Due turisti su una Uno, da Marrakesh al Sahara

Lo Zio d’Africa Noleggiamo un’auto a Marrakesh e partiamo, per vedere il Marocco del Sud. E’ una Palio bianca, con qualche ammaccatura qua e là. Dopo appena mezza giornata… siamo in panne! Vabbè, sembra che restare a piedi sia quasi un’attrazione turistica locale, almeno ci togliamo il pensiero. Riusciamo in qualche modo a raggiungere...
Scritto da: _ba_
Partenza il: 07/11/2005
Ritorno il: 14/11/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
Lo Zio d’Africa Noleggiamo un’auto a Marrakesh e partiamo, per vedere il Marocco del Sud. E’ una Palio bianca, con qualche ammaccatura qua e là.

Dopo appena mezza giornata… siamo in panne! Vabbè, sembra che restare a piedi sia quasi un’attrazione turistica locale, almeno ci togliamo il pensiero.

Riusciamo in qualche modo a raggiungere un benzinaio. Lì il meccanico non c’è, ma in compenso ci sono un sacco di persone che non stanno lavorando, stanno solo chiacchierando e sono ben felici di darci una mano e di passare il tempo insieme a delle facce nuove, cioè noi.

Il benzinaio chiama un meccanico dalla città vicina e nel frattempo appaiono una sedia per me e del the per tutti. Comincia l’attesa. Un’ora, due, tre. <>, è l’Africa, ci dicono per consolarci, non bisogna avere fretta; li prendiamo in parola e cominciamo a goderci la compagnia.

Ad un tratto compare una persona in più, un uomo di colore, vestito con un abito tradizionale. Stefano appare stupito, ma per il momento non so perché: più tardi, mi spiegherà che, a parte il colore della pelle, il nuovo arrivato somiglia in modo impressionante ad un suo parente che io non conosco, lo zio Antonio. Così si spiegano la carnagione scura ed i capelli neri tipici della famiglia di Stè: origine africana, non c’è dubbio.

Alla fine il meccanico arriva. In modo molto artigianale, riesce anche a sistemarci la macchina. Poi ci dice che non vuole essere pagato, tanto non era niente, e a loro dispiace se dei turisti hanno problemi. Insistiamo per lasciare una mancia, poi ripartiamo e ci fermiamo per la notte nella vicina Ouarzazate.

La mattina dopo siamo in panne di nuovo. Stiamo tristemente rimuginando sul da farsi, quando compare… zio Antonio! Da bravo zio, prende in mano la situazione: dice che dobbiamo pretendere la sostituzione dell’auto e ci accompagna da un suo amico perché ci offra un the mentre aspettiamo e perché ci aiuti a parlare per telefono con l’agenzia di autonoleggio. Obbediamo a zio Antonio senza fiatare.

Comincia la lunga attesa della macchina sostitutiva. Dopo un po’, lasciamo l’amico dello zio al suo lavoro (ha un negozio di tappeti) e, imitando la moda locale, ci sediamo tranquilli per terra, all’ombra, ad aspettare. Due europei in terra senza far nulla devono essere una novità: mezza città si ferma, ci saluta, si informa se abbiamo bisogno di aiuto, ci invita per il the.

A metà pomeriggio ci portano una Uno e finalmente ce ne andiamo. Siamo persino felici di aver perso un giorno intero a causa di un guasto, perché così abbiamo visto il Marocco, non quello che spilla soldi al turista, ma quello della gente che ti aiuta, quello di chi offre un the a due sconosciuti per non lasciarli soli in una città nuova.

Far West La strada si snoda, stretta e lunga, lunga, lunga, senza una curva, attraverso l’Hammada, il deserto di pietra. Ogni tanto si intravede un albero solitario. Stefano, come Cassandra che vedeva solo sventure, è un po’ in ansia, visto che non si incrocia un’anima, a parte, ogni tanto, un marocchino accucciato all’ombra di un segnale stradale, che non fa assolutamente niente, perso in mezzo al nulla.

Passiamo accanto ad un campo da calcio, ci sono le porte, per il resto solo sassi e intorno, niente. Chi viene a giocare qui? Attorno a noi, rosse montagne consumate da antiche intemperie ed oggi ripide come canyon americani. Se ci fosse un cespuglio che rotola, sembrerebbe di essere in ‘Mezzogiorno di fuoco’. Questa sensazione da Far West ha una spiegazione: in realtà, molti film vengono girati in Marocco, per i suoi straordinari scenari ed i bassi costi di produzione, compresi i western. Crediamo di vedere il Texas, invece stiamo guardando l’Africa. Pensiamo all’Egitto o al Medio Oriente ed invece siamo a Ouarzazate (Asterix e Cleopatra) o ad Aït Benhaddou (Il Gladiatore).

Il baratto Giravamo indolenti per il microscopico centro di Agdz, quando Khalid è venuto ad attaccare bottone. Parla di questo e parla di quello, alla fine abbiamo deciso di andare a visitare il suo negozio. Così, Khalid ci ha tenuto la prima lezione di usi e costumi del commercio marocchino.

Innanzitutto, ci si siede comodamente su dei tappeti arrotolati, sorseggiando con calma the alla menta ed esaminando la merce. Si comincia a contrattare: le cifre vanno scritte su di un pezzo di carta, cancellando con un tratto di penna la proposta precedente, perché discuterne ad alta voce non è educato.

Oltre alla contrattazione, è molto apprezzato il baratto: possiamo offrire indumenti usati, orologi, medicinali, libri, e sono molte gradite anche le penne a sfera. Peccato non averlo saputo prima; siamo venuti in vacanza con poco bagaglio, ma forse qualcosa da scambiare lo troviamo lo stesso.

Alla fine, l’affare si fa. Il socio di Khalid dichiara che va bene e stringe vigorosamente la mano a Stefano, per suggellare l’accordo. Passaggio di merce: diamo una maglietta ed alcuni dirham, riceviamo due collanine.

Khalid ci parla di sé. Nei mesi invernali chiude il negozio e si mette in viaggio per l’Africa, per acquistare i prodotti che poi venderà. In questo caso, il baratto è il suo principale strumento di commercio: ci spiega che più giù nel sud hanno bisogno di tutto, abbigliamento, medicinali. Inoltre, la sua famiglia possiede un allevamento di cammelli: li comprano quando sono piccoli e li rivendono quando sono grandi. I cammelli ‘da turismo’ sono più grassi e più belli, ma sono in grado di fare solo pochi chilometri al giorno; invece, i cammelli ‘da lavoro’ sono forti e robusti e percorrono grandi distanze.

Palmeti e terra battuta Montagne rosse e deserto di pietra. Talvolta, però, sgorga l’acqua: intorno ad essa, nascono verdi e rigogliosi palmeti ed i berberi fondano i loro insediamenti. Come nelle Valli del Drâa e del Dadès, che alternano aridità e fertilità sullo sfondo di monti imponenti, solcati da profonde gole.

Le palme danno i datteri, fondamentali nella dieta locale, e l’ombra sotto cui piantare verdure ed alberi da frutto. Intricate opere di canalizzazione garantiscono l’equa ripartizione delle acque. Ogni famiglia ha diritto alla sua parte di ‘palmeraie’.

Le abitazioni sono in terra battuta, rosse come il suolo e le montagne. Le Casbah sono le case più grandi, solitamente a pianta quadrata, con una torre ad ogni angolo. Sono veri palazzi, decorati con motivi incisi nelle loro pareti di terra.

Spesso i villaggi sono circondati da mura che li proteggono, ed in tal caso si chiamano Ksar. Le mura di cinta, anch’esse in terra battuta, sono intervallate da basse torri che fungono da postazioni di controllo e da magazzini. All’interno, gli ksar sono attraversati da stretti viottoli, coperti da tettoie di canne per proteggere il passante dal sole; c’è una netta, spiccata alternanza tra luce forte e ombra nera.

Erg Chebbi Quando il mondo era giovane, pare che il deserto fosse simile alla foresta tropicale. Ma gli abitanti del mondo, già a quei tempi, erano tanto, tanto inclini a comportarsi male. Allah decise allora di far cadere sul Sahara un granello di sabbia per ogni peccato dell’uomo. La foresta sarà anche sparita a causa delle nostre responsabilità terrene, ma ciò che l’ha sostituita è molto, molto affascinante.

Erg, il deserto di sabbia. Noi immaginiamo piccole dune. No: sono montagne, che si scorgono da lontano e si elevano di colpo da una piatta, scura distesa di sassolini.

Al mattino, ci alziamo prima dell’alba ed alle 6 siamo già in cammino attraverso il Sahara. La sabbia è fredda, c’è ancora poca luce, le dune sono grigie e modellate in superficie da piccole onde disegnate dal vento. Abbiamo scelto di andare a piedi, da soli, niente cammelli, niente accompagnatori locali, soltanto noi due e l’Erg, per entrare in contatto con quel mondo e con quel silenzio.

Scegliamo la nostra duna. Il silenzio è completo. Il sole sorge. I colori della sabbia cambiano impercettibilmente ma senza sosta: prima il bianco, poi il rosa, poi il rosso oro. Fa sempre più caldo. A mezzogiorno sarà insopportabile e noi non saremo più qui. Ma non importa quanto saremo lontani; il ricordo del deserto rimarrà sempre con noi, insieme ad una leggera, insistente nostalgia.

Francese sì, francese no La vecchia Uno resta parcheggiata accanto alla strada, mentre noi seguiamo a piedi la nostra giovane guida al di là del fiume in secca, verso un angolo di Marocco lontano dalla vista del turismo ufficiale.

Dopo circa un chilometro, passiamo accanto ad un piccolo ksar diroccato e disabitato, al cui interno spicca un marabutto ancora ben conservato. Siccome questi piccoli edifici li abbiamo già notati qua e là, ma ancora non abbiamo capito a cosa servono, con quella forma così peculiare – pianta quadrata ed una specie di cupola centrale – chiediamo alla nostra guida se è possibile entrare. Oltrepassiamo le macerie delle mura esterne dello ksar, apriamo a fatica la porta del marabutto ed entriamo. Intanto, la guida ci spiega che siamo in un piccolo santuario, un luogo sacro, dove per esempio vanno a pregare le donne che non riescono ad avere dei figli.

Fino ad oggi, Stefano è riuscito a farmi credere che capisce il francese, anche se fa fatica a parlarlo. Tra poco scoprirò che mentiva.

L’interno dell’edificio è spoglio. Proprio in mezzo però, per terra, c’è qualcosa, accuratamente avvolto in un lenzuolo scuro. Questo qualcosa ha una forma inquietante: sembra una persona… un morto.

Faccio un passo indietro e chiedo alla guida di cosa si tratta.

<> Guardo Stefano, pensando che sarebbe comunque più rispettoso uscire e non essere invadenti. Vedo che lui sta facendo ‘sì, sì’ con la testa, come uno che ha capito tutto il discorso per bene. Poi però si avvicina a una colonna, la tocca con la mano per capirne la consistenza e chiede con disinvoltura alla guida: <> Qualche ora dopo, domando a Stefano dove ha trovato il sangue freddo, o la faccia tosta se vogliamo, di fare domande da architetto davanti ad un morto, steso in terra in luogo sacro.

Mi guarda senza capire. <> Ma come quale morto… quello dentro il marabutto! Sbianca. Ormai è chiaro: non capisce il francese.

Contrattazione Affascinante Marrakesh. La prima impressione che abbiamo è quella di camminare all’interno di un film di Indiana Jones, quando si aggira per le vie del Cairo: uomini e donne vestiti della tipica tunica lunga con il cappuccio a punta, altri invece abbigliati all’’occidentale’, motorini puzzolenti lanciati alla massima velocità, asini che trasportano mucchi di menta fresca, 30 gradi ed è novembre. C’è un sacco di gente in giro, tanti negozi, tanta vita, e ogni due minuti qualcuno si avvicina e cerca di venderti qualcosa.

La piazza principale di Marrakesh, Djema el Fna, di giorno è pittoresca, con gli incantatori di serpenti, i venditori di unguenti, le donne che ti fanno tatuaggi sulle mani e i botteghini che vendono solo spremuta di arance.

Di notte, però… Centinaia di rozzi ristoranti ambulanti sorgono d’improvviso sulla piazza: hanno un banchetto centrale ricoperto di cibo, da cuocere su di una piastra elettrica o con un fornello a gas; intorno, c’è qualche rudimentale tavolone di legno. Offrono spiedini, cous cous e pane arabo. Oppure lumache, solo lumache. Oppure panini riempiti con uova e patate. Teste d’agnello. Ed intanto fumi e vapori, una nuvola bianca che si alza, spessa, incessante, fino a tarda notte, accompagnata dai tamburi dei suonatori di strada. Dai tetti, intorno, sembra di guardare l’inferno. Attorno alla Djema el Fna si dipana un labirinto di mille viottoli che ospitano il souk, il mercato. Lo esploriamo per la prima volta in una giornata di pioggia. Io davanti, con gli occhi che saltano di qua e di là per non rischiare di perdermi qualcosa. Stefano dietro, di malavoglia, perché non ha mai amato fare spese e oltretutto piove. Noto qualcosa che mi interessa. Conquistati dalla tradizione berbera del the, abbiamo già comprato la teiera, ma non il vassoio che la dovrebbe accompagnare, e quello là davanti farebbe proprio al caso nostro.

Stefano butta là uno svogliato <>. Il bottegaio si lancia in una lunga spiegazione delle virtù del prodotto, poi spara una cifra: 280 dirham. Stefano sorride. Rilancia. Discute. Finge di andarsene. E compra il vassoio per 30 dirham.

A questo punto, succede qualcosa che non avrei mai previsto: Stè ci prende gusto! Ha ceduto al fascino del souk, sono emerse le radici africane di cui lo zio Antonio è prova. Da questo momento in poi, diventa una macchina per contrattare. Basta che io guardi un oggetto, non importa se non mi interessa, lui aggancia il venditore e parte la trattativa. Alla fine della giornata, sfiniti e carichi di acquisti, facciamo i bagagli per la partenza. E Stefano commenta: <> Arrivederci, Marocco.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche