e la seguo all’ultimo piano.

Entro in una stanzetta, mi fa segno di togliermi la tunica, rimango nudo. Lei, lievemente imbarazzata, mi fa segno di sedere ed inizia a cospargermi il corpo di un unguento oleoso a base di aromi tipici marocchini.

Poi mi fa sdraiare, mi mette a mio agio, ed esce.

Mi distendo e godo di quegli aromi, ma all’inizio gli effluvi del vapore mi soffocano un po’ (dentro di me spero che la tipa torni al piu’ presto perché non sopporterei a lungo un tale caldo da forno).

Ed infatti lei torna e mi offre un perizoma di carta, che indosso goffamente e che mi fa sentire tanto ridicolo.

Mi sciacqua, poi mi fa distendere e mi fa lo scrab con crine di cavallo. Se avevo delle fantasie me le toglie con il suo massaggio energico e un po’ doloroso. Finito il “massacro” mi cosparge di argilla e mi lascia nuovamente solo, con le mie fantasie.

L’argilla agisce quasi subito ed infatti sento tirare la pelle, ma con un senso di benessere e beatitudine, pensando e sognando che la gentil signora dovrebbe tornare e concedermi finalmente le sue grazie. Ciò non accade, ovviamente, perché lei, molto professionalmente, mi fa alzare e mi lancia secchiate di acqua tiepida per ripulirmi dalla terra.

Mi offre il kimono e capisco che i 40 minuti di sogno sono finiti, ahimè. Mi riaccompagna al vestibolo e mi offre in regalo un crine da portarmi a casa. Lascio una mancia e scendo al piano terra dove raggiungo i miei due compagni di viaggio intenti a sorseggiare un tè alla menta. Aspettiamo che la pioggia finisca ed usciamo.

Girovaghiamo per il centro, visitiamo da fuori la vecchia moschea con i resti di quella più’ antica, ci fermiamo in un internet point e facciamo sera.

La cena la facciamo sulla piazza principale, dove si sono assiepati gli ambulanti che arrivano nelle ore pomeridiane ed offrono i pasti dai loro banchetti, a mò di sagra del panino con uovo e patata, o di grigliate di montone o di pollo e salsiccia, o di tajine. E’ incredibile quanta gente accorra per sfamarsi e condividere un momento di gioia collettiva, con compostezza e allegria, regalandoci una lezione di vita che non ci aspettavamo. Una volta sazi, e stanchi della lunga giornata facciamo ritorno al nostro piccolo hotel situato nel cuore del centro storico, attardandoci a parlare sull’uscio.

01.12.2010 rotta per Essaouira

Lasciamo l’hotel alle 09.00 e ci fermiamo a fare colazione in un piccolo bar poco distante dove chiediamo yogurt, crepes al miele, pane, marmellata ed un tè alla menta. Ci gustiamo, seduti all’aperto, il nostro lauto nonché ottimo pasto e la vista dello sciame di persone che passa davanti a noi.

Finita la magia di quella gustosa colazione, di un mattino di sole, raggiungiamo il nostro furgone e partiamo alla volta di Essaouira, sulla costa atlantica. Usciamo dal caos ordinato del traffico e cominciamo a digerire una strada lunga circa 180 km, che ci offre scenari e spaccati di vita della campagna marocchina. I mezzi di locomozione ancora molto diffusi sono gli animali da soma che tirano carretti carichi all’inverosimile. Per la strada incrociamo migliaia di taxi vecchi di quasi 40 anni stipati di gente (ho contato in media 7 od 8 occupanti sui vecchi Mercedes) e bagagli. Mi domando come facciano a marciare ancora, dopo che i loro contachilometri avranno fatto il giro dueo tre milioni di volte….ma il bello di questi posti é che non si butta via nulla, tutto serve e si ricicla ancora, a distanza di decenni, quasi ad insegnarci, a noi che siamo la società dei consumi, che forse non stiamo proprio dalla parte della ragione.

Nel primo pomeriggio arriviamo ad Essaouira e sistemiamo subito i bagagli in hotel, che é situato nella via centrale dello shopping.

Ci dirigiamo verso il mare per fare un pranzo a base di pesce. Abbiamo l’imbarazzo della scelta perché una fila di pescherie ci offre pesce fresco in abbondanza e la griglia, su cui verrà cotto al momento.

Io scelgo dei gamberoni invitanti, una mormora e qualche moscardino, che in pochi minuti mi portano belli grigliati (e che sbafo senza ritegno, nonché vergogna).

Belli sazi ed appagati facciamo due passi per il porto, brulicante di pescherecci, quasi a ricordare quello di Mazara del Vallo (con la differenza che qui le barche che devono solcare l’atlantico sono veramente delle carrette del mare, e non si capisce come possano stare a galla, con tutte le pezze e gli interventi di lifting approssimativi subiti nel corso dei decenni).

Torniamo stanchi verso l’hotel, non prima di esserci seduti per un delizioso tè marocchino in un bar all’aperto.

Nella hall tento una disperata ed impossibile connessione ad internet col mio pc che non ne vuole proprio sapere. Monica mi presta il suo che, nonostante gli anni, va come una scheggia. Arriva l’ora di cena e Dave ci porta in una locanda tipica dove, senza pudore, scegliamo di mangiare dei non tipici e slavati spaghetti Napoli e bolognese, ed un’insalata mista (eccellente), per finire con un’ottima macedonia arancia e banana. Torniamo all’hotel, dopo esserci scrollati di dosso alcuni bimbi petulanti, che ci tediano con richieste di soldi e di cibo.

02.12.2010 rotta per i monti dell’Atlante – pernotto a Teulet

Dopo una colazione simpatica in terrazza, ed aver condiviso due dadi di burro con un gabbiano famelico (ma educato e composto), ci congediamo da Essaouira e ci dirigiamo verso i monti dell’ Atlante, passando per il traffico caotico di Marrakech.

Lungo la strada vediamo di tutto: in prevalenza auto scassate di 35 anni fa, perfettamente marcianti e piu’ volte riciclate, motorini 50cc con sella doppia, normalmente occupati da due persone, carretti trainati da asini o muli, gente per strada senza una meta ben precisa, gente coricata per terra che aspetta il trascorrere del tempo, guardando verso l’infinito di un orizzonte che delimita i confini del loro spazio-tempo.

Ogni 10 km circa un posto di blocco della gendarmeria reale ci costringe a rallentare, per lasciarci tranquillamente passare ad un cenno del capo degli agenti.

Di tanto in tanto la strada taglia in due dei villaggi di campagna che brulicano di gente, chi intento a fare la spesa, chi intento a portare il proprio motorino dal meccanico del paese, stracolmo di motocicli da riparare, e la cui età media si aggira sui 40 anni (questi posti insegnano a noi, della civiltà del consumismo sfrenato, che non si butta via niente, si ricicla tutto). Dave mi spiega che se un mezzo non ipertecnologico, ma semplice, si dovesse rompere, ebbene, qui c’é sempre qualcuno che lo può riparare, e con poca spesa. Ma noi, consumisti, ormai abbiamo auto che vengono gestite solo dall’elettronica, e metterci mano richiede un esperto di computer (infatti da noi la razza dei meccanici si sta estinguendo, tanto ormai ogni pezzo rotto si cambia, non si ripara piu’, e si butta via).

Per raggiungere i monti ci tocca ripassare in mezzo al traffico caotico di Marrakech che, seppur apparentemente disordinato, ha una sua logica ed un suo ordine (mi colpisce un ciclista che fa tranquillamente zig zag in mezzo alle code di veicoli, sia in ordine di marcia che contromano……schiva le auto con una tale calma e tranquillità che riesce a non fare arrabbiare gli automobilisti, e a farci ridere).

Lasciata alle spalle l’affascinante città, iniziamo la salita verso i monti dell’Atlante. Durante l’arrampicata per valichi e gole ci fermiamo a pranzare in un punto di ristoro che offre ogni genere di mercanzia, e che espone le capre appena macellate, con le teste mozzate (che vengono gettate per terra, senza timore che qualche turista inorridisca). Mangiamo la tajine di ordinanza ed una grigliata di carne di capra tritata.

Tutto buono (facendo finta di non vedere i cadaveri penzolanti).

Nel tardo pomeriggio arriviamo in cima a questi monti rossastri dove sorgono piccoli villaggi di case di fango e paglia, e dove batte un vento freddo ed inospitale.

Ci fermiamo a pernottare in un paesello, alla ricerca di una locanda che faccia anche servizio camping, dove ci accolgono molto calorosamente, nonostante il freddo dovuto ai 1800 mt di altezza.

Uno dei gestori mi invita a condividere con lui ed i suoi amici della grappa di fichi, che bevono insieme alla sprite per riuscire a mandare giù del puro alcool (me lo fanno assaggiare ma, data la mia non propensione ai superalcolici, mi limito a bagnarmi le labbra, brucia da morire, saranno 70° minimo…..).

I tre, Mohammed, Mohammed ed Ali (nei nomi non c’é molta fantasia) sono seduti nella sala ristorante, aperta sul lato dei falsopiani, con un panorama splendido, su valli e dirupi, il tutto condito da uno scorrere del tempo lento e silenzioso.

Si raccontano delle storie o forse scherzano soltanto, mentre piano piano mandano giù bicchieri di grappa. Mi viene da pensare che se facessero il test del palloncino sarebbero abbondantemente fuori norma. Faccio qualche domanda ad Alì sulle donne e su come correttamente approcciarle.

Ovviamente qui ad una donna non é ancora consentito di instaurare una relazione con un uomo, se i genitori prima non hanno dato il loro benestare. Quindi se incrocio una donna per strada la posso ben salutare ma null’altro.

Insomma, c’è ancora molto da fare….

Dopo un’ora di dialogo a gesti, francese e alcol, mi congedo e mi reco alla mia stanzetta, di paglia e fango, ma ben coibentata, talché il freddo non entra. Mi assopisco pensando che il freddo non fa per me, che amo tanto le temperature calde.

03.12.2010 rotta per Agdz

Alle 06.00 la luce dell’alba mi fa risvegliare.. Guardo fuori della finestra e vedo uno spettacolo unico: il sole che illumina di rosso le cime dei monti circostanti. Rimango in estasi per una decina di minuti e mi riaddormento.

Alle 07.00 sono già in piedi ed esco a fare quattro passi in paese, che sembra ancora addormentato, non fosse per il ragliare degli asini e lo starnazzare delle galline. In lontananza un branco di cani randagi litiga su chi debba fare il capo, correndo per i falsipiani fertili, coltivati a cereali.

Mentre cammino per le viuzze di terra battuta vedo gruppetti di ragazzini e ragazzine che si accingono a raggiungere la scuola media, situata in cima alla collina. Sono le 07.50 ed il bidello, Mohammed, ancora assonnato e frastornato dai fumi dell’abbondante bevuta di grappa della sera prima, si sbriga a raggiungere i cancelli della scuola, dove nugoli di scolari attendono impazienti di entrare.

Al mio ritorno alla locanda il cuoco é alle prese con la colazione, mentre Dave e Monica, ancora intorpiditi, escono dalla loro tenda termica piazzata sul tetto del camper.

Facciamo colazione a base di tajine, uovo e salsa, marmellata, olio d’oliva, burro e pane, il tutto annaffiato da tè alla menta.

Dopo il pasto ci rechiamo in visita alla cashba, dove ci attende Ali (un altro) , che ci fa da cicerone.

L’edificio sta cadendo a pezzi e i soldi del biglietto (20 dh) servono per la ristrutturazione (a occhio e croce, visto che i lavori vanno molto a rilento, calcolo che ci vorranno 30 anni per vedere la cashba risistemata).

Il grosso limite di questa e di tutte le altre costruzioni é che sono fatte di fango e paglia. Il cemento non esiste quasi, tranne nelle costruzioni destinate all’uso turistico, dove le solette ed i pilastri sono in cemento. A dire il vero la terra con la paglia sono ottimi isolanti termici, infatti all’interno delle camere la temperatura é ottima. Ovunque andiamo gli standard architettonici sono gli stessi: terra e paglia in tutti i villaggi.

Nelle città invece si vedono molti edifici in cemento armato con i tondini di ferro che fuoriescono dalle armature.

Verso le 11.00 ci congediamo dal villaggio, non prima di aver fatto acquisti nella bottega artigianale che si trova di fronte alla nostra locanda. Mi lascio sedurre da un turbante tipico dei tuareg, e do volentieri una lauta mancia a questi ragazzi, i quali destinano una parte dei proventi ad una cooperativa di donne divorziate e vedove, che così riescono a mantenersi (in Marocco non esistono pensioni o assegni divorzili o di reversibilità).

All’atto dei saluti (qui si usa quattro strette di petto contro petto) Alì, uno dei gestori, mi comunica di avermi trovato una promessa sposa: la sorella diciottenne di una sua cugina. Ci lasciamo con la promessa, al mio ritorno, di definire meglio i termini dell’accordo.

La nostra guida, prima di congedarci, ci fa vedere orgogliosa il suo nuovo acquisto: una fiammante peugeot 505 del 1975, pagata ben 2000,00 Euro. Un rottame, come ce ne sono tantissimi qui in Marocco, ma che gli consente di muoversi ovunque (una macchina nuova costa troppo, e per 8000,00 euro l’unica che poteva prendere nuova era la Suzuki Alto, un modello di auto microscopico).

Ragiono sul fatto che per noi 2000,00 euro per un rottame sono un furto, mentre per loro, sebbene siano tanti soldi, rappresentano la possibilità di avere un mezzo che si muove e che si può riciclare all’infinito (si può riparare tante volte perchè meccanicamente é molto semplice e non ha tutti gli orpelli elettronici dei mezzi di oggi).

Per noi sarebbe un rottame buono solo per lo sfasciacarrozze, per loro un investimento. Come cambiano le prospettive…

Veniamo giù dai monti percorrendo una strada sterrata, che ci introduce a gole e valli fertili, ben coltivate, abitate e piene di villaggi. Ogni tanto un ponte provvisorio, fatto di assi marce e ferro, ci fa capire che é inutile tentare il guado del torrente, a rischio di rimanerci impantanati.

Arriviamo in un villaggio, Ait ben-Haddou, molto animato, tagliato in due da un torrente, non c’é ponte e, per andare da una riva all’altra, a piedi, bisogna superare un attraversamento di sacchi di sabbia e grossi sassi. Dave mi spiega che in quel villaggio sono state girate delle scene del film “Il gladiatore”. Mi indica il sito, ma faccio fatica pensare che quella fosse l’arena dove il Generale Massimo, detto l’Ispanico, aveva combattuto per la prima volta da schiavo. In quel sito ora ci sono delle rovine ed un giardino pieno di palme ed ulivi.

Lasciamo il villaggio e raggiungiamo Ouarzazate, dove ci fermiamo per fare due compere e per mangiare un panino. All’inizio della città ci sono gli studi cinematografici, che sono introdotti assai pomposamente da lunghi e moderni viali ben tenuti, densi di lampioni in stile retrò, e con migliaia di palme piantumate da poco (per molte di loro il destino é segnato perché sono già belle secche stecchite).

Scappiamo da Ouarzazate in direzione di Agdz, un villaggio situato nel mezzo del deserto roccioso (i paesaggi ricordano il far west, con montagne che si stagliano sopra questo deserto lunare, fatto di rocce e colline, quasi a sembrare che, da un momento all’altro, nugoli di pellirosse spuntino dai crinali e scendano per attaccarci).

In serata arriviamo al villaggio fatto di case di terra e strade di fango piene di dislivelli, assai pericolosi per le sospensioni del camper. Raggiungiamo il campeggio, che sorge sui resti di un’antica cashba, dagli spazi infiniti, delimitata da una lunghissima muraglia, e con numerose palme e aranci al suo interno.

Ceniamo dentro al camping e andiamo a dormire presto.

04.12.2010 sulla via per Tazarine

Il risveglio dentro la cashba lo consiglio a tutti, senza contare che sono l’unico occupante di questo immenso edificio. Appena alzato esco dalla camera ed il cagnone, che fa parte integrante della struttura, mi viene a dare il buongiorno. Rubo un’altra arancia dall’albero che si trova al centro della corte, e lo mangio insieme ad uno yogurth bianco. Delizioso. Raccogliamo armi a bagagli e partiamo alla volta di Tazarine.

Deserto, deserto e null’altro che deserto, inframezzato di tanto in tanto da oasi, che altro non sono che villaggi tutti uguali, dove si vedono bimbi giocare per strada, vecchi sdraiati per terra in attesa di qualcosa che sembra non arrivare mai e carretti stracolmi, trainati dal solito povero ciuco. Ci fermiamo a fare rifornimento in una stazione di servizio nuova di fiamma, il cui marchio, Afriquia, mi dicono essere di proprietà del gruppo Texaco, famiglia Bush…il gestore mi vede gironzolare e mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Gli spiego che sono un turista di passaggio e che mi incuriosiva vedere una stazione così nuova e fiammante in un villaggio così piccolo e tradizionale. Scopre che sono italiano e mi informa che un mio connazionale ha avviato molto bene un hotel a pochi passi, e della cui gestione ha delegato un socio marocchino. Prendo qualche spunto per un’eventuale idea su cosa fare da grande. Gli faccio i miei complimenti per lo spirito imprenditoriale ed il coraggio di aver investito così tanti soldi in una modernissima stazione di servizio multifunzionale in mezzo al deserto.

Riprendiamo la strada, tutta nuova, del deserto e dopo un paio di ore raggiungiamo il villaggio di Tazarine.

Entriamo nella via che ci porta al campeggio e a metà ci dobbiamo arrestare perché ci sono dei lavori in corso. Un grosso camion con la sua stazza, immobile sulla carreggiata, ci impedisce di fatto di proseguire. Un abitante del posto, molto gentile, ci offre di seguirlo, in quel dedalo di vie e viuzze, per arrivare a destinazione percorrendo strade alternative.

Ci sistemiamo nel cortile e decidiamo di installare la mia tenda (la prima volta in tutta la mia vita).

Usciamo e ci rechiamo verso la via centrale per fare il pranzo. Ci sediamo in un locale dove ci servono una tajine, insalata mista piccantissima ed una aranciata. Paghiamo il conto, per altro modestissimo (la mia parte é 20 dh, ovvero poco meno di 2 euro….. non so se vergognarmi o non credere ai miei occhi).

Usciamo e ci rechiamo al mercato, che ospita poche bancarelle di frutta e verdura. Compro un chilo di mandarini, che pago 4 dh (poco meno di 40 cent di euro….una miseria).

Rientriamo al campeggio passando per le vie sabbiose del paesello. Montiamo le tende per la notte e tiriamo sera, bevendo té, gentilmente offertoci dalla direzione, giocando a carte, leggendo e raccontandoci aneddoti.

Per cena ci facciamo portare omelette e zuppa vegetale con riso. Un gattino nero chi chiede con insistenza di condividere la cena con lui, e noi, ben felici di avere un ospite a tavola, gli diamo dei pezzi di pane e uovo.

Dopo il pasto, siamo stravaccati nella sala pranzo a raccontarci aneddoti, e sentiamo in lontananza dei bongo che suonano e persone che fanno festa. La cosa ci incuriosisce e decidiamo di uscire nel buio per andare incontro a quei rumori.

Camminiamo per decine di minuti, e ci rendiamo conto che la festa non é così vicina come pensavamo, forse é a piu’ di un chilometro dal campeggio. Il problema é che dobbiamo attraversare vie buie, sabbiose e labirintiche. Ma alla fine arriviamo alla meta. Scorgiamo una quarantina di persone che fanno festa davanti ad un corteo di macchine ferme. Ci avviciniamo con cautela ed educazione, e dei ragazzi, molto cortesi ed incuriositi, ci spiegano che quella é una festa di matrimonio, e che gli sposi sono chiusi dentro la prima auto del corteo, intenti a subire il caos chiassoso dei loro parenti ed amici, e magari anche lo scherno per quella che sarà la loro prima notte di nozze.

Ci sentiamo partecipi di quel momento di gioia e di intimità, e ci guardiamo bene dallo scattare foto, principalmente per rispetto verso gli sposi e gli altri, e poi perché quelli sono attimi che vogliamo conservare indelebilmente nei nostri ricordi visivi ed emozionali, che una foto potrà solo rovinare.

Dopo mezzora ci accingiamo a lasciare la festa ed un ragazzo, venutolo a sapere, si offre di accompagnarci al campaggio.

Il suo aiuto é provvidenziale perché non saremmo mai riusciti a ritrovare la via di casa: un labirinto di vie, campi e sabbia ci avrebbe portato chissà dove.

Il ragazzo, cammin facendo, ci spiega che é originario di quel villaggio, ma che si é trasferito a Rabat, la capitale, dove lavora come macellaio in un supermercato, a 2000 dh al mese, e dove divide un appartamento con un collega, il cui costo é di 500 dh mensili (la sua quota é 250 dh). Confessa di non avere molta fiducia nel suo futuro in Marocco, e di non poter neanche pensare di comprarsi una casa, in quanto il prezzo medio é di 10 mln di dh (tradotto fanno circa 100.000 euro, per un appartamento senza pretese, e visto lo stipendio di 200 euro mensili la cosa si fa complicata, se non impossibile).

Mentre camminiamo ci fa notare, nel buio pesto, tra i tanti segni diversi lasciati sulla sabbia (auto, bici, moto, pedoni) le nostre orme lasciate nella direzione opposta. Noi, increduli, verifichiamo e constatiamo che ha ragione. Rifletto sulla cosa e capisco che questa gente ha delle abilità e delle capacità che noi occidentali, che ci crediamo piu’ evoluti, non abbiamo. Mi sento tanto indifeso e piccolo piccolo……

Arriviamo al cancello e ci congediamo da quel ragazzo di 25 anni, ancora tanto giovane, ma tanto saggio e modesto, che meriterebbe di piu’ dalla vita. Per ultimo ci confida, sorridente, che presto raggiungerà suo fratello a Parigi, il quale gli sta preparando i documenti necessari per espatriare.

La mia prima notte in tenda passa quasi insonne e al freddo (il deserto di notte é freddo e umido), laddove alle 05.00, poco prima dell’alba, il megafono di quattro moschee chiama i fedeli alla preghiera, e suscita in me un motto di stizza, poiché mi ero assopito da poco. Come prima notte in tenda non c’é male, sono partito con un handicap.

05.12.2010 alla volta di Hassi-Labied

Mi sveglio poco dopo le 8.00, ben felice di abbandonare quel duro e scomodo giaciglio.

Facciamo colazione, una bella doccia calda rigenerante e leviamo le tende alla volta di Hassi-Labied, nei pressi di Merzouga, due villaggi situati nel mezzo di dune di sabbia.

Affrontiamo un bel viaggetto attraverso il deserto, che qui comincia ad essere sabbioso. Dave ad un certo punto si ferma e carica un autostoppista seduto sul ciglio della strada, il quale é italiano, dice di essere di Torino, e va nella nostra stessa direzione, o forse in un’altra, non si capisce bene, ma sale di buon grado. Il viaggio prosegue con la musica a manetta e il deserto che si fa sempre piu’ il deserto dell’immaginario collettivo: una immensa distesa di sabbia e monti radi all’orizzonte.

A metà pomeriggio arriviamo al camping nel paesello insabbiato, circondato da dune alte e rossastre, tagliato in parte da tracciati su cui sfrecciano rombanti fuoristrada per provetti rambo della domenica, per lo più spagnoli.

Lavo velocemente degli indumenti sporchi e faccio quattro passi nel villaggio alla ricerca di un posto di ristoro.

Seguo le indicazioni di un minimarket-ristorante-souvenir-hotel e un signore, Ahmed, mi si fa incontro, pregandomi di visitare il suo negozio.

Faccio una breve visita e poi gli chiedo di farmi servire un pasto nella sua locanda.

Mi fa accomodare al piano di sopra, in terrazza, da cui si gode lo spettacolo di tetti e case in terra e paglia di tutto il villaggio.

Faccio un lauto e splendido pranzo a base di insalata mista, spiedini di carne, contorno e un piatto di frutta che mangio con gli occhi (fette di arance, banane e melograno, spruzzate di cannella).

Il proprietario, finito il pranzo, si intrattiene a fare quattro chiacchiere con me e mi confida di essere stato per un certo periodo in Italia, a Udine, a fare i mercati, ma che dopo un po’ ha deciso di ritornare qui, al Paese d’origine, per offrire un lavoro stabile alla sua famiglia, composta di moglie giapponese e sette figli. Un paio di essi fanno le guide turistiche, uno fa il meccanico, due gestiscono l’hotel, gli altri sono a scuola. Il loro reddito medio pro-capite é di 1500/2000 dh al mese che, messi tutti insieme, consentono alla famiglia un ottimo tenore di vita (tenore che non potrebbero mantenere se abitassero in una grande città, dove i bisogni aumenterebbero ed i costi salirebbero di molto, costringendoli ad una vita modestissima, mentre qui al villaggio, con le necessità ridotte ed il costo della vita accettabile possono pensare anche agli accantonamenti per la pensione di mamma e papà, visto che in Marocco non esiste il sistema pensionistico).

Di ritorno alla base Dave mi propone due passi verso le dune. Superato un intrico di chiassosi ed inopportuni quad, fuoristrada che si insabbiano, finte carovane di dromedari e turisti spagnoli schiamazzanti, raggiungiamo una duna intermedia, da cui godiamo uno spettacolo unico, splendido, impressionante, come solo il deserto ed i suoi silenzi sanno essere.

Lasciamo che il tramonto inghiotta il sole e gli ultimi chiassosi turisti con tutti i loro roboanti mezzi a quattro ruote motrici e quattro zampe, per gustarci il panorama silenzioso di questo posto incantato.

Dave mi spiega che, incredibilmente, sotto la sabbia c’é molta vita e soprattutto acqua. L’umidità che sale di giorno per effetto dell’evaporazione, ricade la notte e inzuppa la sabbia. Gli abitanti di questi posti sfruttano questo fenomeno canalizzando quest’acqua, che fanno arrivare al villaggio e ai palmeti, nonché ai vari campi coltivati, verdi come pochi. Diamo un’occhiata ai vari pozzi di collegamento e al canale, e ci rendiamo conto che si tratta di centinaia e centinaia di metri cubi al giorno!!! Mi sembra quasi che ci sia piu’ acqua qui, ai piedi delle dune, che altrove.

Anche in pieno deserto c’é acqua nel sottosuolo, ma é salata, e viene adoperata per lavare gli animali e fare costruzioni.

Torniamo per cena e ci fermiamo a guardare le cinquecento e piu’ foto scattate finora da tutti noi. I colori sono bellissimi, talmente belli che mi viene da pensare che solo qui in Marocco, ergo Africa, possano essere così. Comincio a capire cos’é il “mal d’Africa”.

Mentre scrivo un gruppo di starnazzanti abitanti dell’enclave spagnola di Ceuta, ospiti del camping, in vacanza per il ponte dell’Immacolata, disturba con discorsi vari di frivolezze e cretinate varie, con l’aiuto di bicchierini di acquavite di fico e vino liquoroso, tipicamente spagnolo, che bevono a caraffa.

06.12.2010 minisafari di due giorni col dromedario attraverso le dune (rimandato al giorno dopo)

Un dolcissimo risveglio in quella bella stanza, ben isolata termicamente e ben addobbata (in cui non manca nulla, tanto meno un bagno ampio e pulitissimo, con acqua calda e fredda) viene interrotto dal frastuono dei quad che partono da ogni dove per aggredire le dune circostanti. Un vero peccato, perché spezzano l’armonia di silenzi e suoni, che solo qui nel deserto si possono percepire. I turisti dei quad portano tanti soldi, che alla gente del posto fanno comodo, e quindi vengono ben sopportati, anche se, a mio modo di vedere, compiono delle vere e proprie violenze sull’ambiente e l’habitat degli animali del deserto, molto presenti, ma del tutto invisibili.

Mi siedo all’aperto, con le infradito ed un leggero pile, intento a godermi il sole invernale che mi riscalda e mi dà tepore, tentando di leggere quel libro che proprio non riesco a terminare.

Mi viene servita una sontuosa colazione piena di golosità che non fanno altro che farmi pentire (poi) di aver ceduto alle lusinghe di tutte queste bontà.

Sbafo tutto, senza ritegno, ed intanto con Dave pensiamo a cosa fare durante la mattinata, senza stress, lasciando che siano la giornata ed i tempi del deserto a decidere per noi.

Ed infatti il destino decide che non é la giornata per partire per il safari. Per motivi che ignoro la partenza viene posticipata all’indomani pomeriggio.

In casi di emergenza e di imprevisti bisogna sempre avere la soluzione B, e così penso a come occupare il resto della giornata in vista del riposo forzato al villaggio.

Decidiamo di vistare il villaggio vicino, dove si trovano i discendenti di antichi schiavi, Hammelia, con Ahmed che ci fa da cicerone.

Lungo la strada gruppetti di bimbi ci mostrano le volpi del deserto catturate e utilizzate come mascotte con cui fare foto con i turisti di passaggio. Faccio il turista di passaggio e mi fermo a farmi fotografare con in braccio le povere volpi che sono frastornate dai rumori e dalla gente intorno.

Di tanto in tanto dai vari negozi di souvenir i proprietari ci fanno segno di fermarci a compare dei fossili od oggetti dell’artigianato locale.

Arriviamo ad un locale (rigorosamente per turisti) dove dei suonatori di pelle nera fanno musica tribale dal vivo.

Una scolaresca di studentesse americane, di base a Malaga, ed in gita per 6 giorni, affolla il locale. Tra di esse molte sono bionde e di carnagione chiara, con occhi verdi o azzurri, di un fascino tipicamente nordico, e la cosa contrasta talmente, stride, con i colori della pelle delle popolazioni locali.

Dentro di me penso che la bellezza proprio non abbia confini e che il potere seduttivo di una donna sia piu’ forte di qualunque altra cosa.

Con la mente divago nelle mie solite fantasie e azzardo un paragone: se il sale é l’elemento principale del deserto, le donne sono il sale della vita, che altrimenti sarebbe un deserto.

La sera ceniamo al camping e i proprietari ci deliziano regalandoci uno spettacolo in costume di musica berbera (solo percussioni e ritmi tribali). Il gruppo di spagnoli, che condivide il resort con noi, parte sparato con la scorta di alcolici e superalcolici che s’é portato per il viaggio, e di cui ci invita a condividere i piaceri, e si lascia prendere dall’emozione del momento. Alla fine del concerto gli spagnoli catturano la scena e, complice Monica, la nostra guida, attaccano bottone e bevono come dei forsennati. Ci invitano a bere a caraffa un vino liquoroso spagnolo, la bota, che é assai buono e anche dolce e ci dicono di “levantar” la caraffa mentre il getto di vino irrora la gola. Smessi i tamburi uno dei berberi attacca a farci degli indovinelli, rigorosamente in lingua spagnola (noi italiani siamo in minoranza numerica) e, tra un bicchiere di alcool e super alcool, ed un quiz, alle undici e trenta siamo tutti sbronzi e gonfi di cibo buonissimo con cui i proprietari ci hanno deliziato (tra me e me penso che dovrò iniziare un regime di alimentazione controllata, pena il dovermi vedere il giro vita aumentare in maniera indecente).

07.12.2010 finalmente si fa il safari col dromedario alle dune

E’ martedì e nel pomeriggio si prevede di partire a dorso di dromedario per la due giorni di dune.

Passiamo la mattinata facendo qualche acquisto in paese e riorganizzandoci le idee. Cerco di portarmi avanti con la lettura del libro di Jason Burke “Sulla strada per Kandahar”, di cui sono quasi alla fine ma che, mancandomi lo sprint e le motivazioni, non finisco mai.

Osservo due signori francesi (ospiti fissi del camping per ben sei mesi l’anno) alle prese con un boiler a gas che non vuol saperne di funzionare più’ (la qual cosa non mi sorprende affatto, visto che, oltre ad essere vecchio é anche tutto marcio). Meritevole il loro tentativo di capire dove sta il guasto, ma temo che la ruggine diffusa abbia recitato il requiem eterno per siffatto valoroso scaldabagno.

All’ora di pranzo ci concediamo una grande spaghettata, gentilmente cotta ed offerta da Dave.

In tutta onestà ci sta molto bene, inframmezzata a tanti ottimi pasti berberi, anche e soprattutto per non dimenticare i gusti di casa.

Dopo pranzo ci resta ancora del tempo per andare a visitare la casa della famiglia dei proprietari del camping, che si trova proprio dietro alla struttura. Ahmed ci fa entrare in sala e ci accomodiamo sui divani. La madre e una sorella ci servono del te e delle noccioline tostate buonissime, nonché della marmellata di datteri in cui intingere del buon pane berbero. Dei bimbi fanno capolino e, piano piano, entrano, uno alla volta, fino a riempire la sala. Un nugolo di bimbi festanti e ben educati riceve i doni portati da Monica: scarpe, vestitini, borsette ed altro che lei ha ritirato dall’ asilo in cui lavora, dono delle mamme dei bimbi spagnoli.

Una bimba bellissima, di età sui dieci anni, magra e slanciata, di un bello naturale e raro (i berberi sono mediamente molto belli), mi offre dei sorrisi sinceri e disarmanti, mi incanta e mi fa pensare che é quella la bambina di cui avrei voluto essere padre. Se i sogni son desideri, e se davvero potessero avverarsi, vorrei che si esaudisse il mio desiderio. Arriva il momento di congedarci dalla famiglia e di tornare al camping. Ci rimane un po’ di tempo ancora per fare visita ad un’associazione che si occupa di dare un’educazione scolastica a dei bimbi e a delle ragazze del paese. Gli insegnanti sono gentilissimi ed ospitali e ci lasciano visitare le aule e la sede.

Nella strada del ritorno Ahmed ci indica il forno per cottura del pane, un piccolo cubo di terra e paglia, della dimensione di 4 m2, in cui stanno cuocendo delle schiacciate.

Alle 15.30 arriva il momento di salire sul dromedario e partire per il safari alle dune. Tra tutti gli animali scelgo quello meno riottoso e che mi dà più garanzie (mai scelta fu più azzeccata), in quanto il capofila, molto giovane e non del tutto addomesticato, pare non sia molto di compagnia, detesta farsi accarezzare, e protesta sonoramente. La guida ci dice che é giovanissimo (tre anni) e che deve ancora finire il “rodaggio”. Partiamo, tutti col turbante e foto di prassi alla volta delle montagne di sabbia. La salita procede tranquillamente, gli spagnoli schiamazzano, visibilmente eccitati e forse ancora carichi di alcool, la vista che ci si offre non ha nulla da invidiare alle altre viste mozzafiato che esistono nel mondo. Le dune sembrano montagne di zucchero colorato, di una tonalità che va dal giallo senape, all’arancio, al rosso, cangiante a seconda del sole.

L’imprevisto si materializza improvvisamente: il dromedario “cattivo” capofila, d’improvviso si getta per terra e fa prendere un colpo secco all’inguine e alla schiena dello sventurato “caballero”, il quale, comprensibilmente, ha di che lamentarsi. Dopo cinque minuti di smarrimento (e di “gentili” pacche sul sedere del dromedario) si riparte, con il suo ospite in piena apprensione.

Di li a venti minuti arriviamo al campo.

Ci accoglie un paesaggio da cartolina, direi quasi da presepe, con degli accampamenti di nomadi intorno a delle piccole oasi costituite da quattro palme ed un po’ di erba selvatica.

Facciamo sedere i dromedari e prendiamo posto nelle nostre tende. Il vecchio della famiglia ci invita a prendere un tè nella sua tenda. Il tè é ottimo, come sempre, non fosse che viene sempre servito molto zuccherato. Infatti una delle operazioni del capofamiglia é quella di spezzare un grande blocco di zucchero, simile ad un maglio, in tanti piccoli blocchi da inserire nella teiera, insieme al té grezzo e alle foglie di erbe aromatiche e di menta.

Tra un sorso e l’altro converso amabilmente con gli spagnoli, i quali mi illustrano le bellezze, le comodità ed i privilegi che hanno loro che abitano a Ceuta (un’enclave spagnola in territorio marocchino, situata proprio di fronte a Gibilterra).

Ascolto con molta attenzione quello che mi dicono a proposito di questa simpatica e tranquilla cittadina di 70.000 abitanti, ormai territorio autonomo, dove ci sono molto vantaggi, di qualunque natura: fiscale, commerciale e di trasporto.

Tra me e me penso che forse varrebbe la pena di informarsi meglio sulle possibilità di entrare a far parte di questa enclave fortunata (ma temo che sia a numero chiuso).

Terminata l’ora del tè ci dirigiamo alle capanne per fare cena. Il gruppo tira fuori il baule degli alcolici e parte subito con la birra, che gentilmente mi viene offerta. Io esordisco dicendo che é molto buona, e loro per tutta risposta, ridendo, mi dicono che “es la mejor cerveza barato”, ovvero che é una birra di nessuna pretesa che costa veramente poco (ecco messa subito a nudo la mia scarsa conoscenza e dimestichezza con gli alcoolici).

Ci viene servito un mega tajine di cous-cous di pollo e verdure, che tra tutti e nove non riusciamo a finire (ne lasciamo metà), olive piccanti, pane, frutta.

A salvare la situazione ci pensa Alberto, l’aspirante infermiere, che tira fuori dal baule magico un bel salame che ci sbafiamo in un millisecondo.

Finito il pasto ci fiondiamo fuori a gustarci le stelle (bellissime da qui) ed un fuoco che il cammelliere ha acceso apposta per noi.

Tra quiz, indovinelli, “ablar rapido” (gli spagnoli parlano velocissimo, senza pietà per me e, purtroppo, alcune parole mi sfuggono), tiriamo le 22.30.

Ci rintaniamo nelle due tende messe a disposizione per dormire, tranne Alberto che se ne sta a dormir fuori con doppia coperta.

Seguo i consigli di Dave e mi infilo nel suo sacco a pelo di piumino d’oca, fatto apposta per i climi piu’ rigidi, vestito di tutto punto: pantaloni, calzini, mutande, canotta tattica, pile leggero e pile pesante, nonché berretto berbero di pura lana.

Il risultato é che dopo neanche un’ora di passione sudo come se fossi in un forno, a cuocere a fuoco lento.

Da fuori effettivamente viene frescolino, ma non freddo glaciale, in più la tenda é fatta apposta per sopportare qualunque clima, essendo fatta di lana di capra e di dromedario. Inizia la mia notte di sudore e passione….mi giro e mi rigiro, mi tolgo un pezzo alla volta, fino quasi a rimanere in mutande, ma il risultato non cambia: muoio dal caldo e sono zuppo di sudore. Comincio a pensare che il sacco a pelo tattico non sia così adatto alla situazione, come era nelle intenzioni di Dave.

Dai vari mormorii dei miei vicini di tenda sento invece lamentele di freddo patito: per loro, che hanno optato tutti per una sola coperta, si é trattato di un errore fatale, che gli fa battere i denti dal freddo tutta la notte, complice anche il venir meno dell’effetto (falsamente) riscaldante dei superalcolici trangugiati che, nell’immediato dà un certo sollievo e calore, ma che, mano a mano che svanisce, fa aumentare il senso di freddo.

08.12.2010 verso la fattoria dei nomadi nel deserto, ai confini con l’Algeria

Se Allah vuole arriva la sveglia alle sei. E’ ancora buio. I miei compagni di viaggio si danno da fare a tirar su baracca e burattini perché al ritorno al camping, dopo la doccia, li aspetta la tirata in macchina fino a Ceuta.

Li accompagno ai dromedari, scatto loro delle foto e mi congedo sbracciandomi.

Rimango solo con me stesso e quelle dune che si stanno risvegliando, intiepidite dal sole che sta nascendo

Faccio due passi sulle dune per vedere meglio quello spettacolo unico, do un’occhiata tutt’intorno a quel paesaggio quasi irreale e mi sento partecipe. Che emozione…

Torno alla tenda per la colazione. Mi viene servito ogni ben di dio: un’enorme tajine di uovo alla berbera (con il pomodoro), te, marmellata, formaggini, pane, merendine, yogurth.

Mangio smodatamente, venendo meno ai miei propositi salutistici e mi pento subito, non appena terminata la colazione.

Ibrahim ritira i miei bagagli, che sistema nelle sacche in sella al dromedario, mi salire in groppa e partiamo alla volta del deserto. Fatti si e no cento metri mi sento a disagio per la situazione: la guida a piedi ed io in sella. Non sia mai detto! Faccio fermare l’animale e scendo, ben felice di camminare a fianco dell’incredulo ragazzo che continua a ripetermi che posso risalire quando voglio. Dentro di me penso che non ci sia occasione migliore per sentirsi a contatto con la sabbia delle dune, tanto meglio se si cammina scalzi (metto via scarpe e calzini), essere in armonia con gli spiriti di quelle montagne di sabbia, rispettare l’uomo e il povero animale che, nonostante sia abituato al lavoro pesante, digerisce male le salite (Dave mi spiegava che i dromedari sono dei gran lavoratori in piano, ma che in salita non sono a loro agio, anche se non lo danno a vedere). Inoltre Ibrahim mi dice che non c’é occasione migliore per farsi un massaggio naturale alle piante dei piedi (é verissimo, é piacevole, nonostante la fatica doppia di camminare sulla sabbia). Dulcis in fundo, penso che non ci sia occasione migliore anche per stare in linea, con una tre ore di marcia sulla sabbia che fa consumare doppie calorie (e tutte quelle accumulate tra colazioni, pranzi e cene luculliani).

Il sole che si alza lentamente in quel cielo limpido e asciutto scalda piacevolmente e, dopo aver scalato e disceso montagne di sabbia, finalmente intravediamo il deserto e la catena montuosa che segnala il confine geografico e politico con l’Algeria. Alla fine delle dune siamo obbligati a rimetterci le scarpe, perché le spine presenti ed il terreno duro e pietroso non consentono più di camminare scalzi.

Siamo in pianura, dobbiamo fare lo slalom tra cespugli, arbusti, piante di ginestra, erba selvatica e montagnole di sabbia bianca, ci tocca pure attraversare tre piste sabbiose che sono larghe come carreggiate autostradali e in cui, mi spiega Ibrahim, passa la famosa corsa piu’ pazza d’Europa, la Parigi-Dakar. Per gli abitanti del posto questa corsa é una fonte di guadagno perché molti degli spericolati piloti spesso capottano o finiscono insabbiati e fuori pista , sicché hanno bisogno del loro aiuto per trarsi fuori d’impaccio, e per far ciò lasciano laute mance da centinaia di euro.

Arriviamo alle case dei nomadi, che si trovano proprio in mezzo alla pianura. Da quello che vedo e che posso intuire ci sono tre nuclei famigliari dislocati a 300 mt circa gli uni dagli altri, a formare quasi un triangolo.

Quello che ci ospita risiede in una casetta cubica fatta di terra e paglia, divisa in tre o quattro vani (non ci invitano ad entrare), con un deposito degli attrezzi staccato dalla casa, e con, ad una distanza di circa 30 metri, l’ovile ed il pollaio. Un nugolo di capretti ed agnellini scorrazza tutt’intorno, mentre il gallo e le sua corte di galline vanno avanti e indietro per tutta l’area in cerca di cibo da beccare. Facciamo sedere il dromedario che, alla vista di due suoi simili, gonfia una sacca che ha in gola ed emette un suono sordo e potente, simile ad uno sbadiglio, che sta a significare “io sono il piu’ forte”. Mi fanno accomodare dentro ad una spaziosa tenda in cui é ospite una coppia di inglesi. Vengo rapito dalla bellezza di Emy, dimenticandomi per un attimo di ascoltare cos’ha da dirmi il suo boyfriend, il quale azzecca subito la squadra di cui indosso fieramente la maglietta. Visto che non sono incuriosito di sapere qual’é la sua squadra del cuore mi rivela di essere tifoso dell’Arsenal. Bene, dico io, mi sa che si andrà a parlare di calcio, visto che di donne forse non é il caso accennarne…..dopo un po’ decide di uscire e mi posso godere una conversazione con lei. Passati cinque minuti lui rientra, trafelato, sicuro di fare una cosa saggia, ed io mi sdraio a dormire. A svegliarmi ci pensa Ibrahim che mi porta una bella insalata mista che mangiamo con immenso piacere, annaffiandola, neanche a dirlo, con del te dolce. I due piccioncini escono per dirigersi a fare pranzo nella casa, a base di cous cous. Ci godiamo la digestione all’ombra della tenda, in un dolcefarniente che un po’ mi opprime, ma che scandisce il tempo nel deserto (qui non c’è corrente, né orologi, né radio, ne tv). I due fidanzatini vanno via senza salutare, lasciandomi interdetto e alquanto sorpreso (mi domando se in Inghilterra sia uso andarsene senza salutare…). Il tempo scorre, anche se il tempo del deserto ha una dinamica diversa dal nostro. Il sole fuori dalla tenda é cocente, non invita a fare attività alcuna, semmai ce ne fosse, per cui penso a godermi il dolcefarnulla sotto la tenda termica di pelo di dromedario e di capra. E’ strano come, al contrario di quanto si possa pensare, nel deserto si percepiscano molti rumori, che non sono i nostri ma quelli delle creature che ci vivono. Nel mio caso vengo “disturbato” dal continuo belare degli ovini, dallo starnazzare delle galline, guardate a vista dal gallo, dal ragliare dell’asino, che chiede biada, dalla bambina che gioca con gli animali della fattoria, dalla mamma che continua a dire cose alla bimba, sembrano quasi rimproveri, che entra ed esce dalla casa, per dare del becchime ai polli, dei resti di verdura alle capre, e la biada al ciuco.

Con Ibrahim usciamo dalla tenda per portare il dromediario al pozzo per l’abbeveramento. Dobbiamo camminare un po’, prima di trovare la bestia perché, nonostante gli abbia legato le zampe anteriori, al fine di impedirgli una fuga, lo troviamo molto distante. Arriviamo al pozzo, e il dromedario si butta avidamente sull’acqua che il suo custode gli getta nel secchio. Stranamente, dopo aver ingurgitato piu’ o meno 50 litri d’acqua, il ruminante fa segno che va bene. Chiedo al ragazzo il perché, sapendo che di norma un animale così possa bere fino a 200 litri d’acqua per volta. Mi risponde che, siccome non ha lavorato molto e che non fa troppo caldo, la bestia non ha bisogno di altra acqua.

Torniamo alla tenda e il quadrupede viene lasciato al pascolo, sempre con le zampe anteriori legate.

Il tramonto si avvicina, e si avvicina anche il gregge che il pastore, nonché capofamiglia, ha portato al pascolo. E’ un concerto assordante di richiami dei piccoli alle loro rispettive madri, che ad occhio e croce saranno piu’ di centocinquanta. Faccio due conti e considero che tutto il gregge, tra capre e pecore, agnelli e capretti, consti di piu’ di trecento capi.

Quindi, fra me e me, penso che tutto sommato questa famiglia non se la passa male.

Ibrahim mi spiega che finchè i capi sono in buone condizioni hanno un certo valore di mercato, di più di 100 dh, ma nel momento in cui, per avverse condizioni climatiche, ci fosse meno erba nei pascoli e acqua nelle falde, le bestie dimagrirebbero, al punto che il loro valore crollerebbe a circa 20 dh. Inoltre, essendo pastori, come vuole la tradizione e come vuole il deserto, non coltivano nulla e devono comprare gli ortaggi ed i cereali.

Il tramonto ci ricorda che bisogna cercare il dromedario, per riportarlo nei pressi della fattoria.

Ci incamminiamo nuovamente e lo troviamo ancora piu’ lontano di prima, intento a rimpinzarsi senza sosta di erbe e arbusti, abbondanti in questa parte di deserto.

Quello che appare incredibile é la quantità d’erba che questi animali ingurgitano. Faccio un rapido calcolo e penso che non gli bastino meno di 100 kg di erba al giorno (che poi durante la notte ruminano a ciclo continuo, per non parlare della quantità industriale di escrementi che emettono senza sosta).

Arriva anche l’ora della cena, che ci viene servita nella tenda e che é a base di tajine di pollo e verdure. Il pollo é di produzione loro, e si sente dal sapore, che é diversissimo da quello che si compra nei negozi. Questo è ruspante e per niente stressato, e si sente dalla carne che ha un sapore vero, sincero. Quattro gatti ci circondano e ci fanno capire che la cena va divisa con loro, e noi ben volentieri lanciamo loro gli avanzi del pollo.

Per dopocena c’é un piccolò falo fuori della tenda con i due figli grandi dei nomadi: Ahmed e Ibrahim (in fatto di nomi fantasia non ce n’é molta) ai quali, per entrambi si prospetta un futuro da pastori, di dromedari per Ibrahim e di ovini per Ahmed. Il falò riscalda una serata freschina, tipica del deserto, ed il cielo stellato regala una visione unica, che ho avuto poche volta in vita mia. Passa una carovana di 4×4 nella pista e sembra quasi disturbare, nel deserto di buio e di silenzio, quasi irreali.

Esaurita la legna il fuoco si spegne e quello é il segnale per noi che é l’ora di andare a dormire (non ho con me l’orologio e posso solo supporre che siano le 21.00), anche se, per i miei orari é ancora troppo presto. Ma siamo nel deserto, e mi adeguo.

La notte passa veloce, interrotta solo dai canti dei tre galli delle tre fattorie, i quali a turno si chiamano uno con l’altro, ogni 40/50 minuti circa. Una capra anziana ed insonne girovaga tutta la notte nei dintorni alla ricerca di cibo.

09.12.2010 ritorno al campeggio e partenza per le gole di Todra.

L’alba é un risveglio generale di animali ed umani.

Sono circa le sei passate e mi viene servita la colazione.

Tempo di finire il pasto ed il dromedario é già bello e pronto per partire. Mi congedo da quelle persone con un saluto da lontano, e con Ibrahim ci mettiamo in marcia.

Il ritorno é entusiasmante come l’andata ed io, tolte le scarpe, detto l’andatura della marcia.

Riusciamo ad acciuffare e a doppiare la coppia di inglesi, cammin facendo incontriamo un berbero che, in sella al suo quad, porta una tanica di carburante ad uno sprovveduto fuoristradista della domenica, e che aggiorna la mia guida sulle novità del villaggio (tra cui il decesso di un loro compaesano che, in preda ai fumi dell’alcool, si é rovesciato con la sua auto, proprio alla vigilia del matrimonio con una ragazza americana).

Scavalchiamo tutte le dune e raggiungiamo il villaggio. Mi congedo da quel ragazzo serio e fiero, dandogli una mancia e con la promessa di rivederci l’anno seguente.

Rientro trionfante al campeggio e alla mia camera, e altrettanto in trionfo e di gran carriera raggiungo i bagni per una doccia purificatrice.

Ci congediamo dai fratelli proprietari della struttura e prendiamo la strada per le gole di Todra.

Durante il percorso ci fermiamo a pranzare a base di pollo e patatine, per nulla invitanti, in un locale in cui la fretta non é di casa. Compro un casco di banane e ci rimettiamo in viaggio. Dopo alcune salite e curve arriviamo in un luogo in mezzo a due montagne, che forma una gola ed uno spettacolo unico. Alloggiamo nell’hotel Yasmine, che non ha corrente elettrica fissa, ma la dà a seconda del generatore e di quanto lo fanno funzionare (quella sera la corrente é arrivata alle 17.30 passate ed é stata interrotta alle 21.50, con mio sommo disappunto), e non ha acqua calda. Come dire “ non siete i benvenuti”.

10.12.2010 la lunga traversata delle montagne verso il ponte naturale di Imi-n-Ifri (Demnate)

Fatta colazione lasciamo quell’hotel freddo ed inospitale e decidiamo di non andare a Ouarzazate, ma di prendere una pista montana che é asfaltata, a tratti franata.

Il paesaggio é affascinante e cambia sempre, dopo ogni curva, saliamo e scendiamo molte volte, passiamo per valli e gole, dove ogni tanto troviamo villaggi abitati e senza corrente elettrica. Nei fondovalle ci sono dappertutto appezzamenti coltivati e verdi, a fare da contrasto alle montagne brulle e riarse. Le case sono tutte di fango e paglia, non ci sono auto, solo asini, ma ciò che mi sorprende é che quasi in ogni casa c’é una parabola ed i pannelli fotovoltaici. Di tanto in tanto una frana ci fa rallentare la corsa e ci fa capire che quello che incombe sopra le nostre teste é un cumulo di terra e rocce dall’equilibrio instabile. La strada sembra non finire mai, anche se ci regala degli spaccati di vita reale, a tratti quasi di secoli prima. Dopo tantissimi chilometri vediamo che alcuni pali della corrente sono stati posizionati, e questo ci fa capire che l’elettrificazione di tutte queste valli dovrebbe essere questione di pochi anni ancora (i tempi in Marocco non sono i nostri).

Arriviamo ad un bivio e fermiamo la macchina su un lato, per scendere al fiume a vedere l’arco naturale scavato dalle acque, salate e dolci, divise da una faglia.

Ci fermiamo a dormire nei pressi, in una pensione tutta nuova, costruita con gusto europeo. In sala alcuni gendarmi alloggiati per la notte parlottano tra loro di cose piu’ o meno interessanti, in un misto di francese e berbero, con un occhio alla tivù, sintonizzata su un canale in lingua araba che trasmette solo noiosi notiziari e talk show che hanno per argomento noiosi dibattiti politici. L’unico diversivo sono le loro tristissime ed orrende, nonché dilettantistiche, soap opera.

Finisco finalmente di leggere il libro di Jason Burke, e ne capisco meglio i contorni, avendo visto la realtà di paesi simili a quelli descritti dall’autore.

E vado a dormire.

11.12.2010 alle orme del paleolitico a Iroudane e alle cascate di Ozoud.

Ci svegliamo in un bell’alberghetto in stile europeo, tutto di cemento armato, con accenni allo stile arabeggiante, esco fuori in terrazza a godermi il sole, il caldo e la vista di colline lussureggianti. Facciamo colazione insieme alla gerente (una gentile signora marocchina) e ad una coppia di distinti signori francesi (che scopro essere i proprietari della struttura). Salutiamo e partiamo per visitare le orme di animali preistorici, in un posto non troppo lontano, in quelle stesse verdi e ridenti colline. Il sito archeologico si trova inglobato in un villaggio rurale, dove c’é molta miseria, ma gli abitanti sono autosufficienti. Ognuno ha un paio di mucche, galline e qualche ovino. La terra é fertile e vi si coltivano ortaggi in grande quantità. Lasciamo l’auto in uno spiazzo e ci rechiamo a piedi. Un paio di bambini del villaggio, di cui uno down, ci accompagnano, ben contenti di poterci fare da ciceroni (con trascurabili problemi linguistici, infatti procedono a gesti e a strani suoni gutturali, che dovrebbero riprendere un abbozzo di lingua francese).

Di li a 200 metri arriviamo alle impronte, che sono dei calchi sulla terra argillosa e ferrosa che si é fossilizzata, per non so quale reazione chimica, e ci ha regalato impronte di dinosauri di 170 milioni di anni fa. Insomma, queste orme sono tante, di diversi animali, alcune gigantesche, tanto che un bambino ci sta largamente seduto dentro, e stanno li inalterate da così tanto tempo…..mi riesce difficile crederlo, anche perché sono all’aria aperta, esposte alle intemperie e a ogni genere di maltrattamento. Si sono alternate ere climatiche, sconvolgimenti della terra, altre cose che possono essere avvenute in 170 mln di anni, hanno visto nascere e decadere tutte le civiltà del mondo, e loro sono rimaste li, intonse, ben visibili, inalterate. Il villaggio che é nato intorno s’é preso un a bella fetta di quel sito e ciò che rimane a noi é una piccola porzione, sufficiente a farci capire che vi dovevano vivere moltissimi dinosauri di diverse specie, e le orme rimaste parlano chiaro. Mi immagino i grandi erbivori di 40 tonnellate, i carnivori, assai piu’ piccoli, che li inseguono e li aggrediscono, i grossi uccelli che sembrano degli struzzi grandi dieci volte. La domanda sorge spontanea: perché il sito non viene protetto? Dave sostiene che non v’é abbastanza interesse, il governo del paese non incentiva paleontologi a fare delle campagne di scavi, in pratica non dà soldi; sono stati fatti i calchi in gesso e portati al museo archeologico nazionale. Le orme sono state abbandonate alla loro sorte, in attesa che qualcuno , nel futuro, se ne prenda a cuore il destino. Nel frattempo la vita del villaggio scorre tranquilla, con gente che é assorta nelle proprie occupazioni e nella propria sopravvivenza. Arrivati al pulmino diamo una mancia ai due bimbi e salutiamo un posto tanto bello quanto irreale.

Ci rimettiamo in strada alla volta delle cascate di Ouazou. Arriviamo dopo un’oretta di viaggio tranquillo, scattando foto qua e la, e godendo di un paesaggio bello quanto simpatico. Gli asinelli per strada, i poveri sdraiati sul ciglio in attesa di qualcosa che non arriva, e i tanti bimbi senza la cartella della scuola, ci ricordano che siamo in Marocco, un paese bello, dalle mille risorse, ma dalle duemila contraddizioni.

Le cascate di Ouazou sono una meraviglia della natura: un tripudio di acqua che scende per 100 metri e forma dei disegni che si stagliano in quella parete rocciosa che sembra quasi il frutto del lavoro paziente di giganti della terra. Facciamo delle foto ad una famiglia di scimmiette, macachi, che si sono stabilite in quel luogo incantato. Nonostante un cartello indichi che é vietato dar da mangiare alle scimmie, gran parte dei turisti dà loro di tutto, dalla frutta (che non sarebbe un problema) alle patatine e alla cioccolata, condannandole di fatto ai problemi di salute di noi umani.

Per la notte alloggiamo in un hotel carino ed accogliente, abbastanza recente, che si trova proprio a ridosso del sito. La sera facciamo cena e stringiamo amicizia con una coppia di romani, e con una coppia formata da un marocchino ed una slovacca, entrambi immigrati nel nostro paese da piu’ di dieci anni.

Con i romani stringiamo un’amicizia che ci porterà a condividere il resto del viaggio.

Nell’hotel un signore, sedicente berbero, multilingue, e affabile conversatore, con la barba folta, ed un turbante chilometrico, una tonaca intonata con il turbante, dà lezioni di vita ai clienti dell’hotel, intrattenendoli con aneddoti della sua vita e vaghe, se non improprie, citazioni della filosofia indù. Il suo ricorso ad aiutini vari, del tipo acquavite mescolata a schweppes, ci fa capire che il tipo é assai misero di contenuti, e ricco di alcool nel sangue, e di patetici tentativi di monopolizzare l’attenzione dei presenti (……e di intortarsi una bella ragazza olandese, venuta li con i suoi due bimbi, forse per ascoltare il guru……dei miei stivali).

Alle 23.00 salgo in camera, dopo essermi portato avanti col mio diario.

12.12.2010 visita del mercato di Demnate e arrivo a Marrakech

Lasciamo le cascate e il freddo dovuto all’umidità causata dall’acqua Dave accende pure il riscaldamento. E viaggiamo alla volta di Demnate per vedere il mercato settimanale. Arriviamo nella bolgia di un paese che si anima di personaggi di tutti i colori. Riusciamo a parcheggiare le auto proprio sulla via e ci immergiamo in quella realtà di voci, suoni e colori. Facciamo subito una sosta all’ambulante della frutta secca, dove compro un chilo di arachidi tostate, buone da paura, ceci secchi e datteri disidratati. Proseguiamo tra bancarelle (bancarelle si fa per dire: sono mercanzie per lo piu’ distese per terra), e passiamo nel settore delle pollerie. Non consiglio la visione ai deboli di stomaco, e comunque mi guardo bene dal fotografare i banchi, visto che i proprietari ci squadrano e ci mandano occhiatacce, per farci capire che non siamo graditi. Detto fatto finiamo nella zona dei macelli di bovini e ovini, anche qui non ne consiglio la visione e la visita alle persone suggestionabili. Ho la sventura di fare un paio di foto a delle capre appese a testa in giù’ e sento qualcuno che mi manda degli improperi, o comunque epiteti poco cortesi. Il macellaio, con la barba folta e il cappellino, si sta sbracciando nella mia direzione e urla di tutto, brandendo un coltellaccio. Chiedo umilmente scusa e proseguo. Per fortuna gli altri venditori ben si dispongono a farsi fotografare, e comunque nelle foto riprendo situazioni di folla, per essere inattaccabile. Così tra gimcane varie, colori variopinti di primizie abbondanti e profumi di spezie, guadagnamo l’uscita del mercato, tanto grande quanto disordinato e sporco. Immancabili sono gli asinelli che, loro malgrado, devono tirare i carretti degli ambulanti e che, tra un raglio e l’altro, ben si dispongono a farsi carico di ogni genere di fardello.

Dave fa sosta alla farmacia di un dottore, Alì tal dei tali, che precisa di essersi laureato a Volgograd.

Riprendiamo la strada per Marrakech, passando per paesini tutti uguali, con le stesse aspettative, con gli stessi personaggi, gli stessi negozi e la stessa vita, muta e a tratti rassegnata.

L’ingresso a Marrakech ci viene segnalato da stradoni a due corsie ed uno sfrecciare di motorini e auto moderne, che usurpano la scena ai tanti carrettini tirati da asini che abbiamo visto dappertutto nella campagna.

Ci rechiamo subito al nostro parcheggio preferito e raggiungiamo il nostro hotel in centro, previa una sosta al carretto delle aranciate per dissetarci (spremute fatte al momento, buonissime e al prezzo di 4 dh l’una…..).

Preso possesso della camera ci fiondiamo fuori per farci un kebab veloce e per immergerci nel caos di una domenica a Marrakech, che pullula di gente come non mai.

Tra turisti occidentali, turisti nazionali che hanno passato il week-end, popolazione locale e astanti di ogni genere, ci districhiamo per guadagnare la medina.

Tra contrattazioni varie e tira e molla i due compagni di viaggio comprano pouf di pelle di cammello e servizi di bicchieri da te.

Io punto decisamente su erbe e prodotti di erboristeria, che dovrò portare a sorelle e nipoti.

Cala la sera su Marrakech e sulla piazza principale inizia il tambureggiare di giocolieri, mangiafuoco, incantatori di serpenti, accattoni, venditori di ogni genere di cibo, venditori di souvenir, venditori di sogni….

Mangiamo ad uno stand in cui ci fanno il miglior prezzo e ci adulano in italiano. Ho poca fame, divido la mia cena con delle bimbe indigenti, la cui mamma vorrebbe nasconderle ai nostri occhi, ma Simona prima, ed io dopo, le incoraggiamo a prendere le patatine ed il pane che porgiamo loro. Il dopo cena é un girovagare per la piazza, e ci lasciamo tentare da un gioco, quasi impossibile: si tratta di infilare un cerchietto, tenuto dal filo con una canna da pesca, proprio sul collo di bottiglie di coca e fanta ferme in piedi. Dopo innumerevoli tentativi passo a Simona, la quale prova anche lei piu’ volte, senza peraltro riuscirci, anche se ogni volta dà come l’impressione di avercela fatta.

Chiudiamo la serata bevendoci un tè alla menta su una terrazza panoramica sopra la piazza. Sono le 22.30, é tardi, i locali chiudono, siamo di troppo, e ce lo fanno capire senza mezzi termini.

Torniamo all’albergo e finiamo di scambiarci le nostre impressioni sulla giornata seduti in terrazza, all’ultimo piano, dentro alla tenda in stile berbero.

La piazza, da lontano, emana ancora il suo forte odore di fumo dei grill, lo schiamazzo della folla e i tamburi dei concertanti da strada che raccolgono gli ultimi dirham della giornata.

Alle 23.00, come per magia, si spegne tutto, quasi ad obbedire ad un coprifuoco, non scritto ma tacitamente accettato da tutti.

Il sonno si fa sempre piu’ prepotente e ci convince a tornare ognuno alla propria camera.

Lunedì 13.12.2010 ultimo giorno a Marrakech

Dedico la mia ultima mattinata in terra marocchina agli acquisti dell’ultimo minuto. Gironzolo senza meta per la medina, ed acquisto quantità industriali di erbe varie, saponi per lo scrab, profumi naturali ed altro. M’ingozzo di succo d’arancia, pensando che quelli saranno i miei ultimi bicchieri. Torno piu’ volte al mercato coperto, mi inoltro troppo avanti ed un ragazzo per strada mi indica di continuare nella stessa direzione, in quanto poco più’ avanti si tiene il mercato berbero settimanale. Seguo un altro ragazzo che si offre di accompagnarmi. E’ un trucco, ma sto a vedere fin dove vogliono arrivare. La strada non finisce mai, é un susseguirsi di vie, viuzze, piazze, piazzette, angoli tutti uguali, e penso già come uscirne, o quantomeno, come tornare sui miei passi. Dopo un abbondante quarto d’ora di cammino raggiungiamo una specie di cittadella, al cui interno si trovano le concerie. Ecco, questo sarebbe stato il famoso mercato berbero…..sull’uscio un signore falsamente cortese mi offre un mazzetto di menta e mi invita a seguirlo per il tour della conceria. Un puzzo insopportabile e nauseabondo mi accoglie. Mi guardo intorno e vedo pelli di animali appena macellati, capre, pecore, dromedari, vitelli, portate li e ammucchiate a fianco dei pozzi di decantazione. Il signore in costume tradizionale mi spiega che le pelli devono essere immerse nelle vasche di calce bianca per cinque giorni, per essere disinfettate e perdere l’odore, dopodiché passano nelle vasche del…..guano di piccione per starci altri cinque giorni ad ammorbidirsi (tra me e me penso che non indosserò mai più’ un capo di pelle….).

Nelle stanze ci sono i vari conciatori, che lavorano le pelli: chi ne fa ciabatte, chi ne fa scarpe, chi giubbotti, pouf, tamburi, borsellini ed altro ancora. Un giro ai vari atelier é d’obbligo, dove con insistenza quasi tediosa cercano di venderti qualunque cosa.

Scappo via con una scusa e all’uscita il tizio che mi faceva da guida mi chiede una “libera” mancia di 100 dh. Sono incavolato per il trucco del mercato berbero fantasma, e altrettanto incavolato gli mollo in mano un biglietto da 20 dh, dicendogli che può bastare, per quello che ha fatto, per il tempo dedicatomi e per la mia incazzatura. Al ché il finto berbero, stizzito, prende i soldi e non mi degna neanche di uno sguardo.

Ritorno sui miei passi, sperando di azzeccare la via giusta, e mi va bene per un po’, memore delle mie scorribande giovanili per il centro storico di Genova ai tempi dell’università e, in seguito ai tempi del praticantato, in alcune agenzie immobiliari e di una breve parentesi come postino.

Ogni centro storico ha una sua logica e la stessa vale per quello di Genova come per quello di Marrakech.

Attraversando una piazzetta alcuni ragazzini che giocano a pallone vedono la mia macchina fotografica e mi chiedono se voglio una foto (a pagamento, ovvio). Lungo il tragitto, dopo vari rifiuti, e dopo non aver chiesto alcuna informazione (ho scoperto che qui le informazioni si pagano, vuoi solo per sapere dove é una certa strada), perdo ovviamente il filo di arianna e allora mi regolo con il sole. Mi dico, tra me e me, che se son venuto da sud-sud ovest, devo tornare a sud-sud-ovest. E per questo il sole, alto e splendente in questo lunedì radioso, mi aiuta perfettamente.

Ritrovo la medina e mi risento a casa.

Arrivo alle 14.30 all’hotel, dove mi aspettano gli altri, per il nostro appuntamento all’hammam.

Finalmente un bagno ed un massaggio rilassante, dopo 14 giorni di tour non sempre agevole, fatto di spostamenti, camminate e visite, molto intenso, affascinante, ma anche forte. Con l’amico di Roma dividiamo la stanza del vapore, e parliamo del piu’ e del meno, finché una dolce figliola ci insapona e ci fa lo scrab (in altri termini una pulizia della pelle, che consiste in un vero e proprio spellamento con un guanto di crine). Vedo la mia pelle morta per terra e mi sento come se qualcosa di me sia persa per sempre. Delle secchiate di acqua tiepida in faccia mi destano dai pensieri esistenziali e mi danno sollievo. Il massaggio finale all’olio di argan é piacevole, mi aspettavo qualcosa di piu’, in tutta sincerità, ma va bene lo stesso. Esco che odoro di olio da friggere, ma sono rimesso a nuovo.

Simona scalpita perchè di lì a neanche due ore parte il loro volo per Roma.

Torniamo all’hotel e ci congediamo da questa coppia di amici che ci ha accompagnato nei nostri ultimi due giorni di viaggio. Con Dave e Monica decidiamo di fare ancora un salto alla medina, per vedere i quartieri ancora non visitati: quello dei fabbri e quello dei pollivendoli. Il primo é un tripudio di battitori del ferro, che fanno dei capolavori.

Faccio delle foto, generiche e particolari e mi sento chiedere soldi da tutti, in maniera a dir poco strafottente e maleducata. La qual cosa mi infastidisce perchè, visto il modo, rovina un momento di ispirazione e di poesia. Sicché faccio vedere che cancello le foto e non gli dò soddisfazione. Inutili i tentativi di Monica di giustificarli, io non li giustifico. Una mancia l’avrei lasciata volentieri, ma a richieste garbate.

Ci dirigiamo al reparto pollivendoli e subito mi prende una pena per quelle povere bestie, prossime alla morte, ingabbiate all’inverosimile in cellette dove non riescono quasi a respirare. Ovviamente non mi azzardo a scattare foto, per rispetto verso quelle povere bestie e perché la nostra presenza non é gradita, sebbene venga tollerata, visto il nostro status di turisti. E’ uno di quei momenti in cui mi sembra che mi vogliano dire “stai rompendo le scatole, sparisci!”. Guadagnamo l’uscita e la piazza, dove posso, ipocritamente, respirare aria non ammorbata di sangue e morte.

Per cena decidiamo di concederci una pizza in un locale dove: effettuano cambio di denaro, fanno ristorante pizzeria, ed offrono una mini moschea per il culto.

Dave cambia degli euro e ci sediamo, sorseggiando le bibite, ammirando la maestria del pizzaiolo che impasta ed inforna all’aperto, sotto gli occhi di tutti. Nel mentre il muezzin chiama alla preghiera e di li a poco frotte di credenti si affrettano a riempire la saletta a fianco, togliendosi le scarpe prima dell’ingresso. Arrivano come le cavallette e mi domando come faranno a starci tutti. Ma ci stanno, anche se molto sacrificati (mi ricordano i polli del mercato….).

Mangiamo con piacere le due buone pizze preparate per noi, pensando che hanno poco da invidiare alle nostre italiane.

Perché da noi quello che una volta era un piacere a basso prezzo adesso é pur sempre piacevole ma assai piu’ salato…..

Con i restanti dirham rimastimi compriamo dei dolci favolosi dalla pasticceria piu’ rinomata, e ancora una volta girovaghiamo per la piazza. Al ritorno, sulla terrazza dell’hotel riordiniamo le nostre foto ed io i miei appunti di viaggio.

Ascolto ancora una volta il rumore dei tamburi e della folla in piazza, e mi ritiro per il mio ultimo sonno in terra di marocco.

Martedì 14.12.2010 la partenza.

Ho il volo alle 09.30, per cui la sveglia mi fa alzare alle 06.30. Una doccia veloce, mi vesto, prendo su le valigie fatte con scrupolo la sera prima di coricarmi, badando bene a calibrare i pesi, del bagaglio a mano e della valigia, così da non sforare la franchigia concessa dalla mia linea aerea.

Facciamo una colazione veloce al bar pasticceria a fianco e usciamo. Raggiungiamo il pulmino, dopo aver fatto le gimkane tra tassisti che ci offrono passaggi per l’aeroporto a prezzi stracciati. Carichiamo i bagagli e attendiamo che il mezzo si decida a mettersi in moto. Nulla da fare, il motorino d’avviamento gira regolare ma il motore non parte, come se non gli arrivasse l’impulso.

Decidiamo di adottare la soluzione B, ovvero di cercare un taxi e di avvisare il custode del parcheggio che serve un meccanico.

Raggiungiamo i taxi, contrattiamo il prezzo con il primo della fila (da 150 cala a 80 dirham) e ci fiondiamo all’aeroporto.

La coda al check-in é cortissima, per cui sbrigo tutto in una manciata di minuti. Mi congedo dalle mie guide, con la promessa di ritornare per il giro delle città imperiali, e guadagno la porta d’imbarco.

Tornerò, non tornerò?

Certo che tornerò, perchè il Marocco mi rimane nel sangue, con i volti della sua gente, le sue contraddizioni, i suoi colori, i suoi odori. Siamo in terra d’Africa, e come ho spesso sentito dire a tanti viaggiatori a cui é preso il mal d’Africa, così mi é preso questo male che, se non é proprio d’Africa, é mal di Marocco.

A presto, terra amica!



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