Syros, Paros e Antiparos con ignoranza

Diario di viaggio completamente inutile per un itinerario casuale
Scritto da: BrunoA
syros, paros e antiparos con ignoranza
Partenza il: 28/07/2015
Ritorno il: 09/08/2015
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
Leggo spesso “turisti per caso” prima di un viaggio, mi è sempre stato utile. Da sempre mi dico che prima o poi avrei contribuito a questa community di mezzi naviganti e mezzi scrittori. Non l’ho mai fatto però: dannata pigrizia. Il motivo per cui sono qui ora a condividere la mia esperienza non è per uno slancio di buona volontà ma unicamente a causa del fatto che il mio Ebook si è impiantato la mattina del secondo giorno. Ora mi trovo con dodici giorni davanti e niente da leggere a parte un romanzetto giallo degli anni trenta, unico libro in italiano in tutta Ermoupolis, di cui vi parlerò con gioia più avanti. Quindi, eccoci qui ad improvvisarci scrittori. Scrittori cialtroni, per l’esattezza.

Intanto vi dico che è un tipico viaggio ignorante, biglietto aereo per Atene prenotato due settimane fa nelle date di minor costo, zainetto da 30litri, e praticamente nessuna idea su dove andare. Decisamente il mio tipo di viaggio preferito. Solo come un cane rognoso, senza meta, senza vergogna.

Il volo va via liscio. L’unico appunto lo rivolgo all’ubicazione del parcheggio lowcost “dietro” malpensa. In provincia di Vercelli. Mentre prendo posto sul sempre ospitale sedile easyjet, con i dovuti scongiuri affinchè i miei arti inferiori reggano anche stavolta, mando un’occhiata furente al mio vicino di posto che, appena seduto, è già in fase REM. Mortacci sua.

L’altro mio vicino, alto una trentina buona di centimetri in meno, lamenta al personale di dolergli le gambe, chiede una sistemazione più comoda, magari in business class. La tipica business class low cost. Il personale lo ignora con estrema professionalità.

Atterrati con delicatezza sul manto immacolato della pista di Atene rammento un paio di righe lette di sfuggita su qualche forum di circa vent’anni fa. “tra l’aeroporto e il Pireo ci sono frequenti autobus che in una decina di minuti effettuano il servizio”. Bene. Evito di salire prima sul bus, tanto ci mette cosi poco, posso stare anche in piedi. Benissimo. 55 minuti dopo scendo al Pireo. Nero in volto come nosferatu alle sette di mattina. Evidentemente negli anni novanta i traghetti partivano direttamente da un gate dell’areoporto.

Non essendomi minimamente interessato su dove e quando e per dove dirigermi una volta arrivato al porto, sono sceso al capolinea. Errore. Tra il pontile 1 e il pontile 7 c’è pressochè la stessa distanza che tra Malpensa e il parcheggio lowcost. Dopo le gambe morte sull’aereo, e la sofferenza morale sul bus affollato delle 10 di mattina, si aggiunge la scarpinata immersa nell’affascinante cornice del porto di Atene. Come inizio manca solo un attacco di nutria al polpaccio o un cocktail del bar Dino. So che non lo conoscete ma fidatevi, fanno cagare.

Il tizio della biglietteria ha uno scazzo addosso che a chiedere un paio di informazioni in più mi fà stare fisicamente male. Evito di insistere e vado via in cerca del molo 7. Ho anche una sufficiente dose di tempo a disposizione visto che di traghetti per Syros, questa è la mia meta, ce n’è tipo un paio al giorno, uno alle 6 di mattina e uno alle 17.30. Ho giusto quelle 6 ore per godermi appieno il Pireo. Mi infilo affamato in un coso di cemento che pare un mezzo ristoro e ordino un club sandwich. Sono praticamente da solo. Attendo comunque una ventina di minuti. Non chiedetemi perchè, al bar Dino, almeno, sono veloci. Il tramezzino è ottimo mentre l’acqua in bottiglia potrebbe avere un residuo fisso di un paio di chilogrammi tanto va giù a fatica e sa di ghisa. Terminato il mio primo contatto con la cucina greca, mi avvio alla ricerca di un giaciglio ombroso, possibilmente non pisciato di fresco. Trovo una specie di casottino climatizzato, sembra una specie di sala d’attesa o non so cosa, mi siedo una decina di minuti, poi mi accascio sulle seggioline, tipo foca ferita. Tempo tre minuti sento battere alla gamba. Una vecchia rognosa sbraita qualche sillaba acida e fa intendere che lì non ci sdraia sulle seggiole. Tr..a. Trascorro tra mille dolori articolari e una stanchezza mentale da mancanza di sonno altre tre ore. Con estrema fatica mi trascino al traghetto, che stavo pure sbagliando perchè al molo 7 attraccano due navi diverse. Trovo una sedia libera e prego Dio perchè quel viaggio duri il meno possibile. Secondo i mie calcoli ci metterà, comunque, troppo. Il mio ereader viaggia che è una bellezza e mi mastico Bukowski come un pitbull farebbe con degli orsetti gommosi al gusto di gatto.

Dopo qualcosa come 20 ore di viaggio scendo, alle 22 passate a Ermoupolis, capoluogo delle Cicladi. Zaino in spalla, puzzo di sudore, voglia di vivere zero, bestemmia a fior di pelle. Sarà che non sono proprio nello stato d’animo più romantico, ma il primo contatto con la città mi sembra uno spritz del bar Dino. E non dico altro. Il traghetto scarica proprio in mezzo al lungomare, una calca di macchine e di affittacamere affolla la banchina. Irritazione ai massimi livelli. Raccatto le mie quattro ciabatte e tiro dritto per le viuzze, a caso. Giro indolente un’oretta finchè non trovo una sciura seduta su una seggiolina con aria pacifica e quieta, da sposare. A due passi dal centro. Camera disponibile, 30 euro a notte, presa. Ora, dopo 22 ore dalla partenza, posso ca**re in santa pace in un cesso dignitoso. Bukowski docet.

Fuori si sente la vita che freme ma il letto è una calamita e io sono un pezzo di ferrite pura. Praticamente un meteorite, per gli esperti del settore. Dormo qualcosa come tre anni di fila: Renzi è diventato Papa.

Il giorno seguente sono pieno di buone intenzioni, non so che ore siano, esco, colazione in piazza Grande, insalata di frutta con gelato, cappuccino, mercato della frutta, ciliegie per tre giorni. Serve assolutamente acqua. Entro in un minimarket che fa pietà. Prendo due bottiglie d’acqua, 40 centesimi l’una, il cartellino parla chiaro. Pago con un euro e attendo tranquillo il resto. Il signore fa spallucce spiegando a modo suo, senza proferire vocabolo, che con il sacchetto, da lui prima caldamente consigliato, fa un euro tondo tondo. Touchè.

Rientro a casa, che bello averne una, anche temporanea. Preparo lo zaino, direzione Galissas. Qui si consuma la tragedia. Afferro l’Ereader. Un oscuro presagio mi suggerisce di accenderlo. Sussulta, freme, vibra, condensa, evapora, sublima. Il monitor è una rivisitazione di un picasso. Mi connetto con il favoloso wifi del posto: sarà un’isola sfigata ma viaggia più veloce del cavo, Fastweb, di casa mia. Cerco informazioni sull’impantanamento dei kobo. Riavvio. Resetto. Sminchio. Ca**o. Il mio pensiero corre ad un caro amico. Lui mi ha convinto degli innumerevoli pregi del libro digitale. Lo maledico in modo semplice, senza sofferenze particolari. Provo del panico misto ad odio. Il secondo giorno non posso restare a corto di letture. Le Madonne vengono giù come ad un veneto a cui va tutto liscio. Tremo. Devo trovare un libro italiano. Esco febbricitante. Chiedo ad una gelateria se sanno indicarmi una libreria. Mi fa segno di uscire. Sono confuso. Esco un filo preso male. La tizia capisce il quiproquo. Mi fa segno di andare al di là della strada. La libreria è lì. Solito intuito da segugio. Cerco una zona “internazionale”, trovo uno scaffale “dialetto tradizionale”. Impreco, ma in modo tradizionale. Nessuno può darmi torto, nemmeno Renzi in persona. Chiedo al negoziante. Scuote la testa. Mi consiglia un grosso giornalaio sulla riva, quotidiani in ogni lingua e libri di sicuro. Sottolinea il concetto di “grosso negozio”. Mi dice il nome. Dentro di me c’è il vuoto assoluto. Gli chiedo di scrivermi un bigliettino. Lui, paziente, me lo porge. La calligrafia è comprensibile come una conferenza stampa di Trapattoni in prussiano. Esco esibendo la sacra sindone a chiunque entri nel raggio di 5 metri. Trovo il negozio, entro. Sarà una stanza 3 metri per 3. Sono confuso, ma il posto è quello. Senza dubbio. La signorina è gentilissima, come tutti qui del resto. Mi comunica che da qualche anno non tiene più libri in altre lingue oltre al greco e l’inglese. Tranne! Tranne due volumi identici di un giallo degli anni trenta di Rex Stout: Troppe donne. L’unica cosa che mi interessa è la lunghezza, solo 150 pagine. Chiedo il prezzo: 11 euro. Lo prendo, non ho altra scelta. Infilo nello zaino con la speranza che sia un libro favoloso, di dubbi ce ne sono.

Torno per le strade, chiedo in giro da dove si prende il bus: dopo il porto. La stazione è una strada un filo più larga delle altre di modo che i pullman possano fare manovra. In zona merda della città. Adoro chiedere informazioni alla gente più improbabile possibile, vecchie, barboni, vecchi barboni, vecchie barbute. Lo zelo che anima la gente del posto quando chiedi informazioni è ammirevole. Tentano in ogni modo di farti capire le cose. Spesso con risultati pessimi, ma ci provano. La gente delle mie parti ti manda a cagare diretto appena sentono accenti stranieri.

Trovo la “stazione”. La biglietteria non esiste, come del resto non esiste una stazione. Chiedo al conducente dove sia diretto il suo mezzo, mi risponde “Galissas”. Io per conferma ripeto “galissas”. Lui per riconferma mi ripete “galissas”, ma forse, con un lievissimo differente accento sull’ultima “s”. Sono confuso. Non conosce una parola di inglese e l’unica cosa che sa fare è ripetere “galissas” con quello strano accento. Io provo nuovamente a ripetere. Sbaglio accento e sembra dal suo sguardo che io voglia andare in Brasile.

Salgo lo stesso, tanto in una fottuta isola di 20 km quadrati dove pensi di portarmi? La sua gentilezza d’animo è pari alla sua delicatezza alla guida, accelera e frena come se fosse a Monza. Le povere vecchiette quasi cascano per terra.

Ora si instaura qualcosa che è raro trovare da altre parti. Il pullman fa tante fermate insulse per raccattare gente del posto sotto casa. Tutti i turisti, ad ogni fermata si guardano a vicenda con aria interrogativa se è questa la tappa comune. Nessuno ci capisce una fava. Non esistono cartelli di alcun tipo. Capiamo che siamo arrivati a destinazione in quanto c’è un negozio con scritto “galissas rent a bike”….ma si può?!? E allora tutti scendono come pecore, sperando che sia la fermata della nostra stalla. Io compreso.

Cerco la spiaggia di Armeos, naturista, per vari motivi. Primo mi fa star bene l’essere nudo. Secondo, la gente naturista ha uno spirito civico e di rispetto dell’ambiente mille volte superiore del beota medio. Terzo, le spiaggette naturiste sono cosi sfigate che spesso e volentieri sono nei posticini più fichi e scomodi della zona, senza poppanti urlanti, famigliole con la tombola o compagnie di napoletani con gigi d’alessio a tutto volume.

Il ragazzo a cui chiedo indicazioni riguardo alla spiaggia si fa cupo. Mi prospetta giorni di cammino, carenze idriche e privazioni di ogni tipo. Spiego di avere un litro emmezzo d’acqua fredda. Non basta. Mi fornisco da lui di una mitos (birra) da mezzo litro per il viaggio. Non basta. Decido di rischiare, così sguarnito di vivande. Parto con serie intenzioni di fare testamento quando, dopo sei sorsi scarsi di birra scopro di essere arrivato.

Trascorro un paio d’orette a leggere nudo sotto un albero.

Come tutte le spiagge naturiste che si rispettino non esiste nessun tipo di ristoro. Mi attacca una fame primordiale. Torno a Galissas ripercorrendo quei 4 minuti di sentiero comodissimo e mi imbuco nella prima taverna che mi ispira. Chiedo gentilmente se posso modificare leggermente una greek salad: senza pomodoro, con pezzetti di pollo. Dopo ore di negoziati con la chef, il proprietario e credo il sindaco, niente. Greek salad senza pomodoro con un piatto a parte con coscia di pollo e patate. I polli qui li allevano a polonio vista la dimensione ambigua della coscia. Mangio e taccio.

Appunto per i viaggiatori solitari. Nelle taverne, se sei solo, possono attendere l’arrivo della tua compagna per ore senza chiederti nulla. Ti conviene farti vivo alla cameriera di turno, altrimenti non ti cagano. Al bar Dino questo non succede. Appena varchi la soglia parte un bianco sporco di default. Che tu lo voglia o no.

Gironzolo un pò per Galissas. Non ha proprio nulla di particolare a parte una spiaggia mediamente affollata, casette bianche, casette bianche diroccate, casette diroccate. Si sente puzza di tempi brutti. Taverne abbandonate. Giro i tacchi e torno a casa: ho visto a sufficienza.

Doccia, sonnellino di 5 ore. La sera arriva presto, finalmente posso assaporare il clima che questa Ermoupolis offre by night. Gironzolo tra le stradine, noto con estremo piacere che la masnada di automobili che affollano incessantemente le vie durante il giorno, e che rende la città molto fastidiosa, non c’è più. Dopo una certa ora il centro diventa pedonale. Nelle stradine laterali crescono tavoli come funghi. La gente comincia ad uscire. I locali si riempiono. Si sente bene che la seppur piccola città è ben viva. Tutti fanno chiasso: bambini in piazza, anziani al bar, cani nei giardini, gatti morti per strada. La serata va via liscia scandita da vari bicchieri di bianco nei vari baretti. Due quattordicenni fanno rissa in un locale. Problemi di tamagochi.

Ermoupolis in fondo è bella. Con le sue due chiesette che guardano giù severe, come il tempo che fu. Con il suo trambusto perenne. Con i mille locali sparsi per il lungomare e il centro.

Sono quasi le 4. Gli effetti del sonnellino pomeridiano si affievoliscono e torno a casa accompagnato dagli ultimi suoni della notte. Almeno spero.

L’indomani ho un programma serio. Colazione arrogante da un fornaio.

Con estrema calma mi dirigo nuovamente alla stazione dei bus. Direzione Kini. Ho saputo da fonte certa che lì ci sono un paio di spiaggette da visitare a piedi. Kini è un paesino davvero modesto, in compenso ci sono un paio di sentieri utili per la mia vena escursionistica: ciabatta di gomma e maglia tecnica dell’Aston Villa. Nel primo pomeriggio raggiungo Galissas a piedi seguendo qualche sentiero a caso aiutato dal fido gps. La segnaletica montana in grecia è gestita, evidentemente, dai puffi. Se non avessi avuto dietro il cellulare starei ancora girovagando per i monti del nordest syrosiano.

A Galissas ritrovo il ragazzo delle indicazioni del giorno precedente. Mi saluta e mi chiede da dove arrivo. Un secondo dopo aver scandito “Kini” mi guarda come se mi fossi reincarnato in Reinhold Messner. Torno una volata alla spiaggetta naturista accompagnato dalla solita mitos gelata, saluto il tramonto nudo come un verme e, dopo aver chiesto informazioni per il traghetto dell’indomani, rientro a casa passando dal solito pietoso minimarket per la solita bottiglia d’acqua. Ora però non mi frega col sacchetto. Contro ogni possibile previsione il vecchietto estrae l’asso dalla manica. Un vero colpo di classe. Chiedo la stessa bottiglia d’acqua fredda di ieri. Stessa etichetta: 40 cent. Gli smollo un pezzo da 50 cent. Attendo fiducioso il resto. Lui replica con le ormai ben note spallucce: senza proferire vocabolo mi fa intendere che l’acqua fredda ha un supplemento, 10 cent. E siamo a posto così. Ritouchè.

Dopo un breve sonnellino mi preparo per la seconda serata mondana a Ermoupolis, esattamente con gli stessi vestiti della prima. Girovagando per la piazza principale di pianta rettangolare mi faccio tentare dal canto di due giovani sirene, un filo in sovrappeso, ma voci e tastiera viaggiano che è un piacere. Entro nel locale, design curato, servizio merdoso, clientela da schiaffi. Nella piccola saletta sono presenti due famiglie tipiche greche. Coppia dei capifamiglia, similmafiosi, figli e figlie, qualche nipotino. una ventina di persone in tutto. Su due tavoli separati. Per un’ora circa di musica davvero ben fatta ho dovuto sopportare questa tortura: la nipotina riccioli d’oro avrà avuto 3 o 4 anni. Morta di sonno sul divanetto, tra mamma e nonni. Ho visto tossire quella piccola bestiola per tutto il tempo mentre nonni e madre si rollavano una sigaretta dopo l’altra, fumandole praticamente addosso. Non so bene il motivo ma in quel locale ognuno fumava quel che gli pareva, senza sosta.

Finita la serie di pezzi internazionali attaccano con la musica greca, sempre riarrangiata con stile. Duro dieci minuti ancora, esco, preso malissimo.

Trovo il tavolino più lontano da tutti, ordino un mezzo litro di bianco. Comincio a scrivere questa storia. Passano come ridere ore ed ore e bianco dopo bianco si fanno nuovamente le 4. Direi di tornare a casa visto che la sveglia è prevista per le 6. Traghetto alle 7 per Paros.

Dopo l’esperienza di ieri sera noto sempre di più che la possibilità di trovare un greco senza sigaretta in bocca è pari alla possibilità di sentire un’intervista di Brunetta senza nominare Berlusconi.

Alba. Silenzio strano qui a Ermoupolis. Me lo godo insieme alle tre vicine mezze nude della domatia, per loro è normale, beata scandinavia. Anche loro prenderanno il traghetto. Lascio Ermoupolis con sentimenti avversi. Mi aspettavo una cittadina calma e serena, un filo brillante forse, ho trovato una vivacissima e mai quieta mini-metropoli. In fondo mi sta più che bene. Lo scopo dei miei viaggi è vivere i luoghi, le persone, lo stile di vita, non fare foto a vecchi sassi, cocci rotti o vecchie colonne scagazzate. Paros alle 9 e trenta della mattina è viva quanto il Quirinale in qualunque giorno dell’anno. Il porto è sgombro da qualsivoglia attività o automobili. Olè.

Seguo il consiglio di qualcuno che ho importunato chiedendo informazioni e mi dirigo a nord dove posso trovare qualche domatia e un paio di campeggi sulla spiaggia. Trovo per primo il campeggio, l’ingresso promette bene. Mai fidarsi delle apparenze. Chiedo ad una stanca signora dal girovita pari all’altezza e dalla peluria importante se sono disponibili sistemazioni per sbandati sprovvisti di tenda. Senza nascondere uno sforzo ingrato di così primo mattino mi accompagna ad una ventina di metri scarsi da lì. Accanto ad una calca di adolescenti dediti alla colazione di gruppo in una specie di zona comune, si stagliano otto cosi di plastica a forma di tenda canadese. Ne apre una per convincermi della buona proposta abitativa. Due materassi marci buttati su assi di legno, marcio. Mi pare legno, forse ferro. O finto legno. O finto ferro. Lancio all’atletica signora uno sguardo interrogativo. Lei è scaltra come un mocassino. Convinta della buona riuscita della trattativa si espone: fifteen euro per notte. Non le alzo entrambe le dita medie perchè sono un fottuto signore. Con garbo temporeggio bevendo spuma. Simulo un malore alla milza. L’esile signora teme un rallentamento nella trattativa. Si sta facendo acuta. E’ una lotta di nervi. Indico una cosa alle sue spalle. Lei si gira, errore. Fuggo.

Trovo un piccolo affittacamere poco distante. Tratto per cento euro per tre notti. Devo avere una bruttissima faccia perchè da listino sarebbero 150. Prendo e porto a casa. Muoio temporaneamente sul letto. Mi sveglio con veri dolori alla milza. Così imparo a prendere in giro la gente tranquilla, che lavorava. Esco, saranno le tre di pomeriggio. Cerco una taverna che si confà con il mio stato d’animo. Tavolini in finto vero legno ferro. Cuscini con stampe di skyline di Fregene. Roba di classe. Cesar salad che spacca. Birra supergelata. Solo in tutto il locale. Attesa: venti minuti, anche per la birra. Che fretta c’è?

Mi nutro con gusto. Pago. Mi incammino per Minchiaspiaggia. Almeno cosi mi pare di ricordare. Giusto per rimarcare l’inutilità totale di questo diario.

Trovo una serie di spiaggette: belle, solite, mezze piene o mezze vuote. Cerco altro. Dio, il jazz che suona questo locale, mentre scrivo, è favoloso. Ricordo a fatica poche ore fa. Una caletta vicino Parasporos. Nudo, ovviamente. Solo con il mare e qualche roccia acuminata ostile. Tra le chiappe.

Torno in camera. Dormo. Esco. Il mood di questa cittadina è così vicino a quello che cerco che un pò mi spaventa. Il mio obiettivo è la ricerca, non prevedo di trovare. Qui invece ho trovato. Un bar ai piedi di un faro sulla baia. Un locale affacciato sul lungomare con drink coi controc***i. L’ultimo baretto sfigato che tiene aperto fino a notte fonda, ossia ora, e che propone un jazz che ti scioglie le vene. Ho appena chiesto al tizio a che ora va a letto. Mi ha risposto che lui, non va a letto. Replico che allora vedremo l’alba insieme. Ride. Io non scherzo. Lui nemmeno. Chiudo il pc. Altro giro per piacere. Vedremo chi la vince. A domani.

Il domani arriva presto. Intorno a mezzogiorno. Chiedo al simpatico padrone di casa se nel mio prezzo superscontato è forse compresa la colazione. Non c’è bisogno che risponda, dai suoi occhi intuisco, furbo come una faina, un garbato “no”. Lui è così gentile che mi autooffendo per la ridicola richiesta. Ne approfitto per fare due passi. Trovo un minimarket che propone dolci fatti in casa. Spendo l’equivalente di due mesi di mutuo in zuccheri vari. Soldi ben spesi a mio avviso. Per l’avviso del mio fegato, un pò meno. Girovago per la spiaggia nota come Martcelo, Kiro, Martcelokiro, o che il diavolo la porti: bambini rognanti ovunque. Tiro dritto fino alla chiesetta, insulsa come un paio di espadrillas ad un simposio di anfibi da guerra. La passeggiata merita però, una mezzoretta di sane storte alle caviglie tra le rocce. Alle quali le mie infradito in neoprene finta plastica pongono una resistenza solo di cortesia. Rientro a casa, stanco più dentro che fuori. O viceversa. Mi propongo di riposare gli occhi giusto un’oretta. La mancanza di sonno è ormai cronica. Mi risveglio nel 2034. Renzi è Dio.

Oggi sono un leone. Dopo una dormita di quasi 11 ore potrei battere Messi a basket o Lebron James a scacchi. Roba da duri. Esco, preso benissimo per l’orario da professionista delle vacanze pacco. Sono le 7.55. Solita spesa esosa. Oggi, visto che è cosi presto, trovo addirittura una torta fatta in casa fatta con il 110% di fichi. Così assicura la giovine proprietaria. Sono confuso ma lei insiste. Ci sono più fichi dentro quella torta rispetto a quanti ne abbia raccolto. La fisica classica vacilla. Mi dirigo in compagnia del mio fegato sofferente alla stazione dei bus. Qui a Parikia ce n’è una. E’ triste come un film autobiografico di Gerry Calà, ma bisogna adattarsi. Direzione Antiparos. Spiaggetta nudista e ricerca di una sistemazione per le prossime tre notti. Gli antiparosiani sono tosti nelle trattative. Piuttosto che cedere di qualche euro tengono vuote le camere. C***i loro. Uno stronzo che cede si trova sempre. O almeno spero. Alla fine la vinco io. 100 euro per tre notti. Due minuti dal centro, ossia periferia pura. Roba tipo Rozzano, per Milano, in proporzione.

Rientro a casa, doccia in compagnia di un’astuta zanzara. Leggo un pò. Riposo gli occhi un attimo. Esco alle dieci di sera passate. Che fretta c’è?

Vagabondo in cerca di un ristorante come si deve. Oggi mi voglio trattare bene. La scelta è ardua. Uno tra i mille ristorantini strapieni e starnazzanti del lungomare oppure uno tra i due o tre del centro città, snobbati da tutta la marmaglia. Giardino interno, zero gente. Cretini tutti. Scelgo la “tabepna” o come diavolo si chiama “sussurro del pino”. Siamo io, la tizia, i genitori anziani, due giappocinesi, e nove gatti. Ordino un menù fisso: 15 euro. Grigliata mista di pesce fresco e vino bianco. Da me con 15 euro compro dal pescivendolo due melanzane. E già mi va bene. Mangio come previsto, da Renzi. Pago soddisfatto, esco. Vago come un eroinomane in cerca del mio baretto jazz.

Ora sono qui a scrivere. Musica intorno. Mare davanti. Potrei morire qui, soddisfatto. Grazie di tutto. Per oggi la vita mi ha regalato abbastanza. Se domani verrà, sarà tutto grasso che cola.

Mi sveglio alle 6,45. Dovrei imparare a chiudere quelle maledette persiane. Mi copro gli occhi con la prima cosa che afferro: il comodino. Il bus previsto è alle ten past ten. Mi risveglio alle ten. Fuck. Con tutta la calma di Paros mi dirigo alla stazione dei bus. Poi traghetto. Poi domatia. Antiparos è ancora da capire. Nel salutare il proprietario dell’hotel mi azzardo a proporgli uno scambio alla pari, Rex Stout per un romanzetto sui templari che ho puntato nello scaffale della hall. La spunto facile. Non soddisfatto, provo in un tipico fornaio-edicola se per caso dispongono anche di libri, magari in italiano: yes, we have someone in the international zone. Si parla di mezzo scaffale, tra baguette e rotocalchi greci. La mia visita lì però termina col botto. Intravedo una serie di sei, e dico SEI, Rex Stout ancora incelophanati. “Troppe donne”. La tizia mi chiede: “found something?”. Rido come un cretino ed esco, beffato dal destino come un pivello.

Poso i bagagli nella nuova camera, mi preparo per uscire. Cammino in cerca di un mio posticino sulla spiaggia, giusto quell’oretta sotto il sole cocente. Tamerici come se piovesse: ne trovo una appartata, via il costume, fuori il libro.

Leggo e dormicchio per tutto il pomeriggio, sulla spiaggia. Sogno tamerici, eserciti di tamerici, orde di tamerici, flotte di tamerici, mandrie di tamerici, stormi di tamerici. Rientro a casa, devo piantarla lì di camminare cento ore al giorno. Domani affitto una bici.

Attacco bottone con le vicine di balcone. Sono inglesi. Tema della discussione molto serio: com’è che in quelle stanze ci sono sempre mille gradi? Le perdo di vista, faccio la doccia, leggo qualche pagina, faccio fuori tre zanzare comuni, esco. Loro stanno rientrando, saranno le 22.

Procedo per la mia strada, alla scoperta di Antiparos by night. Appena si varca il centro città si respira un mood particolare e prezioso: rilassato, soft, delicato, smooth. Proprio quello che cerco. La cittadina è un vero buco di c**o ma in 500 metri di stradine trovano posto una serie di localini davvero notevole. Dalla tavernetta tipica locale al baretto lounge dal design curato. Trovo l’atmosfera presente qui qualcosa di splendido e raro. Gironzolo con la massima soddisfazione tra le viuzze, con una calma, oserei dire Prodiana. Decido per la parte opposta di Antiparos city, la spiaggia ovest, probabilmente è lei che sceglie me. Qui ci sono due locali, scelgo l’ultimo, tanto per cambiare. Un locale ristorante lounge con divanetti e buona cucina. Musica ottima. Ripeto, il mood è f a v o l o s o. Unico neo, un tavolo con due coppie di ciociari col grano, tipici, caciaroni e casinari. Fanno più baccano loro che tutto il resto dei clienti. Dissimulo il più possibile il mio accento italiano. Ordino una vodka per confondere i sospetti. Mi vergogno, come sempre, dei miei compatrioti.

Non so cosa cerchiate in una cittadina di vacanza ma questo è il paradiso. Finito di cenare con insalata di polipo e mezzo litro di bianco, dolcemente servite da una cameriera carinissima, sfodero il mio netbook e comincio a scrivere. Non posso che essere sereno come un pupo. Per oggi non c’è più niente da raccontare, mi aspetta la passeggiata di ritorno a casa. E’ passata mezzanotte, e tutto va bene.

Sveglia decentemente presto, faccio scorta di sani zuccheri dal mio nuovo fornaio di fiducia, acqua, e via al noleggio bici. Un presagio di morte mi avvolge. Chiedo gentilmente alla ragazza del negozio “the best one please, I am a professionist”. Lei mi squadra bene un secondo, in principio con una certa serietà. Poi nota in serie: ciabatta in polipropilene finto sughero, sacchetto del fornaio sottobraccio, zaino tecnico dei Gormiti e bottiglia d’acqua in mano. La sua risatina è ben guadagnata. Non c’è più traccia di serietà nei suoi occhi. Il mezzo che mi propone è gagliardo, telaio in alluminio, freni a disco cigolanti, manopole appiccicose, cambio shimano (ma ne esistono altri?), catena arrugginita, gomme con resistenza al rotolamento massimo. Sellino pro, appuntito come una lancia. Duro come la pietra. Il presagio si tramuta in potenziale morte. Un minuto dopo aver firmato un contratto per 24 ore di noleggio, per la ragguardevole cifra di 4 euro, mi accorgo col solito incredibile tempismo che questa mattina ha la particolarità di essere contemporaneamente la meno ventosa, la più calda, la più umida, la meno nuvolosa e la più soleggiata dal 1992. Avanti Cristo. Allontano i timori e inforco la belva, con la dovuta arroganza. Frattura del coccige praticamente immediata. O forse sto esagerando. Non posso fare la figura del dilettante con la ragazza del negozio, quindi tengo duro. Mi sono guadagnato una certa credibilità in fondo, non posso sputtanarmi così. Il dolore acuto al fondo del sedere sfuma gradualmente in un malessere generale, fisico ma anche spirituale. Non vado in bici dal 1978, prima che nascessi, e la mia conformazione fisica è incompatibile con la bicicletta: io soffro. Parto spingendo a mille sui pedali, tempo 3 minuti, giusto il tempo di uscire dalla visuale del negozio, e mi accascio sotto una delle rare tamerici. Spazzolo una brioche. Il culo duole. Ripasso il programma della tappa, paesino di Soros, Ag Georgas e rientro. Una ventina di km. Osservo il cielo: un avvoltoio si guarda l’orologio e chiama a casa di preparare il sugo. Il presagio diventa una certezza. Oggi muoio.

Contro ogni possibile previsione la pedalata acquista ritmo. L’andatura è spedita, regolare, confortevole. Le chiappe sono ormai insensibili. Le manopole si sono fuse con le mani. Il cambio shimano non ha cambiamenti di alcun tipo. Soros si avvicina, incredibilmente. Si avvicina anche una grossa delusione in quando “Soros” consiste in quattro casette in croce. C’è solo una lunga spiaggia con un locale ristorante affittacamere annesso. Scendo un secondo, raccolgo le poche idee, pessime, rimaste, bevo, bestemmio moderatamente e procedo per la penisola brulla e arida nel sud dell’isola. Deviazione imprevista. Pretendo ulteriori sofferenze. Deriso in continuazione da tutti coloro mi sorpassano dotati di quad per bambini, tipo Gaucho, non so se avete presente, mi trascino fino a metà della penisola. Confermo, brulla e arida. Qualche spiaggetta qua e là ma la pena è inutile. Forte di una scarica di bestemmie rigeneranti mi dirigo con coraggio verso Ag Georgas. L’ottimismo che regna nei miei pensieri è nullo. Non mi aspetto niente di niente. Ed infatti non casco lontano. Altro paesino fantasma con casette sparse a caso, senza capo nè coda, giusto qualche spiaggetta solitaria dove mi riprendo un pò. All’ombra di una tamerice, tanto per sorprendervi. Grazie al cielo mi imbatto in una taverna che mi evita una morte voluta, cercata e sacrosanta. Divoro qualcosa che sa di mucca. Bevo otto bottiglie d’acqua. Prenoto una via crucis per la prossima cerimonia. Raccolgo le mie quattr’ossa doloranti e mi dirigo al patibolo del sellino cuneiforme. La mia voglia di pedalare è pari alla voglia di votare Italia dei Valori. Supero con vigore minimo e infiniti patimenti la montagnetta in mezzo all’isola. Mi chiedo seriamente chi va in bici di frequente o lo fa per professione cos’abbia nel cervello. Con la forza della disperazione e della mezza mucca nel mio stomaco, faccio ritorno al negozio di noleggio. Consegno la bici, schifato. Il tizio che ha sostituito la ragazza verso la quale ho una reputazione da difendere mi chiede come mai la riconsegno cosi presto: qualcosa non va? Replico calmo “soon i’ll die”.

Giro i tacchi e rientro a casa, completamente svuotato da ogni residuo vitale. Svengo sul letto, svengo nella doccia, svengo fuori a cena. Per oggi mi sono autolesionato a sufficienza.

Il progamma dell’indomani ha un solo scopo ben preciso: restare in vita il più possibile. Solito pieno di zuccheri, bottigliozza d’acqua gelata e via per la spiaggia vicina ad Antiparos nord. Accanto al campeggio. Alla fine quella nettamente più figa. La mattinata ha un solo obiettivo: il nulla totale. Evidenzio che in mia compagnia, avendo terminato l’ultimo libro in italiano in tutta la grecia, macedonia e lituania, ho un abbordabilissimo romanzo in inglese. Sarà una lettura dura quanto la sella della bici di ieri. Alla fine passo la mattinata a dormicchiare all’ombra di un pinetto a forma di tamerice. Il pomeriggio rientro abbastanza presto in camera. Mi dedico un pò alle public relation via internet, mi butto a letto cullato da David Gilmour. Non dalla sua musica, proprio da lui in persona. Esco presto per un aperitivo sul lungomare in orario tramonto. Poesia pura. Entro per pagare e scovo uno scaffale con dei libri. Mi fiondo alla ricerca di qualcosa in italiano, trovo Zafon. Propongo al locandiere uno scambio alla pari col mio libro. Lui mi fa di prenderlo e basta. Fantastico. Torno al ristorantino della prima sera, quello solitario, lounge e non cagato da nessuno. Ritrovo la cameriera carinissima, lavora scalza, occhi da cerbiatta, gambe da cerbiatta, andatura da cerbiatta, capelli da cerbiatta, pollice opponibile da cerbiatta. Scambiamo due chiacchiere, flirtiamo un pò o almeno cosi mi pare. Le chiedo di suggerirmi un piatto per la cena, lei ricorda quello che ho preso due sere fa. Mi consiglia insalatona di cozze. Con quegli occhioni dolcissimi mi potrebbe suggerire una minestra di benzina. Calda. E la consumerei con massimo gusto, la minestra. Durante la cena flirtiamo ancora un pò, le chiedo un localino dove possa trovare dei buoni cocktail, la invito a berne uno insieme quando finisce di lavorare, risponde che lei, non esce. Maledizione, l’unica vent’enne morigerata dell’isola l’ho beccata io. Nemmeno Masini con le sue ragazze serie (questa citazione è per pochi). Le dico che la aspetterò lo stesso, sorride, probabilmente compiaciuta per aver sedotto l’ennesimo pollo. Pago, la saluto. Trovo il locale suggeritomi: il Damarte. Accanto alla piazzetta principale, giusto 20 metri, ma sufficienti per tenersi a distanza di sicurezza dal brulicante viavai di gente. Chiuso. Un biglietto handmade comunica: “siamo senza elettricità, riapriamo per la 1 con tante candele”. E dov’è il problema? Mi accomodo su uno dei tavolini nel vicolo semideserto e buio, comincio scrivere. Attendo la mia bella cerbiatta greca.

Minuto dopo minuto un vago iniziale timore prende corpo nella mia mente. Un tragico bidone è in agguato e il mio debole cuore in pericolo. Qualche minuto prima della una si avvicina la proprietaria del locale. Neanche il tempo di aprire la porta e le chiedo un mojito. D’accordo il bidone ma almeno questo cocktail me lo voglio prendere. Il drink è ottimo. Non ho sacrificato il mio cuore per nulla. Passano ancora una cerbiattata di minuti e decido di entrare a pagare. Ormai il bidone è certo. Attacco bottone con la proprietaria, italiana, simpatica e brillante. Mezza barman, mezza imprenditrice, mezza designer, mezza scultrice, mezza architetto e mezza emigrante. Praticamente sommando tutte le sue metà, vengono fuori tre o quattro persone distinte. Le spiego il motivo delle copiose lacrime sul mio volto. Dopo avermi confermato che la cerbiatta, di nome Efelia (stupendo), non è esattamente una viveur e che si concede un’uscita giusto per capodanno, più che altro se bisestile, concordiamo di fare serata insieme. Francesca gestisce da sei anni quel locale ed ovviamente conosce tutti gli altri locandieri. Un paio si presentano alla porta, i titolari, italiani, del locale in cui ho cenato. Chiedo informazioni e confermano che oggi, la cerbiatta, ha lavorato fino a tardi. E così sia.

Mi faccio scortare come una docile pecorella tra shortini, cocktail e locali vari. Roba da giovani. Tengo duro. Chiacchiero amabilmente con il proprietario sessant’enne greco di un altro locale, manco fossimo amici di una vita. Poteri dell’alcool. Finiamo, io e Francesca, ottima compagna di serata, alla discoteca “la luna”. Entrata free grazie alle sue altolocate conoscenze. La scena che si propone ai miei stanchi occhi è un locale unico mezzo scoperto, con impianti ridicoli e marmaglia giovane, sudata e presa bene. La musica che sento è un misto di disco anni 2000, queen, rockets e decine di altri pezzi assolutamente incompatibili con tutto lì dentro. I giovani avventori pare non colgano l’incoerenza della proposta musicale. Io mi sento fuori luogo come D’Alema in un qualunque posto di lavoro. Perdo di vista la mia Caronte. Sono completamente in balìa di me stesso, accerchiato da teenagers. Faccio due giri della sala in cerca della mia compare di serata. Ne approfitto per schifarmi ulteriormente. Prendo la via dell’uscita accompagnato dai primi lumi del giorno. Resto convinto che l’essere umano non sia concepito nè per star sveglio la notte, nè per andare in bicicletta. Mi dirigo con ampie falcate al primo paninaro sulla strada. Mi nutro in modo primordiale al bordo della stradina, vergognandomi con me stesso per il poco rispetto che ultimamente porto al mio fisico. Attendo il passaggio di Francesca, prima o poi dovrà pure ripassare da lì. Vorrei salutarla. Eccola, in versione zombie, attraggo la sua attenzione con qualche patatina fritta sventolata sottovento. Lei abbocca e pare addirittura riconoscermi. Valutiamo seriamente pro e contro dell’andare a dormire. Non ci sembra qualcosa di così insensato. La riaccompagno al suo locale, roba di cinquanta metri, la ringrazio di tutto, le dico che tra poche ore riparto, le nostre labbra si sfiorano. Addio Francesca.

Trascino tra mille patimenti il mio corpo straziato dalla nottata in bianco verso la mia camera. Dormo qualcosa come tre ore scarse. Mi sveglio tra dolori mentali e non. La lucidità non farà parte di questa giornata. Con la sola forza dei nervi riesco a svenire sul traghetto e sul pullman giusto. Rotolo giù al capolinea, Noussa. Striscio come un verme tra le belle viuzze del centro. Questa accogliente cittadina meriterebbe una versione di me un pò meno trasandata. Trovo un alloggio dalla solita dolce vecchietta che mi pare esattamente la stessa delle altre volte. Deambulo fino al letto. Saranno le 17, dormo fino al mattino seguente.

L’alba mi trova sveglio ad attenderla e con le più serie intenzioni. Mi riaddormento duro. Alle nove e quaranta raccolgo le idee ed esco. Direzione spiaggia di Monastiri e relativa penisola adiacente. Ovviamente a piedi. La passeggiata di 6\7 kilometri è qualcosa di davvero insulso: strada asfaltata, terreni incolti e baracche. Prima tappa dignitosa: spiaggia di Kolombares. Questo posto in compenso è davvero figo. Tre o quattro stanzette col pavimento di sabbia sono separate da pareti rocciose alte un paio di metri. Praticamente spiaggette privè. Con alle spalle relativo baretto, buona musica soft, sdraio e ombrelloni. Tra le spiagge più particolari ed invitanti che abbia visto in vita mia. Tiro dritto. Un’ altra ventina di minuti e sono a Monastiri. La spiaggetta è carina, baretto ristorante annesso, previsione di un sacco di gente. Saluto cortesemente e proseguo per l’esplorazione di tutta la penisola adiacente. Sentieri davvero suggestivi, assolutamente ben segnalati e alla portata di chiunque. Gente incontrata: zero. Il mormorio che giunge dalla spiaggia di Monastiri è invitante quanto una puntura di vespa nelle parti intime. Mi intrufolo in una specie di sasso scavato dal vento sul cucuzzolo di una montagnetta e tiro fuori il libro del giorno. Faccio visita un paio di volte al baretto per mangiare un’insalatona, come sempre ben fatta, e fare il pieno di birra. Per il ritorno a casa noto con acume che c’è un piccolo battellino che scarica e carica gente, chiedo informazioni alla cameriera, fà la spola con Naussa. Le chiedo dove si prendano i biglietti, lei mi sussurra furtiva di salire e fare finta di niente, in genere non lo chiedono. Mi imbarco, “ticket please”.

La serata va via senza niente da segnalare: ristorantino, giretto, qualche drink sul mare. Rientro a casa e mi preparo per la giornata seguente. La temutissima spiaggia dei giovani “santa maria”. Parto sempre a piedi non aspettandomi niente di piu e niente di meno del giorno prima. Sbaglio di grosso perchè oltre alla solita triste strada asfaltata circondata dal nulla, trovo anche un bell’inceneritore, centrale elettrica o simile, dolcemente affacciato sul mare. Neppure la reputazione di Santa Maria mi sorprende, musica a palla, palle, palline, sdraio e solita marmaglia. Solito copione, la gente va in una direzione, io dall’altra. Spiaggia di Lageri, poco distante, parzialmente naturista e quindi si spera, vivibile per un orso come me. Responso dopo tutta la giornata a oziare sotto un albero in compagnia di Faletti “io uccido…”: ottimo. Per di più essendo rivolta ad ovest, il tramonto è una gioia per gli occhi invece che passare inosservato. Si son fatte le 19 passate. Raccatto le mie solite quattro cianfrusaglie e mi dirigo alla stazione dei bus di fronte a Santa Maria: non ho nessuna voglia di tornare a casa a piedi. Noto una calma sospetta. Guardo l’ora, 19.45. Guardo l’orario sul palo: ultima corsa 19.30. Merda. Con le pive nel sacco mi incammino verso Naussa, triste e mogio come un interista qualunque. Colpo di scena. Accanto a me si ferma un fuoristrada, scende una donna giovane, butta un sacchetto nel bidone dell’immondizia e recupera me. Che dopo aver sfoderato gli occhi più lagnosi possibile la convinco della mia affidabilità come autostoppista. Mi scarrozza comodo comodo in centro.

La serata parte bene, è l’ultima del viaggio e me la voglio godere come si deve. Dedico la massima cura nella selezione del ristorante dove sbragare per l’ultima volta qui a Paros. Dopo svariati chilometri distribuiti a casaccio tra le viuzze tutte uguali, decido per una taverna tipica, con musica tradizionale dal vivo. Mi avvicino con circospezione alla matrona. A table for one please. Le indico un tavolino appartato non troppo vicino al musicista solista. Mi fa segno che posso sedermi anche in braccio a lui per quanto gliene frega. Andiamo bene. Tempo di attesa per tovaglietta di carta e posate: 16 minuti. Clienti una ventina al massimo, camerieri quattro. Attendo con trepidazione il menù, temo a più riprese che si siano dimenticati di me nonostante mi guardino tutti in faccia ogni volta che passano. Ogni santa volta. Finalmente il ragazzotto, più sudato di Lino Banfi in Scuola di ladri travestito da manichino, mi porge il sospirato foglio. 24 minuti. A 24 minuti e un decimo di secondo arriva l’altra astuta cameriera e pretende l’ordinazione. Pretende. Simulando una congiuntivite temporanea prendo tempo. Lei evidentemente si irrita in quanto attendo altri dieci minuti buoni il suo ritorno. Nel frattempo si degna di cagarmi la matrona di prima. Mi fissa, si avvicina, mi punta il dito con fare minaccioso e tuona: “you are patient!” con estrema soddisfazione. Evidentemente in imbarazzo mostro la mia migliore faccia di circostanza, come se non mi fregasse nulla mentre invece vorrei prendere a schiaffi tutti lì dentro. Dopo una quarantina scarsa di minuti riesco ad ordinare, sofferente ed affamato: calamari stufati e fritti, patate e mezzo di bianco.

Voglio ora aprire una parentesi sulla musica tradizionale greca che mi ha fatto compagnia fin qui al ristorante. Non è che il musicista-cantante fosse un incapace, anzi, sapeva il suo mestiere. Il fatto è che da uno strumento come quello, una specie di chitarrina dal suono metallico e petulante, non può uscire nulla di buono. Nemmeno se a suonarla scendesse Jimi Hendrix dal cielo. Il suono di quello strumento fa ca**re, non è una mia opinione soggettiva, è così davvero. E la parte vocale che in genere, se siete davvero sfortunati, si accompagna è una lagna che farebbe venire il mal di pancia anche ad un sasso. Sarà che non sono particolarmente sensibile alle sonorità orientaleggianti ma la sofferenza che ho patito durante tutta la cena è stata indicibile. Da sottolineare poi che quello strumento, un quattro corde doppie, ha la capacità meravigliosa di scordarsi ogni tre minuti di utilizzo. Vuol dire che mentre suoni ti accorgi che piano piano diventa tutto stonato. Roba da matti. Poi per forza il tipo è costretto a coprire quella sofferenza acustica con i vocalizzi da gatto malato tipica dei muezzin. Da evitare come la peste. Provare per credere.

Quando ormai, stremato fino alla base dell’ipotalamo dal virtuosismo del menestrello, temo il peggio per la mia incolumità psicofisica, si precipitano in mezzo al locale una mezza dozzina di giovani ragazze che iniziano a ballare insieme alla matrona per la più sentita commozione di tutti quanti. Nel mio sguardo non c’è traccia di commozione, contemplo perlopiù i vari culi. Preso bene dalla novità della situazione, tempo di finire il bianco, la più carina della comitiva, alta, bionda, occhi azzurri, bella tutta, mi chiede “don’t you dance?”. Replico con la faccia di merda più credibile possibile: “absolutely, im here for dancing this music!”. E mi aggrego alla comitiva, che di lucido, ormai, ha solamente la crapa di Lino Banfi. Il menestrello, che stava un filo perdendo di patos, viene risvegliato dalla carica di adrenalina delle grandi platee e séguita a macinare assoli su assoli. In un trionfo di petulanza. Io tasto un pò la situazione con la biondina mentre Lino Banfi non riesce a credere a quanta figa c’ha attorno. Intanto si dimena e suda come se non ci fosse un domani, abile dongiovanni.

Mekensie è il nome, piuttosto singolare a dire il vero, della biondina. Fa parte di un gruppo di ventenni americani, circa una quarantina, che viaggia organizzato insieme tra la grecia, l’italia e chissà cosa ancora. Nessuno tra di loro si conosceva prima di partire, roba da americani, molto interessante comunque. Mi unisco volentieri alla combriccola di donzelle e tra mojiti, balli, strusciamenti e casti baci da adolescenti, si fanno le quattro. Tra me e Mekensie c’è feeling, è indubbio, ma è arrivato il momento di lasciarci. Ci scambiamo i numeri, l’ultimo bacio e bye bye. L’indomani, ironia della sorte, partiremo entrambi, io per Milano alle 22, lei per Roma alle 20. Ora sono svaccato per terra come un barbone in aeroporto ad Atene, sto scrivendo queste ultime righe. Mi ronza in testa qualcosa, musica da menestrello, forse, già mi manca un pò.



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