La Route 7: da Tana ad Anakao

Qualche considerazione di carattere generale sul tipo di viaggio e sul Madagascar. Il nostro viaggio è stato organizzato interamente fai-da-te, formula che noi prediligiamo grandemente perché ci da modo di iniziare il viaggio molto prima della partenza fisica, permette di essere molto più consapevoli di ciò che si sta per affrontare, è più...
Scritto da: Matteo Ornella
la route 7: da tana ad anakao
Partenza il: 18/08/2007
Ritorno il: 01/09/2007
Viaggiatori: in coppia
Qualche considerazione di carattere generale sul tipo di viaggio e sul Madagascar.

Il nostro viaggio è stato organizzato interamente fai-da-te, formula che noi prediligiamo grandemente perché ci da modo di iniziare il viaggio molto prima della partenza fisica, permette di essere molto più consapevoli di ciò che si sta per affrontare, è più divertente, impegnativo e non per ultimo ci permette di risparmiare parecchi quattrini.

Per l’organizzazione del viaggio ci siamo basati principalmente sulla guida della L.P. (non facciamo pubblicità, ma sarà ben noto l’acronimo ai turisti fai-da-te) e su preziosissime informazioni reperite su blog in internet grazie a resoconti di viaggio di altri viaggiatori italiani e francesi. A posteriori devo dire che la guida L.P. Del Madagascar (edizione italiana del 2004) si è rivelata molto al di sotto delle aspettative: spesso dava indicazioni fuorvianti sugli alberghi, i prezzi erano completamente sballati (al ribasso, ahimè!), e imprecise e superficiali erano le indicazioni sulle attrattive dei luoghi. Durante il viaggio abbiamo incontrato altri turisti che hanno avuto la nostra stessa impressione, e che hanno confermato che la guida della R. Invece è risultata molto più utile (già le dimensioni del volume mostrano che vi si trova qualche informazione in più rispetto alla scarna concorrente). Spezzando una lancia a favore della L.P. Tuttavia, devo dire che abbiamo trovato turisti francesi che viaggiavano con una edizione della L.P. Diversa dalla nostra per volume e contenuti, e sbirciandola mi sono accorto che corrispondeva maggiormente alla realtà delle cose. Speriamo che la pubblichino anche in Italia quanto prima.

Il target del nostro viaggio credo che possa essere considerato di “fascia media”, ovvero abbiamo cercato di viaggiare il più possibile comodi, senza tuttavia navigare nel lusso, che in Madagascar si paga caro come dovunque, e forse anche qualcosa in più rispetto a quanto viene offerto… Infatti abbiamo appreso (cosa che le guide non dicono) che in Madagascar esistono 3 categorie di alloggio: gli alberghi gestiti da occidentali (di solito francesi) sono i più accoglienti: di solito sono abbastanza caratteristici, arredati con gusto, puliti, in decente stato di manutenzione, e cari ( da 30€ in su). Vi sono poi i numerosissimi alloggi gestiti da cinesi: questi presentano una soluzione di compromesso (talvolta la migliore disponibile sul posto) ma non potrei onestamente definirli accoglienti, dato che di solito il neon e le pareti scialbe la fanno da padroni, e i servizi sono al limite dell’accettabile; hanno di buono che sono veramente convenienti (in media 10-20 € a notte). Vi sono infine i locali gestiti da malgasci che solo visti da fuori mettono i brividi, quindi non ci siamo arrischiati ad entrarvi e ci siamo limitati a leggerne la descrizione sulla guida (a notte sono meno di 10€)… A proposito, il prezzo della stanza non comprende mai la colazione, che in Madagascar è alla francese, con baguette burro e marmellata; molto diffuse sono anche le macchine a cialde della Lavazza per la gioia degli espresso-dipendenti.

La nostra formula di viaggio prevedeva un tour dell’isola rossa dalla capitale fino a Tulear-Anakao, con una iniziale deviazione verso Andasibe, e un soggiorno al mare ad Anakao di 4 giorni. Facendo un tour del Madagascar in auto la quasi totalità dei turisti noleggia un’auto con autista: il guidatore è molto utile in quanto le indicazioni sono quasi inesistenti, e guidare in Madagdascar non è semplice: occorre avere mille occhi per evitare mandrie, dossi, buche, bambini, altri veicoli ecc. Osservare il panorama dal finestrino ci ha permesso di goderci di più i tragitti che non essere concentrati a superare qualche camion smarmittato. Inoltre l’autista può essere di grande di aiuto come interprete/mediatore, come guida turistica e nel carico e scarico dei bagagli, che è un rito quotidiano durante il tour.

Abbiamo conosciuto il nostro autista E. grazie alle raccomandazioni di un blog su internet. E’ una persona veramente stupenda e lo raccomandiamo caldamente: puntuale, onesto, persino protettivo nei confronti di noi ignari turisti, ma per nulla invadente, oltre ad essere un bravo e prudente guidatore. Sta inoltre studiando l’italiano, e ci ha aiutati in molte piccole situazioni. Il nostro mezzo era un mini-van coreano piuttosto comodo e solido, certamente non nuovo, ma tenuto molto bene. Tutte le auto in Madagascar sono molto ben curati dai proprietari, che le lavano quotidianamente. Di fatto possedere un veicolo è un privilegio, e un costo non indifferente, dato che il carburante costa solo poco meno che in Italia (il diesel è circa a 0.9€/L). La strada principale che attraversa il paese, la RN7 è stata completamente asfaltata di recente, ed è in ottime condizioni. Può essere assimilata ad una delle nostre strade provinciali. Va tenuto presente, nella pianificazione del percorso, che la velocità media su strada asfaltata è di 55-60 Km/h. Non deve spaventare l’idea di passare tante ore in macchina: infatti ritengo che i momenti più significativi del nostro viaggio siano state le numerose soste lungo il tragitto per ammirare i meravigliosi scenari offertici dal Madagascar, ogni volta animati da situazioni che andavano creandosi attorno a noi con legioni di bambini, paesani, animali ecc. Noi abbiamo viaggiato in due. Durante il nostro tour abbiamo visto ogni sorta di turisti: dai giovani saccoapelisti, alle famiglie francesi con bambini, a comitive di anziani tedeschi, ai Rambo italiani, che amando le emozioni forti avevano deciso di percorrere il Madagascar in carovana di enduro e 4×4. Ritengo quindi che quasi chiunque possa andare in vacanza in Madagascar, anche se va detto che il viaggio può risultare non facile e faticoso, e se non si è adulti e in piene forze si rischia di perdersi le attrattive migliori del paese.

Per quanto riguarda i malgasci, sono un popolo veramente eterogeneo, diviso in varie tribù che occupano le diverse regioni dell’isola. Possiamo dire che mediamente si tratta di un popolo molto mite, riservato e di grande dignità, soprattutto per quanto riguarda la gente degli altipiani, mentre le tribù del sud sono forse più rozze e selvatiche. Si tratta comunque di persone generalmente molto oneste che con noi hanno sempre mantenuto le proprie promesse, e ricambiato la fiducia che si poneva in loro. C’è da dire che tra le qualità che li caratterizzano non spiccano certo l’iniziativa, la velocità d’azione, e l’igiene: impera infatti la filosofia del motto nazionale “mora mora”, ovvero “piano piano”… La lingua franca è (appunto) il francese per via della lunga colonizzazione; l’inglese è parlato pochissimo, mentre si incontrano diversi personaggi che masticano un po’ di italiano, fondamentale per guadagnarsi un posto nel sempre crescente mercato turistico. Tutti i menù, i cartelli, le istruzioni, tutto quello che può capitare di dover leggere insomma è in francese. Chi non parla francese si perderà una bella fetta di esperienza e di possibilità in Madagascar.

