Sud Marocco, è qui l’anello mancante

Un viaggio breve, ma intenso, vissuto come un’esperienza irripetibile del passato.
Scritto da: Fabio D''amico
sud marocco, è qui l’anello mancante
Partenza il: 03/04/2011
Ritorno il: 08/04/2011
Viaggiatori: 4
Spesa: 1000 €
Un viaggio breve, ma intenso, vissuto come un’esperienza irripetibile del passato. Il Marocco è diventato la nostra Eldorado, l’isola che non c’è, l’anello di congiunzione fra natura e uomo. Il paese è fatato, magico e le parole non rendono le sensazioni ancestrali di libertà, di armonia e di serenità che infonde il territorio e le persone che lo abitano.

3 Aprile Roma-Marrakech

Alle 4 di domenica ci svegliamo ed alle 5 il fido Virgilio (45 €), puntuale come sempre, ci aspetta sotto casa. La macchina a noleggio ci occorre perché, in 4, abbiamo 4 bagagli a mano ed uno da stiva. Arriviamo alle 5.30 all’aeroporto di Ciampino ed andiamo ad imbarcare la valigia ma il banco per la stiva non lo vediamo; tutto Easyjet, Easyjet,…non si vede Ryanair. Non c’è da scherzare col tempo, il gate chiude alle 6.05 e ci affanniamo un pò. Poi, alla fine, scopriamo 2 banchi, dopo la serie Easyjet che, senza alcuna insegna, scopriamo essere della Ryanair. Essendo abituati alle stranezze degli irlandesi, abbozziamo e facciamo la fila per il check-in. Purtroppo, pur avendo liquidi in quantità inferiore a 100 ml, questi non sono nelle buste, perciò dobbiamo tornare indietro: imbustare, rifare il controllo senza rifare la fila. Andiamo al controllo passaporti, dove fanno osservazione per la mia carta di identità divisa in due “deve essere integra” dice il poliziotto trionfante, e consapevole di avere il potere di rovinarmi il viaggio; ma comunque passo. Ho sempre con me il passaporto, con bollo non timbrato,”just in case”. La solita scena di chi ha il timbro scaduto sul passaporto e viene invitato a procurarsi una marca da bollo, ma l’unico posto dove la vendono è Ciampino paese e sono le 6 di mattina.

Una marocchina intenta una discussione con gli addetti Ryanair nel tentativo di far passare una coperta a mano. Poi la indossa, a mò di costume tipico ma, niente, sono irremovibili: il bus resta fermo almeno 20 minuti prima di portarci all’aereo. Poi non sapremo se la marocchina e la sua coperta l’ abbiano spuntata. Sono le 6.40 ed aspettiamo il decollo. Il tempo è nuvoloso ma non più di tanto. Alle 9.10 atterriamo. Ci aspettavamo 35 °, come la responsabile dell’agenzia che ha organizzato il tour, Manuela, ci aveva detto alcuni giorni prima ma ce ne saranno 18-19. La pista è piena di aerei colorati che è vietato filmare e l’aeroporto è certificato ISO 7000 o qualcosa di simile. Appena arrivati compiliamo la carta di sbarco di controvoglia, perché dobbiamo ripescare i passaporti e cercare le penne ma tant’è, ed andiamo al controllo passaporti dove la stampigliano e la trattengono. Consiglio di prenderne un’altra per il ritorno. Fatto il controllo, andiamo verso l’uscita dove un addetto verifica che tutti abbiano il passaporto timbrato. Alle 9.30 ritiriamo il bagaglio. Quando arriviamo al nastro numero 7, il bagaglio è già uscito, per primo, visto che siamo stati fra gli ultimi ad imbarcarci. Cambiamo al tasso di 11.06 Dh per 1 euro, no commission. Prendiamo il bus numero 11 (4 persone 80 Dh) appena si esce dall’aeroporto a sinistra, che pare aspetti solo noi. Il taxi costa 70 Dh ma, in 4 e con 5 bagagli, avremmo dovuto prenderne due (140 euro), per cui abbiamo optato per il bus. Alle 10.10 parte il bus: destinazione la “Piazza” dove arriviamo dopo 10 minuti inebriati dalla puzza di cacca di cavallo e vediamo i calessi parcheggiati in ordine uno dietro l’altro. Chiediamo dell’albergo, l’ottimo hotel Cecil, ed Evela sperimenta per prima la gentilezza degli abitanti che si prodigano per indicarci la direzione giusta. Poi chiede ancora ma non vogliamo farci accompagnare per paura che ci assillino per la mancia. Una delle scappatoie quando si chiede dove si trova un certo posto è dire che si è fatta già la reservation, in modo che l’interpellato realizzi che non potrà chiedere la commission alla struttura e si ottiene, comunque, l’informazione senza essere accompagnati.

Passiamo attraverso la Piazza e vediamo il venditore d’ acqua, l’incantatore di serpenti e 2 cobra sdentati e stressati che scattano al minimo avvicinamento. Ci fanno pena. Mi mettono un serpente attorno al collo dicendo “picture”!. Cortesemente declino con un convincente “la, shukran” e penso ai centurioni vicino al Colosseo che, cambiate le mutande, fanno la stessa cosa. Il nostro albergo è dalla parte opposta della piazza e ci si accede passando sotto un portico che porta ad una stradina dove ci sono altri alberghetti dello stesso livello del nostro, in posizione strategica. Andiamo all’albergo Cecil ma le stanze non sono pronte. Paghiamo la stanza 300 + 270 Dh e in più 30 Dh pagati in anticipo con carta dall’Italia. 2 stanze (nr. 22, 2 posti e nr. 24, 4 posti ad uso 2, la 28 ha anche 4 stanze) senza infamia e senza lode, essenziali, al pianterreno, così non si fanno le scale coi bagagli.

Appena si esce dalla stanza c’è un salottino all’aperto, con una bella palma altissima che raggiunge e supera il 3° piano. Ai lati del salottino ci sono dei divanetti dove si può passare anche un giorno a leggere e chiacchierare con il personale e con i turisti che abitano la struttura. I piani sono sorretti da eleganti colonne papiriformi. L’albergo Cecil è comunque in ristrutturazione e si vedono calce e cazzuole qua e la. L’Hotel è, appunto, strategico come posizione e l’accoglienza è semplice e cordiale: c’è un signore supergentile che ci accompagna a comprare l’acqua che costa 5 Dh un litro e 1/2 litro 3 Dh. In piazza un litro costa fino a 15 Dh, cioè 10 Dh (1 euro) in più nel giro di 10 metri. Prendiamo possesso delle stanze ed alle 11.30 usciamo chiedendo al supergentile come si arriva al palazzo Bahia. Diciamo che abbiamo capito come ci si arriva, oui, oui, OK, d’accord, ma il nostro amico si accorge che non abbiamo capito niente, ed ha ragione, allora ripete lentamente l’itinerario aiutandosi con le mani. Adesso è chiaro: non dobbiamo fare altro che uscire dall’albergo, andare a destra, poi dritti, poi di nuovo a destra, a destra e sempre dritti. Una volta nella piazza, prendiamo una spremuta di limone 10 Dh e di arancia 4 Dh, sono prezzi imposti dallo Stato e rientrano nella diminuzione generalizzata dei prezzi fatta da Mohammed VI, un re molto amato da queste parti perché illuminato e progressista. L’aranciata è squisita, senza diluizione con acqua e comunque chiediamo di spremere le arance davanti a noi e di non mettere ghiaccio: siamo appena arrivati e la prudenza non è mai troppa. Anzi, siamo partiti con la solita provvistina di fermenti lattici, Imodium e Bactrim come consigliato dal nostro medico, amante dei viaggi anche lui. Dopo 20 min di passeggiata in Rue de Banques, ci fermiamo ad osservare la vita cittadina, con Minù che, come da sua prerogativa, valuta e soppesa tutti i potenziali acquisti….annusandoli. Il minareto della moschea Koutoubia svetta dappertutto e costituisce un ottimo sistema di riferimento.

Arriviamo al palazzo, preceduto da un simpatico vialetto costeggiato da aranci ed altri alberi esotici, dove paghiamo un biglietto di 10 Dh a testa. Assaggiamo 2 arance cadute dai due filari di alberi: pessime ed agre. Sono arance selvatiche. Un cartello avvisa che La Grande Cour est fermée. Alle 12.20 iniziamo la visita al palazzo. Merita la visita in quanto è molto elegante e fine, la staticità ed i motivi geometrici arabi contro il nostro dinamismo ed irregolarità delle forme. La perfezione delle strutture lignee ed in pietra trasmette serenità e così il giardino pieno di uccelli cinguettanti e di alberi che fanno da contorno ad una fontana molto elegante. La visita ha un che di struggente: perdendoci nelle stanze del palazzo, senza mobili, ma ancora trasudanti di esistenza, ci immaginiamo la vita di corte del visir fra agi e lussi e quella del governatore che organizzava feste danzanti con le rappresentanze europee, gli amori e gli intrighi politici, i vissuti umani, mentre ora tutto tace e si ode solo lo scalpiccio ed il chiacchiericcio dei turisti. Non c’è la vita pulsante del presente né il rigor dell’archeologico, una via di mezzo. Dopo il palazzo ripercorriamo la stessa strada, inebriandoci della fragranza del pane appena fatto, che filtra da un forno e ci fermiamo a mangiare alla Port du Mond sulla Rue Riad Zitoun …. che ci ispirava tanto ma che si dimostra una schifezza, una vera fregatura. Mangiamo male, insapore, freddo, il cameriere che ti fa un piacere a portarti i piatti, per giunta sciapi. Paghiamo 200 Dh in 3. Sono le 14.30, andiamo a riposarci, in fondo ci siamo alzati presto stamattina. Torniamo in albergo e troviamo Abdul, l’impiegato di Manuela, al quale dobbiamo saldare il tour che inizierà domani. Prima di dargli i soldi, telefoniamo a Manuela perché avrebbe potuto essere un impiegato infedele che, avendo saputo del nostro tour, viene a riscuotere e poi sparisce. Si vede che siamo appena arrivati dal Bel Paese, con la nostra diffidenza occidentale, ma rimaniamo un pò perplessi quando Abdul dice che non può chiamare Manuela perché non ha credito. Gli offriamo di chiamare con uno dei nostri telefoni ma dice che va a ricaricare e che poi torna. Dopo 5 minuti telefona a Manuela che affettuosamente ci rimprovera di non averle telefonato prima, ed ha ragione, ma pensavamo solo all’oggi e non al domani. La invitiamo a bere qualcosa ma aspetta qualcuno molto importante, si scusa e non ci incontriamo. Ci dice che domani passerà Alì che sarà il nostro autista-guida-amico nei prossimi 4 giorni.

I fatti ci dimostreranno che scelta migliore dell’autista non poteva essere fatta. Francy compra 120 euro di sigarette a 30 euro l’uno, poi si scopre che il prezzo imposto dallo Stato per quei pacchetti era di 20 euro l’uno. E pensare che avevamo anche contrattato a morte !! Il ragazzo, sui 20 anni, ci vuole vendere anche hashish, forse sembriamo avvezzi all’uso di questa droga, leggera, per carità, e ci dice che 2 grammi costano 300 Dh (30 euro) ma ci tiene a precisare che è di qualità zero-zero, cioè roba di prima scelta. Io conosco solo la farina zero-zero e per convincerci ci fa la faccia di uno che gode, poi ci fa vedere il fondo degli occhi ma non capiamo cosa significhi. Ripassiamo per la piazza. Quelli che, vestiti da donna, fanno la danza del ventre e ballano e cantano come indemoniati e ci fanno un pò impressione e pensiamo che lo facciano in sostituzione delle donne che non si possono esibire all’aperto. Ma non siamo sicuri che sia così. Anche a Roma i ruoli femminili nel Settecento venivano assegnati a ragazzi castrati, per lo stesso motivo che forse vale anche in Marocco. Poi quelli che vogliono farti fare la foto con la scimmia, poi, ancora, gli incantatori dei serpenti pensionati e sdentati. La maggior parte sono spettacoli musicali con strumenti a corda e tamburi, attorno ai quali si assiepano torme di locali, forse pagati perché l’obiettivo è il turista che, curioso, si assiepa anche lui per vedere cosa sta succedendo. Dopo qualche minuto, un signore con una sorta di raccoglitore passa fra gli astanti per raccogliere l’obolo “per vedere” e lo dice in 5-6 lingue se non conosce la nazionalità dello spettatore. Può anche diventare aggressivo se non si mette mano al borsellino.

Ecco, è uno spettacolo un po’ penoso checché se ne dica, una piazza Navona stile Maghreb, ma la sostanza non cambia, pare un mondo falso, artefatto, costruito per noi: hanno capito che il turista porta soldi, il turista che, invece di avvicinarsi in modo curioso e paritario, ha cominciato a spendere e a regalare soldi ai locali che, fiutato il business, si sono trasformati in una sorta di saltimbanchi e grottesche macchiette il cui unico scopo è quello di guadagnare facendo folklore, la vita reale qui è poco presente, anche se ci sono comunque molti locali.

Abbandoniamo la piazza Navona del Magreb ed andiamo a cena.

Andiamo al ristorante Toubkal affianco alla piazza consigliatoci dal supergentile dell’Hotel Cecil, perché li vanno anche i marocchini ed i turisti pagano come loro. Saliamo al primo piano e mangiamo molto bene spendendo 60 Dh a testa (6 euro). Prendiamo 2 tajine con prugne, 2 couscous, acqua, coca cola, the e patate fritte. E’ vero, è frequentato anche da marocchini. Ambiti sono i tavoli vicino alle finestre, anche se sempre lontani dall’animazione della piazza.

Altra passeggiata, deludente, attraverso la piazza e il vicino suq e poi in albergo perché l’indomani ci aspetta un’ altra levataccia.

4 Aprile Marrakech-Zagora 354 km (Ouarzazate 197 km)

Sveglia alle 6.30, perché alle 8 passa Alì. E’ piovuto tutta la notte ed è mancata anche la luce, facendo piombare la stanza in un buio pesto da rendere impossibile qualsiasi movimento perfino per cercare le torce. La luce torna verso le 5.30. Al sorgere del sole gli uccellini orchestrano in questo patio che assomiglia al vestibolo di una casa romana, con compluvium e impluvium. E la palma che troneggia al centro ci fa pensare che l’albergo è stato costruito attorno a lei come la casa di Ulisse attorno al letto nuziale di un antico ulivo. Sta piovigginando leggermente ed il cielo è coperto. Sul terrazzo, sotto un tendone, facciamo una ricca colazione a base di burro, marmellata, the alla menta e succo di arancia, pane a fette e cornetto per tutti. Un ottimo latte intero molto saporito. La sera prima Francy e Minù hanno comprato 2 puff da riempire a 20 €/uno (partendo da 60 €/uno). Sono belli, ma quanto puzzano !! Vengano fatti con le pelli dromedari morti e consigliano di lasciarli un po’ di tempo all’aperto per far smaltire l’odore. Sono le 8.45 e l’autista ci aspetta fuori.

Alle 9 partiamo, direzione Atlante con una 4×4 molto comoda. Uno davanti e 3 dietro e tutte le valige nel portabagagli esteso dopo il ribaltamento dei sedili. Ci informiamo subito della situazione politica e se si prevedono disordini nelle grandi città. Alì è risoluto nel dire che il re Mohammed VI ha cominciato 10 anni fa a cambiare il paese, ha liberato entro certi limiti la donna, a cui si consente ora il divorzio mentre prima era solo appannaggio del marito. Il re ha studiato in Francia, Spagna, Inghilterra ed America e la donna che lo ha educato è spagnola. La moglie è araba e la mamma è berbera. Il berbero, grazie a lui, è diventata una lingua ufficiale in Marocco e si studia regolarmente a scuola. Il re va spesso in giro per controllare che i progetti vadano a buon fine e che i soldi pubblici non alimentino la corruzione. E’ molto amato per questo. Ed è anche furbo perché,dice Alì, dopo i disordini in nord Africa, ha detto al popolo “Se volete me ne vado” e questa frase gli ha procurato molto consenso. Il re ha speso il 40% della sua eredità per i poveri, almeno questo è quello che gira. Gode di una buona quotazione, insomma. Ha rinunciato a parte dei suoi poteri a favore del parlamento, ma ancora in modo non sufficiente. Hassan II, il padre, aveva 3 mogli ufficiali. Loro hanno solo re e non regine, re e mogli di re. Mohammed VI ha solo una moglie, di Fes, con i capelli rossi. L’80% della popolazione è berbera e ci sono anche canali televisivi che trasmettono in berbero. Alì ci pronuncia una frase in arabo ed una in berbero e gli chiediamo di tradurci nei due idiomi: “Questa mattina mi sono svegliato e….” e lui continua: “… Ed ho trovato l’invasor…”. Gli chiediamo dove ha imparato la canzone partigiana e ci dice con i turisti con cui lavora, così come ha imparato le altre lingue che conosce: il portoghese, lo spagnolo, e un po’ di tedesco per non parlare dell’inglese, arabo, francese e berbero che alterna con la semplicità con cui si cambia il canale della radio. Lo invidiamo per questa sua possibilità di poter parlare con mezzo ecumene. L’italiano lo conosce bene e frasi del livello di “ andate a sgranchirvi le gambe” non sono infrequenti. Comunque, alla fine pronuncia in arabo e berbero “questa mattina mi sono svegliato” ed in effetti sono due suoni completamente diversi: “Bikini miss minu” (berbero), “ena miss mi” (arabo). Mentre “che hai detto” suona “Met me” in berbero e “maga oll” in arabo. Tutto diverso. I berberi scrivono da sinistra a destra e l’ alfabeto è molto simile al greco. Io dico che sapevo che non c’era una scrittura berbera ma Alì dice che è una scrittura molto antica e che la prossima volta andremo a vedere dei graffiti in una regione al sud del Marocco. Le tribù berbere sono molto socievoli perché hanno avuto contatti con tutte le religioni prima di diventare musulmani, parla di religioni non di popoli. Ci avevano detto che il berbero era solo parlato e Alì dice che chi ce lo ha detto è un arabo molto razzista verso i berberi. Prima era la lingua ufficiale del nord Africa quando c’era la regina berbera Dia (o qualcosa di simile) ma quando hanno voluto mandarli via hanno chiamato i francesi.

Queste le notizie che ci vengono date e queste riportiamo senza pretesa che siano esatte alla perfezione.

Vediamo alcuni impianti di trasformazione della tensione elettrica. In Marocco l’ energia è solo idroelettrica, solo energia alternativa quindi, non inquinante.

Coi fichi d’india fanno la seta vegetale, che mettono sui tetti ad essiccare, la pestano e poi la intrecciano con i peli di dromedario e la usano per i vestiti. Alle 10.15 cominciamo l’ascensione sull’Atlante che divide il paese in due parti. Attorno a noi il verde della flora ed il rosso dell’argilla, un paesaggio che sembra dipinto a pastello.

Ci lasciamo a destra un parco dove il re, i notabili e gli europei vanno a caccia di conigli, cinghiali e stambecchi, ma non è aperto al pubblico. Alle 10.50 mancano 150 km a Ouarzazate. Nella direzione opposta un posto di blocco fa da filtro per le persone che vengono dal sud del Marocco e vanno verso Marrakech. Nella nostra non troveremo polizia se non al ritorno. Anche qui si lampeggia per avvisare dell’imminente posto di blocco e si ringrazia col segno di “viva”. Ci si sbraccia non solo per dire che la polizia c’è ma anche per dire che non c’è. Alì sa dove è la polizia perché fa spesso questa strada. Molta coesione sociale e solidarietà dal punto di vista “polizia”. .

Multa di 300 Dh a chi guida senza cintura.

Continuiamo a salire, non piove più ma è molto nuvoloso. Dopo 70 km da Marrakech, sosta caffè in un baretto dove si assiepano macchine di altri turisti. 40 Dh per 2 caffè, un cappuccino ed una bottiglietta di coca cola. Si riparte e cominciano molte curve mentre saliamo sull’Atlante. Passiamo il paesino di Tiflite e alle 11.10 quello di Zerkten dove si vendono molte ceramiche. Il paesaggio ora è più grigio e meno rosso. Improvvisamente si passa dal rosso al grigio vistoso, intercalato da cespugli bassi, non più vegetazione e alberi. Dobbiamo essere in alto.

Ouarzazate 111 km e sono le 10.25. I berberi sono più aperti degli arabi, che non ti aprono la casa se non ti conoscono. Alì mostra un atteggiamento quasi laico, molto distante dal confessionalismo standard arabo e cattolico. Si dichiara musulmano non praticante. I villaggi sui monti dell’Atlante sono tutti berberi, non ci sono arabi.

Stiamo salendo, e più si sale più aumenta il brullo: si vedono i pastori con le greggi e le capre pascolano su pendii molto scoscesi. Alì ci spiega come avvengono il fidanzamento ed il matrimonio berbero. Molta dignità, rispetto ed appartenenza alla razza. E’ la donna che tiene i soldi, comanda e decide. Come in Sardegna, dove i pastori stavano mesi lontano da casa e l’economia domestica era gestita dalle donne. Tutto questo ci viene raccontato immersi in stupende musiche berbere ed arabe, quelle berbere più vicine al nostro gusto e senza il tono gutturale che caratterizza quelle arabe. La canzone del “corteggiamento” ed un’altra saranno al top della hit parade che stileremo alla fine del viaggio.

Dopo 110 km siamo al passo di Tiscka a 2260 m., dove facciamo la foto di rito e compriamo un pezzo di quarzo molto bello a 1 euro. Ora stiamo scendendo verso Ouarzazate, le montagne tornano a colorarsi di verde. Vediamo le mulattiere che le carovane percorrevano prima della costruzione della N9 sulla quale ci troviamo e che a volte rimane chiusa anche per 4 giorni causa neve. Ouarzazate 84 km e sono le12.20. Vediamo il bivio per Telouet (20 km) dove passeremo al ritorno percorrendo una strada magica. I cespugli si infoltiscono mentre continuiamo a scendere. Passiamo Aguelmous con moltissime parabole sulle case. Le case hanno pareti di 80 cm di spessore per mantenere una temperatura costante. Case costruite con la terra essiccata al sole che non deturpano il paesaggio perché si confondono con le montagne.

Alle 12.55 siamo a Tisselday. Alle 13.40 siamo a Ouarzazate, quasi 200 km da Marrakech e 160 km da Zagora, costruita dai francesi per affrontare le bellicose tribù berbere del sud del Marocco. Nasce come caserma militare e poi diventa città. Tutti, qui, vivono di film come comparse e figuranti (una comparsa prende 25 dollari/giorno) un po’ di turismo e un po’ di agricoltura. È una città moderna. Mentre Alì sta per svoltare a sinistra per raggiungere gli Studios, la rompiscatole Francy dice che ha fame ed Alì la accontenta e ci porta al ristorante La Vallée, all’interno del paese, dove per 400 Dh in 4 mangiamo ottimo e abbondante. Cambiamo altri 120 euro a 11.11 Dh/€. A Ouarzazate centro il cambio era 10.90, all’aeroporto 11.06, dove comunque è sempre consigliabile cambiare. Andiamo poi agli Studios (50 Dh a testa il biglietto compresa la guida in francese, inglese o tedesco, anche spagnolo mi pare, no italiano). C’è molta gente che aspetta il turno per cominciare la visita. Per fare il film sul Dalai Lama hanno portato 350 persone dal Tibet. Il proprietario è di Fez ed ogni volta che devono fare un film costruiscono nuove scene. Hanno tantissimi ettari di spazio. La guida ci porta sui set cinematografici ancora in piedi e fatti di cartapesta. Vediamo il set del Gladiatore e quello della Mummia.

Alle 16 finiamo la molto interessante visita agli studios e puntiamo verso Zagora a km. 156 km a sud. Dopo Ouarzazate il paesaggio è brullo, sassoso, è un deserto di rocce e sassi. Alle 17.10 mancano 100 km a Zagora, il paesaggio è sassoso ma più vario, con montagne a strati. Ogni tanto, sul dorso delle montagne, compaiono figure geometriche e scritte che Alì non esita a tradurre: Dio, patria e re, lunga vita al re, etc. E’ la valle del DRAA, fiume che però non vediamo. Draa in arabo significa mais, quindi valle del mais. Dopo 60 km., alle 17.30, siamo ad Ax (sarà forse Agdz ?) e ci prendiamo un caffè. In un recinto ci sono 2 cammelli, a cui diamo da mangiare dei ciuffi di erba colti lì intorno ed Alì gli mette una bottiglia di acqua direttamente in bocca a mò di biberon. Ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno. Parliamo di Glawi, un berbero che ha governato coi francesi a Marrakech quando era la capitale del Marocco e che divenne ricco barattando gli schiavi neri: comprava un uomo per un kg. di sale. Pare che volesse emarginare gli arabi ma, quando i francesi persero la guerra, fu esiliato in Francia per 5 anni e poi nel 1956 chiese perdono a Mohammed V (il nonno dell’attuale re) e la possibilità di tornare in Marocco. Morì di cancro nel 1957. I figli hanno ereditato una kasbah, il resto è stato acquisito dallo Stato. Quando le persone vanno alla Mecca possono mangiare, bere e dormire gratis nell’ambito della solidarietà musulmana. Il Marabo è la tomba bianca di un Imam. Se un bambino sta male la mamma lo porta per 2-3 ore sulla tomba dell’ Imam per curarlo. Aliba è il vice dell’ Imam quando l’Imam non c’è. Il discorso poi vira sul virus delle palme, che viene vinto, come dice Alì, bruciando la palma: il virus muore e la palma dopo 4-5 mesi rinasce. Ci pare un po’ troppo semplice: in Europa stanno studiando all’ Università come sconfiggere il virus delle palme, possibile che sia così semplice? Ma forse le specie europee sono più deboli, non selezionate rispetto a quelle africane e tutte vengono attaccate. Molti discorsi scientifici di Alì saranno improntati alla semplicità ma allo stesso tempo saranno sinceri e genuini, per cui sempre interessanti. Per esempio, la terra rossa che ci incanta e che contiene molto ferro, per Alì è rossa perché è vulcanica, cioè contiene ancora all’interno l’energia e l’imprimatur del fuoco. Alì ci racconta che il nonno era un nomade del deserto e così il padre fino a 17 anni, per cui conosce tutte le storie e le leggende del Marocco.

Poco dopo Ax la strada continua con l’asfalto, ma dopo poco c’è una pista sabbiosa (sono le 18) e sassosa e a più di 30 km/h non si può andare. Mi pare strano che i bus turistici possano percorrere questa carretera ed infatti abbiamo preso una pista sterrata parallela. Incontriamo donne e bambini con asini che trasportano alberi: sono molto poveri. Alle 18.50 mancano 50 km a Zagora. Vediamo case di argilla che sembrano termitai ma non deturpano assolutamente l’ambiente. Ci accorgiamo che ci sono perché hanno una forma geometrica che non può essere l’accurato disordine della montagna.

Ci fermiamo su una collina da dove osserviamo un paesaggio stupefacente: le colline coperte dal verde delle palme ed un piccolo villaggio berbero in lontananza. Alcuni francesi raggiungono a piedi, camminando sulle rocce, il posto dove siamo noi. Alcuni bambini si avvicinano e facciamo qualche foto con loro senza che ci chiedano niente. Ridono di cuore e con i denti bianchissimi quando li facciamo rivedere sullo schermo della videocamera.

Arriviamo a Ittelhat Assab, o qualcosa di simile. Sono le 19 e mancano 30 km a Zagora. Vediamo delle donne che passeggiano con i loro veli sulla strada e vediamo il cartello dell’ “associazione delle donne per lo sviluppo e la solidarietà”.

Alle 19.40 siamo a Zagora e alle 20 alla Perle du Draa, che è un po’ fuori dal paese, mentre l’ hotel Leman era dentro il paesino ed è preferibile come locazione. La doppia 450 Dh e la singola 350.

La Perle du Draa sembra il fortino del deserto dei tartari tant’è che ha un recinto di legno con un camminamento e porte di legno che si aprono verso l’interno come un forte. Il verso dei grilli è rotto dal motore delle pochissime macchine che passano perché l’Hotel costeggia la strada, l’ambiente è accogliente e signorile. Abbiamo una grande stanza a 4 letti, il televisore non funziona ed abbiamo l’impressione di essere gli unici ospiti dell’hotel. Ceniamo al ristorante, Manuela ci ha offerto le due cene che faremo, mentre quella del Bivouac è inclusa nel prezzo. Vorremmo andare in paese lungo la strada, con le torce, ne abbiamo una a testa, ma preferiamo andare a dormire perché siamo stanchi e per un po’ contempliamo il deserto dal terrazzino della stanza, il cielo terso e blu e, pensando che domani sarà bel tempo, aspettiamo che arrivino i tartari.

6 Aprile Zagora Bivouac

Alle 7 di mattina c’è freschetto ai bordi della piscina dell’albergo dove ripassiamo la cartina del Marocco. Davanti a noi un eco-mostro, lo scheletro di un edificio ancora da costruire in grigio cemento armato, si vedono i tondini di ferro che escono dai pilastri, il colore grigio riprende quello della sabbia, ma è orrendo a vedersi, non c’entra niente col posto in cui siamo. E’ una cosa oscena e immonda, inoltre è incompiuto, come quelli sequestrati alla mafia. Chissà, forse per i locali è indice di progresso, di emancipazione e globalizzazione, bene, se ne accorgeranno se continuano su questa strada. Alle 9.30, dopo una buona colazione, partiamo per la valle del Draa che in realtà era cominciata prima di Zagora. Prima tappa Tamegroute, che dista 19 km, per vedere la biblioteca coranica e la kasbah sotterranea. Il tempo è bello, ci dicono che c’è vento nel deserto. Andiamo in un negozietto a comprare 4 fazzoletti per il deserto (2 bianchi e 2 celesti) e diciamo al commerciante, un errore strategico, di farci l’ultimo prezzo: lui coglie la palla al balzo e ci spara 50 Dh ognuno, assolutamente troppo, e pretende di non discutere più perché avevamo detto di dirci l’ultimo prezzo (sigh!), ma non abbiamo voglia di contrattare e glieli diamo. Francy prende anche una camicetta a 100 Dh, eccessivo, ma visto che abbiamo molto da vedere oggi, e non ci va di perdere tempo a contrattare, ripartiamo con questi 4 pezzi di tela da 50 Dh tutti., ma che saranno utili nel deserto col vento da quale ci proteggeremo con la parte pendente del turbante, che da li a poco impareremo a farci con l’aiuto di Alì.

Alle 10 siamo a Tamegroute dove prendiamo una guida (50 Dh) per accompagnarci nella kasbah sotterranea ma in effetti non ce ne sarà bisogno e vediamo molte persone per conto loro. Andando verso la biblioteca coranica assistiamo ad un episodio antipatico: un abitante, vicino ad un amico, sta strillando ad un asino che se ne sta immobile per conto suo. Ad un certo punto gli sferra un colpo sulla schiena con un bastone con un rancore incredibile. Vorremmo intervenire di primo acchito, ma la guida ci dice che ha fatto bene perché l’asino non voleva fare qualcosa che non capiamo. Forse non voleva fare qualcosa ed il padrone, suo simile, lo punisce. Questo episodio ci amareggia e ci fa riflettere sul fatto che in un paese democratico questi episodi non succedono, almeno in pubblico, ma forse succedono cose peggiori in privato, nei paesi dove impera il denaro. Arriviamo alla biblioteca coranica, interessantissima: c’è un manoscritto del 13° secolo, vediamo disegni raffiguranti il sistema solare con la terra in mezzo e trattati di medicina dove è scritta con inchiostro nero la malattia e con inchiostro rosso il rimedio. Ricordiamo fra noi che i crociati combattevano contro i musulmani che si stupivano di quanto primitivi fossero i loro metodi nel curare le ferite (oltre che con che poco spirito di vendetta affrontassero i tradimenti delle proprie mogli !!). Ma la cosa che ci commuove è l’impegno dei ragazzi della biblioteca (10 Dh per le spiegazioni) che ci spiegano in inglese via via i vari libri esposti nelle vetrine. Spiegazioni puntuali ed interessanti, ragazzi che, rimboccate le maniche, si impegnano per sbarcare il lunario e valorizzano con spirito di volontariato le cose artistiche e storiche che hanno: davvero ammirevoli ed esemplari. Ci fermiamo 5 minuti ad ascoltare la preghiera intonata da un religioso seduto su una sedia in una stanza vicino al cortile attiguo e che canta per suo piacere. E’ una bellissima melodia e ce la porteremo dietro anche dopo. Ritornando alla macchina passiamo con la guida per la kasbah sotterranea abbandonata, ma non è affatto vero che ci si perde tra i vicoli come fantasiosamente recita la Lonely Planet che, in generale, è molto povera di informazioni e riporta in modo confuso e con inutile tono trionfalistico quelle ufficiali. Avevamo concordato 50 Dh con la guida ma ne avevamo solo 40 e non avevamo altro cambio e lui non aveva il resto. Non se l’è presa per niente, ci ha ringraziato, salutato e se ne è andato.

Alle 11 partiamo per Ait Issfoul, che è un must del nostro viaggio, come sanno i frequentatori del Forum di TpC, inoltrandoci sempre più nel deserto. Stiamo procedendo verso Tagounite, ora saliamo e superiamo un valico dello Jbel Bani, attorno a noi sassi e pietre, solo rocce, non sabbia, ma la valle del Draa è qui ? E dove è il fiume ? Ora scendiamo. La strada è a corsia unica per cui si va nello sterrato quando 2 auto si incrociano. Attorno brullo e terriccio. Alle 11.30 siamo quasi a Ait Issfoul. La canzone del corteggiamento berbero che Alì ci fa ascoltare dal suo cd è splendida. In realtà è un MP3 dove ha messo le più belle canzoni.

Alle 12, un cartello indica a sinistra Ait Issfoul (non Kasbah) e dopo 200 metri c’è una salitella di sabbia alla fine della quale c’è la porta della kasbah, ma poco prima, a destra, si svolta e c’è un parcheggio. Parcheggiamo ed accediamo ad un albergo adiacente alle mura della kasbah dove c’è una terrazza al piano terra con tappeti e cuscini che circondano dei tavoli bassi attorno ai quali ci sediamo a prendere 2 caffè e 2 the. Oltre ai due proprietari, conosciamo due ragazze tedesche che per 20 giorni passeranno le vacanze in quell’albergo dove sono arrivate con i mezzi pubblici; ci chiediamo che cosa facciano tutto quel tempo, è una vacanza diversa dalla nostra e dalle altre, loro sono completamente ambientate. Sentiamo che dicono all’albergatore di aver avuto la visita di due topolini stanotte, ma ridono quando lo dicono e sono contente di stare lì. Le ritroveremo poco dopo a Tagounite a fare la spesa.

Il personale dell’albergo ed il nostro autista si mettono a suonare i tamburi e a cantare. Noi, sdraiati sui tappeti, li ascoltiamo sorseggiando il the che pagheremo 50 Dh, troppo. Andiamo a visitare il paese berbero percorrendo poche decine di metri sulla sabbia. Arriviamo al vecchio paese, distrutto pare da un terremoto, dove però abita ancora qualche famiglia. Non c’è la luce elettrica nelle case ma c’è nelle strade, mentre 10 anni fa tutti usavano gas e candele. Gli abitanti non hanno cura delle loro case, non importa se siano grandi o piccole, tanto si deve morire e per questo non c’è ragione di acquistarle. Questa è la filosofia berbera.

Passiamo poi al paese nuovo dove vediamo più gente, molti bambini ma pochi gli uomini che sono a lavorare nei campi. L’ambiente è davvero magico e rilassato, vi regnano una calma ed una tranquillità irreali, uno spaccato di vita campestre, lontano dai rumori e dai ritmi frenetici della modernità, un’oasi antropica naturale. Attorno, dune piene di palme ed in lontananza la scuola ed un edificio del governo. Uscendo dal paese per tornare all’albergo le donne sono indaffarate a travasare acqua da un recipiente all’altro e vicino c’è un pozzo dal quale la attingono con una vecchia ma efficiente carrucola. Potremmo “rubare” una foto ora che, nascosti dall’ultima casa prima della zona sabbiosa, non saremmo scoperti, ma lo sentiamo come uno stupro verso quelle donne che stanno lavorando e che sarebbero solo un oggetto del nostro stupido estetismo occidentale, per cui rinunciamo e restiamo per 10 minuti a contemplare i movimenti lenti e ritmati delle donne avvolte in vestiti multicolori e con i bambini che si insinuano continuamente fra di loro. Non c’è traccia di sovrastrutture o infrastrutture ma solo il connubio equilibrato fra natura e uomo, mentre noi siamo abituati al suo sfruttamento o alla sua salvaguardia ma sempre in un’ottica di contrapposizione. Ci avviciniamo al gruppo che ci guarda con curiosità, specie i bambini, e pensiamo che non molti turisti si spingono fino a qua, forse qualche francese ed altri informati come noi. Ci riavviamo a malincuore verso la macchina, pensando che il posto ci rimarrà nel cuore e comprendendo appieno le motivazioni delle tedesche.

Arriviamo dopo poco a Tagounite, villaggio berbero, e facciamo rifornimento. Il gasolio costa 7.5 Dh/l, non poco. Dopo 30 km siamo a Mahmid,, un paese di frontiera dove finisce la strada. Alì fa un po’ di provviste e poi ci porta in un bivouac per i turisti che hanno poco tempo a disposizione e dove le dune, secondo noi, sono fatte con la sabbia portata dai locali dal vero deserto, dove noi volevamo andare, non nel parco giochi vicino al paese. Una breve telefonata con Manuela chiarisce la situazione. C’era stato un malinteso perché Evela ha paura degli scorpioni e Manuela aveva pensato a qualcosa di alternativo al vero bivouac vicino al paese. Chiarita la cosa, Manuela da ordine ad Alì di portarci dove programmato e, dopo aver caricato un locale in macchina, pensiamo di salire la strada verso Tagounite e poi a sinistra la strada per l’ Erg Chgaga, invece da Mahamid intraprendiamo un’ indistinta pista di sabbia fattibile solo in 4×4 e non certo in 2WD. Dopo poco la macchina si insabbia e dobbiamo scendere e spingere. Nessun guasto meccanico per fortuna. I telefoni satellitari sono illegali in Marocco perché pare interferiscano con quelli della polizia ma non sappiamo se è una misura recente per rendere difficili i collegamenti fra i possibili ribelli. Queste riflessioni ci prendono dopo aver pensato “che fare” se la macchina si fermasse nel Nulla dove siamo. A destra una catena ininterrotta di monti, lo Jbel Bani, a non più di 20 km, per il resto, un deserto di sassi e terra e qualche rado cespuglio. Il signore si è imbarcato con noi senza dire nulla a nessuno, dormirà e mangerà nel deserto e poi tornerà al suo paese così come se ne è allontanato. Verso le 17.30 ci fermiamo ad un campo nomadi, il patriarca ha 85 anni, occhiali da sole ed il sorriso sulle labbra e la moglie è gentile. I figli, o nipoti, sono andati a pascolare le capre. Il tetto, come la capanna, è fatto di frasche di palma. Il beduino ha anche il cellulare, per fissare gli appuntamenti, crediamo. Non sappiamo se sia un vero nomade o un nomade per turisti, ma il cellulare, gli occhiali scuri per proteggersi dal sole ed una bottiglia di coca-cola piena d’acqua ci fa pensare che sia vero, magari adeguatosi ai tempi, ma vero, un “ribelle” di 85 anni, che vuole essere libero da vincoli e pesi e passare la sua esistenza in sintonia con la natura senza dover dire si o no a nessuno se non a se stesso.

Qui Alì ci delizia raccontandoci tutti i metodi che usano i beduini per sopravvivere, come una pozione di erbe per curare il cancro. Ne sa molto perché anche il nonno era un beduino e pare che conoscesse il beduino che siede davanti a noi. Lasciamo 20 Dh al beduino per ringraziarlo dell’ospitalità. Alì Ci dice che un gruppo di giapponesi aveva chiesto se si poteva pagare con la carta di credito, ma forse è solo una leggenda. Ci rimettiamo in macchina ed inorridiamo davanti ad una schiera di “quad” che scalano le dune a 45-50 euro/ora. Il vento del deserto non si chiama “ghibli” (nome qui sconosciuto), ma esistono altri 3 termini in francese, arabo e berbero tipo charchi, sciacqui o qualcosa di simile. Ma non certo ghibli. A 15 minuti dai beduini ci fermiamo in un’oasi, probabilmente Oum Lalek , dove ci sono parecchi bus turistici fermi ed un grosso albergo-ristorante. C’è molto verde ed addirittura un piccolo pozzo artesiano da cui si vede l’acqua ribollire. Il tempo di fare due passi e ripartiamo. Sono le 19.00 quando arriviamo al bivouac: dune magnifiche alte 6-7 metri, 8 tende messe ai lati di un quadrato, ogni tenda da 2 o 4 posti ed una grande che serve come ristorante e punto di incontro. Ci sono i bagni e le docce e gli interruttori della luce ma solo in previsione perchè la corrente elettrica non c’è, mai portata, e ce ne rallegriamo. Intorno solo deserto. Facciamo una passeggiata e ci raccomandano di non allontanarci. Tracce di insetti sulle dune, ma non sappiamo da che parte andare per trovare l’animale. Si perdono nell’infinito. Ogni tanto dalla sabbia spuntano delle piante di 1 metro e mezzo verdissime con larghe foglie, che non si sa da dove caspita attingano l’acqua per crescere così fiorenti e tanta è la voglia di scavare per trovarla. Saliamo sulla duna più alta per vedere il tramonto, ognuno per conto proprio, la libertà e l’immensità ci stanno contagiando e ci prendiamo lo spazio di cui abbiamo bisogno. Si cammina bene su queste dune avendo l’accortezza di camminare sulle creste e non sul dorso. Dopo mezz’ora ci siamo allontanati abbastanza dal campo, che scompare quando si cammina nelle valli fra le dune, in quanto attorno a sé si vede solo il deserto e la montagna in lontananza. Poi sulla cima si riprende in pugno la situazione. Né si possono ripercorrere le proprie orme perché dopo qualche minuto il vento le ha già cancellate. Dal vento ci ripariamo col lembo pendente del turbante fatto con i fazzoletti comprati a Zagora. La videocamera, a rischio sabbia, è stata messa in una plastica ma l’obiettivo è fuori e soffre. Alla fine il meccanismo di chiusura ed apertura automatica risulterà difettoso. Non avrei dovuto usarla ma non se ne poteva fare a meno. Purtroppo il sole che tramonta è offuscato da nuvole molto basse per cui ritorniamo al bivuoac e ci sediamo a parlare con l’uomo di Mahmid che ci racconta un po’ di cose del posto tra cui che siamo a 10 km dall’Algeria ma il confine è chiuso.

Alle 9 cominciamo la cena berbera, nella grande tenda, a base di couscous o tajine a scelta ed insalate varie insieme a 2 ragazzi di Casablanca che vogliono conoscere il loro paese ed a un altro gruppo di 4 tedeschi che sono partiti con i cammelli da Mahmid ed hanno raggiunto il bivacco in una settimana cavalcando 6 ore al giorno. Dopo la cena Minù e Francy si attardano con Alì, i tedeschi ed i gestori del campo che cantano, ballano e suonano i tamburi, mentre io mi ritiro in buon ordine in tenda e stramazzo sul materasso che non porto fuori solo per stanchezza e pigrizia anche se sarebbe stato bello dormire sotto le stelle. Il materasso è comodo e le coperte adatte alla temperatura. Evela non se la sente di dormire in tenda, achtung scorpionen, e si crea un giaciglio in macchina, seguita a notte fonda da Francy mentre Minù guadagna la tenda. La notte è soporifera come non mai e l’uscita necessaria verso le 4 non è fredda come ci si aspettava.

6 Aprile Bivouac-Ait Ben Haddou

La mattina alle 5 l’aria è fresca ma non sotto zero come pensavamo. Ben coperti, andiamo a passeggiare sulle dune, un po’ umide e ci allontaniamo abbastanza dal campo, spinti da un inconscio desiderio di avventura. Su ogni duna però ci premuniamo di non perdere di vista il campo dove brillano delle lucerne. Il cielo si rischiara e le stelle scompaiono perché comincia un certo chiarore. Sostiamo su una duna per vedere il disco del sole che compare sullo Jbel Beni e sale con una rapidità incredibile. Lo Jbel Bani, un altopiano da 1500-1600 m., lungo e piatto, che si estende sinuosamente in direzione est-ovest e che ci accompagnerà in seguito per un lungo tratto. Ci sentiamo gli spazzini del deserto perché raccogliamo tante bottiglie di plastica e qualche lattina di birra che butteremo nel cestino dei rifiuti del campo. Chissà chi le porterà via e dove andranno a finire. Torniamo al campo e prepariamo i bagagli.

Alle 8.30, dopo colazione, vediamo i 4 cammelli che ci aspettano per una passeggiata intorno al campo. L’animale si piega per farci salire e si alza abbastanza dolcemente ma è bene tenersi saldi alla sella. Facciamo un giro, ma proprio turistico, fra le dune, con i cammelli legati fra loro; uno ha addirittura una corda attraverso dei fori fatti alle narici e sono guidati da Hassan, che facciamo divertire quando pronunciamo delle parole in arabo fra cui “andin buch” che dovrebbe voler dire: disgraziato tuo padre. Hassan è un giovane bello e simpatico, con una bellissima voce e periodicamente ripete in modo stentoreo i nostri nomi e subito dopo se la ride alla grande. I cammelli hanno una forza incredibile e superano senza difficoltà con i nostri pesi i dislivelli di sabbia che via via si presentano. Anche Hassan raccoglie ogni tanto delle bottiglie di vetro e plastica abbandonate nel deserto e le mette in una sacca sotto la pancia di un cammello. Dopo il giretto e la foto di rito con i cammelli, alle 10.30 lasciamo il bivacco non prima di esserci scambiati un saluto fraterno con quelli che restano, anche con quelli con cui non abbiamo mai parlato, “tutti gli uomini del deserto sono fratelli fra loro” e ci dirigiamo decisamente verso nord-ovest, avendo il nulla a sinistra e lo Jbel Bani a destra. Alì, che probabilmente non conosce bene la strada (è di Merzouga), si accoda alla macchina guidata dall’autista dei tedeschi e la segue. Infatti davanti a noi non c’è una pista, almeno in apparenza, ma un enorme distesa sabbiosa pianeggiante ed i monti alla nostra destra sono il GPS del berbero. Dopo un’ora e circa 100 km di non strada (perché si cammina su una sabbia che solo in seguito diventa più terrosa e compatta), siamo al lago Iriki che è una grandissima distesa di sabbia dura e consolidata, allagata da dicembre a febbraio, che sembra la pelle a scaglie di un enorme dinosauro. Ci fermiamo per una sosta. A sinistra, rispetto alla nostra direzione di marcia, si vedono delle onde azzurre che sembrano di mare, ma ci viene detto che è un miraggio e che è il caldo a creare l’effetto ondeggiamento. Malfidati, percorriamo almeno 2 km a piedi verso “il mare” che si allontana sempre di più, in un silenzio di tomba, interrotto dal volo di qualche uccello che non si capisce cosa venga a cercare qui dove c’è solo il nulla a parte qualche raro arbusto appuntito. Solo le due nostre jeep e basta, il resto è solitudine e desolazione. Una landa sconfinata e desertica ci circonda. Francy fa qualche prova di guida con il 4×4, tanto siamo patentati, e trova bello guidare in piena libertà, ed anche a piedi nudi senza nessun ostacolo davanti o un percorso obbligato da seguire.

Abbandoniamo la landa desolata del Lago Iriki che lascia poi spazio a cespugli verdi e ad una pista meglio delineata. Ci dirigiamo verso una montagna. Attorno a noi cammelli che vanno in giro da soli ma non sono selvatici, non ne esistono e sono tutti marchiati, però non si vedono i pastori. Alì dice che c’è un capo-cammello che porta gli altri a pascolare e li riporta poi alla tenda del pastore. Il capo-cammello è l’amico del pastore, mangia con lui, lo va a trovare ed è più fedele di un cane. Vediamo una lucertola che mangia i serpenti: il serpente la avvolge ma la lucertola si gonfia fino a far scoppiare il serpente. Ci sono anche volpi e sciacalli.

Ci dirigiamo decisamente verso Foum Zgwid dove arriveremo dopo 80 km circa dal lago Iriki, con una strada che non è delle migliori. Infatti è una pista con tratti sconnessi e stretti, piena di buche che comunque si fa, ma occorre stare svegli per non scassare la marmitta perché a volte c’è un alternarsi di discese e salite, avvallamenti e buche. La montagna davanti ci appare ora come una rossa formazione rocciosa che ricorda il Far West: ai piedi una parete inclinata che poi a metà altezza diventa verticale e sopra è piatta, tipo Ayers Rock o Uluru che dir si voglia. Alle 14, senza nessun segno naturale premonitore siamo a Foum Zgwid, un paese di frontiera, ultimo avamposto prima del grande Nulla, abitato dai pionieri, come ci piace pensare. Intravediamo sulla sinistra la via dell hotel Iriki dove pare si mangi bene, ma continuiamo verso la piazza, dove vediamo partire una carovana di francesi in moto con giubbotti neri tutti uguali. Chissà se andranno nel deserto da qui. Le bancarelle lungo la strada principale vendono ogni tipo di cianfrusaglie. Prendiamo una coca cola e patate fritte al ristorante sulla piazza dove cuociono di tutto e dove il bagno è in fondo e la porta dà direttamente sulla cucina.

Alle 15 partiamo da Foum Zgwid, un cartello indica Tagounite a 145 km e appena fuori facciamo un’incredibile strada asfaltata in leggera pendenza a due corsie divise dalla striscia bianca che dura per almeno mezzora ed arriviamo a Lahmid, El Mahmid sulla cartina e poi, passato il Jbel bani, ad un bivio che indica a destra Zagora e dritti Tazenakht dove siamo diretti. La strada peggiora. Quella bella precedente era la N12 che congiunge il sud con Zagora ma da Lahmid a Zagora dovrebbe essere ancora in costruzione come ci informa la guida Marco Polo 1:800.000 pubblicata nel novembre 2010 (euro 8.50 alla libreria Arion a piazza Fiume).

Il paesaggio dopo Foum Zgwid è fiabesco, incontriamo montagne rosse stratificate che ci proiettano in Arizona, ogni tanto un palmeto che fra il rosso dei monti ed il verde delle piante fa tutto molto paleozoico. Alle 15.20 siamo a Toumelouad, un piccolo villaggio con molte costruzioni a secco inframmezzate da quelle in cemento. Poco prima di Tazenakht ci fermiamo, su indicazione di Alì a vedere una cooperativa di tappeti fatta da donne molto povere alle quali il governo ha comprato i telai e le apparecchiature per fare i tappeti. Ci crediamo, e conosciamo la presidentessa della cooperativa che sta lavorando al telaio. Un signore ci racconta in francese come si fa un tappeto, a partire dal crine di cammello e di agnello. Poi ci porta in una stanza dove svolge davanti a noi una quantità infinita di tappeti, spiegandoci come si distinguono fra loro quelli berberi, arabi e beduini fatti con crine di cammello o di agnello. Pare brutto, dopo tanto impegno, non comprarne uno, ma i prezzi, che probabilmente meritano, vanno dai 6000 Dh in su, decisamente fuori budget per cui rinunciamo. Lasciamo 100 Dh per la visita guidata per le 4 persone che siamo e per aiutare la cooperativa. Facciamo una passeggiata per il paese perché Alì sta riposando e ne ha tutto il diritto, dopo la stradaccia nel deserto. Ci dirigiamo decisamente verso Ait Benhaddou con una buona strada che però non eguaglia per bellezza del paesaggio quella fatta in precedenza e che raggiungiamo alle 19 dopo aver incrociato la N9. A 8-9 km, prima di Ait Ben Haddou, alla fine di una salita, sulla destra c’è una valle splendida, dove un fiume rosso scorre in una gola con le pareti stratificate, e con una kasbah di argilla sulla sinistra. A destra un palmeto verdissimo che pare dipinto a pastello.

A Ait Ben Haddou abitano 800 persone, circa 80 famiglie, mentre nella città vecchia che vedremo domani, abitano 5 famiglie.

Andiamo all’hotel Valentin, nulla di che (ma Internet gratuito per gli ospiti, anche se superlento) ed è la prima volta che lavora con l’agenzia di Manuela. Sgranocchiamo i salatini secchi per gli ospiti che sono sul nostro tavolino nella hall e sono talmente stuzzicanti che rubacchiamo anche quelli degli altri tavoli. Ordiniamo la cena o, meglio, scegliamo fra tajine e couscus, come al solito, ormai la carne di manzo ci sta venendo a noia. Dal terrazzo si vede la kasbah. Il gestore ci dà appuntamento alle 8.30 per la cena ed Alì si mette d’accordo con Francy e Minù per andare a sentire musica in un locale nei pressi e dove si fuma la sciscia o qualcosa di simile. Intanto andiamo a fare una passeggiata nel paese dove non c’è praticamente nulla ed i negozietti sono quasi tutti chiusi. Ci inoltriamo nell’abitato ed improvvisamente, casualmente, al di là di un fiume rosso di argilla, ci appare la kasbah di Ait Ben Haddou, che sarà fatta e rifatta ma che contempliamo rapiti per la grandiosità che ci fa tornare a 3000 anni fa in medio oriente quando compito degli ebrei, schiavi del faraone, era quello di fabbricare i mattoni con l’argilla e la paglia. La paglia veniva loro data dai funzionari governativi. Però a causa di una crisi economica, da un certo momento in poi gli ebrei furono obbligati a procurarsi la paglia da soli ma fabbricando lo stesso numero di mattoni. Pare che il malcontento di questa riforma, tendente ad aumentare la produttività, abbia dato inizio alla storia narrata nell’esodo. Il tramonto è l’ora migliore per vedere la kasbah di Ait Ben Haddou perché assume un colore sempre più rosato che fa da contrasto con lo scuro delle aperture. Stiamo così, fermi, in ammirazione. Alberghi come la maison d’hotel Dar Mouna e la Fibule d’or, stanno quasi sulla sponda del fiume al di la del quale c’è la kasbah su cui hanno la vista panoramica, che è la cosa più strategica, da preferire la prossima volta. Torniamo e la cena è pronta alle 9 con datteri, zuppa, pasta e fagioli, tajine, frutta e dessert e mangiamo molto bene: promosso, anche se l’albergo è molto spartano. La sera è un po’ freddo e non riusciamo ad accendere il riscaldamento. Ma siamo spartani anche noi, ci rannicchiamo e sprofondiamo nel sonno.

7 Aprile Ait Ben Haddou-Marrakech 216 km (via Telouet 87 km)

La mattina presto facciamo colazione dopo aver penato per l’acqua calda all’ hotel Valentin, in quanto il gestore pensava che ci alzassimo più tardi e non aveva acceso l’acqua calda (sigh!), ci dirigiamo decisamente verso la kasbah. Per fare questo, attraversiamo la strada, senza mancare di dare una sbirciata alla nostra sinistra dove un negozio di dolcetti arabi fa bella mostra di sé, e ci inoltriamo nei vicoli che ci separano dal fiume. La traversata a piedi del fiume, sfruttando i sassi e i punti di secca, non è possibile in quanto, seppur basso, ci si impantana e comunque occorrono gli stivali. C’è una sorta di ronda di 2 ragazzi con 2 asini che provvedono a rimuovere astutamente i ponti naturali i cui resti si intravedono qua e la, per poter poi traghettare a pagamento gli avventori da una sponda all’altra. Allora, risaliamo verso sinistra il fiume fino ad arrivare al ponte che immette all’interno della casbah, che si rivela più bella da fuori e che, comunque, visitiamo, lasciando un’offerta al padrone di una casa tipica che è in restauro. Al piano terra venivano svolte le attività agricole e custoditi gli strumenti di lavoro mentre al piano di sopra le stanze da letto. Il piano superiore è sostenuto da un solaio fatto da grandi tronchi di legno e da argilla per tappare le fessure. Vediamo poi una casa nobile, con pregevoli lavorazioni della pietra e stucchi a gronda. Il resto è come camminare in un paese fatto di argilla. Usciamo da una porta circondata da due torri, su una delle quali una cicogna ha deposto il nido.

Alle 10.30 finisce la visita alla kasbah Ait Ben Haddou e partiamo per Telouet, continuando quindi la strada che avevamo iniziato lasciandoci alle spalle la N9 e voltando a destra per raggiungere Ait Ben Haddou. Percorriamo quindi quella che sarà la strada più bella del viaggio, per me ancora più emozionante del deserto. Una strada, in parte asfaltata ma solo nel tratto centrale ma non mantenuta, che si inerpica fra montagne rosse fra le quali ogni tanto si annida un paese di argilla leggermente più chiaro, che si riconosce solo quando la forma variabile della montagna si trasforma in qualcosa di più geometrico e squadrato, il paese appunto. Stiamo salendo, mentre alla nostra sinistra scorre un fiume rosso. E’ qui l’anello mancante della catena fra natura e uomo, nessun depredamento di risorse naturali, nessuno scavo, nessuna cava di sabbia, nessuna ferita alla montagna ma semplicemente ridisposizione della creta delle montagne nella modellazione delle case dei villaggi, in perfetta simbiosi con l’ambiente naturale. Siamo stati fortunati perché la strada è percorribile in questo periodo, ma in caso di pioggia non lo è. Immaginiamo che ci sia un enorme pantano rosso che travolge e ricopre tutto. Ci fermiamo in cima ad un lungo canyon sul fondo del quale scorre il fiume rosso e sul cui dorso c’è un paesino con le solite, magnifiche case di argilla. La pace e l’armonia regnano assolute. Attraversiamo qualche altro paesino lungo la strada, ma quelli più belli sono quelli che ne rimangono fuori, fra greggi e bambini che giocano a palla.

Dopo 87 km di questa magnifica strada, che ci resterà nel cuore e che era la sola carovaniera fra il sud e Marrakech prima della costruzione della N9, alle 12 siamo a Telouet, a 1800 m di altezza.

C’è molto movimento sulla piazza e molte macchine come la nostra ma nessun pullman, solo turisti singoli con guida personale. Andiamo al ristorante Chez Mohammed, che è il must locale e dove prenotiamo un piatto di agnello al posto del solito couscous e tajine che ci offrono. Ci raccomandiamo di prepararci un solo piatto di agnello, visto i rari pezzi di carne che, in genere, in Marocco, guarniscono i piatti predetti. Ma il nostro desiderio non verrà esaudito, per dimenticanza o per dolo. Un ragazzo del luogo, Hassan, che parla in francese, ci porta a vedere la kasbah (20 Dh a testa l’ingresso) dove avevano imperversato nel tempo i signori della guerra ed anche il collaborazionista dei francesi Gloui che non gode di buona fama da queste parti. Lungo la strada vediamo le case dei discendenti degli schiavi neri che venivano dalle regioni subsahariane, utilizzati dai padroni della kasbah fino ai tempi di Glaoui. Dopo circa 500 metri, affrontiamo con una certo spirito di avventura il guado di un fiumiciattolo dove sono state messe sapientemente delle pietre per il passaggio ed accediamo alla kasbah attraverso un cortile dove ci sono i bagni ed una frotta di bambini che chiede la mancia a chiunque se ne serva e che diventano simpaticamente minacciosi se qualcuno, come nel caso nostro, non gliela da. Sembra il cortile del palazzo di Don Rodrigo, i bambini sono i bravi e dopo qualche metro in salita si entra nella kasbah.

Lo stato dell’edificio è pietoso ma pensando alla sua storia ed a tutte le vicende che vi si sono svolte, conserva un grande fascino. Anche qui, apprezziamo molto l’iniziativa sia del ragazzo che ci accompagna che dei giovani che custodiscono l’edificio, per questo tentativo di libera imprenditoria giovanile. La nostra guida rifiuterà ogni offerta di mancia da parte nostra perché si era messo già d’accordo con Alì e non vorrà soldi nemmeno quando cercheremo di metterglieli a forza in tasca dicendo che avremmo mantenuto il segreto. Un esempio di dignità berbera. La visita si svolge nelle stanze del piano inferiore e superiore, in abbandono appunto, ma che riportano agli inizi del secolo quando la violenza, la vita e la morte erano compenetrate in questo posto. Non sentiamo danze e balli come al palazzo di Bahia a Marrakech, ma un’atmosfera opprimente e sinistra, come se le persone che abitavano questo posto di dividessero fra vittime e carnefici. Appena entrati vediamo il cortile dove attendevano gli schiavi, poi, dopo l’entrata, la stanza dove si amministrava la giustizia e dove attendevano gli imputati. Non vediamo, perché pericolanti, le carceri, quelle citate dalla Lonely Planet e dalle quali si sarebbero riversati gli abitanti scomparsi dal paese, alla caduta di Glaoui. Hassan ci spiega e ci racconta la storia, forse più interessante della costruzione di cui si apprezza però un soffitto a forma di chiglia di nave. Si arriva ad un terrazzo da dove si vedono le rovine dell’antica kasbah del 1700 e il panorama della vallata e del paese. Quella che stiamo vedendo è del 20° secolo.

Hassan ci dice che lui organizza delle gite sui monti su mulo od asino fino ad un lago dove si può pescare, cucinare il pesce alla griglia, dormire in tenda e poi ripartire per il paese. Tanto ci alletta l’idea che cominciamo tra noi a confabulare su quando possiamo ritornare in Marocco inserendo anche questa escursione. Ci facciamo lasciare le sue coordinate e ritorniamo sui nostri passi, al ristorante. Al posto del solo piatto di agnello ci portano il tajine col…beef !!. E’ palesemente beef ma insistono che è agnello. La carne con i filetti, a strati è per noi beef e diciamo che volevamo lamb, la carne più compatta di agnello, abbacchio che dir si voglia, ma abbiamo capito che non hanno ” lamb” ma non ce lo volevano dire per una sorta di orgoglio o furbizia tutta araba, per cui evitando ulteriori discussioni, anche perché c’è gente che fa la fame in Marocco, scegliamo di non continuare la diatriba con soddisfazione del proprietario e dei camerieri che questa volta non ci sono piaciuti, forse perché la frequentazione occidentale induce a certi comportamenti. Comunque non ce ne pentiamo perchè mangiamo il migliore tajine del viaggio con verdure e beef che consigliamo a chi capiterà da queste parti, molto ben condito, speziato al giusto e molto saporito. Insalata, patate e the completano il pranzo da 10, meritati, euro a testa. Facciamo un giro per il mercato, peccato che l’asta degli asini sia finita, si vede ancora il recinto con qualche animale solitario.

Alle 15.30 partiamo da Telouet diretti a Marrakech via Tizt Tiscka. La strada ad una corsia col solito asfalto sfrangiato ai bordi e lo sterrato laterale dove si finisce necessariamente quando si incrociano altre macchine. Iniziamo una discussione se sia meglio che il paese cresca, si modernizzi e si globalizzi alla stregua di quelli del mondo occidentale o resti attaccato alle sue tradizioni ed ai suoi costumi, magari poveri e nullatenenti, conservando però il sorriso e la voglia di vivere con gioia, nonostante tutto, dei suoi abitanti. Ma non possiamo giudicare visto che non conosciamo la realtà e, soprattutto, non la viviamo sulla nostra pelle.

Più che un panorama, l’intorno è fiabesco, scene da Roger Rabbit ci circondano ed è tanto bello stare in questo posto che muti cerchiamo di accumulare il più possibile con gli occhi prima di lasciare il paesaggio alle nostre spalle. In più punti la strada è coperta di fango, traccia di qualche recente pioggia che fa sgretolare le montagne. Alle 15.50, dopo circa 20 km, incrociamo la N9 che va a Marrakech e da cui dista 109 km. Dopo 5 minuti siamo al passo. Dobbiamo comprare un po’ di regalini e per non fare torto a nessuno acquistiamo 10 fossili a 15 Dh l’uno (erano partiti da 50 Dh/uno!!). Faranno bella mostra di sé avvolti in carta di giornale marocchino per evitare, almeno per la provenienza, che vengano considerati falsi ! Alle 18.10 siamo a Marrakech dove siamo investiti dal traffico caotico, che ci colpisce dopo 4 giorni di quasi isolamento. Ci congediamo da Alì e prendiamo possesso della stanza allo stesso hotel Cecil, con la quadrupla a 450 Dh. Cambiamo 50 euro a 11.13 Dh/€ (556.5 Dh). Prenotiamo tramite l’hotel 2 taxi per l’indomani a 70 Dh/uno per l’aeroporto. Andiamo a passeggiare nella piazza lì vicino, la famosa Jama El Fna, patrimonio dell’umanità, dove assistiamo ad incontro di pugilato fra bambini di 13-14 anni organizzato da uno che sembra il biscazziere del film il cacciatore, sigaretta in bocca e occhio bendato. La folla si assiepa ed anche noi con senso di colpa diamo sfogo all’istinto primordiale del pugilato. Il biscazziere ci vede, si toglie il cappello e ce lo tende chiedendo soldi. Diciamo di no, confusi nell’ipocrisia tra l’assistere al pestaggio ed il senso di colpa della cultura cristiana di cui siamo involontari portatori. Quest’ultima prevale e ci allontaniamo fra i sorriseti dei locali. Ci facciamo 2 spremute di arancia, sempre a 4 Dh l’una ed andiamo su e giù per la piazza a curiosare fra i vari commerci che vi si svolgono, quindi rientriamo senza cenare. Le stanze, per chi optasse per lo stesso hotel, sono la 25 quadrupla con 2 letti matrimoniali e la 24 con 2 singoli ed uno matrimoniale, ambedue al pian terreno, un tantino umide ma molto comode per passare solo 1-2 notti.

La mattina, dopo la colazione in terrazzo, che sollecitiamo più volte data la partenza imminente, alle 8.25 partiamo in taxi, e alle 8.40 arriviamo in aeroporto. Siamo gli ultimi del check- in dove imbarchiamo l’unico bagaglio e dove ci timbrano la carta di imbarco. Ci precipitiamo al controllo passaporti dopo aver compilato la carta di imbarco per la polizia (meglio prenderne subito 2 copie all’arrivo, appunto). Poi al controllo bagaglio a mano, dove se il bagaglio a mano è troppo panciuto lo fanno pagare. Saliamo al piano superiore, alle partenze, dove arriviamo trafelati al gate 7-8 vedendo l’ultima parte della coda d’imbarco. Alle 9.45 il decollo, si vede l’Atlante innevato. Siamo fisicamente a casa ma con la mente ancora laggiù dove speriamo di tornare al più presto perché siamo sì appagati ma non sazi dell’atmosfera e dalle sensazioni che abbiamo provato in questi giorni. All’arrivo, finanzieri con 2 cani poliziotto vengono sguinzagliati sui bagagli che ruotano sul nastro. Pullman e ritorno a casa.



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