il treno della foresta e l’avenue du baobab

MADAGASCAR 2000 Morondava-Madagascar 11 Agosto 2000 L'emozione più forte di questo viaggio, l'abbiamo attraversata Venerdì, l'undici Agosto. Dal Renala, splendido complesso di bungalows con gli occhi rivolti al mare, ci siamo fatti portare da Patrick all'Avenue du Baobab, che ha la grande magia di far sfuggire a qualunque foto il proprio...
Scritto da: diego dondarini
il treno della foresta e l'avenue du baobab
Viaggiatori: in coppia
MADAGASCAR 2000 Morondava-Madagascar 11 Agosto 2000 L’emozione più forte di questo viaggio, l’abbiamo attraversata Venerdì, l’undici Agosto. Dal Renala, splendido complesso di bungalows con gli occhi rivolti al mare, ci siamo fatti portare da Patrick all’Avenue du Baobab, che ha la grande magia di far sfuggire a qualunque foto il proprio canto silenzioso, che ti soffoca il respiro fino allo stomaco, e ti sconvolge il cuore, fino a farti dubitare della grandezza e della bellezza di ogni altro posto visto e vissuto in questo mondo, fatto di terra e di vita. Si attraversa tutto il villaggio, e dopo una decina di chilometri di una strada asfaltata a groviera, rialzata per sfuggire alle alte maree della luna piena che tutto allagano, si devia a sinistra, imboccando una pista di polvere rossa che mette a dura prova qualunque fuoristrada. Prima, sulla strada, ci siamo fermati un attimo ad ammirare il Sacro Baobab, solitario e millenario; il più grande, il più grosso, protetto da una fittissima vegetazione di arbusti che lo nasconde quasi fino alla sommità. E’ proprio un luogo sacro, meta di pellegrinaggi e di fady. E’ stupefacente. Lo ammiriamo in religioso silenzio. Lungo la pista, iniziamo a scorgere qualche esemplare solitario che si erge dalla bassa vegetazione della campagna intorno. Sono come statue, opere d’arte marmoree, in cui la natura si è sbizzarrita, esprimendo tutto il suo talento donato in virtù ai più grandi scultori antichi. Eccone uno doppio; dalla stessa base hanno vita due gemelli siamesi di baobab. E’ l’unico che vedremo così. E’ una pista attraversata in continuazione da carretti malmessi trainati da zebù, da poveri bimbi a caccia di un gioco, di gente scalza armata di lancia, che si avvia verso gli acquitrini all’ora del tramonto, quando grossi pesci si fermano e diventano facili prede. Anche questa pista è un ponte nel tempo, che ci getta nel ventre della vita tribale immobile da centinaia di anni. Ma eccoci alla plurifotografata Avenue du Baobab! Non esistono ne parole ne disegni per descrivere la sensazione di impotenza, stupore e fascino che si prova davanti ad uno spettacolo unico, sicuramente in Madagascar, ma che ha pochi eguali al mondo! E’ un colonnato di questi enormi alberi, che costeggia la pista su entrambi i lati, seguendone le curve; sembra che qualcuno, lassù, si sia sbizzarrito, ed abbia voluto dare una lezione di grandezza, potenza e solennità a questi esseri piccini che si arrabattano per costruire monumenti e forgiare statue. Sono a decine, alti almeno dieci metri; hanno fusti larghi metri, che sembrano di pietra, diritti e uniformi fino alla cima, da dove partono, disordinati e spogli, decine di rami aggrovigliati, che si fermano per incanto tutti alla stessa altezza, sviluppando la chioma in larghezza, quasi che ci fosse una grande mano che ne ferma la corsa verso il cielo. Veri monumenti naturali. Sembrano piantati a rovescio, le chiome sembrano radici, radici al cielo, per cibarsi di luna e di sole. Ci fermiamo in quel punto, dopo aver scambiato qualche parola con un fotografo professionista inglese, eccitato al massimo, come noi, davanti a quello che definisce l’angolo più bello del Madagascar, e , da come lo dice, sembra che conosca molto bene l’isola. Aspettiamo il tramonto, per farci sorprendere dalle ombre rosso-arancio che macchiano l’orizzonte quando il sole ne cade aldilà. Intorno un acquitrino, dove le rane, all’improvviso e all’unisono, iniziano a cantare. Altissime, e all’improvviso il silenzio. Di nuovo. Ci deve essere un direttore d’orchestra che dirige questa musica, messa lì apposta, sotto questi Baobab, un attimo prima del tramonto, per tramortire chiunque abbia animo e orecchie per raccogliere tutto questo. Dei bambini giocano in mezzo ad una mandria di zebù al pascolo. Il padre ha le gambe affondate nell’acquitrino, immobile; la punta della lancia pronta per il colpo al pelo dell’acqua. Rimarrà così almeno venti minuti, mezz’ora, prima di sferrare e colpire un grosso pesce, che sembra un incrocio fra un’anguilla e un siluro, lungo almeno mezzo metro. Noi siamo lì, a cogliere questo momento. Le ombre dei Baobab si allungano a vista d’occhio, il sole inizia velocemente a cambiarsi il colore. Quando è rosso vivo, l’attimo sfiora la solennità e supera il concetto di magia per l’ora del tramonto. I Baobab, così immobili e maestosi, sembrano cullarsi di vanità, mentre noi, occhi al cielo e bocca aperta, rimaniamo di sasso, ebbri di emozione. E che spettacolo la pista al ritorno, quando la luce arancione all’orizzonte, sembra non volersi arrendere al buio della notte che scende. Ormai in lontananza, si stagliano immobili le sagome scure dei Baobab, ancor più belli con quel fondale. MADAGASCAR: IL TRENO DELLA FORESTA 5 agosto 2000 Cinque Agosto duemila, Sabato, sono le cinque e un quarto del pomeriggio. Siamo in un bungalow a Manakara, a dieci passi da un Oceano Indiano che balla, balançando con le sue alte onde. Il nostro diario di questo viaggio stenta a tenere il passo delle emozioni che stiamo attraversando; è molto più veloce il punteruolo che ce le imprime nel cuore della penna che ho fra le dita. Ma quello che ci è successo ieri dalle sei e mezza del pomeriggio non può aspettare, va descritto ora, con gli occhi ancora umidi.

Avevamo previsto per Sabato cinque Agosto un viaggio in treno fra Fianaratsoa e Manakara. Ma non un viaggio in treno, “il”viaggio del treno più leggendario della grande Isola Rossa! E’ un treno vecchissimo, malmesso,a nafta, che taglia di netto una meravigliosa e incontaminata foresta pluviale (a parte qualche macchia incenerita dal fuoco appiccato dai Malgasci tribali per strappare alla foresta terra da coltivare), unico mezzo per raggiungere i villaggi della tribù dei Tanala; ne strade ne piste per arrivare a questi villaggi dimenticati dal tempo che passa. Non un trasferimento turistico ma una delle due uniche fonti di vita per questa meravigliosa gente; l’altra è il fiume, dove c’è acqua che scorre c’è vita che ne segue il corso. Questo treno doveva partire Sabato cinque Agosto alle sette del mattino da Fianaratsoa e arrivare a Manakara alle tre e mezza del pomeriggio; otto ore circa per centosessantatre chilometri. Ma la guida di Annese avvisava di un treno quantomai approssimativo per partenza e orario; unica cosa certa il tragitto. Di ritorno da Ambalavao (per una visita alla cartiera Antaimoro e per un tuffo nella vita del villaggio normalmente snobbato dalle colonne di jeep turistiche che passano di qua) passiamo per la stazione di Fianar per accertarci dell’orario del treno; veniamo a sapere che il convoglio partirà in serata, invece che la mattina successiva. Ma non si sa a che ora. Siamo colti alla sprovvista. Di corsa a liberare la camera dell’Hotel. Mandiamo John (l’autista che ci ha accompagnato per tutto l’altopiano da Tanà a qui) in stazione con una parte del bagaglio per prendere i posti, perchè il convoglio è formato da una unica carrozza passeggeri e la stazione è già stipata di gente, perlopiù donne, di borse, sacchi e sacchetti, di galline legate alle zampe dal becco rassegnato, di secchi di uova, di giovani scalzi e malmessi e signore che si stringono i figli sotto ampie coperte, tutti con il viso segnato da una profonda pazienza e serenità. Sarà un assalto per accaparrarsi i pochi posti a sedere. Di lì a poco anche noi ci rechiamo in stazione perchè non ci fidiamo troppo di John, che in questi tre giorni di trasferimento non si è dimostrato un mostro di arguzia e sveltezza. Lo spettacolo è incredibile! Quanto siamo lontani dalle rotte turistiche, dai “pacchetti”, dalle Agenzie; questo è vero Madagascar, è vita vera che rotola davanti ai nostri occhi, sulla pelle ruvida di emozione. Tutti i muri della stazione, sia all’interno che all’esterno, sono coperti di gente e di roba impacchettata: Facciamo un salto di fronte da Chez Papillon a comprare tre panini per la cena. Il buio già impera da qualche ora, l’aria fredda sta iniziando ad arrotare la pelle del viso. Un doppio fanale centrale rompe il buio e precede di un attimo il frastuono della enorme locomotiva che si trascina fra mille scoppi e cigolii, coprendo in un attimo la musica reggae diffusa dalle gracchianti trombe della stazione. E’ un improvviso e caotico assalto alle porte ancora chiuse della carrozza in movimento. Mi precipito anch’io zaino in spalla e riusciamo ad occupare un sedile di sinistra. Mandiamo John a fare i biglietti, mentre la carrozza inizia velocemente a stiparsi. C’è gente dappertutto, un tappeto umano srotolato a coprire ogni centimetro. Tutti, a parte noi unici Vazaha sul convoglio, rientrano in uno dei diciassette piccoli villaggi nei quali ci fermeremo; villaggi di palafitte per sconfiggere l’eterno umido della terra. Sembrerà di fermarsi in ogni capanna. Il buio nel quale partiamo ci nega lo spettacolo della foresta, soprattutto delle cascate che si incontrano appena lasciata Fianaratsoa, ma,ignari, avremo molto tempo per goderne. Siamo stipati come sardine, sembra un convoglio di deportati visto in un film in bianco e nero dal sonoro incerto. Lo spazio a disposizione di ognuno è molto meno del minimo spazio vitale. Il finestrino è bloccato a metà, e, ogni tanto, uno spruzzo ci inumidisce; il treno sbatte contro la fitta vegetazione e volano dentro profumati pezzi di foglie e gocce di rugiada. Non si riesce proprio a distendere le gambe. I sedili spartani anche se ricoperti, offrono un minimo di “comodità”. Ogni tanto riusciamo a chiudere occhio ma è un continuo susseguirsi di sobbalzi, di brusche frenate, di fermate nel buio più nero. Si sente qualche bimbo piangere, solo i più piccoli, perchè già a tre o quattro anni se ne stanno religiosamente immobili per ore a fissarci con i loro profondissimi sguardi. Le donne conversano, e in questa selva maleodorante di gambe e di braccia passa perfino il controllore avvolto nel suo pastrano peruviano. Sedute di fronte a noi tre donne che scenderanno a metà percorso, diventano il nostro orologio di riferimento, il momento in cui capovolgere la clessidra. Ma le ore passano, e le rumorose signore non scendono mai. Ancora lunghissime soste, retromarce accompagnate da fortissimi scoppi e rumori tremendi. E’ un miracolo che questo catorcio riesca a domare le infinite curve di questo percorso e riesca a passare indenne le decine di gallerie, annunciate nella notte dal rumore del treno che diventa improvvisamente assordante e rimbalza dentro la carrozza. Sembra che non scenda mai nessuno anche se non è così. E’ un continuo spandersi di corpi negli spazi che lentamente si allargano. E’ quasi l’alba. Con le prime timide luci, iniziamo ad intravedere eccitati quello che scorre fuori, ad un metro da noi. Una foresta incredibile! Verde ricca enorme. Noci di cocco a decine appese a palme monumentali, arbusti di ogni tipo alti come alberi, felci gigantesche, piante di banane con enormi caschi, veri grappoli e fiori, dappertutto e di tutti i colori. Spuntano qua e la, come piccoli puntini neri, i Tanala, seminudi, con le loro piroghe, le lance per cacciare, le donne con i bimbi fasciati sulla schiena, che salutano il treno, tutti ad ammirare la locomotiva, unico frastuono che rompe il silenzio immobile della foresta. C’è una fitta ma impalpabile pioggerella sospesa nell’aria che rende la luce del sole pallida e a goccioline. Arriviamo a Mamanpatrana alle sei passate! Otto ore di viaggio e siamo a metà percorso. Questo è uno dei villaggi più grandi che attraversiamo e molta gente scende; le signore di fronte ci danno anche la mano per salutarci. E’ incredibile come siano tutti calmi e tranquilli durante le lunghe, interminabili e inspiegabili soste, quasi fosse un rituale a cui partecipare in ossequioso silenzio, un atto dovuto al mostro di ferro che porta la vita. Al nostro arrivo questo villaggio ha un sussulto di vita, si anima all’improvviso. Sbucano da ogni anfratto bambini che portano vassoi pieni di banane, di croissant, di frittelle sospette e di caffè. Corrono festanti lungo le rotaie quando ancora il treno è in movimento, affondando i piedi nudi nel fango rosso, sfidando questa fredda alba con i loro stracci a groviera. Ma dove siamo, in quale tempo; siamo increduli, ci guardiamo negli occhi e a stento respingiamo nello stomaco rospi di commossa emozione. Appena fermi salgono sul treno questi bimbi chiassosi dal sorriso puro come l’aria che si respira. E’ una sosta lunghissima, almeno un paio d’ore per ripartire, fra tentativi di riprendere la marcia e retro utili per prendere la rincorsa e risalire le rotaie bagnate e scivolose. Ce la facciamo anche questa volta a riprendere il cammino. Sbucando dalla fitta vegetazione, si aprono sotto di noi all’improvviso enormi vallate verdi attraversate da corsi d’acqua, acquitrini, interrotte da spicchi di terra coltivati a risaie. E fiori e banane e verde, anzi verdi, disordinati, selvaggi e infiniti. C’è un tipo seduto vicino a noi con una mimetica militare, stivaletti alti con le stringhe, viso magrissimo, spigoloso, occhi affossati. Sulla giacca la targhetta “Gendarmerie”. Chiedendoci se è la prima volta che prendiamo quel treno gli scappa un sorriso fra il sarcastico e il divertito. Lui sa cosa ci aspetta, e tenta inutilmente di nascondere quel sorriso a labbra strette. Prima del villaggio successivo riusciamo anche a perdere il vagone merci che chiude il convoglio,che si stacca all’improvviso fra il divertimento generale! Che forza questi Tanala! Tutti giù con un salto per dare una spinta e riavvicinare i respingenti delle carrozze divise. Arriviamo così a Sashasinaka. Questa sì che sarà una sosta infinita. Sono le nove e non ripartiremo prima delle tre del pomeriggio. Ed è un susseguirsi di scoperte, di giochi con questi meravigliosi bambini, dagli sguardi pieni di fascino che ci toccano profondamente. Sembra che tutto il villaggio sia radunato immobile e fermo intorno al treno come una cornicetta di rafia, e ci rendiamo conto che tutti i Tanala di questa foresta scandiscono il ritmo della loro vita al passaggio di questo treno. C’è un gruppo raccolto intorno alla locomotiva che armeggia. Un ragazzo, salito in uno dei villaggi, ci dice che stanno facendo una riparazione, e che prima di un’oretta non si ripartirà. Scendo a vedere cosa succede. Stanno ritagliando un foglio di carta sul quale hanno disegnato la sagoma di una guarnizione. Non credo ai miei occhi. Hanno smontato la testa di un cilindro e stanno montando una guarnizione di carta! Due meccanici in tuta blu sono unti di oliomotore dalla testa ai piedi. Si intravedono, nel vano motore, riparazioni fatte con stracci e “raccordi” di spago! E’ incredibile che cammini in queste condizioni. Quello che sembra una sorta di Capo-treno, sia dall’atteggiamento che dall’abbigliamento ordinato e dal portamento importante e dalla voce più alta di tutti, assillato dalle mie domande sulla situazione del guasto, formula solo due parole di risposta: ”forse” e “non si sa”, rafforzate da un tono sicuro tipico di chi sa che comunque risolveranno il problema. Il sole inizia ad asciugare l’aria ed i corpi. Anche Anna, la mia dolcissima compagna di vita e di viaggi, scende dal treno accerchiata ed assalita da un nugolo di bambini conquistati con un sorriso e con una parola di saluto. E’ raro per questa tribù vedere dei vazaha; ci guardano incuriositi e divertiti, prodighi di sorrisi scintillanti. Dei panini del Papillon rimangono solo sacchettini e briciole. Compriamo da un bimbo dei croissant impastati con farina di banane: sono buonissimi, così come le dolcissime banane raccolte in piccoli caschi con cime di rafia con cura certosina. Il bimbo, arrossito per una tenera carezza dell’Anna, viene schernito rumorosamente dagli amici, che accompagnano ampi gesti di chi ride a crepapelle a sonore risate miste a incomprensibili parole. Offriamo qualche banana ai nostri occasionali compagni di convoglio che accettano tutti ridendo e compiacendosi delle nostre attenzioni per loro. Nella lunga sosta ogni nostro spontaneo gesto diventa un tormentone divertito per i bimbi che non ci perdono di vista neanche per un attimo. E le ore passano. Continuiamo a sfilarci maglie. A mezzogiorno iniziamo a preoccuparci, anche perché, i due fuochisti, preparata e sistemata la guarnizione, sono alle prese con un grosso bullone che sembra abbia perso il filo e non ne voglia sapere di avvitarsi. Le risposte del Capotreno non mutano, immobili come questo sgangherato treno. Lo sforzo dei due meccanici è seguito da un folto gruppo di uomini che stanno seduti all’ombra di una enorme chioma d’albero. I pistoni hanno un sussulto improvviso, il treno si muove all’indietro per un centinaio di metri e poi nuovamente il silenzio. Nella carrozza la gente continua scendere e a risalire, mangiando banane e sorseggiando calde brodaglie di verdure con rudimentali cucchiai di legno. I bimbi instancabili continuano il loro spettacolo di gioco, disputandosi animatamente la nostra attenzione. Noi pensiamo che domattina alle nove abbiamo un volo prenotato che ci deve riportare a Tanà. A Manakara dobbiamo trovare una sistemazione per la notte perché siamo all’avventura. Le facce dei passeggeri sono tranquille, distese, pazientemente sorridenti. Mi accorgo che sono il solo ad accennare impazienza, ma me ne accorgo appena in tempo. Tanto non serve a niente. Meglio stare tranquilli ed attendere godendosi questo irripetibile tuffo. Sembra che tutto quello che sta succedendo sia normale. Due fischi lunghi, liberatori e festosi e il controllore che ritorna al suo posto seduto sulla cassetta di legno portavalori, annunciano la partenza. Duecento metri e di nuovo stop! Retro,cambio di binario e via. Non riusciamo più a parlare Anna ed io, ci guardiamo spiandoci gli occhi pieni di lacrime e il mento piegato da una smorfia di commozione. Ci stringiamo forte le mani: abbiamo la sensazione che ci stiano strappando dalla nostra terra, dalla nostra casa. Le montagne della foresta si distendono, le macchie di risaie prendono il posto della boscaglia. Ci avviciniamo all’Oceano Indiano. Siamo in piedi sulla pensilina aperta della carrozza sporgendoci all’infuori. La luce del sole, accecante, gonfia e lucida i colori tutt’intorno. E’ un balletto di valli, regalo del più bel Madagascar che si possa immaginare. Ammiriamo, vento in faccia la locomotiva che ribolle finalmente libera, che fischia allegra all’imbocco di ogni galleria. Gli arbusti più alti ci frustano le gambe e le braccia, e un profondo senso di appartenenza ci assale prepotente; ci sentiamo parte di loro, anche noi Tanala, come se l’attraversamento notturno della foresta sia una iniziazione. Quando il treno taglia in due la pista dell’aeroporto della città, capiamo che siamo alle porte di Manakara, un grande villaggio architettonicamente molto disordinato e sparso, animato da centinaia di pousse-pousse, i risciò Malgasci, segno tangibile del passaggio orientale sulla Grande Isola Rossa. Appena scendiamo il Capotreno mi viene incontro a grandi falcate, sicure e orgogliose, testa alta, e con un grande saluto ci sorride soddisfatto e vincente! Dopo tanti “forse” il suo sguardo si libera verso di me, viaggiatore sfiduciato, con,appunto, un grande senso di vittoria. ”Arrivederci”…Beh lo spero proprio, nel più profondo del cuore. Sono le tre e trequarti, diciotto ore che valgono mille viaggi. Anna de Vecchis e Diego Dondarini,Bologna. annaediego@libero.It



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