Fezzan in tenda

viaggio nel Sahara, tra l'Acacus tutelato dall'Unesco, prima della caduta del regime di Gheddafi
Scritto da: cielienuvole
Partenza il: 24/04/2008
Ritorno il: 01/05/2008
Viaggiatori: 5
Spesa: 2000 €
In geografia si definisce “deserto” un’area del tutto disabitata, in cui non piove quasi mai, il terreno è arido e difficilmente coltivabile; in genere, quando si pensa al deserto viene alla mente una distesa infinita di sabbia, il caldo micidiale e soprattutto la mancanza di acqua. Ma non in Libia, ricca di falde acquifere, tra cui quella fossile che alimenta il cosiddetto progetto del “Grande fiume” che portando l’acqua alla costa, pare stia prosciugando i Laghi “amari” ovvero salati di Ubari. E’ incredibile notare che fin dove arriva l’acqua cresce la vegetazione, mentre a solo un centimetro più in là persiste la sabbia: un vero e proprio confine naturale netto.

Nella primavera del 2008 ho fatto un breve e interessante viaggio di una settimana nel Sahara libico. Il tour è stato spartano e adatto solo a quei viaggiatori – non turisti – che sanno adattarsi alla carenza di comodità (5 pernottamenti in tenda) e alla ridotta igiene (caldo secco e senza sudorazione) è stato ben organizzato dal tour operator fiorentino “Azalai” che si è appoggiato all’agenzia di viaggi libica “Asouf”.

Sono partito alle 9 da Milano Linate con AirOne (da preferire alla compagnia di bandiera Alitalia, vista la crisi in atto). Solo in questo scalo hanno verificato il mio borsone, i liquidi superiori ai 100 cl. ed eventuale merce pericolosa.

Dopo il cambio di aereo a Roma (è consigliabile un bagaglio a mano per non rischiare di perdere biancheria, farmaci e solari), ho volato con Afriqiyah fino a Tripoli. A bordo perfino i cartoni animati scollacciati venivano trasmessi con la censura. Nella capitale è onnipresente l’immagine del dittatore Gheddafi che inneggia ai 38 anni della “Rivoluzione Verde”, mentre la gente vorrebbe finalmente la democrazia. Infine, alle 21 sono atterrato su un nuovissimo Airbus della Lybian Air a Sebha, in pieno deserto. Negli aeroporti libici, nonostante l’allarme continuo dei metal detector, si poteva imbarcare di tutto. L’importante era passare la burocrazia fatta di inefficaci visti di gruppo (la cui fotocopia veniva richiesta lungo il viaggio ai numerosi posti di blocco) e di inutili timbri stampigliati fin sulla carta d’imbarco. Per non parlare dei cellulari dei passeggeri accesi anche durante la fase di atterraggio o di decollo.

All’esperienza – forse sarebbe meglio dire avventura – hanno partecipato sei italiani: io, due coppie di Milano e Genova, una pensionata fiorentina e sei libici dell’agenzia locale (operatori turistici appassionati, ma non professionisti).

Uno degli autisti – un Tuareg – nella vita era un insegnante, il poliziotto di scorta era un militare, il cuoco era un operaio e la guida era un impiegato. Tutti con il nome Mohamed, tranne l’aiuto cuoco Soliman e la guida Alì che parlava un po’ di italiano avendo vissuto per qualche tempo in Italia.

Alla prima sosta, prima di addentrarci nel deserto, alla volta del confine con l’Algeria ed il Niger era d’obbligo il pieno di benzina (a soli 10 centesimi di Euro/litro), il rifornimento al supermercato locale di bottigliette d’acqua minerale sigillate per evitare la “dissenteria del turista” e l’acquisto di 3 m. di stoffa in cotone per realizzare il turbante berbero: un modo indigeno per affrontare il caldo che ha una escursione termica che và dai 40 gradi di giorno ai 10 gradi di notte, ed evitare le scottature date da un sole traditore che abbronzava, mediato dalla continua e fresca brezza. Assolutamente da sconsigliare l’uso della “latrina alla turca” (impossibile chiamarla toilette) con spruzzino, visto che nell’Islam ci si pulisce solo con l’acqua e con la mano sinistra, perché impura.

Per smentire lo stereotipo del deserto, nei primi due giorni abbiamo girovagato tra rocce nere e vulcaniche dell’Acacus (un territorio tutelato dall’Unesco, perché come il successivo “Il galghien” contiene strabilianti pitture ed incisioni rupestri realizzate 12.000 anni fa’). In questo modo, l’uomo primitivo ha immortalato sulla roccia, soprattutto a ridosso dei Wadi/fiumi, scene di caccia e corse in biga, nonché animali che vivevano nella zona all’epoca: giraffe, elefanti, leoni, bufali, montoni, gazzelle, coccodrilli, rinoceronti ed ippopotami. Dal vivo invece abbiamo incontrato un cane (fotografato con la roccia monumentale “Il dito” e una profumata pianta grassa fiorita), cinque dromedari scheletrici, tre asini selvatici, due lucertole, qualche uccello minuto ed uno scarabeo scuro. Oltre alle orme rilevate al risveglio, ma senza animali avvistati nei paraggi.

Al secondo giorno le batterie ricaricabili erano esaurite e solo un provvidenziale carica-batteria di un compagno di viaggio collegato all’accendisigari ha salvato il reportage ai moderni fotografi con macchine digitali, già in fase di “cancella immagine” dalle memorie 2G quasi piene. Nei due giorni successivi abbiamo goduto di panorami unici e primordiali, con finestre rocciose, archi naturali e colonne, pari a quelli visti nello statunitense Arches Park.

Dopo aver scattato l’immancabile foto di gruppo e abbandonata la parte finale dell’Hoggar, ci siamo inoltrati nell’Erg (significa deserto) “Uan Caza”: trait d’union con il Sahara. In alcuni momenti, il deserto era un oceano di sabbia con vista sull’infinito, dove sarebbe stato facilissimo perdersi, con dune altissime e mutevoli, di colore arancio-ocra, il cui scollinamento con le jeep (quasi da ottovolante), ci innalzava l’adrenalina e ci faceva fare danze tribali propiziatorie.

Al primo pic-nic abbiamo capito come sarebbe stata la routine della vacanza iniziata.

A mezzogiorno, sotto un albero (in genere un’acacia con lunghe spine) il pranzo, a base di riso con uvetta, ceci, fagioli, piselli, pomodori, melanzane e cipolle crude (alimenti teoricamente con rischio diarrea) e formaggio. Alcuni tra noi usavano insaporire una sorta di “Feta” con una salsa a base di peperoncino “Made in Socialist and Islamic Repubblic of Lybia”. Fino alle 15 era obbligatoria la pennichella, con lettura della guida Lonely Planet e fumata delle sigarette Camel (per stare in tema).

A cena, zuppa o minestra di verdure, pasta, semola, cous-cous, verdura e legumi, oltre a mandorle, arachidi e pistacchi quale aperitivo. Al termine, il rito del tè verde “Made in China”, scaldato presso l’immancabile fuoco che forniva brace, calore e luce al gruppo che ascoltava estasiato la chitarra suonata da Soliman. In vettura si ascoltava la psichedelica musica pop di Santana (concerto in Libia). Nelle serate, abbiamo tentato invano di risolvere il gioco “1/2/3”, la cui soluzione pare sia riservata ai soli accompagnatori libici.

La mattina, dopo una pulizia personale, con movimenti scomodi e con salviettine deodoranti, l’impellenza quotidiana riguardava la ricerca di un posto tra le rocce o le dune dove salutare l’alba e verificare la funzionalità degli organi essenziali. Per queste operazioni, noi occidentali sprecavamo mezzo metro di carta igienica, gli africani un litro d’acqua. Finite le bottigliette, avevamo capito che l’abbondante acqua di prima falda che veniva attinta giornalmente lungo la pista era buona, pulita e fresca. A seguire la colazione con English tea o Nescafé, biscotti, pane raffermo tostato, confettura, miele e crema di nocciole simil-Nutella.

Poi lo smontaggio delle tende mono e biposto: dall’Italia ognuno si era portato un sacco a pelo, un cuscino e una pila per la notte buia e silenziosa, in un cielo tempestato da una moltitudine di stelle che da noi non si vedono ormai più. Quindi la tonificante passeggiata a piedi con il sole ancora inoffensivo.

Una sera il sorridente e pulito cuoco che parlava un buon francese ha preparato spaghetti italiani con croccanti patatine fritte.

Per l’ultima cena il poliziotto in tunica indigena ha cotto sotto la sabbia riscaldata dalle braci, il cosiddetto “pane del deserto”. Al termine della cottura c’era chi tra noi già pensava ad un “pane e Nutella” e chi addirittura pregustava un “pane con prosciutto o salame” (la carne suina è vietata dalla religione musulmana). Invece il pane azzimo è stato sminuzzato nel silenzio assoluto (ci sentivamo complici di un assassinio farinaceo), per la realizzazione di un tipico piatto vegetale: buono.

Ultimo giorno. Dopo due forature – come da copione, una per ogni veicolo – la visita al piccolo museo di Germa e dei resti della città beduina di Garama (antica capitale dei Garamanti che tremila anni fa’ avevano contrastato perfino l’Impero Romano), l’acquisto di una birra Heineken analcolica e riservata al proprietario del carica-batteria, abbiamo visitato gli interessanti Laghi salati dei Duada: oasi con palme e canneti sulle rive. Purtroppo con troppi turisti dei villaggi turistici costieri tra i banchetti dei suk nomadi: “Aho compremo ‘ste collane – Guarda ‘ste stoffe – Senti ‘sti profumi”. Quì si può fare un bagno, ma senza nuotare, infatti per la salinità, simile a quella del Mar Morto, si può solo galleggiare oppure sciare dalle alte dune con sci Rossignol o snow-board noleggiati nell’unico bazar del Lago Mandara.

Infine il tragitto accanto all’oleodotto libico segnalato con cartelli “Km” e utilizzato da diversi Tir diretti ai numerosi pozzi petroliferi e la delusione alla vista della strada asfaltata per Sebha. Dopo la mancia riconoscente e i saluti allo staff, la guida ci ha presentato la sua famiglia: le tre figlie erano impegnate a guardare i cartoon della Disney dalla televisione satellitare, mentre la moglie ci ha offerto squisiti datteri e un rinfrescante bicchiere di vero latte di capra.

Prima di ripercorrere a ritroso il viaggio verso l’Italia, a Tripoli, nell’hotel Aldeyafa, a mezzanotte, finalmente l’attesa e purificatrice doccia che ha tolto sabbia, sporcizia e stanchezza, ma non l’intensa esperienza passata nel deserto a contatto con la natura, con persone semplici, e alla ricerca di noi stessi.

Alla faccia del Cynar e del suo famoso slogan “Contro il logorio della vita moderna”.

Maurizio Battello



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