Qualche consiglio pratico: La corrente in Madagascar è a 220V e le prese sono bipolari, come quelle dei carica-batterie dei nostri telefonini, quindi non serve nessun tipo di adattatore. Il problema è che spesso negli alberghi la corrente è disponibile solo in date ore del giorno… Ci siamo portati dall’Italia una piccola scorta di scatolame, gallette, biscotti secchi e nutelline (la cosiddetta “razione K”). La cosa si è rivelata molto utile in quanto ci è capitato di non avere tempo o modo di mangiare altro (ad esempio nelle gite nei parchi, o nei trasferimenti di primissima mattina) Sugli altipiani nel mese di agosto il clima assomiglia al nostro clima di montagna: di giorno col sole si sta bene in maglietta, se fa brutto meglio il pile e la sera una giacca risulta utile. Occhio che gli alberghi non hanno il riscaldamento!! Andando verso sud si scalda un po la temperatura, ma la sera rinfresca comunque e anche ad Anakao si stava bene con il pile.

Ad Andasibe e Ranomafana la foresta pluviale, come dice il nome, implica che non sempre splenda il sole… ad Anakao, dove il sole invece splende sempre, durante i trasferimenti in barca può capitare di trovare più mare sopra che sotto di sé, e inzupparsi in modo piuttosto consistente: la cosa migliore è portarsi un robusto K-way o una giacca impermeabile con cappuccio (L’ombrellino è risultato del tutto inutile, sia nella foresta che in barca…) Portatevi una torcia, con batterie cariche. Serve a Ranomafana se fate l’escursione serale e dovunque nei paesi per camminare non appena tramonta il sole, visto che di lampioni non ce ne sono molti… Per chi fotografa: ricordatevi che i lemuri stanno generalmente sugli alberi a 6-10m di altezza. Per riprenderli suggerisco di portarsi almeno un 300mm. Nella foresta sensibilità di 400ISO, altrove 100ISO vanno bene.

Una variegata farmacia di viaggio è fondamentale: noi siamo stati abbastanza bene per tutto il viaggio, anche se non sono certo mancati per entrambi il raffreddore e il mal di pancia (noto a chi frequenta l’Africa come “maledizione di Tutenkagot”), se pure in forma non grave o tale da modificare il corso del nostro viaggio.

Portate qualche regalo per i bambini: andrà bene della cancelleria, o delle caramelle (noi ne abbiamo distribuite 2 Kg!!!). Visto poi che lì la gente è veramente povera, suggeriamo di fare il viaggio con dei vestiti o delle calzature che poi potrete donare alla fine della vacanza: saranno molto graditi. Sconsigliamo vivamente di dare soldi ai bambini, per non fomentare una vile forma di accattonaggio da parte degli adulti che potrebbero sfruttarli allo scopo.

Diario di viaggio: Sabato 18 agosto. Partenza da brescia con il solito faticoso rituale di raggiungimento dell’aeroporto: sfacchinata a piedi da casa alla stazione ferroviaria con zainoni e valigioni appresso. Viaggio in carro bestiame fino a Milano, poi Malpensa-shuttle e finalmente arriviamo all’aeroporto già stanchi morti.

Il volo notturno con Air Madagascar è tranquillo. L’aereo non è proprio comodo, ma è puntuale. Il volo è diretto da Malpensa a Tana, con scalo di prima mattina a Nosy Be.

Domenica 19 agosto: una volta sbarcati all’aeroporto di Tana ritiriamo i bagagli che anche stavolta ci hanno raggiunto, e sbrighiamo le formalità burocratiche (visto x2 = 23euro). Una volta fuori dalla dogana troviamo il nostro E. con un cartello con i nostri nomi. E’ un signore di mezza età con espressione sveglia e mite, che ci risulta subito simpatico. Cambio 500euro al cambiavalute dell’aeroporto, che sembra essere il piùconveniente (1euro = 2410 Ar). Il taglio più grosso che distribuiscono è di 10000 Ar, circa 4 euro, quindi mi rifilano una mazzetta di banconote alta 20 cm…Presi dalla frettaiamo 5000 Ar di mancia al portabagagli, decisamente troppi per i loro standard.

Patiamo con il nostro minivan (sul quale troviamo Z. , l’aiutante d E. , un ragazzo di circa 20 anni serio e taciturno, del quale ascolteremo solo gli sguardi). La strada per Andasibe è in buone condizioni, tutta asfaltata, e con poco traffico (come il resto del paese). Riusciamo tuttavia a imbottigliarci nell’unico ingorgo della storia del Madagascar che si è creato nei pressi di Tana, perché proprio quel giorno c’è la cerimonia conclusiva delle Olimpiadi dell’Oceano Indiano… Il viaggio dura circa 3,5 ore, purtroppo diluito da una pioggia intermittente, che unita allo stordimento della nottata precedente non ci fa godere a pieno del paesaggio. Arriviamo ad Andasibe alle 3:00 di pomeriggio. Ci sistemiamo al Feony Ala nel bungalow che ci era stato riservato. L’hotel è senza dubbio pittoresco con tutte le casette indipendenti, ma è molto spartano (è della categoria “cinese” di cui sopra); c’è il bagno in camera nel vero senso della parola: è separato dal resto della stanza da una tenda e una paretina alta forse un metro (per chi ama la privacy…). Inoltre il tetto di frasche e le pareti di canne non sono l’ideale per riparare dal freddo umido che cala la notte. Il grosso vantaggio del Feony Ala è che è veramente attaccato all’ingresso del parco. Infatti dopo aver pranzato con la prima di quella che sarà una lunga serie di bistecche di Zebù (pranzo leggero x2: 12000 Ar), ci dirigiamo all’ingresso del parco dove paghiamo il visto( biglietti 2x 2giorni: 74000Ar) e reclutiamo la nostra guida A. , che parla un poco di Italiano e sembra il gemello del calciatore Ronaldo. Competenze linguistiche a parte, si è dimostrato un’ottima guida e una bravissima persona, e raccomandiamo di chiedere di lui all’ingresso del parco. Dato che ormai si è fatto pomeriggio inoltrato e gli animali del parco sono intenti a digerire quanto ingurgitato durante il giorno, ci accordiamo per andare a vedere una cascata nel parco maggiore, a 17 Km dal paese di Andasibe. A posteriori non ne valeva la pena: sarà stato perché pioveva, sarà stato per l’ora e un quarto di auto su strada fangosa per raggiungere l’inizio del sentiero, ma il posto non ci ha impressionato (soprattutto se paragonato a quanto avremmo visto poi…). Siamo però passati per il paese di Andasibe (insignificante e privo di strutture e attrattive) e davanti all’altra struttura del posto, che è il Vakona Forest Lodge, dove ahimè non abbiamo trovato posto (ho telefonato con 3 mesi di anticipo ed era già pieno!). Altri viaggiatori ci hanno detto meraviglie di quell’hotel, certo che per raggiungerlo la strada è veramente infame (più di 30 min di fango e tornanti da Andasibe). Dopo la nostra passeggiatina e un’altra ora e un quarto di sterrato, ritorniamo in albergo che già è buio (tramonta alle 6:00) e ci rilassiamo con una sana cena… a base di Zebù (cena x2:22000Ar). Lunedì 20 agosto: la sveglia è alle 6:30. Facciamo colazione a base di zebù (scherzo…) e paghiamo la stanza (48000 Ar in tutto), e ci prepariamo all’incontro con il mitico Indri, il lemure più grande della sua specie. A. ci aspetta all’ingresso del parco, per condurci attraverso il circuito rosso (circuito “Indri 2”). Dato che ogni tanto riprende a piovere, la mantellina impermeabile si rivela provvidenziale nella foresta bagnata (anche se poi si è talmente lacerata che ho dovuto buttarla). Il percorso si snoda su un sentiero battuto che attraversa la foresta primaria (ovvero mai tagliata dall’uomo), davvero stupenda. Peccato che i nostri amici lemuri non passino il loro tempo sul sentiero, bensì accoccolati sugli alberi all’interno della foresta, per cui ben presto ci siamo trovati ad addentrarci tra liane, agavi giganti e felci secolari ben lontani da ogni traccia battuta (e lì abbiamo capito a che cosa servisse la guida…). Durante il giro, che è durato circa 4 ore, abbiamo visto 3 famiglie di Indri che lanciano il loro lamentoso ululato da trombetta guasta, altri due tipi di lemure di cui non ricordo il nome, camaleonti, raganelle, sanguisughe, martin pescatori, e un’infinità di piante utili per curare ogni tipo di male che può affliggere l’uomo. Alla fine della mattinata eravamo davvero sazi di natura e di belle cose; mai avrei pensato di addentrarmi così nella foresta vergine, al di fuori di un percorso ben tracciato: è stato davvero avventuroso e di grande soddisfazione. A. ci ha chiesto 30000Ar per il servizio di guida, ma se li è talmente meritati che glie ne abbiamo dati 40000. Abbiamo pranzato al Feony Ala (pranzo x2 19000Ar) e siamo ripartiti alla volta di Tana, dando uno strappo a una coppia di ragazzi tedeschi la cui auto era rimasta in panne.

La strada del ritorno verso Tana è la medesima dell’andata, ma vista con il sole ci si presenta come uno scenario del tutto nuovo e grandioso. Ci siamo fermati diverse volte lungo il tragitto a fare fotografie, tra cui una memorabile in cui uno zebù impanicato da un camion che sopraggiungeva stava per travolgere noi appiedati e il nostro veicolo fermo al lato della strada… Verso le 18:00 arriviamo a Tana e ci sistemiamo al grazioso e labirintico Hotel Sakamanga (gestione francese, 71000Ar a notte). Dal di fuori non si nota nemmeno tanto è affossato tra gli altri edifici, ma all’interno si sviluppa in tortuosi corridoi e cortili ombrosi, mentre le camere sono piuttosto buie, ma arredate con gusto e arricchite con tante fotografie d’epoca e recenti. Il ristorante del Sakamanga è accogliente e ricorda molto il Foreign Correspondents’ Club di Phnom Penn. E’ affollato di Wasa, e si deve aspettare una mezzora al bar, dove veniamo subito contattati da una sedicente guida locale, di cui però la nostra L.P. Raccomanda di diffidare, quindi decliniamo con cortesia… La cena è gustosa, e ci spilla 48000 Ar per due. E. ci ha sconsigliato di uscire la sera a Tana, e visto che siamo provati dalla giornata, gli diamo ascolto e dopo 15 minuti di rumorosa tv malgascia piombiamo in un sonno pieno di Indri… Martedì 21 agosto: la sveglia è alle 6:15, con paneburroemarmellata al ristorante dell’hotel ( 8000 Ar). E. ci aspetta fuori con un suo amico taxista per condurci alla haute ville di Tana (infatti il suo minivan non riesce a percorrere le strette e acciottolate strade in salita che conducono alla “Acropoli”), quindi saltiamo sulla sgangherata Renault4 che ci lascia davanti al palazzo della regina. Lì veniamo affidati alle cure di un ragazzo che si è imparato a memoria la storia di Tana in italiano maccheronico, e comicamente ce la snocciola per un’oretta, per altro obbligandoci letteralmente a fare le foto in determinati scorci che secondo lui sono i più significativi (per questo servizio veniamo taglieggiati non poco: 10€ + 10000 Ar + 6000 Ar per entrare nel “museo” del primo ministro). Va detto che il palazzo della regina di fatto non esiste più, in quanto è andato a fuoco qualche anno fa, e il resto della città alta (chiesona pseudogotica, palazzone del primo ministro, altare delle decapitazioni) è a dir poco squallido e penoso, e merita una visita rapidissima giusto per il panorama sulla città. La discesa a piedi verso la basse ville si rivela più suggestiva con diversi scorci sulla vita urbana di Antananrivo, le sue scalinate, gli ambulanti ecc.

Verso le 11:00 partiamo alla volta di Anstirabe. La strada è incredibilmente bella, e ogni curva regala una vallata o una risaia, o una roccia che sono uniche. Ci fermiamo ad Ambatolampi per il pranzo alla pensione “la Pineta” gestita da una signora francese. Il pasto è gustoso e ci costa 21000 Ar. Arrivati ad Antsirabe ci dirigiamo subito al lago Andraikiba che è molto carino: è il posto dove si possono incontrare i locali che fanno i picnic. Vi facciamo un giro costeggiandolo, quindi riprendiamo il cammino per il paese di Betafo, segnalato dalla L.P. Betafo in sé non è nulla di che, ma intorno al paese sorgono delle risaie veramente incantevoli, e delle cascate molto suggestive. Cogliamo inoltre l’occasione per fare un giro in un mercato di strada, che è sempre molto istruttivo. Dopo un fantastico tramonto sulle risaie raggiungiamo l’albergo ad Antsirabe (Hotel Hasina, a gestione cinese). Un classico esempio di come non fidarsi della nostra L.P. Che recita: “stanze spaziose ed arredate con gusto”: ecco, immaginate un’enorme plafoniera al neon che rende ancor più squallida una stanza bianca in cui le parole “arte povera” sono state prese alla lettera dall’arredatore. Per fortuna ci costa solo 34000Ar. La cena si svolge al bistro L’Arche, dove ci nutriamo con 30000Ar in due. Rientrati in albergo veniamo accolti da una profusione di odore di nafta, usata per lucidare i mobili (!?!). Saliamo in camera e subito chiudiamo gli occhi per non godere più a lungo dello “spazioso buon gusto” che ci circonda.

Mercoledì 22 agosto: ci svegliamo con comodo alle 8:00. Il programma della giornata prevede un giro per Antsirabe la mattina, e il pomeriggio la partecipazione ad un Famadhiana, una festa molto speciale, alla quale siamo invitati grazie all’intercessione del nostro insostituibile autista E. … Appena mettiamo il naso fuori dal nostro bel albergo veniamo assaltati da un reggimento di pousse pousse, i risciò locali, che a differenza dell’Asia qui sono spinti ancora a piedi. L’idea di farmi portare a zonzo da un povero cristo che corre a piedi nudi mi sembra quanto meno medievale, quindi decliniamo con cortesia ogni invito a fare un giro, ma è di fatto impossibile levarseli di torno. Girando a piedi per la città ci capitava di avere un codazzo di 6-7 di questi pousse-pousse più 3-4 bambinetti che ci seguivano e ci chiamavano in continuazione nella speranza che ci decidessimo a fare un giro gli uni, o a sganciare qualche caramella gli altri (occhio a tirare fuori le caramelle in città, potreste trovarvi circondati da decine e decine di marmocchi e finirle prima di quanto immaginate). Per sfuggire alla morsa dei pousse-pousse ci infiliamo in un bar a fare colazione (14000Ar, cara ma buona). Dopo una mezzora usciamo e li troviamo ancora tutti lì ad aspettarci (!!!), e ce li portiamo in giro per altri chilometri tentando, invano, di ignorarli. Vediamo il colossale Hotel des Thermes, che dall’esterno sembra essere accogliente ed in buone condizioni, e comunque meglio del nostro cinese. La città di antsirabe è molto pittoresca e decadente (letteralmente). Girando vediamo l’affollato mercato piccolo, e l’ancor più affollato mercato grande. Inspiegabilmente ci rendiamo conto che tutti i pousse pousse hanno smesso di seguirci, e che essi sono il mezzo di trasporto preferito dai locali che vanno a fare spese ai mercati, oppure vengono usati come carretti per trasportare ogni sorta di mercanzie, dai quarti di bue ai tondini di acciaio. In mezzo alla città sorge anche un laghetto fetido con uno sgangherato centro termale. Mi rendo conto che gli aggettivi non indicano certo connotazioni positive, ma questo è il Madagascar…Verso mezzogiorno ritorniamo in albergo per consumare un pasto a base di scatolette, visto che abbiamo poco tempo.

Fuori dall’albergo E. ci presenta M., un suo amico la cui famiglia organizza il Famadhiana in un villaggio nelle vicinanze. Saliamo in auto e lungo il tragitto M. Ci anticipa qualcosa sullo spettacolo incredibile cui stiamo per assistere: il Famadhiana è un rituale tipico della tradizione malgascia degli altipiani praticato dalle tribù Merina e Betsileo. E’ una rituale organizzato dalla famiglia allargata, cui partecipa tutta la comunità, e che consiste nel riesumare i morti e, letteralmente, fargli la festa… con tanto di bibite, grigliate, musica e danze sfrenate. I defunti infatti non vengono inumati sotto terra ma avvolti in sudari e tumulati su “letti a castello” all’interno di tombe di famiglia. L’astrologo del villaggio decide quando è il momento propizio per riesumare i poveri resti, che vengono prelevati dal loro giaciglio (trascorre come minimo un anno dal decesso), e sempre avvolti nei propri sudari, vengono adagiati su delle semplici lettighe decorate e inghirlandate, ciascuno accanto alla casa della propria famiglia. Il rituale nel complesso dura due giorni: il primo giorno verso sera si effettua l’esumazione e si festeggia tutta la notte attorno ai fuochi, il secondo giorno si riprende al pomeriggio la festa, con la banda, le autorità cittadine: i defunti sulle lettighe vengono fatti danzare e volteggiare sopra le teste dei famigliari, al ritmo di una musica ossessiva suonata con clarinetti, ottoni e percussioni, che ricorda molto il Jazz in stile “New Orleans” (e a pensarci i funerali che si svolgono nella città americana ricordano un poco il rituale malgascio). Dopo svariate ore di balli i corpi vengono finalmente adagiati al suolo e si provvede al rinnovo del sudario. Una volta vestiti di fresco le danze riprendono e si portano i cari estinti di fronte alla loro nuova dimora, dove ha luogo un piccolo comizio dei capi della comunità, prima di procedere alla ri-tumulazione.

Noi siamo stati accolti con molte cerimonie da una coppia di anziani del villaggio, lui ex funzionario pubblico, lei insegnante in pensione; entrambi parlano molto bene il francese, e questo ci ha consentito di ricevere ulteriori spiegazioni e commenti su quanto stava accadendo. Abbiamo provveduto a versare una offerta simbolica (10000 Ar) per la festa (che al villaggio costa una piccola fortuna) e ci è stato permesso di partecipare come “membri della famiglia” con tanto di presentazione ufficiale al resto della comunità. All’inizio la presenza di due Wasa è stata vista con sorpresa, addirittura con sospetto da alcuni, e abbiamo calamitato l’attenzione di tutti. Tuttavia dopo un poco si sono abituati alla nostra presenza, che abbiamo cerato di rendere più discreta possibile, e si sono rilassati continuando a festeggiare come se non ci fossimo. Da quel momento abbiamo vissuto delle situazioni al limite del surreale: abbiamo incontrato un vecchietto che ci voleva presentare sua moglie, la quale tuttavia era una dei “festeggiati”: abbiamo declinato il più cortesemente possibile quando il vecchietto ha iniziato a sciogliere il sudario per farcela vedere. Abbiamo visto i bambini accoccolati attorno alle salme e accarezzarle con tenerezza; abbiamo visto la gente sbirciare nella tomba che veniva inaugurata quel giorno perché, ci dicevano, erano curiosi di vedere dove avrebbero passato l’eternità (tra una festa e l’altra…). Ci siamo sentiti chiedere in prestito una penna per scrivere su un mucchietto d’ossa il nome del proprietario, perché le si potessero poi distinguere in occasione della festa successiva… Insomma è stata una vera festa, senza le morbosità che di solito accompagnano l’argomento della morte, anzi con una inaspettata e genuina allegria generale per l’occasione di avere i propri cari ancora con sé. Purtroppo non abbiamo potuto soffermarci fino alla fine, poichè avevamo ancora la strada da percorrere fino alla successiva tappa; quindi verso le 4:30 abbiamo lasciato i nostri antenati ancora giacenti per terra di fronte alla nuova tomba, sulla quale era salito il sindaco a cantare l’inno nazionale e a tenere un piccolo discorso (abbiamo lasciato anche 15000Ar a M. Per il suo contributo).

Ancora straniati da quanto avevamo veduto siamo giunti dopo 90 minuti nella piccola e tranquilla cittadina di Ambositra, dove siamo stati alloggiati all’Hotel Manja (dalla L.P. “l’hotel più lussuoso di Ambositra con impeccabili bagni in marmo”, ve lo lascio solo immaginare…). Purtroppo siccome il lussuoso hotel Manja non dispone di un ristorante ci siamo diretti in un buio spettrale verso il Grand Hotel (il nome non deve impressionare…) dove ci siamo gustati una deliziosa cenetta (26000Ar) con tanto di accompagnamento musicale da parte di un arpista locale.

Giovedì 23 Agosto. Dopo la colazione in hotel (34000 Ar con la stanza) iniziamo un giro per la cittadina, molto molto bella: è ricca di negozi e di botteghe di artigiani e l’atmosfera è rilassata e non siamo più assediati dai pousse pousse, che pure qui sono numerosissimi. Facciamo un giro per il loro mercatino dove cogliamo delle belle immagini dei venditori di ortaggi, tra cui una indimenticabile: una signora che esponeva i propri pomodori in bel ordine, si era accorta che uno di essi era un po’ sporco di terra, e per lucidarlo meglio lo prende in mano e, dopo avervi sputato sopra, lo strofina con cura sulla manica sudicia della propria blusa (la sera prima avevo cenato con insalata di pomodori…) Facendo un giro per le botteghe artigiane abbiamo anche fatto acquisti di souvenir in legno (60000Ar). Verso mezza mattina ripartiamo alla volta di Ranomafana. La strada è come sempre sorprendente e ricca di vallate incantevoli. Appena lasciata Ambositra ci siamo fermati a Ivato, piccolo centro dove si teneva il mercato dei tessuti. Lì abbiamo avuto modo di vedere i malgasci nei loro abiti più lussuosi, tutti coloratissimi nei toni accesi del fucsia, del giallo e dell’azzurro. Le donne poi hanno la capacità di abbinare i colori della gonna con quelli degli scialle e delle borse di rafia che portano in equilibrio sulla testa: insomma un tripudio di colori. Ripreso il cammino ci siamo fermati a mezzogiorno in un piccolo centro per il pranzo. Purtroppo lì non esistono ristoranti occidentali, e nemmeno cinesi, quindi ci siamo fatti forza e siamo entrati per la prima volta in un ristorante malgascio. Cercando di scegliere gli alimenti più semplici possibili, siamo stati serviti tra un tripudio di mosche da un sorridente e cespuglioso ragazzino che ci ha subito apparecchiato il tavolo con il coperto più unto che abbia mai visto in vita mia: dico solo che la birra l’abbiamo sorbita direttamente dalla bottiglia pur di non servirci dei bicchieri. La bistecca stracotta di zebù, e il riso scotto ci hanno in qualche modo saziato (5000Ar), e ci hanno fatto pensare con un po di amarezza che per i locali quello è un mangiare da signori… Dopo un’altra ora di percorso abbandoniamo la nostra Route 7 per prendere la deviazione per Ranomafana. Dopo qualche chilometro ci si para dinnanzi uno dei paesaggi più grandiosi che abbia mai avuto la fortuna di vedere: una vallata aperta con risaie a terrazze, diversi villaggi arroccati, e sullo sfondo una catena rocciosa dalle forme morbide e stondate. La sosta per l’immancabile fotografia è allietata dalla solita torma di bambini, qui persino più simpatici e teneri che altrove, che dopo aver ricevuto la loro dose di bonbon, se ne corrono via tutti insieme urlando all’impazzata: “au revoir! au revoir! au revoir…”. Il paesaggio cambia di nuovo verso Ranomafana e le distese di risaie lasciano il posto a profonde vallate boscose di foresta tropicale. Nell’avvicinarci al parco seguiamo il corso di un fiume (che attraversiamo su un ponte pericolante fatto di assi di legno sconnesse…), costellato da diverse belle cascate. Arrivati a Ranomafana si incontra sul percorso dapprima l’ingresso del parco, poi sulla strada si trovano gli alberghi: il Setam Lodge sembra dal di fuori il migliore della zona (anche se poi dal sito internet non pare certo lussuoso), dopo qualche tornante c’è il Domaine Nature con i suoi erti bungalow aggrappati alla montagna (avevamo prenotato qui, ma giunti dinnanzi abbiamo deciso di proseguire, perché sembrava scomodo e cadente); finiamo allora per trovare posto all’hotel Ihari che sorge in paese a fondovalle (circa 4 Km dall’ingresso del parco). L’hotel è a gestione cinese, mediocre come pulizia e come accoglienza, ma non è il peggiore tra quelli che abbiamo visitato. Il nostro bungalow si affaccia proprio sul fiume che è a meno di 2 metri dalla porta. In albergo restiamo giusto il tempo di far pipì, perché il nostro programma prevede la possibilità di fare l’escursione notturna, quindi verso le 17:30 ripartiamo alla volta dell’ingresso del parco, dove acquistiamo i biglietti per l’ingresso al parco (74000Ar in due per 2 giorni) e assoldiamo Er., la nostra guida locale. Parla molto bene italiano ed è un tipo giovane e sveglio, ma sembra che abbia la tendenza a fare un po’ il “furbetto” e come guida è senz’altro meno in gamba di A. , la guida che ci aveva accompagnati al Perinet. L’escursione notturna consiste in una passeggiata di 20 minuti lungo un sentiero ben tracciato e pavimentato in salita (tutto il parco è in forte pendenza) fino al “place de nuit”, una radura dove abitualmente si incontrano alcune specie di fauna crepuscolare: il fossa, il predatore locale che è una sorta di furetto maculato con la voluminosa coda e un carattere piuttosto scontroso; e il microcebo, un micro-lemure lungo meno di 10cm tutto occhi e manine che si ciba di insetti. Entrambi gli animali confermano la teoria che la fauna del Madagascar non brilla per scaltrezza: il fossa viene attirato alla radura gettando dei sassolini, che lui crede essere pezzetti di cibo (una volta le guide arrostivano carne per richiamare gli animali), e litiga con i suoi simili per contendersi gli inesistenti bocconi; il microcebo invece fa di tutto per non essere visto, ma riesce comunque ad essere impallinato da una mezza dozzina di torce elettriche in dotazione a noi escursionisti. Il ritorno alla base avviene nella più completa oscurità, rotta solo dal saettare delle nostre lampade.

Venerdì 24 agosto: la sveglia è alle 6:30. Paghiamo il nostro soggiorno (stanza + cena + colazione 124000Ar). Ritornati all’ingresso del parco iniziamo il giro più impegnativo, che ci occuperà le successive 5 ore tra salite fangose, discese fangose, e qualche bel tratto di foresta primaria. Durante il percorso riusciamo ad avvistare 4 specie di lemuri, tra cui uno molto raro (a detta di Er.). Si nota molto quando si passa dalla foresta secondaria (ripiantata un secolo fa) alla foresta primaria mai disboscata: il sottobosco è molto più ricco, e le liane e le felci secolari la fanno da padrone: è un luogo veramente unico. Accaldati e infangati guadagniamo nuovamente l’uscita del parco verso le 12:30: nel complesso ne vale la pena, anche se personalmente ho preferito il parco del Perinet. Paghiamo Er. (60000 Ar) e ripartiamo per Fianarantsoa (1 ora di auto). Lì ci fermiamo solo per la pausa pranzo al Tsara Guest House di cui tanto avevamo sentito parlare bene. Effettivamente è un posto magnifico: è un angolino di Provenza trapiantata nel cuore del Madagascar, eccellente per pulizia, atmosfera rilassante, e buona cucina (pranzo per 2: 42000 Ar). Approfittiamo della sosta per cambiare 300€ in una affollatissima banca locale (cambio non proprio conveniente), nella quale inspiegabilmente mi fanno passare davanti ad una coda di almeno 50 persone. Ritirato il solito mazzettone di soldi, ripartiamo immediatamente, dato che la città non offre attrattive particolari da visitare. La strada ci porta dopo un’ora di bei paesaggi ad Ambalavao, centro del mercato degli zebù. Lì vi sono solo 2 alberghi, di cui il migliore è senz’altro il Bougainvillers (nonostante l’acqua marrone che esce dai rubinetti): il cortile è ampio, tranquillo e armonioso e vi si affacciano diversi edifici e bungalow a due piani, oltre ad una piccola cartiera artigianale. La cittadina ci accoglie alla luce del tramonto, e abbiamo modo di fare un giro per il piccolo e caratteristico centro che è veramente molto grazioso, nonostante l’avanzato stato di degrado di ogni immobile. All’ultimo raggio di sole rientriamo in albergo per una doccia (marron anche quella…) e una cena ristoratrice (le inservienti del ristorante non vedono l’ora che trangugiamo l’ultimo boccone per chiudere baracca alle 8:30!).

Sabato 25 agosto: ci svegliamo di buon’ora e facciamo la solita colazione francese. Paghiamo la stanza (81500Ar stanza + cena + colazione), e andiamo a visitare la cartiera artigianale. L’opificio ricalca i ritmi malgasci del più classico dei “mora mora”, ma gli oggetti ivi prodotti sono veramente graziosi: si tratta di carta di stracci di cotone decorata con fiori pressati e formata a mo’ di biglietti, buste, pergamene, poster ecc. Dopo aver visitato la cartiera ci addentriamo nuovamente per il paese che avevamo avuto modo di visitare solo parzialmente la sera prima, cogliendo altri momenti di vita di questo tranquillo abitato, quindi ci mettiamo in cammino verso Ranohira.

Non starò dire ancora una volta quanto fosse stupefacente il paesaggio, solo faccio presente che ci saremo fermati una ventina di volte lungo la strada per ammirare meglio certi scorci e fare fotografie. La connotazione paesaggistica cambia drasticamente lasciato Ambalavao: infatti si scende finalmente dagli altipiani, e le vallate scolpite dagli elementi e dall’uomo lasciano il posto ad un arido pianoro di savana di cui non si vede la fine: tutto è giallo e rosso e i rari alberi sono spogli e contorti. Anche l’architettura cambia, e le casette di mattoni rossi lasciano posto a più povere strutture realizzate con rami e fango; l’acqua inizia a diventare un bene prezioso a queste latitudini e le terrazze di riso lasciano il posto ad aridi campi di manioca. Una delle più belle immagini paesaggistiche del percorso è costituita dal massiccio dello Tsaranoro, noto anche come il “Cappello del Papa” per la sua forma caratteristica, che si staglia contro un orizzonte infinito.

Per il pranzo ci fermiamo a Ihosy, un piccolo centro senza molte attrattive dove abbiamo prenzato discretamente in un locale gestito da malgasci, piuttosto pulito e confortevole: lo Zahamotel (24000Ar in due). Ripreso il cammino siamo giunti a Ranohira verso le 3:30 del pomeriggio. Il paese non è nulla di più che una stazione di sosta per le escursioni al parco, il cui ingresso è proprio in centro al villaggio. Vi sono alcuni alberghi discreti (Orchidées) in centro al paese, ma la maggior parte delle strutture si trova al di fuori di esso sulla strada che va verso sud: Si incontrano il Tuiles de l’isalo (molto molto spartano), il joyaux de l’isalo (gestione cinese, bungalow abbastanza puliti ma nulla di che), l’isalo Ranch (dove ci siamo fermati) ed infine a circa 15 Km dall’ingresso del parco, nei pressi della “fenetre de l’isalo”, si trova il Relais de la Reine (questo albergo è uno dei più lussuosi del Madagascar, ed è difficile trovarvi posto se non si prenota con un minimo di anticipo. Contrariamente agli altri non guarda il massiccio dell’Isalo, ma gli da le spalle. E. ci ha detto che verso maggio ha subito un incendio e lo stavano restaurando). Il nostro alloggiamento si è mostrato essere piuttosto confortevole, anche se con qualche difetto: i bungalow circolari sono molto pittoreschi e intimi e le sdraio di fronte ad essi permettono di godersi tutto lo spettacolo delle albe e dei tramonti sul massiccio che si eleva a poche centinaia di metri davanti all’hotel. I bagni sono puliti e accoglienti, ma l’illuminazione è veramente ridotta al minimo (tanto che talvolta diventava difficile trovare i vestiti nella valigia), e non c’è possibilità di usufruire di prese elettriche se non al ristorante, che serve discreti piatti di cucina francese e locale. Il residence è dotato anche di una piscina. Una volta sistemati ci dirigiamo subito con il minivan di E. verso la “Fenetre de l’Isalo”, uno spettacolare contesto di rocce taglienti come rasoi che sorge alla periferia del massiccio, dove uno sperone di roccia ha ritagliata in sé una finestra rivolta al crepuscolo sulla vallata sottostante. Dato che manca ancora un’ora al tramonto ci siamo concessi un giro a piedi nei pressi seguendo una pista di sabbia per qualche chilometro, riuscendo così a cogliere il perfetto silenzio di quei luoghi. Verso le 5:30 facciamo ritorno alla “fenetre” dove nel frattempo una dozzina di torpedoni ha vomitato una legione di turisti italiani… e va bè, non si può avere tutto dalla vita! Il tramonto è veramente splendido. Una volta rimirato l’occaso, ripariamo in albergo a degustare la collezione di rhum aromatizzati che fa bella mostra di se sullo scaffale del bar (cena in hotel 45500 Ar in due).

Domenica 26 agosto: ci si sveglia di buon’ora e si fa una robusta colazione (11000 Ar) perché ci aspetta una giornata intera dedicata all’escursione nel parco dell’isalo. E. ci porta in paese all’ingresso del parco dove paghiamo 2×25000 Ar di ingresso più 60000 di servizio guida a Lala, un simpatico signore ghiotto di caramelle che parla un ottimo italiano. E’ una buona guida: preparato, sveglio e discreto ci ha portato a scoprire degli angoli di paradiso nascosti nel massiccio dell’isalo. Il nostro tour è durato circa 7 ore nelle quali abbiamo visitato la piscine naturelle, il canion namaza con le sue piscine blu e nera, e la cascade des nimphes. Complessivamente avremo visitato un centesimo della estensione del parco, che è veramente sconfinato (80 Km per 20 Km). Il tour è iniziato con una salita fino alla sommità di un altipiano da cui abbiamo potuto scorgere un paesaggio non dissimile dal grand canion americano. Da qui siamo discesi fino ad una oasi naturale ricca di vegetazione tropicale nota come piscine naturelle: è uno spettacolo della natura e non ci si aspetterebbe mai di vedere nulla di simile in un ecosistema così arido: sembra quasi un film! A malincuore lasciamo la piscina per addentrarci nuovamente nell’arida vallata dell’isalo circondata da speroni di roccia che paiono quasi pagode orientali. Il sentiero sale, scende, piega e si incunea infine in uno stretto canion che è un altro spettacolo della natura: pareti di roccia rossa e riarsa si gettano a perpendicolo in una claustrofobica fessura tappezzata di cascate, palmizi, torrenti cristallini, liane e ogni sorta di vegetazione e fauna tropicale. Dopo qualche ora di marcia su massi che sporgono dalle acque e scalini ritagliati nella roccia giungiamo alla piscina blu, e alla poco distante piscina nera: due polle di acqua incontaminata alimentate da cascate da favola. Dopo esserci rifocillati in un’area di sosta con un pranzo al sacco in compagnia di un simpatico branco di lemuri Catta (da noi soprannominati “Cacca”, data la loro spiccata tendenza alle deiezioni…) riprendiamo la marcia verso la cascata delle ninfe: un salto di una trentina di metri eclissato da delicati veli di roccia che termina nel solito laghetto paradisiaco (ormai ci siamo abituati anche ai paradisi…). Alla fine del giro troviamo E. ad attenderci per riportarci stanchi, accaldati e assetati (avevamo 1.5L di acqua in due, ma non sono stati sufficienti) al nostro Isalo Ranch. (cena e aperitivo 49500 Ar).

Lunedì 27 agosto: Dopo le fatiche del giorno prima ci concediamo il lusso di svegliarci tardi: facciamo colazione (11000 Ar) e non paghiamo per la stanza che avevamo già anticipato dall’italia (50€ due notti). Prima di partire raccattiamo due francesi che ci chiedono un passaggio perché (dicono) lui è malato e deve raggiungere velocemente Tuelar. Il cammino per Tuelar percorre paesaggi desolati coronati da montagne che sembrano segate a metà da un raggio laser; la savana è punteggiata dal fumo di numerosi incendi (talvolta pericolosamente vicini alla strada) appiccati dai pastori nell’illusione di creare un suolo più fertile per i pascoli: in verità non aggiungono altro che miseria a miseria. In questa regione per la prima volta dall’inizio del viaggio vediamo i baobab: sono veramente grotteschi con quei tronchi sproporzionati rispetto ai rami coperti solo da quattro foglioline rachitiche. Una leggenda locale dice che il baobab era così maestoso che gli dei invidiosi lo hanno strappato da terra e trapiantato capovolto con le radici verso il cielo. Un’altra curiosità di queste lande sono le tombe dipinte dei Bara: sepolcri in cui viene raccontata per semplici immagini tutta la storia del defunto.

Verso le 14:00 scorgiamo finalmente la costa: è stato indescrivibile seguire le reazioni sul volto di Z. , il nostro taciturno accompagnatore, che non aveva mai visto il mare in vita sua. Tulear è una città portuale abbastanza anonima e senza attrattive di sorta: palme, mercati, mercantili ormeggiati, acqua salmastra e fetida. Facciamo moneta in banca poiché dove siamo diretti non c’è modo di prelevare denaro, e andiamo al molo per vedere se parte un battello per Anakao nel pomeriggio. Fortunatamente è così, quindi cambiamo i nostri piani (che prevedevano una notte a Tulear) per spostarci subito verso il nostro soggiorno mare. Salutiamo così E. e Z. (ci mancherà la nostra guida, cui ci eravamo davvero affezionati!) e affidiamo i nostri bagagli alla “compagnie du sud” (diffidate del nome altisonante! 160.000 Ar in due, andata e ritorno). I bagagli vengono caricati su un carretto trainato da una coppia di zebù, e noi con essi. Dopo circa 5 metri il carretto giunge sulla spiaggia: si fermerà? No! Prosegue in mare e lemme lemme si addentra nel porto per circa un chilometro grazie al fondale basso. Noi, tra l’incredulo e il preoccupato, cerchiamo di individuare tra i tanti natanti quale sarà quello destinato a noi per la traversata. Scartiamo subito un panfilo, un catamarano, un 6 metri cabinato, un telonato dignitoso, per arrivare ad una sgangherata barchetta di assi di legno stipata con 8 turisti in attesa di noi, e messa in moto da una coppia di fuoribordo dell’anteguerra. Di salvagente nemmeno l’ombra… La traversata è quanto meno avventurosa: si viaggia a tutta manetta in mare aperto sobbalzando sui cavalloni e schivando le piroghe dei pescatori, con le valigie che rischiano di essere sbalzate fuori bordo ad ogni ondata. Dopo un’ora da brivido in cui abbiamo doppiato Cap Saint Augusin come fosse Capo Horn, finalmente approdiamo sull’immacolata e abbagliante spiaggia di Anakao, proprio davanti all’hotel Prince Anakao. Ovviamente non esiste un pontile, ergo ci tocca scendere in acqua come Colombo quando sbarcò sulle Americhe (segnandoci con la croce per ringraziare il Signore), con i marinai che ci aiutano a sbarcare i bagagli lanciandoseli di mano in mano. La bagnarola riparte subito lasciandoci novelli Robinson, zuppi e stremati con i nostri borsoni insabbiati sulla battigia. Per fortuna l’hotel è molto accogliente: semplice ma curato con il padiglione centrale che ospita la reception, il bar e il ristorante, e diversi bungalow costruiti sulla sabbia della spiaggia o su un’altura retrostante. Il nostro alloggio dà proprio sul mare che sta a 15 metri, è molto spazioso e accogliente e pulito, con il suo tetto di paglia, una bella veranda e un bel bagno in boiserie. Un grosso inconveniente è che ci si deve lavare con acqua salata (non è facile trovare acqua dolce ad Anakao: anche i nativi devono scavare voragini nella sabbia per potervi accedere). Qui purtroppo le zanzare sono di casa anche nei mesi invernali, quindi è bene portarsi dei repellenti: per la notte i letti sono equipaggiati con zanzariere. Per scrollarci di dosso l’adrenalina e il sale della traversata ci concediamo una doccia (salata) e una gustosa cenetta al ristorante dell’hotel. Martedì 28 Agosto: La sera prima abbiamo concordato con il proprietario francese dell’hotel per fare una escursione in barca a cercare le balene (80000 Ar), quindi alle 7:30 ci rechiamo alla spiaggia con altri quattro turisti, dove ci aspetta la solita barchetta di assi. Prima di partire, inspiegabilmente, i due marinai ci consegnano delle cerate impermeabili… dopo pochi metri tuttavia il motivo di ciò diviene lampante: per la maggior parte della traversata il mare si trova più sopra che sotto di noi tanto che anche la cerata può fare ben poco per arginare la furia delle acque. Durante il tragitto guardiamo con invidia i pescatori con le loro piroghe: vanno a vela e hanno i bilancieri che impediscono di capovolgersi: sicuramente se la passano meglio di noi, e infatti ci guardano e ridono… Dopo circa 30 minuti nei quali ci addentriamo sempre più nelle profondità dell’oceano indiano (e ci sentiamo sempre più piccoli e sperduti) improvvisamente il nostro marinaio ferma i motori e ci indica un punto all’orizzonte dove dovremmo vedere il grosso cetaceo: tutti noi cerchiamo di pulire gli occhi da acqua e salsedine per vedere meglio e… In effetti è là, anzi sono due! Balena e balenino! Puntato il bersaglio ci avviciniamo e per circa un’ora stiamo appresso a questa fantastica coppia di animali dei quali possiamo ammirare le evoluzioni quando riemergono per respirare. Sono veramente fantastici e ti fanno riflettere su quale sia il tuo ruolo nell’ecosistema: gli basterebbe un colpo di coda per ridurre in polvere il nostro povero natante, ma non sembrano infastiditi dalla nostra presenza, piuttosto incuriositi e pare che quasi ci salutino. Dopo qualche tempo il nostro marinaio decide che è ora di far rotta verso Nosy Ve, un atollo paradisiaco che si erge di fronte ad Anakao. L’approdo è difficile in quanto la nostra barchetta deve evitare di finire incagliata nella barriera corallina che circonda l’isola. La spiaggia è lunga, bianchissima e pressoché deserta, se non per alcune piroghe di pescatori di crostacei che vi sono spiaggiate. Facendo il giro dell’isola, che dura circa 40 minuti, si passa accanto ad alcuni cespugli nei quali nidificano i fetonti, degli uccelli endemici molto belli, simili a dei gabbiani con la mascherina nera attorno agli occhi e una lunga coda arancione affusolata. Dato che questi volatili sono abituati a essere visitati dall’uomo non ci temono, e ci si può avvicinare davvero a pochi centimetri dai loro nidi con i pulcini. Molto interessante davvero. Per il resto l’isola offre un mare cristallino con una ricca barriera che viene sfruttata dagli aironi di passaggio e dai pescatori locali di crostacei, nonché dai raccoglitori di conchiglie. Dopo il giro siamo stati agguantati da un anziano che ci ha fatto pagare la tassa di ingresso all’isola (4000Ar in due). Rientriamo all’albergo per pranzo dopo un’altra traversata temeraria di 15 minuti. Il pomeriggio lo passiamo finalmente in relax sui lettini da spiaggia più comodi che abbia mai provato in vita mia, dormendo per il resto della giornata.

Mercoledì 29 agosto: La giornata la passiamo in spiaggia, finalmente fermi dopo tanto peregrinare. Verso le 11:00 andiamo a fare un giro al paese di Anakao: il paese è una striscia di case che si affacciano sulla spiaggia, dove si svolge tutta la vita degli abitanti. Lì lavorano, vendono le merci, giocano i bambini, allattano gli infanti, fanno i loro bisogni ecc. E’ veramente pittoresco perché la vita di questa gente non è molto diversa da come doveva essere 2000 anni fa. Le ragazze hanno l’abitudine di cospargersi il viso con un impiastro giallo ocra che dicono renda la pelle più bella e la protegga dal sole: sono veramente pittoresche. I bambini invece svolgono una attività ludica veramente frenetica che si svolge in toto sulla spiaggia; a seconda delle condizioni meteo, dell’ora e dell’altezza della marea, si svolgono giochi diversi: Si va dalla regata delle piroghe in miniatura, al gioco con gli aquiloni, alla raccolta di conchiglie e affini, alla partita di pallone, al surf con le assi di legno eccetera. Il resto della giornata lo passiamo in relax assoluto Giovedì 30 agosto: è l’ultimo nostro giorno al mare: ce lo godiamo fino in fondo sui comodi lettini dell’hotel, e facciamo un altro giro in paese per cogliere altre belle immagini di vita. Stavolta passiamo sul retro del villaggio, lungo la pista di sabbia dove inizia il deserto e dove possiamo vedere altri aspetti della vita di questi luoghi, tra cui il difficile approvvigionamento dell’acqua potabile. Paghiamo l’albergo (756000 Ar tutto compreso: 4 notti, vitto e bevande varie) e ci organizziamo per il trasporto verso Tulear fissato l’indomani mattina alle 7:00.

Venerdì 31 agosto 2007: ci portiamo nello stesso punto della spiaggia che ci aveva visto sbarcare 3 giorni or sono in attesa del “panfilo” della Compagnie du Sud. Dopo diversi minuti di attesa vediamo in lontananza avvicinarsi un puntolino arancione. Sembra proprio che il ritorno debba andare peggio che all’andata: la faremo in gommone! Veniamo invitati a salire su questo canotto già stipato di persone, tutto pieno di pezze di mastice per coprire vecchi squarci. Apparentemente non ci sarebbe posto per noi, ma tutti si stringono a sufficienza per farci salire in qualche maniera. Incredibilmente il canotto fa pure un’altra sosta poche centinaia di metri più in là per caricare altre due persone: ormai mi vedo già cibo per squali. Lasciata la costa il gommone si lancia a velocità folle in mezzo al mare aperto e pure piuttosto agitato. L’esperienza è stata persino divertente, se non si tiene conto del rischio reale che abbiamo corso, dato che più volte abbiamo fatto salti di qualche metro dalla cresta delle onde, con conseguente sprofondamento della prua in mare e lavaggio completo di tutto ciò che stava a bordo. Quando ormai la costa di Tuelar era abbastanza vicina, è pure finita la benzina, quindi i nostri scafisti si sono arrabattati con un improbabile sistema di sifoni a succhiare il carburante residuo per portarci a passo d’uomo fino a terra. Dopo questa esperienza da viaggio della speranza, giunti anche qui sani e salvi ma bagnati fino al midollo, prendiamo un taxi per l’aeroporto di Tulear, dove abbiamo modo di asciugare al sole del tropico del capricorno i tutti nostri averi stesi in bella mostra sulle scalinate dell’aerostazione. Siamo i primi ad arrivare all’aeroporto con un anticipo di tre ore, e l’aeroporto apre apposta per noi, ma si riempie presto di turisti che rientrano a Tana con l’unico volo attivo su questa tratta. L’aereo infatti risulta pieno e dopo un viaggio di circa un’ora, in cui ripercorriamo a ritroso le meraviglie vedute nei giorni passati, atterriamo a Tana verso metà pomeriggio. All’aeroporto concordiamo con un taxista locale di portarci in albergo, e di venirci a prendere nel cuore della notte perché il nostro volo intercontinentale sarà alle 6:00 dell’indomani. Facciamo così ritorno al nostro caro Hotel Sakamanga, e abbiamo modo di fare un breve giro della città per gli ultimi acquisti.

Sabato 1 Settembre 2007: è il triste giorno della fine delle avventure, per questa volta. Tutto scorre liscio: il viaggio notturno in aeroporto, il check-in, la folla dei vacanzieri che rientra in patria, il canonico ritardo di 30 minuti alla partenza. Il volo tuttavia stavolta sembra interminabile: pigiati con le ginocchia contro il sedile di fronte, in preda agli ultimi strascichi di una leggera intossicazione alimentare… insomma abbiamo viaggiato meglio. All’arrivo in Italia la malinconia è grande. Ricordo di aver provato una forte emozione quando per la prima volta sono andato a fare spesa all’ipermercato: non ho potuto non fare caso agli scaffali ricolmi di migliaia di prodotti costosi nel bianco asettico delle luci al neon, e pensare che ai nostri antipodi c’è un popolo che lotta ogni giorno contro la miseria e che deve inventarsi sempre un espediente per vedere il domani. Veramente il Madagascar è una grande terra capace di stupire chiunque, ma soprattutto un grande popolo ricco di gentilezza e dignità, che merita di essere capito, aiutato e amato da chiunque voglia affrontare qualche disagio a fronte di una esperienza straordinaria e sicuramente indelebile.

Matteo e Ornella matteo.Sperindio@tiscali.It



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche